Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 16 giugno 2012

Berlino scorda il valore dell'Euro


di Vladimiro Giacchè
“Soldati pagati con la stessa moneta non si sparano tra di loro”: con questo titolo la Frankfurter Allgemeine Zeitung salutava l’avvio della moneta unica, il 31 dicembre 2001. Il Die Zeit in edicola oggi è diverso: “Il mondo intero vuole i nostri soldi”. Non sono passati neanche dodici anni, ma questi due titoli misurano la distanza tra il sogno dell’integrazione europea e l’incubo che oggi incombe sul continente: quello
di una disgregazione, in cui egoismi nazionali e misconoscimento delle ragioni altrui offuscano una chiara visione degli interessi condivisi.Il secondo titolo, però, ci dice qualcosa di più preoccupante.E cioè che il Paese d’Europa sta cadendo preda di una malattia che già in passato ha deciso – e non per il meglio – le sorti del continente: il vittimismo autocompiaciuto. “Siamo tanto bravi e tutti se ne approfittano”. Purtroppo, contro i deliri di persecuzione gli argomenti contano poco, ma vista la posta in gioco vale la pena di provare lo stesso.E quindi ci permettiamo di consigliare al professor Monti i seguenti argomenti da sottoporre ai suoi cortesi ospiti: la Germania è il paese che più di ogni altro ha guadagnato dall’euro, come dimostra il surplus della sua bilancia commerciale nei confronti degli altri paesi dell’Eurozona. La Germania è anche il Paese che più di ogni altro ha determinato le politiche europee anticrisi, a partire dall’emergere dei problemi di solvibilità della Grecia, nel novembre 2009. Queste politiche sono state caratterizzate prima da indecisione, poi da una ferma determinazione su due punti: il rifiuto di un intervento incondizionato della Bce a difesa dei titoli di Stato greci e l’imposizione alla Grecia di misure di austerity insostenibili, che hanno distrutto il mercato interno e fatto crollare il prodotto interno lordo di oltre il 18 per cento in tre soli anni.Il risultato? Oltre alle sofferenze inflitte alla Grecia, perdite sistemiche enormemente superiori a quelle di un vero salvataggio della Grecia (oltre 800 miliardi di euro contro le poche decine che sarebbero bastate per raddrizzare la situazione nel 2009). Inoltre si è data ai mercati finanziari la certezza che l’appartenenza all’euro non comporta l’impossibilità di un default sovrano, con il conseguente innalzamento del premio al rischio per i titoli di Stato di numerosi altri Paesi europei. In tutti questi casi la terapia imposta in primo luogo dalla Germania, ossia austerity più o meno selvaggia, è stata la stessa sperimentata dalla Grecia. E in tutti i paesi i risultati sono stati gli stessi: una dura recessione. Questo comporta una sempre maggiore divergenza tra le economie di questi Paesi e quelle degli altri membri dell’eurozona, mentre si accentua la rinazionalizzazione dei capitali, e in particolare il rifiuto da parte dei Paesi forti di acquistare titoli di Stato dei Paesi in crisi.
È una storia che, se continua così, può finire in un solo modo: con la fine dell’euro. Il Paese che più degli altri patirebbe di questa disintegrazione è la Germania: secondo Carmel Asset Management, tra perdite della Bundesbank, delle banche private e crollo dell’export (che per il 57 per cento è diretto verso l’eurozona), il costo della fine dell’euro sarebbe per la Germania di 1.310 miliardi di euro. Enormemente superiore a quanto occorrerebbe per salvare l’euro. Per evitare tutto questo occorre invertire le politiche seguite sin qui, con un intervento della Bce a difesa dei titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona, per esempio fissando un tasso massimo per il loro rendimento, valicato il quale la Bce interverrebbe senza limitazioni; questo intervento sarebbe finalizzato alla salvaguardia del’area valutaria, e quindi possibile anche in base ai trattati attuali. Le manovre di bilancio non dovrebbero essere irragionevoli (quindi il fiscal compact dovrebbe essere cestinato senza rimpianti) e dovrebbero mirare al riequilibrio delle bilance commerciali all’interno dell’eurozona.
Da questo punto di vista sarebbe necessaria anche una reflazione salariale in Germania, per cui ci sono ampi margini.
L’alternativa a tutto questo è la fine dell’area valutaria. Ma un Paese può uscire da un’area valutaria in diversi modi: dopo una lenta agonia economica che può durare anni, attendendo che i capitali stranieri siano tutti rimpatriati e al sicuro. Oppure per una decisione politica che consegua alla constatata impossibilità di proseguire su una strada fallimentare, e che accompagni all’uscita dall’area valutaria anche l’imposizione di severi controlli sui movimenti dei capitali, sia per evitarne il deflusso, sia per evitare che dall’estero si acquistino a sconto imprese di valore. E a questo punto, abbassando un poco la voce, Monti dovrebbe dire ai suoi interlocutori che in caso di necessità l’Italia sceglierebbe con decisione questa seconda strada.

I mercati, chi sono costoro?


di Dino Greco - rifondazione -
Nella crisi, quella grazie alla quale un pugno di lestofanti sta devastando la vita di miliardi di persone e saccheggiando le risorse del pianeta, " tutti i misteri vengono in chiaro. E si assiste - come scrive Paolo Ciofi in un suo recente lavoro - al miracolo dei ricchi salvati dai poveri. E tuttavia diventa finalmente di senso comune ciò che fino a ieri restava avvolto nella nebbia delle manipolazioni mediatiche orchestrate da
un agguerrito esercito di spin doctors, asserviti ai potentati economici e finanziari.
Ora che il re appare nelle sue nudità occorre chiedersi: chi sono i mercati? Dove si nascondono questi invisibili, impersonali demiurghi che si muovono come giudici inappellabili in un mondo opaco, come forze inafferrabili dotate di un potere quasi divinatorio?
Ebbene, si tratta di circa mille persone: sono i proprietari universali che controllano, dispongono di 50 trilioni di dollari, pari a 2/3 dell'intera ricchezza mondiale; sono coloro che si incontrano ogni anno a Davos, una ridente località svizzera, per discutere - e decidere - cosa fare del mondo e di tutti noi. Sono il gotha del capitalismo finanziario: banchieri, proprietari di imprese transnazionali, gestori di fondi di investimento, accademici, direttori delle più importanti testate giornalistiche.
Poi c'è un gruppo più piccolo, che screma quello più grande, e si chiama Commissione Trilaterale (in tutto fanno 400 persone), fondata nel 1973 da un povero miliardario, David Rokefeller, che ha per finalità dichiarata la conservazione del capitale, l'affrancamento delle istituzioni dal sovraccarico democratico, la diminuzione del peso del welfare, il contrasto dei sindacati e l'attacco al potere di coalizione dei lavoratori.
Infine, il terzo cerchio, il più stretto, il Gruppo Bilderberg, in tutto 120 persone, un ridotto di quelli precedenti. Funziona come una loggia massonica coperta, si riunisce quasi in clandestinità, è vietato l'accesso ai giornalisti e a recintare le riunioni di quel selezionatissimo consesso è posto uno stuolo di vigilantes armati. Di cosa si occupano costoro? Di governance planetaria, di economia globale, di finanza, di sicurezza internazionale, di risorse energetiche, di conflitti militari.
Ecco: questi sono i fantomatici mercati. Quelli che fanno schizzare in alto i titoli delle corporations quando licenziano, quelli che se il ministro Fornero spendesse i soldi necessari per tutelare tutti gli "esodati" si vendicherebbero sui titoli del debito sovrano.
Ebbene, Monti, sino all'investitura a presidente del Consiglio ha fatto parte di tutti e tre i potentissimi consessi: presidente del gruppo europeo della Trilateral, membro del consiglio esecutivo del Gruppo Bilderberg, e invitato permanente a Davos.
Ecco perché il governo "tecnico" è una colossale menzogna: tecnico vorrebbe dire "oggettivo", che ha il crisma della scienza, che vara misure giuste e, soprattutto, senza alternative. E invece è il trionfo dell'ideologia mercatista e iperliberista, spacciata per inesorabile necessità. Esattamente come lo è l'attacco all'articolo 18, gabellato senza pudore come strumento per promuovere investimenti e occupazione.
E' la lotta di classe, signori, la guerra senza esclusione di colpi - per dirlo con le parole del miliardario Warren Buffet - che i ricchi stanno facendo contro i poveri. Vincendola. Fino a che glielo lasceremo fare.

La partita della sinistra


di Alberto Burgio - ilmanifesto -
Di che cosa si può parlare oggi? Di che cosa dovrebbe parlare la politica oggi? Di solito la politica parla di se stessa. Schieramenti, alleanze, elezioni. Tutt'al più, programmi e decisioni. Questa sembra la materia naturale, questo l'oggetto di un discorso serio della e sulla politica. Infatti di queste cose si continua a parlare, in modo più o meno decente e coerente. Mentre, coerentemente, si persevera in pratiche consuete (nomine e spartizioni varie).
E invece questo è precisamente il discorso che non si può più continuare a fare, che non è più possibile fare in questo momento.

Se soltanto si avesse un vago sentore della gravità di quanto sta succedendo e dei rischi che stiamo correndo, si metterebbe da parte l'ordinaria amministrazione per guardarsi seriamente negli occhi.
Che cosa ci dice questo scenario esplosivo (crisi sociale, crisi finanziaria degli Stati, distruzione degli apparati produttivi, ripresa dei nazionalismi e delle tensioni internazionali e intercontinentali), mentre le classi dirigenti europee non accennano a ripensare le politiche praticate da trent'anni, responsabili del disastro? Che cosa mostra, se non che questo sistema sociale (modello di sviluppo e gerarchie di classe) ha generato non per caso l'attuale situazione?
In particolare la sinistra - in tutte le sue diramazioni - di che cosa dovrebbe occuparsi, se non del fatto, sin troppo evidente, che sta all'origine di questa crisi generale? Il capitalismo, lasciato solo, a mani libere, senza minacce né avversari, da oltre vent'anni finalmente libero di plasmare il mondo a proprio talento, sta ricreando puntualmente le stesse condizioni di caos e di conflitto ingovernabile che hanno prodotto i conflitti mondiali.
In questi vent'anni, dalla guerra del Golfo alla guerra economica che sta spingendo l'Europa verso un abisso, abbiamo vissuto immersi in un'ininterrotta sequenza di «scontri di civiltà»: contro il Sud del mondo, contro le periferie del mondo capitalistico, contro le classi lavoratrici. Stupefacente non è che di fronte a questo scenario (di fronte al «fallimento dell'ordine economico mondiale», per riprendere parole di Alfredo Reichlin, ormai un estremista nel suo partito) si continui a parlare d'altro. Stupefacente è che si parli soltanto d'altro, forse nell'illusione che tutto spontaneamente rientrerà nei cardini. In fondo non ci si ripete da decenni che il mercato non ha bisogno di governo né di regole, che basta a se stesso, che risolve da sé le crisi che produce?
In realtà, proprio questo rifiuto di occuparsi dei fondamentali (che non sono quelli economici, definiti sulla base dei presupposti ideologici del neoliberismo, bensì le ragioni ordinatrici del rapporto sociale capitalistico), proprio questa rimozione dei problemi-chiave (che riguardano le finalità della cooperazione sociale e le ragioni di fondo che informano i rapporti di classe) è palesemente una concausa del perpetuarsi dell'attuale condizione o, per lo meno, dell'incapacità di individuare una via per sortirne senza correre il rischio di una distruzione generalizzata (mentre la distruzione parziale di intere popolazioni è già nei fatti, oltre che nell'agenda di classi dirigenti ciniche e irresponsabili). Non è forse così?

venerdì 15 giugno 2012

Riesaminiamo il capitalismo

Fonte: il manifesto | Autore: Alberto Burgio
        Il discorso sul capitalismo deve diventare subito la «narrazione» condivisa di tutta la sinistra e la base reale delle sue opzioni pratiche. Solo così sarà possibile uscire da quello che sempre più assomiglia a un catastrofico stallo
Di che cosa si può parlare oggi? Di che cosa dovrebbe parlare la politica oggi?
Di solito la politica parla di se stessa. Schieramenti, alleanze, elezioni. Tutt’al più, programmi e decisioni. Questa sembra la materia naturale, questo l’oggetto di un discorso serio della e sulla politica. Infatti di queste cose si continua a parlare, in modo più o meno decente e coerente. Mentre, coerentemente, si persevera in pratiche consuete (nomine e spartizioni varie). E invece questo è precisamente il discorso che non si può più continuare a fare, che non è più possibile fare in questo momento.
Se soltanto si avesse un vago sentore della gravità di quanto sta succedendo e dei rischi che stiamo correndo, si metterebbe da parte l’ordinaria amministrazione per guardarsi seriamente negli occhi. Che cosa ci dice questo scenario esplosivo (crisi sociale, crisi finanziaria degli Stati, distruzione degli apparati produttivi, ripresa dei nazionalismi e delle tensioni internazionali e intercontinentali), mentre le classi dirigenti europee non accennano a ripensare le politiche praticate da trent’anni, responsabili del disastro? Che cosa mostra, se non che questo sistema sociale (modello di sviluppo e gerarchie di classe) ha generato non per caso l’attuale situazione?
In particolare la sinistra – in tutte le sue diramazioni – di che cosa dovrebbe occuparsi, se non del fatto, sin troppo evidente, che sta all’origine di questa crisi generale? Il capitalismo, lasciato solo, a mani libere, senza minacce né avversari, da oltre vent’anni finalmente libero di plasmare il mondo a proprio talento, sta ricreando puntualmente le stesse condizioni di caos e di conflitto ingovernabile che hanno prodotto i conflitti mondiali.
In questi vent’anni, dalla guerra del Golfo alla guerra economica che sta spingendo l’Europa verso un abisso, abbiamo vissuto immersi in un’ininterrotta sequenza di «scontri di civiltà»: contro il Sud del mondo, contro le periferie del mondo capitalistico, contro le classi lavoratrici. Stupefacente non è che di fronte a questo scenario (di fronte al «fallimento dell’ordine economico mondiale», per riprendere parole di Alfredo Reichlin, ormai un estremista nel suo partito) si continui a parlare d’altro. Stupefacente è che si parli soltanto d’altro, forse nell’illusione che tutto spontaneamente rientrerà nei cardini. In fondo non ci si ripete da decenni che il mercato non ha bisogno di governo né di regole, che basta a se stesso, che risolve da sé le crisi che produce?

Syriza: Una nuova radicalità a sinistra

Fonte: il Megafono quotidiano
        Alla vigilia del voto in Grecia intervista a Stathis Kouvelakis sulla storia, la composizione, il programma e le potenzialità della "Coalizione della sinistra radicale" che potrebbe vincere le elezioni del 17 giugno

Stathis Kouvelakis è docente di filosofia politica al King’s College di Londra. È anche un intellettuale pubblico ben conosciuto nella sinistra greca e francese. È anche stato candidato (in posizione non eleggibile) nelle liste di Syriza nelle elezioni del 6 maggio 2012 e lo è di nuovo nel prossimo scrutinio del 17 giugno. A qualche giorno dalle nuove elezioni legislative, mentre la maggior parte dei sondaggi dà Syriza in vantaggio su Nuova Democrazia (destra), sembra utile saperne di più su Syriza, una formazione della sinistra radicale relativamente poco conosciuta fuori dalla Grecia. In questa intervista, Stathis Kouvelakis analizza Syriza e le sue origini. Descrive la sociologia dei suoi aderenti e del suo elettorato ed esamina i suoi riferimenti ideologici, spiega le ragioni del suo notevole successo elettorale nello scorso maggio, e la sua posizione sul debito e gli Stati membri dell’eurozona.

Philippe Marlière: Potresti presentare Syriza: quando e come è nata questa coalizione di partiti della sinistra radicale?
Stathis Kouvelakis: Syriza si è formata nel 2004, come alleanza elettorale tra diverse formazioni. Le sue componenti principali sono da un lato Synaspismos – la Coalizione della Sinistra (che si chiama ora Coalizione della Sinistra, dei Movimenti e dell’Ecologia) – il partito di Alexis Tsipras, che esiste come formazione distinta già dal 1991. Il partito è nato da successive scissioni del movimento comunista. Dall’altro lato, sono presenti in Syriza altre formazioni molto più piccole. Alcune provengono dall’estrema sinistra classica greca. Una di queste è l’Organizzazione Comunista di Grecia (KOE), la principale organizzazione maoista in Grecia, che è la seconda componente in Syriza in termini di peso numerico. Questo partito ha eletto tre deputati nelle elezioni del maggio 2012. Un’altra è la Sinistra Operaia Internazionalista (DEA), di tradizione troskysta; altri gruppi sono per lo più di matrice comunista, come la Sinistra Comunista Ecologista e Rinnovatrice (AKOA), uscita dal vecchio Partito Comunista Greco dell’interno.
La coalizione Syriza si costituisce nel 2004 e all’inizio ottiene un successo che si può qualificare come relativamente modesto. Nondimeno riesce a entrare in parlamento superando lo sbarramento del 3%, cosa che Synaspismos non era riuscito a fare in passato. Syriza è il risultato di un processo relativamente complesso di ricomposizione dentro la sinistra radicale greca. Fin dal 1968, questa è scissa in due poli. Il primo è il Partito Comunista Greco (KKE), che subisce due scissioni: la prima, nel 1968 durante la dittatura dei colonnelli dà vita al Partito Comunista Greco dell’interno (KKE esoterikou) di ispirazione eurocomunista, e una seconda nel 1991, dopo il crollo dell’URSS. Quel che resta dopo le due scissioni è un partito particolarmente tradizionalista, attaccato a una matrice staliniana, notevolmente indurita dopo la scissione del 1991. È un partito che si ricostruirà su una base insieme combattiva e settaria. Riesce a conquistare una base militante relativamente importante negli ambienti operai e popolari e anche tra i giovani, in particolare nelle università. L’altro polo, Synaspismos, si sviluppa nel 2004 costruendosi attorno a Syriza, sorta dall’unificazione delle due scissioni uscite dalla matrice comunista. Synaspismos ha avuto una notevole evoluzione nel corso della sua storia. All’inizio degli anni 1990 vota a favore del trattato di Maastricht, e nel suo orientamento maggioritario si pone nell’ambito di una sinistra moderata. Ma è anche un partito eterogeneo, composto di varie correnti. Lotte interne molto vive oppongono la sua ala sinistra a quella destra. L’ala destra perderà il controllo a tappe successive. La costituzione di Syriza sancirà la svolta a sinistra di Synaspismos. Synaspismos oggi ha fatto l’autocritica della sua posizione sul trattato di Maastricht, e ha militato fortemente, come tutte le formazioni della sinistra radicale europea, contro il trattato costituzionale europeo del 2005.
PM: Che influenza ha la tradizione comunista in Synaspismos?
SK: La componente comunista è nettamente maggioritaria. È uscita dall’ala eurocomunista e che dopo gli anni 1970 si è aperta ai nuovi movimenti sociali. In tal modo è riuscita a rinnovare i suoi riferimenti organizzativi e teorici, innestando sulla matrice comunista le tradizioni delle nuove radicalità. È un partito a suo agio nei movimenti femministi, nelle mobilitazioni dei giovani, nelle correnti altermondialiste, nell’antirazzismo, nelle correnti LGBT, e mantenendo un intervento molto importante nel movimento sindacale. Notiamo che l’ossatura dei quadri e dei militanti del partito è costituita da strati salariati istruiti, di diplomati. Il partito ha un elettorato molto urbano ed è molto radicato tra gli intellettuali. Fino a poco tempo fa, Synaspismos aveva la maggioranza assoluta nel sindacato degli insegnanti delle superiori, al contrario del KKE, che ha perso ogni rapporto privilegiato con gli ambienti intellettuali. Anche la sua direzione porta l’impronta della matrice comunista. Malgrado la sua giovane età, lo stesso Alexis Tsipras ha cominciato a militare nell’organizzazione giovanile del KKE all’inizio degli anni 1990. I quadri e i dirigenti più anziani hanno spesso militato insieme nella clandestinità, hanno conosciuto le prigioni e i campi di deportazione. A causa di questo, nella sinistra radicale greca c’è un’atmosfera di guerra fratricida e una cultura di profonda divisione attualmente mantenuta unilateralmente dal KKE che considera Synaspismos e poi Syriza come «traditori» che di conseguenza costituiscono «il nemico principale». È il motivo per cui il KKE ha rifiutato di incontrare Syriza nel corso dei contatti bilaterali che Syriza ha avuto con la quasi totalità dei partiti rappresentati in parlamento, quando le è stato affidato il mandato di formare un governo nel maggio 2012.
PM: Come spieghi l’intransigenza del KKE? È dovuta al disaccordo sulla questione europea?
SK: Le divergenze sull’Europa non spiegano tutto . In realtà, le posizioni dei due partiti sulla questione europea si sono avvicinate molto negli ultimi tempi, dato che Syriza e Synaspismos hanno un atteggiamento sempre più critico verso l’Unione Europea (UE). Il KKE è sempre stato molto ostile verso l’UE, ma in questo momento non focalizza la sua posizione sulla questione dell’uscita dall’UE o dall’eurozona. Gli obiettivi che avanza si potrebbero definire direttamente anticapitalisti, esigendo l’abolizione del capitalismo come soluzione ai problemi immediati della situazione. Il KKE segue una linea ultrasinistra sul piano della retorica, ma che permette di giustificare una posizione isolazionista e settaria.

Tables are turning on Greek debt deal

The time for reaching a Greek debt deal is fast running out. That's one thing everyone can agree on here in Davos.

But what's less often noticed is that the balance of power around the negotiating table has also shifted lately; against the Eurozone institutions and politicians who most want to see a deal, and in favour of the Greeks themselves.

There are three reasons for this shift.

First, the need for more debt relief for Greece has become even more blindingly apparent.

Second, it has become clear that the official sector has to contribute if it's going to happen politely.

Finally, and more quietly, the Greek government has slashed its way to a primary budget surplus: as of now it is only borrowing money to pay off the debt. That could change things quite a bit.
Skyrocketing cost
Let me say a bit more about all of this.

To see the need for greater debt relief, you need only look at the skyrocketing cost of servicing Greek debt. For all the "cheap" loans flowing to Greece from the Europeans and the IMF, the Greek government had to pay 23% more in debt interest in 2011 than in 2010.

Forecasts for its total debt relative to GDP get revised up almost every week and look less and less plausible.

The second new reality follows directly from the first. To put it bluntly, the truth is slowly dawning that no "voluntary" arrangement to cut the value of debt held by the private sector is going to provide Greece with enough relief.

Either the haircut for the private sector has to be a lot more than 50%, in which case it is very unlikely to be classed as "voluntary" by any stretch of the meaning of that word, or the stock of debt that's part of the deal needs to grow to include bonds held by public sector institutions like the ECB, which has bought around €40bn (£34bn; $53bn) of them.

As we have seen this week, Germany and the ECB are still dead set against this.

They say it might not be legal under the Treaty. They also think, reasonably enough, that there's an important principle at stake. If the official sector runs into a burning building when the private sector are all running out, the rescuers shouldn't be the ones to get burned.

But, you might say, that is why firemen have trouble getting insurance. It's a dangerous line of work no matter how much protective clothing you have.

Maybe it's not fair, but if the Germans want their first - and supposedly last - foray into "private sector involvement" to happen in an orderly way, it's looking as though they're going to have to swallow some losses for the ECB, or find some other way for the public sector to be involved.
Ambitious debt reduction
You might ask why any of this strengthened the hands of the Greeks, as I suggested at the start.

One reason is that the IMF is now firmly behind a more ambitious debt reduction. As we have seen this week, the IMF's managing director is also on Greece's side pushing for public sector involvement in the deal.

But another key factor, which few seem to have tumbled to, is that the costs to Greece of the government walking away from the table and suffering a disorderly default have fallen noticeably since last summer, at least when compared to any plausible (orderly) alternative.

The key to this is to look at the Greek government's budget outturns for the second half of 2011, published earlier this month.

As Graham Turner of GFC Economics has noted, these show a real step-change in the effort to cut spending and actually collect more Greek taxes.

You'll remember it was the Greeks' inability to get a grip on spending or taxes in the first half of 2011 that caused the big overshoot in their deficit, and such paroxysms in Berlin and Brussels (not to mention the markets).

The primary budget - excluding debt interest payments - for the first 6 months of the year had a deficit of €5.1bn, which was almost exactly the same as the year before.

Tax revenues had fallen by more than 5%, year-on-year, and non-interest spending had risen by more than 8%.

That was when the fiscal equivalent of Eurozone special forces parachuted into Athens as part of the second rescue package, with EU tax officials seconded to the Greek finance ministry. If the numbers are to be believed, they have made a massive difference.

In the second half of 2011 the latest figures show tax revenues up 1.4% year on year and non-interest spending falling by an impressive 7.4%. As a result, the Greeks seem to have managed a 1.8bn euro primary surplus in that period: the overall deficit was still massive, but all that borrowing was going toward debt interest, not domestic spending.
Less terrifying
Here's why this matters: traditionally, countries that need a massive write-down of debt will try very hard to avoid a disorderly default when they are still borrowing from the markets to fund basic government services.

However, the balance of arguments shifts a bit, when they "only" need to raise money in the markets to service their debt. Further budget cuts, simply to pay investors their interest, are harder to defend politically. And the immediate fallout for basic services of losing access to the markets gets slightly less terrifying.

Don't get me wrong. If it happens, as so many people now expect, a full-blown Greek default would still be horrendous for its financial system, and its domestic economy - at least in the short run. (That's quite apart from the impact on its eurozone neighbours. I'm only thinking here about the implications for Greece.)

For all that, the balance of costs and benefits to Greece relative to the current path is not what it was years ago, when it's primary deficit was 5% or 6% of GDP.

And, let's face it, the stick-with-it scenario is not looking so hot either.

Earlier this week, the IMF's chief economist, Olivier Blanchard, spoke eloquently about the dangers of the crisis.

He noted that one of the more pernicious things about the current situation was that countries under pressure were doing the "right thing" in terms of budget cuts, but were not getting rewarded for it, either by the markets or by their supposed eurozone allies. That's more than unfair; it's dangerous.

The irony is that Germany's very emphasis on putting fiscal tightening before everything else has actually now put Greece in a stronger position to default.

If that is not what Angela Merkel intended to happen, she will almost certainly need to give some ground in these debt negotiations to prevent it. Assuming it is not already too late.

Why the Greek bail-out has worked

Stephanie Flanders |  10 May 2011
- bbc -
Everyone says that heightened talk of a Greek default is proof that last year's bail-out has "failed". But you could make a strong case for the opposite.
In reality, all that the Greek support programme last year was ever going to do was buy time. And that is exactly what it has done. It just hasn't bought quite as much as governments hoped.
As I said in my last post, officials are agreed that Greece needs more support. The only issue is what form this takes - and how many hoops the government has to jump through to get it. Germany is also looking for voluntary re-profiling of privately held debt along the lines that I described yesterday as part of the deal. (Though it's far from clear that can happen on the timetable available).
Even the non-eurozone officials who have been most exasperated by Europe's management of the crisis would accept that governments were right a year ago to kick the Greek problem down the road and buy the system some time.
One year on, they are roughly back where they were, facing the same choice.
What's changed, from a Greek standpoint, is that its government is now much less popular than it was, and it now has even more debt to repay.
For the rest of the eurozone, the key differences between now and then are that a much larger share of Greek debt is now owed to official institutions (notably the European Central Bank), and that outside the periphery, Europe is enjoying a decent recovery.
Put it another way: Greece looks less able to repay than it did a year ago - while the system as a whole looks in better shape to withstand a default.
For some, these new dynamics shift the balance in favour of facing up to the reality of an involuntary restructuring or Greek default. Officials should stop fighting it, on this view, and instead focus on limiting the collateral damage, by recapitalising the banks that will be hardest hit (notably the Greek, French and German). They also need to have a credible line on what will happen to the sovereign debts of Portugal and the Irish Republic.
That is the voice you hear in the markets these days. I am in Athens today, and so far that is also what I am hearing from people here.
But most of the eurozone officials who would actually have to deal with the fallout from a Greek default - and the blame, potentially, for another Lehmans - see things differently.
From their perspective, buying time has worked for the eurozone. It just hasn't been working out so well for Greece.
CHAOS IN EGYPT ELECTIONS

giovedì 14 giugno 2012

L’antica Grecia verso le elezioni del 17 giugno

Filippomaria Pontani - sinistrainrete -

In greco, a volte, le parole fanno miracoli. Quella più gettonata, e temuta, è di questi tempi il sostantivo refstòtita, derivato dal verbo reo, “scorrere”, che generazioni di ginnasiali hanno coniugato come paradigma del presente indicativo dei contratti: refstòtita è un perfetto bisenso che indica sia la “volatilità” dell’elettorato, sfuggente come una saponetta sotto gli usurati guantoni dei sondaggisti, sia la “liquidità” del contante che disperatamente manca alle casse dei cittadini e dello Stato. È sullo scheletro di questo bisenso che vorrei impostare le impressioni che seguono, tratte da un viaggio breve ma intenso nell’Ellade perduta, sospesa tra le elezioni del 6 maggio e quelle incombenti del 17 giugno: chi avrà la pazienza di leggere potrà saggiare da sé le analogie che legano i problemi qui descritti alla situazione del nostro Paese – in rispettoso omaggio a chi insiste da mesi sul fatto che «noi non siamo la Grecia».


1. Liquidità


Con singolare tempismo, in una lettera spedita il 24 maggio scorso al capo dello Stato Kàrolos Papulias (e resa pubblica dal giornale Vima la domenica successiva), l’ex premier Lukas Papadimos, autorevole esponente della tecnocrazia di scuola occidentale che ha traghettato il Paese verso l’attuale impasse, informava le autorità che le casse dello Stato sono vuote, anzi per la precisione che i 700 milioni ancora a disposizione basteranno fino al 18 giugno, mentre dal 20, tre giorni dopo le elezioni, s’inizierà ad andare in rosso, e dunque non si potranno pagare né stipendi né pensioni (per le spese correnti servirebbero almeno 3 miliardi al mese). Sull’evidente caratura politica di un simile allarme tornerò tra un momento: per ora consideriamone il contenuto, che è ragionevole supporre veritiero.

Tre anni di “rigore” (litòtita, si dice da queste parti, con un termine la cui storia attiene più alla sfera della miseria che non a quella della disciplina) hanno prodotto nell’economia greca degli effetti dirompenti:
- si sono operati tagli draconiani negli stipendi, nelle pensioni e nella sanità (rispettivamente 48, 25 e 14 miliardi di euro): per intenderci, un professore ordinario con 30 anni di anzianità ha perduto 700 euro al mese su 2700 (i suoi corrispettivi in Italia guadagnavano quasi il doppio, ora quasi il triplo), e ovviamente – benché abbia dovuto potentemente ristrutturare il suo train de vie – rientra ancora fra i privilegiati, anche perché a differenza di altri statali non è stato (ancora) licenziato; tagli della medesima proporzione hanno colpito stipendi e pensioni di entità assai minore, nonché i bilanci degli ospedali e di tutto il sistema sanitario nazionale, che infatti in molti casi non è in grado di garantire né gli interventi programmati né i farmaci provenienti dall’estero; per l’estate il memorandum imposto da Banca Centrale e Fondo Monetario prevede un ulteriore giro di vite pari a diversi punti di PIL; 
- grazie ai suddetti tagli di spesa, vi è stata un’indubbia contrazione del deficit pubblico, con la peraltro flebile prospettiva di un avanzo primario per il 2013 (per ora siamo ancora a -2 miliardi); 
- nel contempo, si è assistito a una discesa del PIL del 12,5% in tre anni, senza nessuna realistica prospettiva di miglioramento; basti pensare che in grazia della perdurante instabilità perfino il turismo, forse ormai la principale industria del Paese, subisce perdite del 30-40% rispetto all’anno scorso; 
- a causa di tale contrazione, in barba al severo aumento della pressione fiscale sui patrimoni e sul reddito, vi è stata una forte riduzione delle entrate: per dare un esempio (e per capire l’allarme di Papadimos), quelle del mese di maggio sono crollate in modo verticale, sia per l’ancestrale abitudine ad allentare le riscossioni in periodo elettorale, sia – e in misura molto più significativa – perché le attività produttive si stanno ormai quasi tutte arenando;
- in conseguenza di ciò, la disoccupazione ha superato il 20%, quella giovanile il 50%; 
- la spesa per interessi sui buoni del tesoro e sui prestiti, è e rimane del tutto fuori controllo nonostante la “tosatura” di qualche mese fa, e – complici le sperate iniezioni di liquidità da parte di Draghi e Lagarde (quelle cioè da cui dipendono gli stipendi di giugno) – il debito è ovviamente destinato a crescere su se stesso (in due anni FMI e BCE hanno acquistato il 35% del debito greco, che ammonta a 347 miliardi);
 - in questo quadro, le quattro banche più importanti (Nazionale, Alpha, Eurobank e Pireo), che da tempo avevano perduto ogni accesso ai mercati internazionali, negli ultimi mesi hanno visto sparire miliardi di depositi, migrati verso istituti di credito di Paesi più solidi: esse sono state de facto nazionalizzate con i soldi della BCE e del Fondo di stabilità europeo, e ovviamente non hanno ormai alcun margine di manovra in termini di investimenti o di “crescita”, badando unicamente (impresa assai perigliosa) a non fallire.

Preciso che il quadro che ho sommariamente delineato non è tratto da un volantino anarchico, bensì dal più autorevole giornale greco, il Vima (rapporto sulle finanze pubbliche del 27 maggio 2012), il quale è più o meno apertamente schierato a favore del memorandum e della politica di rigore fin qui seguita.


E da allora sbando di strada in strada / accumulando ferite e esperienze. / Gli amici che amai sono ormai perduti /
e sono rimasto solo con la paura che mi veda qualcuno / a cui parlai un giorno d’ideali
(Dinos Christianòpulos, Itaca, da Il tempo delle vacche magre, 1950; trad. R. Capel Badino
)

Dinanzi a un simile abisso di desolazione non credo ci voglia un economista di rango per prestar fede alle facili profezie di chi da gran tempo (penso a Krugman, a Gallino, per non parlare di Latouche o di altre presunte teste calde) oppure da pochi mesi (penso all’ineffabile Soros, o perfino al Financial Times) osserva che la ricetta somministrata alla Grecia (e in dosi minori a Italia e Spagna) è stata ed è del tutto fallimentare, non già nella misura o nella tempistica degli interventi proposti, bensì nella loro stessa natura.

Non si vede in che modo la dilazione o l’allentamento di certe clausole (interventi cui pure la BCE e la Germania si oppongono fieramente, preoccupati di non creare precedenti con altri Paesi in analoghe difficoltà) potrebbero da soli risolvere la sostanza del problema. Esclama saggiamente l’anziano scrittore Vassilis Vassilikòs, l’autore del fortunato Z – l’orgia del potere (e fautore del governo Papadimos), che la Grecia continua a fungere da cavia per gli esperimenti dell’Occidente: nel 1947 con la dottrina Truman (che condusse alla guerra civile), negli anni ’60 con la strategia dei colpi di Stato (tentata anche da noi, e in Grecia andata a segno), oggi con lo strangolamento finanziario. Forse questa inquietante e innegabile progressione storica, cui per molte ragioni il nostro Paese non può sentirsi estraneo, potrebbe orientare gli attuali commenti sulla situazione greca più ancora che un polveroso, e per molti ahimè irritante, richiamo di principio all’eredità di Pericle o di Demostene.

Per la qual cosa, oltre al generale senso di lealtà a cui si è obbligati nei confronti di tutti, ho
l’impressione che in più noi siamo debitori in modo speciale verso una popolazione come
codesta, nel senso che, vivendo a stretto contatto con costoro appunto, dai cui
insegnamenti siamo stati spiritualmente formati, vogliamo dispiegare ciò che da essi
abbiamo imparato. (Cicerone, Epistole al fratello Quinto 1.1.28)

L’argomento più in voga è che i Greci sono responsabili della loro stessa rovina. È un argomento che non alberga solo nelle cancellerie delle grandi potenze: molti Greci ne sono convinti, e sostengono pubblicamente la responsabilità dei politici e del popolo in questa catastrofe economica. Ora, è indubbio che il livello di corruzione nel Paese sia stato sempre elevatissimo: chiunque abbia avuto occasione di frequentare ministeri o istituzioni pubbliche e private negli anni passati, sa bene che i rapporti personali, i favori, gli sprechi, erano (e in parte continuano ad essere) il metronomo di quasi tutto quello che si muove. Un sistema così capillare che non può essere imputato ai soli politici, ché ovviamente sono stati i Greci medesimi a beneficiarne, in maggiore o minore misura: come spiegare altrimenti il lievitare sistematico dei costi di qualunque opera pubblica, o le finte pensioni (“pensioni-scimmia”, le chiamano) che per esempio foraggiavano a Zacinto

2500 ciechi su 40.000 abitanti? E poi, naturalmente, sono stati truccati i conti pubblici, peraltro da quei medesimi partiti (ci torniamo tra un attimo) che ora si presentano e vengono invocati come salvatori della patria e dell’Europa.

Beppe Grillo: “Non fregheranno i 5 stelle con Saviano, Passera o Montezemolo”


Scritto da Marco Travaglio Mercoledì 13 Giugno - www.ilfattoquotidiano.it.

"Ora mi tocca diventare moderato, sennò questi partiti spariscono troppo rapidamente. Sono anni che dico che sono morti, ma insomma, fate con calma, non esagerate a prendermi alla lettera…".

Beppe Grillo se la ride mentre strimpella la sua pianola canticchiando su una base vagamente jazz, nel salotto della sua villa bianca con vista sul mare di Sant’Ilario (Genova). Accanto c’è quella rossa dove viveva Bartolomeo Pagano, l’attore che interpretava Maciste nei kolossal degli anni ’10 e ’20, ora abitata dai suoi eredi. Ma “Grillo contro Maciste” è un film che rischia di uscire presto dalle sale: l’ultimo sondaggio di La7 dà i Cinquestelle al 20 per cento, seconda davanti al Pdl, a 5 punti dal Pd.

“Se ne stanno andando troppo in fretta. Io faccio di tutto per rallentare, mi invento anche qualche cazzata per dargli un po’ di ossigeno, ma non c’è niente da fare, non si riesce a stargli dietro. Devo darmi una calmata nell’attaccare i partiti, anzi devo convincere la gente a fare politica, a impegnarsi, a partecipare. È una fase nuova, dobbiamo cambiare un po’ tutti, anch’io. La liquefazione del sistema è talmente veloce che domani rischiamo di svegliarci e non trovarli più. E poi come si fa? Non siamo pronti a riempire un vuoto così grande”. In casa, alla spicciolata per il pranzo, arriva l’intero Comitato Centrale del terribile M5S: il fratello maggiore Andrea, pensionato, la moglie Parvin e i figli più piccoli Rocco, 18 anni, e Ciro, 11. Andrea ha già letto tutti i giornali e fa la rassegna stampa al volo. Parvin dice che Renzo Piano telefona in continuazione per sapere come sta Beppe, ha paura per lui dal primo V-Day. Rocco non sopporta che il padre venga riconosciuto per strada, lo vorrebbe sempre col casco della moto in testa. Per Ciro invece, che si allena in giardino col pallone contro le finestre, un po’ di popolarità non guasta. “Ma cosa scrivi, facciamo due chiacchiere e basta. Per le interviste è presto, lasciami godere ancora qualche giorno lo spettacolo. Poi penseremo al Parlamento, che lì le rogne cominciano per davvero”.

Come te lo immagini, il prossimo Parlamento?

Me lo sogno pieno di rappresentanti di tante liste civiche, movimenti di gente perbene. Ragazzi, professori, esperti. I nostri di Cinquestelle, i No-Tav, quelli dell’acqua pubblica, dei beni comuni, gli altri referendari. Mi sa che, almeno per ‘sto giro, qualche avanzo travestito dei vecchi partiti ce lo ciucciamo ancora. Vediamo se ce la fanno a mettersi tutti insieme, in ammucchiata, quelli che adesso tengono su Monti: allora noi ce ne staremo soli all’opposizione. Magari ci troviamo il povero Di Pietro, mi sa che stavolta non lo vuole nessuno”.

I partiti preparano liste civiche-civetta per sfruttare l’onda.

Poveretti, si illudono di copiarci: mettiamo un Saviano qui, un Passera lì, un Montezemolo là. Partono dall’alto, non capiscono che noi abbiamo fatto l’esatto contrario. Siamo partiti dal basso e da lontano. Io ho cominciato vent’anni fa girando il mondo, visitando laboratori, intervistando ingegneri, economisti, ricercatori, premi Nobel. Ho rubato conoscenze ai grandi. Mi sono informato, mi son fatto un culo così, anche se molti mi prendono per un cialtrone improvvisatore. E ora questi pensano di metter su movimenti in quattro e quattr’otto: ma lo sanno che fra otto mesi devono presentare le liste? Fanno tenerezza, quasi quasi faccio il tifo per loro. Ma non ce la fanno.

Il rischio è che fra qualche mese scavalchiate pure il Pd.

Non mi ci far pensare. Cinquestelle primo partito, col premio di maggioranza della porcata Calderoli che non riescono a cancellare, 300 deputati…

E Napolitano che ti chiama per formare il nuovo governo.

Eh no eh, io mica mi candido.

Ma il premier può benissimo non essere un parlamentare.

Allora ci vado solo per vedere la faccia che fa Napolitano quando gli
dico: ‘Presidente, stavolta l’ha sentito il boom?’.

Memorandum, euro: le scelte di Syriza


di Argiris Panagopoulos - rifondazione -
Un ex tassista, disoccupato da due anni, si è suicidato ieri lanciandosi nel vuoto dal balcone del suo appartamento di Atene dove era tornato ad abitare con i genitori. A poche ore dal silenzio preelettorale che entrerà in vigore domani, è come se l'uomo abbia tracciato col suo sangue la linea rossa che le sinistre non possono superare: nessun patto con i memorandum e le politiche di tagli che uccidono. Alexis Tsipras, il leader della coalizione della sinistra radicale, ha sferrato il suo attacco contro
i memorandum dalle pagine del Financial Times, ribadendo che vuole tenere la Grecia nell'area euro e sostituire i memorandum con un programma di ricostruzione e sviluppo. In un lungo articolo apparso ieri sull'autorevole quotidiano finanziario, Tsipras non ha fatto alcun passo indietro: vuole un governo per salvare la società greca dalla distruzione e aiutare l'Europa a cambiare rotta. Il presidente del gruppo parlamentare di Syriza ha ripetuto le parole di Obama in favore dello sviluppo e ha presentato il suo partito di sinistra come l'asse portante di una nuova stabilità politica in Grecia. «Il popolo greco - ha scritto Tsipras - si aspetta da noi che ci assumiamo subito la responsabilità di fermare la crisi umanitaria che travolge il paese». Tsipras ha avvertito che «se non cambiamo rotta, è proprio l'austerità che minaccia di cacciarci dall'area euro».
Antonis Samaras da parte sua ha promesso un governo di salvezza nazionale per cambiare l'ultimo memorandum, quello che proprio lui aveva firmato soltanto tre mesi fa. Ma il leader dei conservatori di Nuova democrazia (che gli ultimi sondaggi davano di pochi punti percentuali sotto Syriza) appare stanco. E le sue accuse contro Syriza «che vuole riportare la Grecia alla dracma» ripetitive e poco convincenti. Lontane dal clima da guerra civile di giorni fa, quando aveva rispolverato l'anticomunismo duro e puro, rievocando gli anni in cui i comunisti massacravano i "patrioti", cioè coloro che avevano collaborato con i nazisti e poi erano stati usati dagli inglesi contro l'Esercito repubblicano.
Per il segretario generale del partito comunista (Kke) Papariga se Nd formerà un governo, alimenterà la paura, mentre un esecutivo di Syriza la delusione. Parariga e il suo Kke sperano di avere vita facile limitandosi a non accettare nessun dialogo, né tanto meno partecipare ad alcun governo. Che succederà se Tsipras diventerà primo ministro, ha chiesto un giornalista a Papariga: «Niente che intacchi gli interessi del capitale, niente di buono per il popolo...Syriza non straccerà il memorandum né caccerà la troika».
Intanto crescono gli episodi di violenza criminale e politica. Un farmacista è stato ucciso vicino al porto del Pireo e un consigliere comunale e militante del Kke ferito da "ignoti" in un quartiere a nord di Atene, mentre gli otto picchiatori di Alba Dorata che giorni fa avevano distrutto un caffè e aggredito i suoi clienti a Beroia (in Macedonia) dovranno presentarsi il 27 giugno in tribunale. La polizia ha arrestato 34 tifosi del Paok di Salonicco che avevano costituito una banda criminale e custodivano un vero arsenale, mentre ha chiesto alla polizia italiana di arrestare dieci persone ritenute responsabili dell'invio di pacchi bomba a Equitalia, alla Deutsche Bank e all'ambasciata greca a Parigi nel dicembre del 2011, azioni rivendicate dagli anarchici di Fai e Fri. Secondo la polizia greca gli arresti in Italia sono scattati grazie agli elementi forniti ai funzionari della polizia italiana che il 14 maggio scorso avevano visitato gli uffici del Servizio antiterrorismo della polizia greca ad Atene.

Trilioni di debito. Chi ci salverà?


di Maria R. Calderoni - rifondazione -
Sì, la Grecia, ovvero il nuovo pericolo pubblico n.1 confezionato su misura, artificialmente ma perfettamente funzionale. La piccola, marginale Grecia, capro espiatorio e insieme rea; colpevole, con il suo debito fuori controllo, i suoi conti sballati, la sua amministrazione truccata, di mettere in difficoltà, se non addirittura di portare alla rovina, la nobile, alta area detta Eurozona.

Balle. Il Moloch, il Gran Canyon che può inghiottire il mondo, non solo l'Europa, si chiama Usa, non Grecia.
Date un occhio a un marchingegno telematico che tutti possono cliccare comodamente da casa su Internet. Si chiama US National Debt Clock, un agghiacciante tic tac che fornisce in tempo reale, minuto per minuto, ora per ora giorno per giorno, l'ammontare del debito pubblico americano. Guardate e impallidite.
Se non lo sapete, prendete nota: oggi come oggi quel debito là complessivamente tocca, centesimo più centesimo meno, i 55 trilioni di dollari, cioè l'intero Pil americano moltiplicato per più di tre volte.
55 trilioni di dollari, ma un trilione che razza di roba è? Un trilione è esattamente, volendo renderlo in cifre, 1.000.000.000.000.000.000 di dollari; vale a dire un milionesimo di un quadrilione (di dollari); vale a dire un miliardo di miliardi (di dollari). Trilione, prefisso internazionale "exa", un numero astronomico e leggermente fuori portata per normali menti umane.
Chi ci salverà da 55 trilioni (di dollari)?

mercoledì 13 giugno 2012

Roma, bagno di folla per Evo Morales. “Governare è servire il popolo"

Fonte: contropiano | Autore: Marco Santopadre
       
Davanti a un pubblico di attivisti sociali e sindacali e a rappresentanti dei movimenti, il Presidente della Bolivia ha ricordato le tappe di un processo rivoluzionario che sta portando gli indigeni, i contadini e gli operai boliviani dall'esclusione totale al potere.“El pueblo unido jamas serà vencido” e “Evo, Evo”. Con questi slogan ieri pomeriggio centinaia di persone hanno accolto il Presidente Morales nel centro congressi di Via Nazionale. Una visita lampo, quella del leader boliviano, che ha permesso ai rappresentanti di tante realtà sociali e politiche della capitale di ascoltare il punto sulla rivoluzione che in pochi anni ha cambiato il volto di alcuni paesi del Sud America e dell’interno continente latinoamericano.
Ad introdurre l’intervento dell’ex leader cocalero ci ha pensato Luciano Vasapollo, docente universitario e dirigente della Rete dei Comunisti. “Qui oggi ci sono centinaia di persone, di compagni e di compagne che lottano ogni giorno per dare un futuro e una speranza ai nostri popoli” ha detto Vasapollo affermando che così come hanno fatto i regime democratici e progressisti insediati negli ultimi anni in Bolivia, Ecuador, Venezuela, Argentina, il compito dei movimenti di lotta anche in Europa deve essere quello di impedire che il pagamento del debito rimanga il dogma dominante della politica e dell’economia, e che le risorse pubbliche vadano a coprire e a rilanciare la spesa sociale e il lavoro. “Dobbiamo fare anche noi la nostra Alba – ha detto il docente universitario – perché questa Unione Europea è contro i popoli e contro i lavoratori”. Dopo aver, tra gli applausi, condannato la detenzione dei cinque agenti cubani nelle carceri degli Stati Uniti, Vasapollo ha ceduto la parola a un Evo Morales che ha voluto ripercorrere le tappe più importanti della sua personale avventura e di quella del popolo boliviano.
“Quando nel 1992 decidemmo di passare dalla resistenza alla presa del potere non avremmo mai pensato di arrivare tanto lontano. A quell’epoca nessuno tra di noi voleva candidarsi, la politica era considerata una cosa sporca, da cui tenersi alla larga”.
“Per secoli, e ancora pochi anni fa, gli indigeni erano esclusi dalla politica, dalla partecipazione democratica – ha ricordato il leader rivoluzionario – Quando provavamo a fare delle proposte su alcuni temi l’oligarchia ci rispondeva che la nostra politica erano la zappa e il machete, che dovevamo limitarci e lavorare e restare al posto nostro”. Poi l’inizio di un processo politico che nel giro di pochissimo tempo avrebbe portato i movimenti indigeni, i minatori, gli operai e le classi fino ad allora sfruttate al potere e un indigeno alla Presidenza di uno Stato rifondato. “Mi hanno definito assassino, cocalero, narcotrafficante, addirittura il ‘Bin Laden delle Ande’ – ricorda sorridendo Morales – ma passo dopo passo siamo stati capaci di costruire un movimento politico con un programma di governo e nonostante le ingerenze statunitensi e gli ostacoli e le menzogne dei media locali siamo riusciti a ottenere l’obiettivo”. Un risultato, quello raggiunto dai movimenti popolari boliviani, che ha dell’incredibile se si pensa al punto di partenza, negli anni ’90. Dall’esclusione razziale e di classe dal potere e dalla partecipazione della maggioranza della popolazione alle scelte di governo, a un paese che è stato completamente rifondato su nuove basi egualitarie, di giustizia sociale, e con un’ampia rappresentazione di tutte le etnie. Ricorda i due assi dell’azione del Mas – il Movimento al Socialismo – e dei suoi alleati di sinistra Morales: il varo di una nuova costituzione democratica basata sulla democrazia partecipativa e non più fintamente rappresentativa da una parte, la nazionalizzazione delle risorse naturali del paese fino a quel momento in mano a multinazionali straniere. “Abbiamo espropriato anche una compagnia telefonica italiana” ricorda malizioso il Presidente tra gli applausi e le risate della sala. “Quando viaggiai la prima volta in Europa, nel 1989, non potevo credere che in ogni casa ci fosse un telefono. In Bolivia, dove sono nato e cresciuto, il telefono in casa sembrava un miraggio ma oggi abbiamo cablato tutti i municipi del paese” afferma soddisfatto dopo aver ricordato le tappe principali della ‘rivoluzione democratica”: la battaglia dell’acqua e quella del gas, la vittoria elettorale del 2006, la marcia di un milione di persone e poi la vittoria nel referendum per la nuova costituzione, le nazionalizzazioni del 1 maggio del 2006, la vittoria schiacciante nel referendum di revoca del 2007, i programmi sociali che in tempi record hanno ridotto l’analfabetismo e quasi azzerato l’abbandono scolastico, le infrastrutture. E poi l’affondamento della piano di integrazione colonialista promosso dagli Stati Uniti – l’Alca – e la promozione di una alleanza continentale basata sulla giustizia e le relazioni di reciprocità: l’Alba.
“Solo 60 anni fa l’Onu si è accorta che gli essere umani hanno dei diritti, ora è venuto il momento di riconoscere i diritti anche alla Madre Terra” afferma solenne Morales. “Occorre coniugare sviluppo sociale ed economico con la difesa della natura” ribadisce, criticando una lettura della difesa dell’ambiente di ostacolo allo sviluppo e al progresso che spesso viene agitata strumentalmente, denuncia il Presidente, da quei paesi colonialisti e imperialisti che poi neanche firmano il Protocollo di Kioto.
Non sono mancati, ricorda Morales, i tentativi da parte degli Stati Uniti e delle oligarchie locali di bloccare il processo rivoluzionario e di rovesciare il governo: i tentati golpe in Bolivia, e poi quelli falliti anche in Venezuela e in Ecuador. E purtroppo quello riuscito in Honduras. “Per questo noi diciamo che vinciamo sugli USA con un punteggio di 3 a 1” sdrammatizza il Presidente. “Dico spesso che gli Stati Uniti sono l’unico paese del continente in cui non ci sia stato un colpo di stato. E sapete perché? Perché è l’unico paese del continente in cui non c’è un ambasciatore degli Stati Uniti” scherza, provocando l’ilarità dell’attento pubblico.
E poi una chiusura molto apprezzata dagli attivisti – movimenti per il diritto all’abitare, sindacati di base e conflittuali, partiti e organizzazioni politiche della sinistra, comunità di vari paese del Sud America, collettivi antifascisti e studenteschi, rappresentanti delle diplomazie latinoamericane in Italia – che si assiepavano nelle due sale del centro congressi di Via Napoli. “Quando sono diventato presidente ho ridotto il mio compenso da 40 mila a 15 mila bolivianos, e così ho fatto per ministri e alti funzionari. Essere autorità, governare vuol dire servire il popolo, non cercare di arricchirsi a spese del popolo. Governare vuol dire sacrificarsi e impegnarsi per il bene comune” ha concluso il Presidente della Bolivia tra gli applausi, mandando un sincero messaggio di solidarietà alle popolazioni colpite dal terremoto in Emilia Romagna.

Imminente colpo di Stato in Siria (?)

Thierry Meyssan Martedì 12 Giugno - megachip -
La Nato prepara una vasta operazione di intossicazione mediatica
assad
di Thierry Meyssan* - Réseau Voltaire
[traduzione a cura di Domenico Losurdo]
Alcuni Stati membri della Nato e del CCG (Consiglio di Cooperazione del Golfo) preparano un colpo di Stato e un genocidio settario in Siria. Se volete opporvi a questi crimini, muovetevi subito: fate circolare questo articolo in internet e allarmate i vostri rappresentanti nelle istituzioni democratiche. (t.m.)
Fra qualche giorno, forse a partire da venerdì 15 giugno a mezzogiorno, i siriani, accendendo i televisori, scopriranno che le loro emittenti abituali sono state rimpiazzate da trasmissioni mandate in onda dalla Cia. Vedranno dei filmati in cui truppe governative compiono massacri; vedranno manifestazioni popolari; vedranno ministri e generali mentre si dimettono; vedranno il presidente Assad darsi alla fuga e vedranno infine un nuovo governo installarsi nel palazzo presidenziale di Damasco. Ma saranno immagini false: realizzate dalla Cia. Parte in studi televisivi appositamente allestiti, come stiamo per vedere, e per il resto manipolate al computer ricorrendo ai cosiddetti effetti speciali.
Questa messinscena è direttamente condotta da Washington. Il regista-manipolatore è Ben Rhodes, consigliere aggiunto alla Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti. Obiettivo: demoralizzare i siriani per propiziare un colpo di Stato.
La Nato, che si scontra con il doppio veto della Russia e della Cina, riuscirebbe così a conquistare la Siria senza attaccarla illegalmente. Quale che sia il giudizio che si può formulare sugli avvenimenti attualmente in corso in Siria, un colpo di Stato metterebbe fine a ogni speranza di democratizzazione.
Molto ufficialmente, la Lega Araba ha chiesto agli operatori satellitari Arabsat e Nilesat di sospendere la ritrasmissione dei media siriani, sia pubblici sia privati: Syria TV, Al-Ekbariya, Ad-Dounia, Cham TV, eccetera. In questo modo le emittenti nazionali vengono accecate, perché in Siria non esiste una rete televisiva tradizionale (come l’analogico in Italia, ndt); per cui l’unico modo di vedere la televisione è la parabola, irraggiata appunto dai satelliti gestiti da Arabsat e Nilesat.
Non è la prima volta che dei golpisti disattivano dei satelliti: alla vigilia dell’aggressione alla Libia, la Lega Araba aveva censurato la televisione libica per impedire ai dirigenti della Jamahiriya (il governo di Gheddafi, ndt) di comunicare con il popolo.
Questa decisione ufficiale della Lega Araba è però soltanto la parte emersa dell’iceberg. Secondo nostre informazioni, infatti, nella scorsa settimana si sono svolte riunioni internazionali al fine di coordinare l’operazione di intossicazione mediatica. I primi due di questi incontri, a carattere tecnico, si sono svolti a Doha (Qatar); un terzo, politico, si è invece tenuto a Riyad, in Arabia Saudita.
Il primo incontro ha riunito i militari esperti in guerra psicologica, embedded (aggregati), alle redazioni di alcune reti televisive satellitari, come Al-Arabiya, Al-Jazeera, BBC, CNN, Fox, France 24, Future TV, MTV.
Anche questo arruolamento di militari nelle redazioni televisive non è una novità: è notorio che, dal 1998, ufficiali dell’United States Army’s Psychological Operations Unit (PSYOP) (la divisione di guerra psicologica dell’esercito americano, ndt) sono stati incorporati nella redazione della CNN; da allora, questa pratica è stata estesa, dalla Nato, ad altre emittenti strategiche.

BAR ITALIA
Italy forward Antonio Cassano apologised for saying he hoped there were no fags in the national team

martedì 12 giugno 2012

Giornale tedesco rivela: “Il Dalai Lama sostenuto dalla Cia”


dalai-lama-rifleda Redazione Contropiano.
L’icona della contemplazione e della pace, idolo trasversale degli estimatori della resistenza passiva e spirituale, in realtà è sostenuto dai servizi segreti statunitensi.
Ed è stato a capo di un esercito guerrigliero che combatteva armi in pugno i cinesi.
Smobilitato per necessità che per convinzione.
Il Dalai Lama? Tramava con la Cia
di Claudio GuidiIl Secolo XIX, 9 giugno 2012
BERLINO - Pregare a mani giunte per la pace in ogni angolo del mondo, davanti a migliaia di persone e sempre sotto l’occhio attento delle telecamere, fomentando sotto banco con l’aiuto della Cia la guerriglia per strappare il Tibet alla Cina.
Con un clamoroso scoop la Süddeutsche Zeitung rivela che proprio questo avrebbe fatto per anni il Dalai Lama all’insaputa del mondo intero, guadagnandosi anche il Nobel per la pace.
Nelle prime righe del suo lunghissimo articolo il giornale progressista ha posto un titolo feroce per la sua ambivalenza, “Heiliger Schein”, santa apparenza, alludendo al fatto che questa può spesso ingannare. A parlare dagli Stati Uniti di tutta questa incredibile vicenda è uno che la sa lunga, John Kenneth Knaus, un ex agente della Cia di 89 anni, che incontrò il Dalai Lama nel 1964 nel suo esilio indiano di Dharamsala: «Per lui ero l’anello di collegamento con la violenza, che come buddhista non poteva approvare», ha spiegato Knaus che nel frattempo ha concesso un’intervista anche alla regista americana Lisa Cathey per il suo film “La Cia in Tibet”, destinato a uscire entro l’anno. La Süddeutsche scrive che il film documenterà “una guerra estremamente sanguinosa e da tempo dimenticata, condotta in Tibet dal 1955 fino agli inizi degli Anni ’70 e in Nepal a partire dal 1959”.
Nel film Lisa Cathey rivela anche che suo padre fu uno degli istruttori militari dei guerriglieri tibetani in un campo situato nelle Montagne Rocciose del Colorado, una zona a tremila metri di altezza e coperta di neve, molto simile all’altopiano dell’Himalaya. Il giornale tedesco scrive che la Cia “addestrò i guerriglieri tibetani, rifornendoli con tonnellate di armi per la lotta contro il nemico comune, la Cina comunista”, versando annualmente 180 mila dollari come “aiuti finanziari al Dalai Lama”. Sarebbe anche dimostrato che due fratelli maggiori del Dalai Lama “avevano presto allacciato contatti con la Cia, diventata poi lo sponsor della guerriglia in Tibet”.
dalai lama militareL’articolo con le clamorose rivelazioni è anche corredato da una foto particolarmente imbarazzante, scattata nel 1972, che ritrae il Dalai Lama mentre su una jeep passa in rassegna unità speciali tibetane dell’esercito indiano a Chakrala, nel Punjab.
Da un memorandum della Cia del 1968 emerge che “il programma per il Tibet è basato sugli impegni che il governo americano aveva assunto con il Dalai Lama dal 1951 al 1956”, l’anno in cui la Cia lanciò l’operazione “ST Circus”, che in codice stava per “Circo Tibet”.
L’obiettivo era di “mantenere in vita la concezione politica di un Tibet autonomo”, dopo l’occupazione da parte della Cina nel 1950, oltre all’impegno di creare “un potenziale di resistenza contro possibili evoluzioni politiche nella Cina comunista”.
A partire da quel momento, su un’isola dei Mari del Sud “la Cia addestrò i guerriglieri a sparare, uccidere, minare e costruire bombe”, con un fratello del Dalai Lama che fungeva da interprete. “Un bombardiere B-17 senza segni di riconoscimento, guidato da un pilota polacco e con un tecnico ceco lanciò subito dopo con il paracadute i primi combattenti sul Tibet”. Si trattava di miliziani che portavano al collo “un amuleto con l’immagine del Dalai Lama e una capsula di cianuro”, con cui suicidarsi nel caso fossero stati catturati dai cinesi.
Il giornale rivela che “accompagnato da guerriglieri addestrati dalla Cia, il Dalai Lama nella primavera del 1959 fuggì attraverso le montagne per cercare asilo in India, dove annunciò una rivolta non violenta”, ma “durante la fuga i suoi accompagnatori erano in contatto radio permanente con gli agenti della Cia”.
Il quotidiano tedesco aggiunge un’altra rivelazione. Nel Tibet meridionale, scrive ancora il giornalista “erano attivi ottantacinquemila guerriglieri, che con il nome di Chushi Grangdrug, quattro fiumi e sette montagne, operavano in piccole unità per attaccare la supremazia militare cinese, cooperando strettamente con la Cia”.
In una documentazione della Bbc citata dal giornale, un ex combattente tibetano fa addirittura un racconto allucinante per la sua truculenza, quando spiega che “abbiamo ammazzato più che potevamo. Quando uccidevamo un animale dicevamo una preghiera, ma quando ammazzavamo un cinese nemmeno una preghiera è uscita dalle nostre labbra”.
In un memorandum segreto della Cia è scritto che “la guida tibetana considera la truppa come il braccio paramilitare del governo in esilio”.
Le attività militari di guerriglia si conclusero negli anni ’70, dopo una visita segreta a Pechino dell’allora Segretario di Stato Herny Kissinger, mentre per la Cia il Dalai Lama continuava a rimanere “finanziariamente e politicamente del tutto dipendente dagli americani”. Terminata l’avventura militare, il capo religioso dei tibetani poté dedicarsi anima e corpo a diffondere nel mondo il suo messaggio pacifista.


Fonte: http://www.contropiano.org/it/esteri/item/9512-giornale-tedesco-rivela-%E2%80%9Cil-dalai-lama-sostenuto-dalla-cia%E2%80%9D.

Una settimana può bastare per ferire un Mondo


sarsak-mega9 giugno 2011. - megachip -
L'ospedale "Issaf Hrofes" ha comunicato, stasera, che il calciatore della nazionale palestinese Mahmoud Al Sarsak, detenuto in sciopero della fame da 84 giorni, sta morendo e questo potrebbe accadere, nelle prossime ore. L'ospedale declina ogni responsabilità per la sua morte.
Siamo distratti da i lustrini degli Europei di calcio. Ma come possono i media ancora tacere perfino questa notizia, fra le tante notizie dimenticate dai territori occupati? E sono davvero tante, queste notizie.
Eccovi una rassegna settimanale.
Come riferisce il PCHR (Palestinian Center for Human Rights) nel suo rapporto settimanale, Israele ha portato a segno i seguenti risultati, tra il 31 maggio e il 6 giugno 2012:
10 bombardamenti sulla Striscia di Gaza che hanno fatto 3 morti e 3 feriti, tra i membri della Resistenza; 10 feriti tra i civili, tra i quali 7 bambini; distrutti un caseificio (per la quarta volta, in tre anni), diversi allevamenti di animali, un laboratorio, un pozzo, 3 case agricole e una serra; 8 case e un’azienda danneggiate.Nel video di Rosa Schiano, si vede la casa bombardata a Nuseirat. Il soffitto è caduto sulla culla dove dormiva Deema. Ora è in ospedale.
Continui attacchi contro i pescatori di Gaza, con 3 di loro arrestati, incluso un bambino, e 4 barche confiscate.
1 civile palestinese seriamente ferito dai soldati dell’IOF, a Hebron. L’IOF dice che il civile ha accoltellato un soldato e loro hanno reagito. Non ci sono riscontri.
Uso eccessivo della forza per disperdere le manifestazioni pacifiche che le comunità palestinesi dei vari villaggi organizzano, settimanalmente, in Cisgiordania. 9 feriti tra i dimostranti, incluso un bambino.
74 incursioni portate a termine dall’IOF nelle varie comunità palestinesi, in Cisgiordania, con 25 civili arrestati, inclusi un bambino e un giornalista.
Continua chiusura della Palestina, Cisgiordania e Striscia di Gaza, dal mondo esterno.
L’IOF ha continuato ad aiutare gli insediamenti illegali dei coloni e i coloni ad attaccare i civili palestinesi e le loro proprietà. L’IOF ha distrutto 12 tende e 6 allevamenti di animali, a nord della Valle del Giordano; i coloni hanno sradicato 65 alberi e incendiati almeno 20 dunums di terra agricola, vicino Hebron; sradicati 75 alberi, vicino Ramallah.
I dati completi e le specifiche delle varie azioni sono in questo link.

Il caso spagnolo

di Vincenzo Comito - sbilanciamoci -

La caduta di fiducia nella Spagna ricorda la crisi irlandese del 2009-10; ad aggravarla, la spirale perversa tra austerità e recessione innescata dalle miopi scelte europee

La situazione generale dell’economia
La Spagna è in recessione e le ultime stime sul Pil del 2012 parlano di una sua diminuzione dell’1,8%. Le prospettive appaiono peraltro peggiori di quanto mostri tale andamento, in particolare per il grande livello del debito privato, per la profonda crisi del sistema bancario e per il fatto che i mercati finanziari sono ormai sostanzialmente chiusi per il paese. Un indice più affidabile delle difficoltà è rappresentato dal livello di disoccupazione, che ha ormai raggiunto il 24% della forza lavoro, con punte altissime per quella giovanile (siamo ormai al 51,5%). La situazione critica dell’economia è ovviamente aggravata dalle misure di austerità imposte dall’Europa. Aumentano in misura rilevante le fughe di denaro, mentre si teme un bank run. Nei primi tre mesi del 2012, 97 miliardi di euro sono usciti dal paese. Tutto questo mentre l’allievo stava cercando diligentemente di fare tutto quanto comandato da Bruxelles e da Berlino.
Debito pubblico e debito privato
Il caso spagnolo si presta a provare l’infondatezza dell’analisi che i tedeschi fanno della crisi e dei rimedi conseguenti, con la loro ricetta generica che dovrebbe essere buona per tutte le situazioni. Il taglio della spesa pubblica indicato come panacea per tutti dalla Merkel e dalla Commissione europea mal si presta a coprire il caso della Spagna, che prima della crisi mostrava un rapporto tra debito pubblico e Pil inferiore a quello della stessa, virtuosa Germania. Nel 2008 tale rapporto era pari al 39,7%, per salire poi al 68,5% nel 2011. Le previsioni per il 2012 fanno riferimento a una cifra del 79,8%. Per altro verso, la percentuale deficit/Pil dell’ultimo periodo può sembrare fuori controllo –è stata dell’8,9% nel 2011- ma la ragione di tale squilibrio non è da ricercare nella scarsa disciplina dei conti pubblici; semmai nel tentativo di intervenire per evitare che la situazione precipitasse. Così “le difficoltà di bilancio della Spagna sono una conseguenza della crisi, non la sua causa” (Wolf, 2012).
L’epicentro finanziario delle difficoltà sta invece nell’elevatissimo debito privato, pari al 227,3% del Pil alla fine del 2010 e di poco inferiore alla fine dell’anno successivo. Come nel caso dell’Irlanda, i guai vengono dal settore privato e non da quello pubblico.

Cina e Giappone fanno a meno del dollaro

Gabriele Battaglia, da Pechino - eilmensile -

AFP/Getty Images
Per risollevare l’economia stagnante, che nei primi 4 mesi dell’anno ha registrato “solo” un +8,1 per cento, le autorità di Pechino hanno infatti deciso di lanciare un pacchetto di stimoli previsto per agosto o settembre: una mossa simile a quella del 2008, in piena crisi finanziaria globale, ma profondamente diversa per natura e destinazione dei finanziamenti in arrivo. Lo Stato ci metterà infatti meno del suo – nel 2008 furono 4mila miliardi di yuan (586 miliardi di dollari), oggi se ne prevedono mille – e aprirà invece le porte agli investimenti privati in settori strategici come quelli dell’energia e delle utility. E soprattutto, i soldi saranno veicolati in buona parte verso quelle eccellenze che permetteranno alla Cina di competere sempre più a livello qualitativo (non solo sul piano dei costi bassi): secondo quanto stabilito dal consiglio di Stato (cioè il governo) e riportato dall’agenzia ufficiale Xinhua, si tratta di “efficienza energetica e protezione ambientale, information technology, biologia, produzione di apparecchiature avanzate, nuove fonti energetiche, nuovi materiali, veicoli a energia alternativa”.
È il segno di un Dragone diverso, rispetto a quello che quattro anni fa puntò tutto su costruzioni e infrastrutture per fare fronte alla crisi internazionale. Oggi c’è meno bisogno di dare lavoro a un esercito industriale di riserva di milioni di migranti non qualificati e soprattutto bisogna calibrare bene gli investimenti per evitare il prodursi di bolle, come quella immobiliare, in buona parte figlia proprio del pacchetto del 2008.
Nel frattempo – e qui veniamo alla grande novità su scala globale – la Cina stringe con il Giappone uno di quei patti destinati a cambiare il volto del commercio internazionale. Da venerdì 1 giugno, i due Paesi cominceranno infatti a scambiarsi beni e servizi direttamente in yuan (cinesi) e yen (giapponesi). Il che significa, senza passare dal dollaro. Per il Dragone, è l’ennesima tappa di una “lunga marcia” verso l’emancipazione dalla valuta Usa, una sorta di politica monetaria anti-imperialista, che si propone almeno scopi: diversificare la valuta di riserva presente nelle casse di Pechino; dare allo yuan nuovo status internazionale. L’intento appare chiaro: la Cina non vuole più che la propria ricchezza dipenda da decisioni di politica monetaria prese a Washington.
Tokyo non può dirlo ad alta voce, ma probabilmente coltiva desideri analoghi. Nonostante le inimicizie, la Cina è diventata da tempo il principale partner commerciale del Giappone. Il totale degli scambi tra i due Paesi ha raggiunto 27.500 miliardi di yen (28 miliardi di euro) nel 2011 e la Cina rappresenta ormai il 10 per cento del pil mondiale e circa il 9 per cento del commercio internazionale.
Ad aprile, lo yuan è diventato la terza maggiore valuta internazionale per emissione di lettere di credito, per una quota di mercato del 4 per cento. Da tempo Tokyo vuole acquistare bond cinesi e a marzo ha chiesto e ottenuto l’approvazione di Pechino ad acquistarne per circa 65 miliardi di yuan (poco più di 10 miliardi di dollari). È una quota simbolica, ma il Giappone diventa così la prima economia a ottenere questo privilegio.
È chiaro che tutte queste manovre bilaterali permetteranno al Sol Levante un più facile accesso ai promettenti mercati cinesi. Il ministro delle Finanze Jun Azumi ha dichiarato in conferenza stampa che fare a meno del dollaro “permetterà di ridurre i costi di transazione e i rischi di ricorrere alle istituzioni finanziarie per degli aggiustamenti, inoltre renderà entrambe le valute più utili”. Tutto più facile insomma, anche perché la Cina, dove il valore dello yuan è determinato politicamente, dovrebbe concedere al Giappone un’oscillazione maggiore nel cambio tra le due monete (del 3 per cento), rispetto a quella in vigore con il dollaro (1 per cento).
Alcuni analisti leggono l’accordo anche in chiave di riforme interne cinesi. Eswar Prasad, ex capo della divisione cinese del Fondo Monetario Internazionale, ritiene per esempio che “quello che la Cina sta facendo è una ‘strategia del cavallo di Troia’; cerca cioè di cavalcare l’idea di un Renminbi che si trasforma in valuta globale per superare le resistenze alle riforme interne”, dice al South China Morning Post. Le forze più filo-mercato – continua Prasad – potrebbero utilizzare l’internazionalizzazione dello yuan per spingere verso un mercato finanziario più “maturo”, la costituzione di un mercato aperto delle obbligazioni societarie e di un tasso di cambio flessibile.

ISRAEL WINS THE DEMOCRACY MONDIAL
A former member of the Palestinian national football team remains on hunger strike over his imprisonment by Israel without charge, or trial, despite an agreement that was reached last month in order to end a mass protest by Palestinian prisoners.

Mahmoud Sarsak, 25, has refused food for 80 days, since 19 March. He began his hunger strike after his "administrative detention" order was renewed for the sixth time.
(The Guardian)

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