Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

domenica 6 marzo 2016

L’Europa mostra il suo vero volto. Mentre i profughi ammassati al confine con FYROM superano i 10.000 (di cui circa 40 % bambini), il ministro degli interni austriaco ripete l’invito alla Grecia in maniera ormai quasi esplicita di … arrangiarsi e organizzarsi a tenerseli per sempre: non potete fermare il flusso? peggio per voi se vi trovate in quel posto….

a.k.

sabato 25 ottobre 2014

Meglio Caino

Fabrizio Napoleoni

000125375Sono passati più di 6 mesi dal colpo di stato in Ucraina, il conseguente insediamento di un governo antirusso con palesi affiliazioni neo-naziste. Sono passati mesi dalle visite delle delegazioni Statunitensi in Ucraina e dalle visite guidate offerte ai governanti Ucraini presso la Casa Bianca, al cospetto del premio Nobel Obama. Le intercettazioni in cui la diplomatica USA mandava letteralmente “a fare in culo” l’Europa per il lassismo e l’esitazione a determinare gli esiti del governo Ucraino, sono già nel dimenticatoio. Come pure gli incontri della delegazione USAID di fronte a imprenditori Ucraini, sotto l’egida di uno sponsor disinteressato, la Chevron.
La Crimea è ormai annessa alla Russia, illegalmente secondo la Nato, ma lecitamente secondo il 97% dei votanti del referendum largamente votato dalla popolazione che in Crimea, al contrario di Europei e Statunitensi, ci vive. E sono passati ormai mesi da quando il figlio di Joe Biden, vice presidente degli USA, si è insediato dell’ufficio legale di una delle più importanti aziende del settore energetico Ucraino. Sono passati ormai mesi da quando abbiamo saputo, dai nostri allineatissimi media, dei cecchini del governo (eletto) Ucraino che uccidevano più di 100 manifestanti; salvo poi scoprire, inclusa la nostra Lady Ashton, che i cecchini non erano affatto governativi ma affiliati “oscuri” del gruppo Maidan. Mesi sono passati dalla strage di Odessa, in cui i manifestanti filo-russi hanno ricevuto un “caloroso” benservito dalle milizie Maidan a supporto del governo insediato; col benestare USA ovviamente, ed Europeo s’intende. E sono passati mesi dall’abbattimento dell’aereo di linea Olandese; aereo abbattuto dalle contraeree dei ribelli filorussi, così ci diceva la Casa Bianca prima ancora che l’aereo fosse caduto al suolo.
Da allora, misteriosi avvistamenti di truppe Russe che invadono l’Ucraina, tanto concrete quanto le armi di distruzione di massa di Bush e Cheney. Quindi sanzioni unilaterali da parte della Nato, cioè USA ed Europa; sanzioni, per non dire sabotaggio commerciale, in piena violazione del WTO che proprio gli USA hanno inventato ed esportato in ogni luogo; democrazia e WTO, con la pistola puntata alla testa. Ricetta collaudata, chiedere a John Perkins.
Sanzioni alla Russia per distendere una crisi made in USA. E più la Russia distende, più la NATO si distende. Più la Russia concilia più gli USA sanzionano ben oltre i limiti della legalità internazionale. L’Europa al seguito, fedele cane da compagnia. La Russia accelera il percorso BRICS e i primi passi di una Banca Internazionale alternativa a FMI e Banca Mondiale; la risposta non si fa attendere; blocco dei conti all’estero degli oligarchi che supportano Putin e blocco degli scambi monetari basati sul circuito SWIFT. Ovviamente tutto in regola, le regole le facciamo noi d’altronde, o qualcuno per conto nostro.
Sanzioni da parte nostra, e la Russia ricambia, come può. Europa e Russia come i capponi Manzoniani, mentre qualcuno si gode lo spettacolo dall’altro estremo dell’Atlantico.
A febbraio la piazza Ucraina e le borse vanno giù, chi più chi meno. Quindi sanzioni, che raggiungono il loro picco ad Agosto; e le borse vanno giù nuovamente, chi più chi meno. E il miracolo riesce; si ferma la macchina Tedesca largamente esposta in Russia, non solo per la fornitura d’energia ma per tutto il comparto industriale . Borse già, chi più chi meno, perché la guerra economica si svolge, al solito, nel nostro vecchio e caro continente, l’Europa.
Giù le borse, è vero ma non tutte allo stesso modo…
mib
Andamento indice borsa Italiana (1 anno)
dac
Andamento indice borsa Francese (1 anno)
dax
Andamento indice borsa Tedesca (1 anno)
sp
Andamento indice borsa USA-Standards&Poor (1 anno)
Le borse europee si ritrovano con capitalizzazione poco superiore a quella di un anno fa; ben diversa la storia oltre-atlantica. Come dire la guerra è “fredda” per tutti, ma negli “States” è un po’ più mite, non sembra anche a voi?
Ma Obama comanda, e la nostra generazione di leader “80 Euro” risponde.
Sei anni fa gli USA realizzavano un crack finanziario a valle della bolla speculativa sul debito privato, i subrprime, tirando giù l’intero mercato mondiale agganciato al petrodollaro e al WTO. Quindi il Quantitative Easing, la politica ultraespansiva che pompa triliardi di dollari nella casse delle banche e delle imprese d’oltreoceano. In Europa invece va di moda l’austerity, perché i PIGS devono fare bene i conti; ce lo dice l’Europa, ma in realtà ce lo comandavano Merryl Lynch, Standard & Poors e Goldman Sachs, che ci abbattono il rating ad ogni sussulto di sovranità. Fino all’amministrazione delegata. E noi a prendercela con la Germania, la nuova Perfida Albione, rea di tirare avanti nonostante la congiuntura economica. Come i capponi, sempre e comunque.
Così, mentre gli USA vanno al galoppo, l’Europa va al traino della Germania, fino a quando il cavallo non viene azzoppato. Dai Russi, ovviamente, chi altro?
Eppure gli Americani ce l’avevano fatto capire da prima che la questione Russa gli stava a cuore. Perfino i giochi invernali di Sochi, sono diventati la vetrina della campagna denigratoria Made in USA. E prima di loro le Pussy Riot palesavano l’orripilante perversione di una cultura “tradizionalista”.
Ma ben più concretamente il Senato Statunitense ce l’aveva detto già a chiare lettere, che l’Europa non stava facendo bene i compiti, già nell’agosto del 2013 quando il Congressional Research Service (USA) redigeva un documentoEurope’s Energy Security: Options and Challenges to Natural Gas Supply Diversification“. Cosa diceva questo documento? Semplice, due cose chiare chiare: l’Europa era troppo dipendente dal gas Russo e non stava approfittando adeguatamente delle opportunità aperte dalla primavera Africana. Nessuna congettura mia, parole loro, testuali, “pare pare”. D’altronde c’era da capirli gli americani. Con tutto il casino che si sono dovuti inventare per giustiziare Gheddafi e Mubarak, un po’ di riconoscenza è il minimo. Perché comprare il gas Russo quando lo si può compare dagli Africani d’America?
Perché comprare il gas Russo rischiava di renderci troppo amici del nemico. Il nostro fratellone americano s’è dato così da fare per mettersi alla pari, tanto da inventarsi lo Shale Gas; purtroppo lo sanno pure i sassi, inclusi quelli mesozoici, che lo shale gas (fracking) costa 4 volte il prezzo del gas naturale reperibile sul mercato.
Ma mentre noi ci chiediamo “ma come è iniziata questa storia” e soprattutto “come ne usciamo”, gli USA aprono l’altro fronte, quello ISIS. Ribelli, pardon, terroristi, che esistevano da anni e che da tempo, finanziati dall’Arabia Saudita, combattevano contro Curdi, Siria e Iraq; magicamente divengono veicolo di crociate contro la Siria. A proposito; avete mai notato dove sta il Kurdistan?
Due piccioni con una fava; all’Arabia Saudita (consiglio la lettura di “Confessioni di un sicario dell’economia” per conoscere la storia delle relazioni tra USA e dinastia Saudita) le armi americane, per togliersi di mezzo l’ingombro Siriano e in futuro l’Iran; agli americani, doppio guadagno: l’espansione dell’influenza geopolitica nell’aerea sul lungo termine; sul breve termine, la sovra-produzione di petrolio da parte dell’Arabia Saudita e di gas dal Qatar con conseguente crollo dei prezzi del greggio e del mercato energetico, da cui dipende lo sviluppo dell’economia Russa, ed inoltre gas e petrolio per gli amici Europei; Europei alle soglie dell’inverno e ormai, letteralmente, alla canna del gas.
Gas e petrolio medio-orientale, ma targato USA. A proposito; avete sentito, di recente, che l’Italia compra petrolio dagli USA per la prima volta nella storia degli ultimi 20 anni? Vi siete domandati perché? Vi siete domandati da dove viene?
Va bene così, teniamoci stretto il caro fratellone americano.
Ma se questo è Abele, allora meglio Caino.

domenica 28 settembre 2014

Cosa sapiamo dell'Ucraina??

I ribelli del Donbass

di Valerio Evangelisti

BandaBassottiPutin “socialista”? Per quanto sembri incredibile, c’è chi pare crederlo veramente, sia tra chi lo appoggia che tra chi lo avversa. Poco importa che al recente Foro Nazionale della Gioventù di Seliger (riunione dei giovani del suo partito) abbia definito “traditori” i bolscevichi che, con la loro rivoluzione, minarono lo sforzo bellico russo nella prima guerra mondiale. Per qualche rottame della disastrata “sinistra radicale” italiana, o per i molti furbi che mascherano da nuova guerra fredda l’attuale, gigantesco scontro economico tra capitalismi per impossessarsi delle aree del mondo ricche di materie prime, Putin è una specie di Lenin (o Stalin, o Breznev) redivivo. Eroe per gli uni, spauracchio per gli altri.
Ciò annebbia ancor più la lettura corrente dei fatti d’Ucraina e della secessione del Donbass. Si tratterebbe di un conflitto tra democratici “europeisti” (a prescindere da un buon numero di fascisti e nazisti nelle loro fila) e “filorussi” (balle, sono russi e basta).
Chi non legga siti di informazione alternativa come Contropiano, Militant e, su un diverso versante, l’indispensabile PopOff finisce per crederci. La mistificazione attraversa tutti i media, conformemente alle scelte di una Unione Europea che segue pedissequamente gli ordini degli Stati Uniti, pronti a sbatterla dove pare a loro pur di non perdere il ruolo declinante di guardiani del globo.
Per dirne una, mi ha impressionato, giorni fa, il reportage da Kiev di una corrispondente di Rai News 24 (ma dove recluta, la Rai, certi soggetti?). Narrava di una mostra in onore dello “scrittore ucraino” Nicolaj Gogol. Domanda: ma lo sapeva, Gogol, di non essere russo? In che lingua scriveva?
Lasciamo perdere e torniamo a Putin (che ha fatto benissimo a riprendersi la Crimea: era già sua) e al Donbass. Non parlerò dei litigi in casa fascista, tra ortodossi pro Kiev (tanto da mandare volontari sul campo) e “rossobruni” o “euroasiatici” pro filorussi – espressione in questo caso appropriata. Non accettando la nozione di classe, vanno a istinto.
Meno perdonabile è un atteggiamento simile da parte di un settore della sinistra antagonista. Non c’è dubbio, il fronte dei ribelli contro Kiev non è esente da ambiguità. Ne fanno parte anche conservatori, slavofili, amici di Putin, gente di destra. Ma è lecito astrarsi da una lotta dichiaratamente antifascista in piena Europa, per di più a composizione nettamente operaia e proletaria? Ho l’impressione che un’informazione deviante e malata abbia fatto vittime anche là dove non avrebbe dovuto. Allora lascio direttamente la parola ai valorosi ribelli del Donbass, con un manifesto della loro ala sinistra (maggioritaria) che ha circolato troppo poco. Per inserire, in conclusione, un video della Banda Bassotti, voce musicale da trent’anni del migliore sovversivismo.
***

MANIFESTO DEL FRONTE POPOLARE PER LA LIBERAZIONE DELL’UCRAINA, TRANSCARPAZIA E NOVOROSSIJA (7 luglio 2014)

Qual è l’obiettivo della nostra lotta?
Costruire sul territorio dell’Ucraina una Repubblica Popolare senza oligarchia e burocrazia corrotta.
Chi sono i nostri nemici?
La classe dirigente liberal-fascista, l’alleanza criminale di oligarchi, burocrati, funzionari della sicurezza e la criminalità, servitori degli interessi di Stati esteri. Ufficialmente proclamano valori liberali europei ma tengono il paese sotto controllo con bande dell’estrema destra, scatenando l’isteria sciovinista per contrapporre gruppi etnici fra di loro.
Chi sono i nostri alleati?
Tutte le persone di buona volontà, indistintamente dalla loro cittadinanza ed etnia, che riconoscono gli ideali di giustizia sociale, che sono pronti a combattere per questi ultimi.
Qual è la Repubblica Popolare per la quale stiamo combattendo?
La Repubblica Popolare è la forma politica di organizzazione sociale in cui:
• Gli interessi delle persone, quello spirituale, intellettuale, sociale, fisico, sono i più alti obiettivi dello Stato;
• Tutto il potere appartiene al popolo, che lo esercita con organi eletti attraverso la rappresentanza diretta;
• Ogni lavoratore ha il diritto alla salute, all’istruzione, alla pensione e alla sicurezza sociale a spese dello Stato;
• Sono pagate pensioni dignitose, e tutti i cittadini possono godere delle garanzie di protezione sociale in caso di perdita del lavoro, disabilità temporanea o permanente;
• Sono ammesse eventuali iniziative private o collettive a condizione che avvantaggino le persone [la comunità];
• È vietato il capitalismo e l’usura bancaria che vive degli interessi sui prestiti. Il denaro deve essere guadagnato per mezzo della realizzazione di progetti utili.
• Lo Stato, che agisce per conto del popolo, è controllato dai rappresentanti di quest’ultimo. Lo Stato è il più grande detentore dei capitali e controlla i settori strategici dell’economia;
• È consentita la proprietà privata, ma le grandi fortune, i loro investimenti in politica e nell’economia, sono sotto il controllo della società – a nessuno è permesso di operare parassitariamente o creare un impero oligarchico o dominare sulle altre persone per mezzo dei monopoli.
Quali sono i nostri metodi di lotta?
Per raggiungere questo obiettivo (la creazione della Repubblica Popolare sul suolo ucraino), siamo disposti a usare metodi violenti e non violenti di lotta. Crediamo che i cittadini abbiano il diritto di ribellarsi e armarsi per difendere la propria libertà. La violenza, comunque, è un’espediente al quale ricorreremo solo quando saremo costretti.
Cosa sta succedendo in Ucraina?
Sul territorio ucraino c’è una rivolta di liberazione contro il governo liberal-fascista che con il terrore e la propaganda cerca di imporre al nostro paese un capitalismo oligarchico criminale.
Che cosa è l’Ucraina?
L’Ucraina – una zona tra l’Unione Europea e la Russia con una forte tradizione cristiana (soprattutto ortodossa), abitata da popoli diversi (ucraini, russi, bielorussi, moldavi, bulgari, ungheresi, romeni, polacchi, ebrei, armeni, greci, tatari, ruteni, hutsul e altri), ha una lunga tradizione di autogoverno popolare e politico e di lotta per la libertà.
È in atto una guerra tra russi e ucraini?
Questa non è una guerra tra russi e ucraini, come afferma la propaganda di Kiev. È la rivolta del popolo oppresso contro un nemico comune – il capitalismo oligarchico. Su entrambi i lati del conflitto, russi, ucraini e persone di altre nazionalità, stanno combattendo. Il regime di Kiev ha ingannato con la propaganda i suoi combattenti e mercenari che combattono per gli interessi degli oligarchi e per i criminali nelle istituzioni, mentre dalla nostra parte, in Novorossiya, i membri delle milizie difendono gli interessi del proprio popolo senza percepire alcuno stipendio, solo per un futuro democratico.
Sono diversi gli interessi dei russi e degli ucraini negli eventi in corso in Ucraina?
Russi ed ucraini condividono gli stessi interessi socio-politici per la liberazione dell’Ucraina dal potere del capitale oligarchico, dalla burocrazia corrotta e dai criminali.
Perché la rivolta in Novorossiya si svolge con slogan russi?
Poiché la popolazione russa e russofona dell’Ucraina ha vissuto una doppia oppressione: socio-economica, nonché culturale e politica. Oppressione socio-economica, la corruzione, la tirannia, il potere della criminalità, l’impossibilità di condurre attività economiche, gli stipendi miserabili e la dipendenza dai “padroni del paese”. Questa è la norma per ogni lavoratore ucraino. In più la privazione dello status ufficiale della lingua russa nelle regioni in cui più del 90 per cento della popolazione parla e pensa in russo (circa la metà del territorio ucraino) insieme al divieto di insegnamento nelle scuole della lingua russa, il bando della pubblicità e del cinema in russo, il bando del russo nelle pratiche legali e amministrative. È per questo che i russi e i russofoni sono stati i primi a ribellarsi.
Perché la Russia sta aiutando la Novorossija?
Una parte considerevole dell’élite russa ha paura della protesta popolare. Avrebbe volentieri intrapreso rapporti pacifici con le autorità di Kiev e vorrebbe metter fine alla guerra nel sud-est. Ma la furia della rivolta popolare contro il capitalismo oligarchico non lo permette. I popoli russi sostengono la giusta lotta della Novorossiya. Questo costringe tutta l’élite russa, a dispetto dei propri interessi strategici, a sostenere o far finta di sostenere la rivolta del sud-est dell’Ucraina.
Perché gli Stati Uniti e l’Unione Europea aiutano il regime di Kiev?
L’obiettivo principale degli Stati Uniti è la lotta contro la Russia, identificata come un rivale geopolitico. Per gli Stati Uniti è necessario creare in Ucraina un paese anti-russo con basi NATO, oppure far precipitare il paese nel caos e destabilizzare tutta la regione. L’Unione Europea ha invece bisogno di nuovi mercati per i propri prodotti e materie prime a basso costo.
Chi sostiene la lotta della Novorossija?
La Resistenza, che ha la sua base nel sud-est dell’Ucraina, sostiene e rafforza il costante impegno a favore dei popoli dell’Ucraina, liberi dal dominio liberal-fascista e dalle élite dominanti.
È solo una lotta separatista in Novorossija?
No, il territorio del combattimento è tutto il suolo ucraino. Gli insorti della Novorossiya vogliono raggiungere i loro fratelli e sorelle in tutte le regioni d’Ucraina con lo slogan: “Ribellati contro il nemico comune”. Creeremo un nuovo potere, libero, socialmente responsabile, in tutta l’Ucraina e la Novorossija.
Che cosa accadrà dopo la vittoria della rivoluzione di liberazione e il crollo del regime liberal-fascista?
Ci sarà la formazione di un nuovo Stato in cui il potere apparterrà al popolo, non a parole ma nei fatti. La popolazione di ogni regione attraverso un referendum (come la più alta forma di potere popolare) determinerà il futuro della propria regione – se rimanere all’interno di uno Stato federale oppure ricevere la piena indipendenza.
Come sarà costruito il potere politico dopo aver vinto la rivoluzione di liberazione?
Il potere politico sarà basato sul principio della rappresentanza popolare diretta – dal basso verso l’alto. Saranno formati organi di democrazia, partendo dai Consigli locali fino al Consiglio Supremo, sulla base dei principi rappresentativi dei territori, dei delegati dei gruppi di lavoro dei sindacati, dei delegati di organizzazioni politiche, religiose e sociali. La base della democrazia popolare saranno i Consigli locali. Essi delegheranno i rappresentanti nei Consigli regionali. L’organo supremo della rappresentanza popolare (il Consiglio supremo) è composto dai delegati dei Consigli regionali. Il Consiglio supremo elegge un governo che rappresenterà il popolo tutto. Noi siamo per l’elezione dei giudici e dei capi delle forze dell’ordine.
Quali saranno i diritti delle regioni dopo aver vinto la rivoluzione di liberazione nazionale?
Ogni regione avrà il diritto di avere la propria Costituzione o un altro documento fondante per garantire a coloro che vivono sul suo territorio, i diritti politici, economici, sociali, culturali e religiosi di base. Inoltre ogni regione avrà diritto, oltre alle lingue nazionali, di scegliere le lingue regionali. Ogni regione avrà il diritto di formare il proprio bilancio basato sulla tassazione delle persone fisiche o giuridiche che operano nel suo territorio.
Quali saranno le competenze delle regioni dopo la vittoria della rivoluzione di liberazione nazionale?
Ogni regione sarà tenuta a pagare una parte delle imposte per un fondo generale di salvataggio (in caso di calamità naturali o di altre catastrofi). Ogni regione sarà tenuta a versare parte delle entrate fiscali per le esigenze pubbliche – difesa, manutenzione dell’apparato statale, la costruzione di opere pubbliche, per la ricerca scientifica, il sistema sanitario, l’istruzione e lo sviluppo delle infrastrutture. Ogni regione dovrà rispettare i principi dello Stato generale dei rapporti tra lavoro e capitale, le libertà civili e politiche. Ogni regione dovrà mantenere la legge e l’ordine e proteggere i diritti e le libertà dei cittadini all’interno delle linee guida nazionali.
Questi sono i principi di base e gli obiettivi della nostra lotta. Noi crediamo che ogni cittadino onesto e patriota debba sottoscriverle e sostenerle. Contiamo sulla solidarietà e il sostegno internazionale di tutti coloro che non solo a parole, ma nei fatti sostengono gli ideali di uguaglianza, democrazia e giustizia sociale.
Insieme vinceremo!
***

Il video della Banda Bassotti

https://www.youtube.com/watch?feature=player_embedded&v=GcbsUST9lQI

giovedì 25 settembre 2014

I GAS TOSSICI DEL CAPITALISMO


 

L'anticipazione. Nel suo ultimo libro Naomi Klein va dritta al punto: il clima è la chiave per rovesciare il capitalismo. Un'ideologia estrema e fondamentalista che sta distruggendo l'umanita

di  Naomi Klein, 20 settembre 2014
Non siamo riu­sciti a dimi­nuire le emis­sioni per­ché alla fine le cose che dob­biamo fare sono in con­tra­sto con il «capi­ta­li­smo dere­go­la­men­tato», e cioè con l’ideologia che domina da quando ten­tiamo di tro­vare il modo per uscire da que­sta crisi. Non riu­sciamo a sbloc­care la situa­zione per­ché le azioni che offri­reb­bero mag­giori pos­si­bi­lità di evi­tare la cata­strofe (e che andreb­bero a bene­fi­cio di un’ampia mag­gio­ranza) rap­pre­sen­tano una grave minac­cia per una élite mino­ri­ta­ria che tiene com­ple­ta­mente sotto con­trollo la nostra eco­no­mia, i nostri pro­cessi di deci­sione poli­tica e la mag­gior parte dei mezzi di comunicazione.
Forse il pro­blema non sarebbe stato insor­mon­ta­bile se fosse emerso in un momento sto­rico diverso ma per grande sfor­tuna di tutti noi, la comu­nità scien­ti­fica è giunta a for­mu­lare la sua dia­gnosi deci­siva sulla minac­cia cli­ma­tica pro­prio nel momento in cui le élite assa­po­ra­vano un potere poli­tico, cul­tu­rale e intel­let­tuale senza para­goni se non con i primi anni Venti del ’900. Governi e scien­ziati, infatti, hanno comin­ciato a par­lare seria­mente di tagli dra­stici alle emis­sioni di gas serra nel 1988 — pro­prio l’anno in cui si pro­filò quella che si sarebbe chia­mata «glo­ba­liz­za­zione» e l’anno in cui fu fir­mato il Nafta, l’accordo sulla più grande intesa com­mer­ciale del mondo. All’inizio, tra il Canada e gli Stati Uniti, diven­tato poi, con l’inclusione del Mes­sico, l’accordo Nafta.
Quando gli sto­rici osser­ve­ranno in retro­spet­tiva i nego­ziati inter­na­zio­nali dell’ultimo quarto di secolo vedranno due pro­cessi cru­ciali spic­care sugli altri.
Il primo sarà quello del nego­ziato mon­diale sul clima, che pro­cede avan­zando a stento, senza mai rag­giun­gere i pro­pri obiettivi.
L’altro sarà il pro­cesso di glo­ba­liz­za­zione delle grandi imprese, che invece avanza spe­dito di vit­to­ria in vittoria (…).
I tre pila­stri su cui si fon­dano le poli­ti­che di que­sta nuova era li cono­sciamo bene: pri­va­tiz­za­zione della sfera pub­blica, dere­go­la­men­ta­zione di tutte le atti­vità di impresa e sgravi fiscali alle mul­ti­na­zio­nali, tutti pagati con tagli alla spesa statale.
Molto è stato scritto sui costi reali di que­ste poli­ti­che: l’instabilità dei mer­cati finan­ziari, gli eccessi dei super ric­chi, la dispe­ra­zione di poveri sem­pre più sfrut­tati, lo stato fal­li­men­tare di infra­strut­ture e ser­vizi pubblici.
Pochis­simo, invece, è stato scritto sul modo in cui il fon­da­men­ta­li­smo del mer­cato, sin dai primi momenti, ha sabo­tato in maniera siste­ma­tica la nostra rispo­sta col­let­tiva al cam­bia­mento cli­ma­tico, una minac­cia che si è pro­fi­lata pro­prio quando quella ideo­lo­gia era al suo apice.
Il pro­blema cen­trale è che l’abbraccio mor­tale eser­ci­tato in que­sto periodo dalla logica di mer­cato sulla vita pub­blica fa appa­rire le rea­zioni più ovvie e dirette alle que­stioni cli­ma­ti­che come un’eresia poli­tica. Per fare un esem­pio: come si può inve­stire mas­sic­cia­mente in ser­vizi pub­blici e infra­strut­ture a emis­sioni zero in un momento in cui la sfera pub­blica viene siste­ma­ti­ca­mente sman­tel­lata e sven­duta? I governi come pos­sono rego­la­men­tare, tas­sare e pena­liz­zare pesan­te­mente le aziende di com­bu­sti­bili fos­sili in un momento in cui qual­siasi mano­vra del genere viene liqui­data come un resi­duo di comu­ni­smo auto­ri­ta­rio? E, infine, come si può dare soste­gno e tutele al set­tore delle ener­gie rin­no­va­bili per sosti­tuire i com­bu­sti­bili fos­sili quando «pro­te­zio­ni­smo» è diven­tata una parolaccia?
Se fosse stato diverso, il movi­mento per il clima avrebbe ten­tato di sfi­dare l’ideologia estrema che sta osta­co­lando tante azioni sen­sate, avrebbe unito le forze con altri set­tori per dimo­strare che il potere delle cor­po­ra­tion, lasciato senza freni, rap­pre­senta una grave minac­cia per l’abitabilità del pianeta.
Gran parte del movi­mento per il clima, invece, ha spre­cato decenni pre­ziosi nel ten­ta­tivo di inca­strare la chiave qua­drata della crisi cli­ma­tica nella toppa rotonda del «capi­ta­li­smo dere­go­la­men­tato», alla ricerca infi­nita di solu­zioni al pro­blema che fos­sero for­nite dal mer­cato stesso.
* dall’introduzione a «This chan­ges eve­ry­thing. Capi­ta­lism vs. the cli­mate» (New York – Lon­don, 2014). Per gen­tile con­ces­sione degli edi­tori, tra­du­zione di Bar­bara Del Mer­cato, edi­ting Mat­teo Bartocci.
LA RECENSIONE DI BEPPE CACCIA da il manifesto
Sono tra­scorsi quat­tor­dici anni dalla pub­bli­ca­zione di No Logo e sette anni da quella di Shock Eco­nomy. Non c’è biso­gno di sco­mo­dare la qab­ba­láh per pre­ve­dere che anche il nuovo libro di Naomi Klein, This chan­ges eve­ry­thing. Capi­ta­lism vs. the cli­mate (uscito il 16 set­tem­bre scorso per Simon &Schu­ster negli Stati Uniti e per Allen Lane in Gran Bre­ta­gna), lascerà il segno.
Testo ricco di potenti esem­pli­fi­ca­zioni, tra vicende in larga misura sco­no­sciute al grande pub­blico e con­nes­sioni illu­mi­nate da un lavoro d’inchiesta in pro­fon­dità, durato oltre cin­que anni con la deci­siva col­la­bo­ra­zione di ricer­ca­tori quali Rajiv Sicora e Ale­xan­dra Tem­pus, ci pro­ietta nel cuore di quella che non può essere con­si­de­rata una «que­stione» tra le altre, nep­pure se fosse la più impor­tante, ma il «frame», la cor­nice, in cui inse­rirle tutte.
IL «FRAME» FONDAMENTALE
Il punto di par­tenza è in sé evi­dente, anche se fac­ciamo di tutto per negarne la realtà e girarci dall’altra parte. «I dati non men­tono: le emis­sioni con­ti­nuano a cre­scere, ogni anno rila­sciamo in atmo­sfera una quan­tità mag­giore di gas serra dell’anno pre­ce­dente, … creando un mondo che sarà più caldo, più freddo, più umido, più asse­tato, più affa­mato, più arrab­biato». Klein indica, con ric­chezza di riscon­tri scien­ti­fici a comin­ciare dagli studi più com­pleti di Kevin Ander­son, l’orizzonte della cata­strofe pros­sima ven­tura, senza mai indul­gere nel «cata­stro­fi­smo» di certe pro­spet­tive mil­le­na­ri­sti­che, che hanno il solo effetto di pro­durre impo­tenza sociale. In que­sto senso il libro sca­valca i con­fini della bril­lante inchie­sta gior­na­li­stica e si pre­senta da subito come un testo emi­nen­te­mente politico.
All’origine della «cata­strofe» stanno i carat­teri salienti del capi­ta­li­smo con­tem­po­ra­neo, rias­su­mi­bili nel per­si­stente pre­do­mi­nio del ciclo pro­dut­tivo legato all’impiego dei com­bu­sti­bili fos­sili, altro che «green eco­nomy», peral­tro e giu­sta­mente quasi mai citata. Sotto que­sto pro­filo, argo­menta la gior­na­li­sta e atti­vi­sta cana­dese rac­con­tando l’annuale con­fe­renza dell’Heartland Insti­tute, think thank di ultrà neo­li­be­ri­sti e nega­zio­ni­sti, la «destra ha ragione» quando afferma che ogni seria poli­tica per con­tra­stare il sur­ri­scal­da­mento glo­bale costi­tui­rebbe un «attacco alla libera eco­no­mia di mer­cato, una minac­cia per il capi­ta­li­smo, cavallo di Troia infar­cito di prin­cipi socio-economici marxisti».
Da qui si dipana lo strin­gente lavo­rio cri­tico di Klein, mirato a destrut­tu­rare, con effi­ca­cia, le cor­renti costru­zioni ideo­lo­gi­che in mate­ria, da lei ribat­tez­zate «magi­cal thin­king», pen­siero magico. Sotto i suoi colpi cade certo la geo-ingegneria, cioè la pre­tesa di risol­vere, ricor­rendo a inno­va­zioni tec­no­lo­gi­che ancora più impat­tanti, gli enormi pro­blemi posti dal «glo­bal warming».
E nella figura di Richard Bran­son, pro­prie­ta­rio della Vir­gin Air­li­nes, ven­gono disve­lati i veri obiet­tivi di quei «mul­ti­mi­liar­dari che cer­cano di ricon­ci­liare il clima e il capi­ta­li­smo» sosti­tuendo il bene­vo­lente inter­vento pri­vato, spesso sol­tanto pro­messo, come nell’inchiesta si rivela con la spa­ri­zione di 3 miliardi di dol­lari, a qual­siasi inter­vento di rego­la­zione pub­blica trans­na­zio­nale. Ma, in pagine desti­nate a susci­tare sane pole­mi­che, Klein mette anche nel mirino le «Big Green», cioè le grandi asso­cia­zioni ambien­ta­li­ste, pro­ta­go­ni­ste negli ultimi vent’anni di un infrut­tuoso approc­cio, «mode­rato e ragio­ne­vole», alla nego­zia­zione sulle emis­sioni con governi e imprese mul­ti­na­zio­nali. Le loro moda­lità lob­bi­sti­che non solo sono risul­tate per­denti, ma – come nel caso di «Nature Con­ser­vacy» – nascon­dono anche diretti inte­ressi eco­no­mici, non pro­pria­mente puliti. Il più grande fondo ambien­tale degli Stati Uniti avrebbe infatti spe­cu­lato sull’estrazione di petro­lio e gas in un’area natu­rale del Texas loro affi­data con fina­lità conservative.
L’ORA DEL «PEOPLE’S SHOCK»
Di fronte alla minac­cia incom­bente, Naomi Klein pro­pone il rove­scia­mento del para­digma della «shock eco­nomy», cioè la feroce appli­ca­zione delle poli­ti­che neo­li­be­ri­ste a par­tire da eventi social­mente trau­ma­tici, cata­strofi natu­rali o addi­rit­tura pro­vo­cate, in quello che invoca come «People’s shock», la lotta ai cam­bia­menti cli­ma­tici come «forza cata­liz­zante per una radi­cale e posi­tiva tra­sfor­ma­zione, per riven­di­care le nostre demo­cra­zie dalla cor­rut­tiva influenza delle cor­po­ra­tion, per bloc­care accordi com­mer­ciali che impo­ve­ri­scono, per inve­stire in infra­strut­ture pub­bli­che quali case e tra­sporti, per ripren­dersi la pro­prietà col­let­tiva di ser­vizi essen­ziali quali acqua ed ener­gia, per risa­nare un’agricoltura malata, per aprire i con­fini a migranti il cui tra­sfe­ri­mento è legato agli effetti cli­ma­tici, …, tutte che cose che aiu­te­reb­bero a porre fine a livelli grot­te­schi di ine­gua­glianza». Da que­sto punto di vista, supe­rando ogni approc­cio eco­no­mi­ci­sta, Klein sot­to­li­nea come «ciò che viene dichia­rato essere una crisi è invece una serie di fatti reali così come l’espressione di poteri e priorità».
LO «SPI­RITO DI BLOCKADIA»
Ecco allora che la terza parte del volume rico­strui­sce, con un’ampiezza finora ine­dita, il pano­rama dei movi­menti sociali che in tutto il Pia­neta si bat­tono, affron­tando spe­ci­fici pro­getti «estrat­ti­vi­sti», con­tro i cam­bia­menti cli­ma­tici come essen­ziale con­se­guenza del modello capi­ta­li­stico impe­rante. La giornalista-attivista, con un’espressione mutuata dall’esperienza di lotta con­tro lo sfrut­ta­mento mine­ra­rio di Hal­ki­diki in Gre­cia, chiama tutto que­sto lo «spi­rito di Blockadia».
E descrive un vero e pro­prio ciclo glo­bale di con­flitti, para­go­na­bile per dif­fu­sione, capil­la­rità e radi­ca­mento a quello delle piazze di Occupy. Un ciclo che va dal New Brun­swick cana­dese dove i mem­bri delle comu­nità della First Nation sono riu­sciti a bloc­care i test sismici fina­liz­zati a un vasto e deva­stante pro­getto di frac­king, cioè di frat­tu­ra­zione idrau­lica del sot­to­suolo per l’estrazione di gas natu­rale, alla Mon­go­lia Interna cinese dove la ribel­lione di intere popo­la­zioni ha fer­mato i piani gover­na­tivi per l’apertura di enormi miniere a cielo aperto desti­nate allo sfrut­ta­mento dei gia­ci­menti car­bo­ni­feri locali.
Fino al movi­mento, che ha tra­ver­sato l’intero con­ti­nente nord-americano e di cui la stessa Klein è attiva pro­ta­go­ni­sta, con­tro la rea­liz­za­zione dell’oleodotto Key­stone XL: qui si è trat­tato di una sug­ge­stiva dina­mica ricom­po­si­tiva, attra­verso la quale, con pra­ti­che comuni di radi­cale disob­be­dienza civile, si è costruita una vera e pro­pria «pipe-line» che ha con­nesso lotte e sog­getti dif­fe­renti tra loro sulla dor­sale, tra le sab­bie bitu­mi­nose dell’Alberta e i ter­mi­nal per l’esportazione lungo le coste del Texas, inte­res­sata da progetto.
Ma ciò vale anche per la rico­stru­zione di una sfera pub­blica, coo­pe­rante ed egua­li­ta­ria, deter­mi­na­tasi nei mesi suc­ces­sivi al super-uragano Sandy nella metro­poli new­yor­chese o per la «ri-municipalizzazione» della pro­du­zione ener­ge­tica otte­nuta con il refe­ren­dum di Amburgo. Ovun­que – e il caso tede­sco tra poli­ti­che eco­no­mi­che ordo-liberali e la Ener­giewende verso le fonti rin­no­va­bili è par­ti­co­lar­mente signi­fi­ca­tivo nella sua con­trad­dit­to­rietà – la «dura realtà del mondo in via di sur­ri­scal­da­mento si scon­tra con la logica bru­tale dell’austerity».
Per tanti altri aspetti, a par­tire dalle pagine dense di forti impli­ca­zioni per­so­nali dedi­cate al tema della «fab­brica della fer­ti­lità», rin­viamo alla discus­sione, quando uscirà, della ver­sione ita­liana del libro.
Que­sta prima let­tura lascia del resto diversi nodi aperti: quello rela­tivo al pro­filo dei sog­getti sociali impli­cati nel pro­cesso di cam­bia­mento radi­cale invo­cato come neces­sa­rio dalla Klein – per la quale è fon­da­men­tale, ma suf­fi­ciente?, il rin­vio al pro­ta­go­ni­smo delle popo­la­zioni indi­gene native e alla loro alleanza con i movi­menti sociali metro­po­li­tani -, così come quello delle forme stesse della tra­sfor­ma­zione, e ai dispo­si­tivi isti­tu­zio­nali da atti­vare – non può qui sfug­gire la con­trad­di­zione tra il rico­no­sci­mento dell’effettualità delle pra­ti­che comuni di alter­na­tive locali e il fre­quente richiamo a indi­spen­sa­bili macro-politiche di pro­gram­ma­zione («planning»).
Ma sarebbe inge­ne­roso pre­ten­dere che Naomi Klein scio­gliesse anche que­sti nodi.
Intanto, non si può che esserle grati per aver rimesso con i piedi per terra il tema del «glo­bal war­ming», per aver ricol­lo­cato la crisi eco­lo­gica nel con­te­sto della crisi glo­bale, per averci inco­rag­giato a «muo­verci in ter­ri­tori poli­tici non ancora car­to­gra­fati» con l’urgenza ad essa dovuta.
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sabato 20 settembre 2014

di Guglielmo Ragozzino

Articolo 18, un valore per tutti

19/09/2014
La giustizia sociale così espressa – lo abbiamo detto e ripetuto – era fatta propria da tutti i lavoratori dipendenti, del settore pubblico e di quello privato, dai lavoratori autonomi e dai senza lavoro. I dipendenti pubblici come gli insegnanti, compresi le giovani maestre precarie, oppure scrittori e avvocati parteciparono alla grande manifestazione del Circo Massimo il 23 marzo 2002, fatta dalla Cgil di Sergio Cofferati, senza badare al fatto che l'articolo in questione non li riguardava. Era una cosa giusta, per tutti, era indivisibile come la giustizia. Era un valore per tutti; si doveva impedire che fosse cancellato o stravolto.
È ben noto che gli avversari dell'articolo 18, più o meno nello stesso periodo, si erano avvolti nel mantello della libertà. «La fabbrica è mia e quel certo sindacalista non lo sopporto proprio. Fa perfino del sabotaggio». Non erano solo Marchionne e i suoi precursori a pensarla così. Non pochi pensavano che la libertà di licenziare fosse una delle libertà democratiche prescritte da un qualche emendamento della Costituzione del Capitale. Il Capitale era tirato per i capelli in questa discussione. Si argomentava che nessuno avrebbe rischiato investimenti in Italia alla presenza di questo abominio oltretutto protetto da un'alleanza incestuosa tra giudici e operai. Si fecero perfino dei partiti politici nuovi – o rivoltati come una vecchia giacca – per sostenere politicamente questi valori. I testi che pubblichiamo in questo speciale mettono però in luce lo scarto tra pensiero economico e ideologia padronale. Per mostrare buona volontà l'estrema sinistra di cui essi si servono è John Maynard Keynes, lasciando da parte altri autori più risoluti che forse avrebbero causato qualche tempesta ideologica.
Altre leggi hanno modificato la legge 300 che a sua volta (in particolare l'articolo 18) era il completamento della legge 604 del 16 luglio 1966. I lavoratori dipendenti con contratto a tempo indeterminato si sono nel frattempo ridotti di numero e in una vera trattativa sindacale sarebbe stato possibile trovare un compromesso accettabile tra eguaglianza e libertà, tenendo conto del valore simbolico e del rapporto di forze. Forse si sarebbe potuta seguire una via difficile e operosa: prima discutere di tutto il resto e poi della eventuale riscrittura di questo o di quell'articolo di legge. Ecco però che viene di nuovo fatto saltare tutto. Una parte della Confindustria, spalleggiata da personaggi della politica e dell'accademia, con nomi che è inutile o dannoso ripetere, vuole stravincere, vuole l'umiliazione di chi la pensa diversamente, di chi crede davvero che gli uomini siano uguali tra loro. Matteo Renzi, pover'uomo, mancando di un'idea personale, si accoda. Ripete quello che gli hanno detto. Attacca i sostenitori dell'art.18 come fautori dell'apartheid tra lavoratori di serie A e di serie B. Si fa rispondere da Stefano Fassina che, senza difese sindacali e politiche, finiranno tutti in serie C.
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di Paolo Pini

Il lavoro non è un mercato

19/09/2014
Negli anni della crisi, la politica di svalutazione caricata sul lavoro non ha fatto altro che aggravare gli effetti negativi dell’austerità sulla domanda interna. Eppure la Commissione Europea, anche nelle ultime Raccomandazioni (giugno 2014*), continua a prescrivere continuità nelle politiche di flessibilità del mercato del lavoro, contrattuali e retributive. Il risultato elettorale europeo non appare aver modificato l’equilibrio politico nel Parlamento Europeo, e la politica economica rimane saldamente sotto il controllo di chi ha gestito la crisi e l’ha aggravata applicando le regole del rigore senza crescita.
Le politiche di austerità espansiva e di precarietà espansiva hanno improntato la politica economica europea attuata quasi in contemporanea nei vari paesi.
Le prime, del rigore dei conti, hanno agito sulla base della fallace idea secondo la quale dal contenimento dei deficit pubblici conseguissero riduzioni dei debiti e si liberassero risorse che il privato sarebbe andato ad utilizzare più efficacemente. Ma non si è tenuto conto del “vuoto di domanda” che l’arretramento del pubblico creava, oltre che della maggiore efficacia spesso solo presunta del privato. La minore domanda pubblica non è stata compensata da una maggiore domanda privata, anzi consumi privati ed investimenti privati sono diminuiti mettendo in crisi tutta la domanda interna, europea e nei singoli paesi, lasciando tutto l’onere della crescita ad una domanda estera peraltro non più trainante. L’esito è stato che proprio a seguito del rigore, i debiti invece di diminuire sono aumentati, nell’Eurozona da un rapporto del 65% sul Pil si è superata la soglia del 95%, ed al contempo la crescita del reddito si è azzerata, mentre quella dell’occupazione è divenuta negativa.
Le seconde, della competitività salariale, hanno avuto il loro pilastro nella flessibilità del lavoro, contrattuale e retributiva. Anche in questo caso una idea fallace le ha alimentate, ovvero che l’aumento dell’occupazione potesse essere conseguito unicamente a condizione che si realizzasse un trasferimento di tutele del lavoro e diritti da chi li aveva a chi ne era privo. Gli esiti sono stati molteplici, e prevedibili, sulla offerta e sulla domanda. Si è ridotta la platea del lavoro tutelato, ed è aumentata quella del lavoro non tutelato, con una riduzione di tutele per tutti. Si è infatti realizzata una sostituzione di lavoro più che una creazione di lavoro, con conseguente riduzione di tutele e diritti sia per chi li aveva conquistati nel passato, sia per chi si attendeva una alleggerimento dello stato di precarietà lavorativa e sociale.
Ma non solo tutele e diritti sono stati intaccati; le stesse retribuzioni ne hanno sofferto, sia quelle degli insiders che quelle degli outsiders. Le retribuzioni nominali sono state compresse, e le retribuzioni reali diminuite. Queste non hanno certo tenuto il passo della pur debole crescita della produttività, determinando una ulteriore diminuzione della quota del lavoro sul reddito.
Dal 2000 in molti paesi europei la quota distributiva del lavoro è diminuita sostanzialmente, ed ancor più accentuato è stato il declino durante la crisi; in particolare sono stati penalizzati i paesi europei sottoposti alle prescrizioni di svalutazione competitiva interna sui salari, tra questi Grecia, Spagna, Irlanda, Portogallo (vedi grafico 1 e 2). Tra i Piigs solo l’Italia ha contenuto il crollo della quota del lavoro, che era stata in lieve recupero negli anni pre-crisi, rispetto ai disastrosi esiti degli anni ’90 (-10 punti percentuali) (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/italie/Ue-le-raccomandazioni-e-l-evidenza-dei-fatti-18647).
La politica di svalutazione interna caricata sul lavoro ha forse contribuito alla competitività del sistema ed alla crescita? Non sembra proprio, semmai tale politica ha prodotto due effetti, entrambi perniciosi. Da un lato, un contenimento della domanda di beni e servizi che trae origine dal reddito da lavoro, andando ad aggravare gli effetti negativi delle politiche di austerità sulla domanda interna. Dall’altro, la competitività del sistema non ha tratto vantaggio, se è vero che sia per effetti di scala (minori volumi di produzione) che per quelli di sostituzione (lavoro meno retribuito e meno produttivo), la dinamica della produttività langue in tutta Europa, e prosegue la sua ventennale stagnazione in Italia in presenza di contenimento dei salari nominali.
D’altra parte, che queste non fossero le politiche più adatte da adottare nella crisi, ovvero in un equilibrio di disoccupazione, lo aveva ben indicato Keynes nel capitolo 19 dedicato ai Cambiamenti dei salari nominali della sua Teoria generale (1936). E con forza lo scrisse a Roosevelt nel 1938: “Perdoni la franchezza di queste mie note. Provengono da un entusiastico sostenitore suo e delle sue politiche. Condivido l’idea che l’investimento in beni durevoli debba essere realizzato sempre più sotto la guida dello stato. […] Considero essenziale lo sviluppo della contrattazione collettiva. Approvo il salario minimo e la regolamentazione dell’orario di lavoro. Ero totalmente d’accordo con lei l’altro giorno, quando ha deprecato una politica di generale riduzione del salario, giudicandola inutile nelle attuali condizioni. Ma ho il grandissimo timore che in tutti i paesi democratici le cause progressiste possano risultare indebolite, in quanto non vorrei che lei abbia preso troppo alla leggera la possibilità di mettere a rischio il loro prestigio qualora si fallisse in termini di prosperità immediata. Non deve avvenire alcun fallimento. Ma il mantenimento della prosperità nel mondo moderno è estremamente difficile; ed è così facile perdere tempo prezioso.” (tratto da John Maynard Keynes, “Letter of February 1 to Franklin Delano Roosevelt,” 1 febbraio 1938, in Collected Works, vol.XXI, Activities 1931-1939, Londra, Macmillan, nostra traduzione, enfasi aggiunta).
Tuttavia la Commissione non è interessata a ciò che scriveva Keynes, e neppure a ciò che sostiene una platea, a dire il vero molto vasta, di economisti. Le Raccomandazioni (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Le-raccomandazioni-perverse-21659) continuano a prescrivere per l’Italia, come per gli altri paesi, niente altro che la continuità delle politiche di flessibilità del mercato del lavoro, contrattuali e retributive, per accrescere la competitività salariale. La crescita è affidata al contributo della componente estera della domanda, anche se questa pesa meno del 20% per i paesi dell’Unione, mentre il rimanente 80% è domanda interna, consumi delle famiglie, investimenti privati e pubblici, servizi collettivi. Per accrescere la prima raccomandano di proseguire nelle politiche coordinate e simmetriche che comprimono la seconda, con effetti depressivi su reddito e occupazione, ed un innalzamento del rapporto debito/Pil per tutti i paesi.
La competitività salariale è intesa come strumento cardine per conseguire questo obiettivo, via riduzioni del costo unitario del lavoro, per accrescere la competitività europea nei mercati globali. Per la Commissione ciò si realizza con interventi che limitano la contrattazione collettiva, nazionale e di settore, per la determinazione dei salari nominali, da allinearsi invece alla produttività dell’impresa, meglio ancora dei singoli lavoratori. Al contempo i salari reali non devono essere preservati da meccanismi di indicizzazione e salvaguardia del potere d’acquisto. Devono rispondere alle condizioni concorrenziali, dove ingressi ed uscite hanno da essere deregolati per servire le esigenze produttive dell’impresa, senza interferenze delle istituzioni che vincolano l’agire manageriale e creano anche barriere tra i lavoratori protetti e garantiti, gli insider, e coloro che non lo sono, gli outsider. In fondo la precarietà o la disoccupazione non sono altro che l’altra faccia della medaglia dell’operare di istituzioni collettive: ridimensioniate queste, saranno ridimensionate sia precarietà che disoccupazione. Una narrazione questa che viene resa più appealing dalle tecniche economiche sulla disoccupazione strutturale che portano quella italiana all’11% lasciando un misero 2% per quella involontaria keynesiana. Così da far risultare evidente ciò che evidente non è, ovvero che non sia la domanda il problema, semmai le condizioni di offerta, e quindi la necessità delle riforme strutturali. Una narrazione che, se non fosse per le technicalities impiegate, ricorda molto l’ancien régime.

Grafico 1 – Cambiamenti della quota del lavoro sul reddito, anni 2000-2007, media annuale per paesi Ocse (fonte: nostre elaborazioni su Oecd statistics, Economic Outlook, maggio 2014)


Grafico 2 – Cambiamenti della quota del lavoro sul reddito, anni 2008-2015, media annuale per paesi Ocse (fonte: nostre elaborazioni su Oecd statistics, Economic Outlook, maggio 2014, per 2014 e 2015 previsioni Oecd)
(*) http://ec.europa.eu/europe2020/making-it-happen/country-specific-recommendations/index_it.htm
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domenica 14 settembre 2014

Il Califfato, l’Ucraina e la crisi di panico dell’Occidente.

 

 
Siamo sull’orlo di una crisi di nervi? Pare proprio di si: il neo presidente del Consiglio Europeo Donald Tusk evoca la “grande guerra con la Russia”, invitando implicitamente l’Europa a prepararsi a menare le mani, David Cameron gli va dietro, Hollande assume pose da dittatore romano davanti al Rubicone, il premio Nobel per la Pace Obama va a corrente alternata: un giorno minaccia apocalissi ed il giorno dopo si ritira. E sui giornali si leggono cose impensabili sino a qualche settimana fa. Ezio Mauro legge le crisi contemporanee di Ucraina ed Iraq come un attacco congiunto all’Occidente ed ai suoi valori di libertà, di stato di diritto, al suo stile di vita, anzi, (diciamolo!) alla sua civiltà. Anni cinquanta: il Mondo Libero contro l’Urss. Bello l’accenno al carattere ontologicamente imperialista della Russia che “ha preceduto, accompagnato ed è sopravvissuto al comunismo”: sembra di leggere il “lungo telegramma” di George Kennan.
Nessun dubbio sulle guerre del Golfo e sui 400.000 morti costati agli iraqueni, o sulla gestione demenziale dell’occupazione dell’Iraq, sulle bestialità fatte dall’intelligence americana, sugli effetti politici di quello che fa Israele ai palestinesi: tutti spiacevoli equivoci. E nessun dubbio neppure sul fatto che anche i russi possano avere le loro ragioni. Putin è un dittatore? Si, ma perché a Kiev sono allievi di John Locke e Tocqueville? Oppure a Wall street c’è il club Voltaire? La strage di Odessa? Perché c’è stata una strage ad Odessa? “Quando? Nel 1942?
L’apoteosi arriva con Giuliano Ferrara che invoca la “guerra di religione” con l’Islam: “L’unica risposta è in una violenza incomparabilmente superiore”. Sic! Il che suona semplicemente come un invito ad usare armi nucleari (beninteso: tattiche, piccole, mica roba pesante!). Poi è travolta ogni distinzione fra jhiadismo, fondamentalismo ed islam in quanto tale: tutto un mucchio.
Che sta succedendo? E’ l’effetto delle macchie solari? Oltre che quello di ebola c’è in giro il virus della demenza? Niente di tutto questo: per la prima volta si sta manifestando una crisi di panico delle classi dirigenti occidentali, di fronte all’evoluzione imprevista della globalizzazione, che si era immaginata come la marcia trionfale dei valori dell’Occidente nel Mondo e si sta trasformando in un incubo. “Perché ci sparano addosso quei popoli che dovrebbero ringraziarci, visto che gli portiamo la libertà, il benessere, la democrazia, la cultura? E’ chiaro: è colpa dei Putin, degli Osama, dei despoti che hanno paura della nostra libertà ed aizzano i loro popoli per mantenersi al potere”.
L’Occidente (cioè gli Usa con il solito codazzo di lacchè europei, australiani e giapponesi) ama consolarsi della sua sconfitta politica raccontandosi la favoletta della congiura dei tiranni contro di sé. Si sente assediato da una Cina che cresce (e si arma) troppo in fretta, da una Russia che è l’orso imperialista di sempre, all’Islam che è la solita armata di pidocchiosi sanguinari, dai sudamericani che sono ingrati, incapaci e non vogliono pagare i loro debiti ed anche da quei sornioni degli Indiani che non si sa mai da che parte stiano.
Il Mondo odia l’Occidente: e non vi dà nessun sospetto? Il fatto è che l’Occidente ha innescato la sua decadenza con le delocalizzazioni, per non pagare tre centesimi in più i suoi operai, con la totale deregolamentazione finanziaria, che ha sottratto i capitali al fisco producendo la voragine dei debiti pubblici, con il ritorno di spaventose diseguaglianze sociali interne, che compromettono la stessa efficienza del sistema, con una selezione demenziale delle classi dirigenti, sempre meno capaci di gestire l’enorme potere affidatogli, con la corruzione, che fa crollare la legittimazione del sistema. Ora raccoglie i risultati di questa semina disastrosa, si accorge che la sua egemonia traballa sempre più e, invece di avviare un serio esame dei propri errori, mette mano alla fondina della pistola.
Questo non vuol dire che gli altri non abbiano i loro torti, che l’Isis faccia bene a decapitare i suoi prigionieri e Putin a cercare di risolvere la crisi Ucraina a schiaffoni o i cinesi a tenere forzatamente basso lo yuan renminbi; ma le responsabilità preminenti sono certamente degli Usa e dei loro scagnozzi, che rifiutano ostinatamente di prendere in considerazione l’ipotesi di un diverso ordine mondiale. Non sono tanto utopista da pensare ad un ordine mondiale idillico e senza egemonie, né tanto ingenuo da pensare ad un potere che si spoglia da sé. Ma il momento storico che stiamo attraversando richiederebbe maggiore saggezza: l’egemonia costa, ha dei costi. L’“Occidente” se li può ancora permettere?
La situazione mondiale dei debiti sovrani è tale che i debiti degli stati occidentali (Usa in testa, poi Giappone, Italia, Inghilterra, Francia, ed anche la virtuosissima Germania) hanno superato la soglia del 90% del Pil e, pertanto non sono più restituibili, tanto più a ritmi di crescita che, quando va di lusso, arrancano fra il 2 ed il 3% ed in diversi casi hanno il segno meno davanti. Dunque, diciamocelo una buona volta, i nostri stati sono quasi tutti tecnicamente falliti, perché il momento in cui non si riuscirà a pagare gli interessi non è lontano, se è vero, come è vero, che gli interessi sul debito ormai eguagliano ed in diversi casi superano l’incremento del Pil.
In una situazione del genere, non sarebbe il caso di discutere una ristrutturazione mondiale del debito, compensandone una parte con i reciproci crediti ed un’altra con lo scambio fra moratoria e quote di potere mondiale? Può l’Occidente, nelle condizioni attuali, pretendere il monopolio delle posizioni apicali nel Fmi, nella Bm, nel Wto?
Un ordine mondiale, sia monetario che politico, fondato sull’egemonia di un gruppo di 7-8 grandi potenze (Usa, Giappone, Cina, Brasile, India, Russia, Sud Africa e, se riesce ad esistere, Ue), sarebbe sicuramente più equilibrato e, attraverso un efficiente sistema di regolazione dei conflitti internazionali, consentirebbe una riduzione bilanciata della spesa militare. Sarebbe il declino dell’egemonia occidentale, ma non per il passaggio ad un’altra egemonia monopolare, bensì ad una egemonia bilanciata e condivisa.
Tutto questo non è ritenuto degno di considerazione da parte delle nostre classi dirigenti che, piuttosto che cedere il loro vacillante monopolio di potere, pensano di passare alle armi. Non è il “mondo dei tiranni” ad avere paura delle libertà occidentali. E’ l’Occidente ad avere paura della propria decadenza, che legge nello specchio della crisi.
Aldo Giannuli

mercoledì 3 settembre 2014


Quali alternative al neoliberismo?

Fonte: Sbilanciamoci.info | Autore: Massimiliano Lepratti                        
Nonostante la gravissima crisi in corso il campo delle teorie critiche non riesce a offrire un orientamento che metta in crisi l'egemonia culturale del neoliberismo

Nonostante la gravissima crisi attraversata dall'Europa e la fallacia delle ricette neoliberiste finora sperimentate in risposta, il campo delle teorie critiche si mostra incapace di offrire un solido orientamento di politica economica che metta in crisi l'egemonia culturale del neoliberismo e funga da guida per progettare una società egualitaria, inclusiva e sostenibile. Di conseguenza laddove un'ideologia culturalmente egemone non venga contrastata sul suo stesso terreno di teoria capace di dettare le agende, anche i tentativi di politiche alternative tendono a divenire timidi, inclini a mediare al ribasso e a piegarsi ai principi dominanti: l'Italia di Prodi/Padoa Schioppa o (peggio) di Renzi/Padoan ne sono solo alcuni esempi. Eppure i materiali culturali per sostenere la costruzione di un pensiero diverso a sinistra non mancherebbero: i grandi classici (da Smith a Ricardo a Marx) e i classici della dinamica dello sviluppo (ancora Marx, oltre a Keynes, e Schumpeter) continuano ad essere forieri di eccellenti spunti di analisi il cui livello scientifico e la cui capacità di lettura realistica del mondo sono senza dubbio superiori rispetto a quelli che per semplicità qui chiamiamo neoliberisti.

Detto questo, i motivi per cui ci troviamo in questa situazione di subalternità sono molteplici, ma due appaiono più significativi di altri:

il pensiero mainstream è in grado senza dubbio di dispiegare una quantità di mezzi culturali tali da spingere verso la minorità le idee alternative: mezzi giornalistici, comunicativi, istruzione – si pensi ai manuali economici studiati nelle università, l'assenza dell'economia politica nelle scuole superiori... - l'insieme di questo fuoco di fila riduce progressivamente da almeno 40 anni lo spazio per pensieri diversi. Keynes aveva spesso torto quando pensava che la forza delle idee fosse più forte degli interessi costituiti e gli esperimenti di psicologia sociale di Solomon Asch dimostrano invece quanto le persone tendano ad adeguarsi ai comportamenti delle maggioranze (anche quando li percepiscono come errati);

la dispersione delle teorie alternative in una grande pluralità di rivoli, molti dei quali portatori di analisi interessanti e affilate, ma poco coordinati e divisi nelle proposte. La litigiosità ideologica è tipica di chi si ponga un compito enorme come il cambiamento dell'ordine dominante (mentre chi difende i propri puri interessi materiali tende a dividersi meno sul piano delle idee), ma oggi, dato lo squilibrio di forze, si pone la necessità nella sinistra critica di un passaggio di paradigma dal mondo dell'aut/aut (per cui tutto ciò che non aderisce strettamente al mio pensiero mi è totalmente estraneo), al mondo dell'et/et in cui la valorizzazione dialogica degli elementi di somiglianza e di complementarità fra punti di vista diventi la base per un processo di costruzione cooperativa del sapere, delle teorie, delle proposte.
Partendo da quest'ultimo punto ci pare di poter rintracciare fin da oggi un primo elenco di principi e di temi capaci di attrarre e rendere complementari (o dialoganti) posizioni finora molto differenziate. Ben sapendo che il primo che mette su carta un elenco di questo tipo inevitabilmente si attrae un sacco di osservazioni e di critiche, ci prendiamo il rischio e proviamo a procedere.
Sulla metodologia di analisi
A livello di principi generali con cui leggere la realtà ci pare che almeno due possano essere considerati centrali per opporsi positivamente alla lettura neoliberista:

1) il contrasto alle metodologie basate sull'individualismo economico il cui portato più recente si trova in frasi del tipo “lo Stato deve comportarsi come un buon padre di famiglia”, utilizzate abbondantemente per suggerire ricette di austerity. La differenza irriducibile tra analisi micro (riferite a singole imprese, singoli individui, singole famiglie) e analisi macro (riferite ad enti ben più complessi e interrelati quali lo Stato) è un presupposto indispensabile per qualunque teoria sociale critica;

2) La centralità del lavoro. Il lavoro è l'attività attraverso la quale gli esseri umani modificano l'ambiente per rispondere ai propri bisogni individuali e sociali (trasformando pezzi di legno grezzi in tavoli e sedie, trasformando metalli in parti di computer etc.). Poiché quasi nessun essere umano è in grado di prodursi autonomamente tutto quanto soddisfa i suoi bisogni, le persone entrano in relazione acquisendo (spesso in cambio di denaro) pezzi di lavoro altrui. Nel capitalismo questo processo ha subito un enorme potenziamento e le produzioni lavorative industriali scambiate via denaro sono diventate la base grandemente predominante della creazione di valore economico, agganciando intorno ad esse servizi sempre più sofisticati. Tutto questo per dire che il tema del lavoro non è riducibile alla sua componente sindacale in senso stretto, ma in quanto processo cooperativo di trasformazione della natura per soddisfare bisogni umani il lavoro resta pur sempre il nodo centrale di ogni progetto progressista di cambiamento socio economico.

Sui problemi della domanda e dell'offerta
Spesso gli economisti utilizzano un linguaggio apodittico e i due termini di cui si discuterà non hanno significato univoco; in questo scritto quando ci si riferisce al problema della domanda si intende la necessità di avere una domanda aggregata (ossia composta dalla somma della domanda di famiglie, imprese, Stato, acquirenti esteri) sufficiente a stimolare la produzione. Gli ambiti entro i quali è possibile dare una risposta progressista al problema della domanda potrebbero essere principalmente due:
la lotta alla diseguaglianza, non solo in quanto fattore di iniquità sociale, ma anche come produttrice di distorsioni rispetto all'efficienza economica (la diseguaglianza riduce la domanda aggregata, sfavorendo la propensione marginale al consumo). Qui i terreni di azione concreti possono essere molti: un diverso sistema fiscale, una diversa politica del mercato del lavoro etc.
la ridistribuzione sociale degli aumenti di produttività: anche laddove la produzione venisse acquistata da una domanda aggregata sufficiente il continuo aumento di produttività (frutto del progresso tecnologico) tenderebbe spontaneamente a mettere in moto effetti sociali negativi traducendosi in licenziamenti, o in puro aumento di profitti. É quindi fondamentale prospettare politiche redistributive dei guadagni di produttività, indirizzate sia verso l'aumento di reddito delle classi popolari e medie, sia verso l'aumento dei servizi sociali e culturali disponibili, sia infine verso una suddivisione equa del lavoro rimasto, attraverso politiche di riduzione di orario.

Per problema dell'offerta si intende invece principalmente il dibattito sul cosa e come produrre ed offrire (a livello di sistema industriale, agricolo etc.). Anche qui i temi da porre al dibattito possono essere almeno un paio, entrambi di grosso peso strategico:
La necessità di un indirizzo pubblico di politica economica che orienti il sistema nazionale verso una produzione industriale innovativa, capace di anticipare i bisogni/consumi futuri di imprese e famiglie.

Il contemporaneo contrasto a rendite e speculazioni. Occorre porre severi vincoli legislativi a livello europeo alle speculazioni finanziarie (che sono un effetto e una causa della crisi della produzione industriale), ed occorre scoraggiare ogni forma di monopoli/oligopoli di rendita – cosa ben diversa dai monopoli naturali.
Come forse si noterà i problemi della domanda e dell'offerta hanno spesso profili complementari (una produzione industriale innovativa tende ad offrire posti di lavoro meglio remunerati, un contrasto alla speculazione finanziaria per mezzo di tasse dissuasive tende a produrre un'entrata che può essere destinata a servizi sociali, etc.) per cui mal si giustifica l'incomunicabilità tra gli studiosi dei due campi.

Oltre il progressismo
Le proposte indicate non hanno nulla di rivoluzionario e si limitano a porre alcuni indirizzi compatibili con le migliori tradizioni del liberalismo progressista, crediamo pertanto che nessuno nel campo della sinistra critica sia contrario a priori ai suggerimenti citati, al limite il terreno di discussione/divisione si può collocare sugli ordini di priorità e sul livello di profondità degli interventi.
Il campo si fa più accidentato e conflittuale quando invece si muovono passi ulteriori verso un'economia che si distacchi più nettamente dal capitalismo. La discussione è comunque estremamente interessante e niente affatto incompatibile con le proposte citate in precedenza. Anche qui i temi da suggerire potrebbero essere molti, ma per semplicità ci limiteremo a due argomenti di discussione:
Cosa è socialmente utile produrre? La domanda è importantissima soprattutto laddove si ricordi la centralità del lavoro non solo come fonte del valore economico, ma anche come strumento necessario e insostituibile per rispondere ai bisogni collettivi. Con queste premesse il tema dell'innovazione industriale diviene più complesso: per quanto una capacità sistemica di anticipazione dei bisogni sia un valore in termini di efficienza economica, in termini sociali non è indifferente stabilire verso quali bisogni orientarla e con quali strumenti guidarla (sappiamo ad esempio che il settore militare produce abbondanti ricadute di innovazione, ma orientare prioritariamente la ricerca verso altri settori, ad esempio la tutela ambientale, non è un compito socialmente più desiderabile? E se lo è quanto di questo compito deve essere affidato allo Stato? )

Esiste il diritto effettivo di scegliersi il lavoro? Se ancora la riduzione di orario lavorativo è uno strumento di efficienza socio economica (assicura una migliore allocazione delle risorse, aumenta la domanda aggregata fornendo reddito a una quantità maggiore di persone, migliora la qualità della vita...), non sarebbe compito di una società più avanzata offrire alle persone non solo una minore quantità di lavoro obbligato, ma anche la possibilità di scegliersi un impiego soddisfacente (e se si accetta questo presupposto è difficile non discutere di reddito universale incondizionato, di riforme profonde del sistema dell'istruzione etc.)

L'invito ai lettori è quello di non concentrarsi solo sulle singole proposte, quanto nuovamente sull'invito iniziale ad un lavoro di cooperazione intellettuale che ponga le basi per un'idea complessiva di politica economica sulla quale possa valere la pena mobilitare forze sociali, politiche ed intellettuali.

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