Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Francobolllo
Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Europa, SVEGLIA !!
sabato 14 gennaio 2012
venerdì 13 gennaio 2012
APPELLO. “GIU’ LE MANI DALL’ACQUA E DALLA DEMOCRAZIA!”
Il 12 e 13 giugno scorsi 26 milioni di donne e uomini hanno votato per l’affermazione dell’acqua come bene comune e diritto umano universale e per la sua gestione partecipativa e senza logiche di profitto.
Le stesse persone hanno votato anche la difesa dei servizi pubblici locali dalle strategie di privatizzazione: una grande e diffusa partecipazione popolare, che si è espressa in ogni territorio, dimostrando la grande vitalità democratica di una società in movimento e la capacità di attivare un nuovo rapporto tra cittadini e Stato attraverso la politica.
Il voto ha posto il nuovo linguaggio dei beni comuni e della partecipazione democratica come base fondamentale di un possibile nuovo modello sociale capace di rispondere alle drammatiche contraddizioni di una crisi economico-finanziaria sociale ed ecologica senza precedenti.
A questa straordinaria esperienza di democrazia il precedente Governo Berlusconi ha risposto con un attacco diretto al voto referendario, riproponendo le stesse norme abrogate con l’esclusione solo formale del servizio idrico integrato.
Adesso, utilizzando come espediente la precipitazione della crisi economico-finanziaria e del debito, il Governo guidato da Mario Monti si appresta a replicare ed approfondire tale attacco attraverso un decreto quadro sulle strategie di liberalizzazione che vuole intervenire direttamente anche sull’acqua, forse addirittura in parallelo ad un analogo provvedimento a livello di Unione Europea che segua la falsariga di quanto venne proposto anni addietro con la direttiva Bolkestein. In questo modo si vuole mettere all’angolo l’espressione democratica della maggioranza assoluta del popolo italiano, schiacciare ogni voce critica rispetto alla egemonia delle leggi di mercato ed evitare che il “contagio” si estenda fuori Italia.
Noi non ci stiamo.
L’acqua non è una merce, ma un bene comune che appartiene a tutti gli esseri viventi e a nessuno in maniera esclusiva, e tanto meno può essere affidata in gestione al mercato.
I beni comuni sono l’humus del legame sociale fra le persone e non merci per la speculazione finanziaria.
Ma sorge, a questo punto, una enorme e fondamentale questione che riguarda la democrazia: nessuna “esigenza” di qualsivoglia mercato può impunemente violare l’esito di una consultazione democratica, garantita dalla Costituzione, nella quale si è espressa senza equivoci la maggioranza assoluta del popolo italiano.
Chiediamo con determinazione al Governo Monti di interrompere da subito la strada intrapresa.
Chiediamo a tutti i partiti, a tutte le forze sociali e sindacali di prendere immediata posizione per il rispetto del voto democratico del popolo italiano.
Chiediamo alle donne e agli uomini di questo paese di sottoscrivere questo appello e di prepararsi alla mobilitazione per la difesa del voto referendario.
Oggi più che mai, si scrive acqua e si legge democrazia.
Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua
Le stesse persone hanno votato anche la difesa dei servizi pubblici locali dalle strategie di privatizzazione: una grande e diffusa partecipazione popolare, che si è espressa in ogni territorio, dimostrando la grande vitalità democratica di una società in movimento e la capacità di attivare un nuovo rapporto tra cittadini e Stato attraverso la politica.
Il voto ha posto il nuovo linguaggio dei beni comuni e della partecipazione democratica come base fondamentale di un possibile nuovo modello sociale capace di rispondere alle drammatiche contraddizioni di una crisi economico-finanziaria sociale ed ecologica senza precedenti.
A questa straordinaria esperienza di democrazia il precedente Governo Berlusconi ha risposto con un attacco diretto al voto referendario, riproponendo le stesse norme abrogate con l’esclusione solo formale del servizio idrico integrato.
Adesso, utilizzando come espediente la precipitazione della crisi economico-finanziaria e del debito, il Governo guidato da Mario Monti si appresta a replicare ed approfondire tale attacco attraverso un decreto quadro sulle strategie di liberalizzazione che vuole intervenire direttamente anche sull’acqua, forse addirittura in parallelo ad un analogo provvedimento a livello di Unione Europea che segua la falsariga di quanto venne proposto anni addietro con la direttiva Bolkestein. In questo modo si vuole mettere all’angolo l’espressione democratica della maggioranza assoluta del popolo italiano, schiacciare ogni voce critica rispetto alla egemonia delle leggi di mercato ed evitare che il “contagio” si estenda fuori Italia.
Noi non ci stiamo.
L’acqua non è una merce, ma un bene comune che appartiene a tutti gli esseri viventi e a nessuno in maniera esclusiva, e tanto meno può essere affidata in gestione al mercato.
I beni comuni sono l’humus del legame sociale fra le persone e non merci per la speculazione finanziaria.
Ma sorge, a questo punto, una enorme e fondamentale questione che riguarda la democrazia: nessuna “esigenza” di qualsivoglia mercato può impunemente violare l’esito di una consultazione democratica, garantita dalla Costituzione, nella quale si è espressa senza equivoci la maggioranza assoluta del popolo italiano.
Chiediamo con determinazione al Governo Monti di interrompere da subito la strada intrapresa.
Chiediamo a tutti i partiti, a tutte le forze sociali e sindacali di prendere immediata posizione per il rispetto del voto democratico del popolo italiano.
Chiediamo alle donne e agli uomini di questo paese di sottoscrivere questo appello e di prepararsi alla mobilitazione per la difesa del voto referendario.
Oggi più che mai, si scrive acqua e si legge democrazia.
Forum Italiano dei Movimenti per l'Acqua
EFFETTO OCCUPY: SECONDO UN SONDAGGIO CRESCE TRA GLI AMERICANI LA COSCIENZA DI CLASSE
di Maurizio Acerbo. controlacrisi
Tom Morello, già ultranoto chitarrista dei Rage Against The Machine e degli Audioslaves, ultimamente ha formato una band con il rapper afroamericano Bootsy Collins.
Il gruppo si chiama Street Sweeper Social Club. I due sono notoriamente oltre che musicisti degli autentici militanti (si definiscono comunisti) e stanno partecipando al movimento Occupy. Morello suona in tutte le piazze dal Wisconsin a Zuccotti Park i suoi hit e le antiche canzoni di lotta dei tempi di Woody Guthrie. Bootsy è uno degli organizzatori di Occupy Oakland.
Sulla pagina facebook del gruppo trovate questa nota:
"Qui c'è un rapporto di Pew Research che mostra, attraverso una "scientifica", indagine casuale di oltre 2000 persone, che il movimento OWS ha notevolmente cambiato la coscienza di classe della popolazione statunitense. Di circa 20 punti percentuali dal 2009. Nel 2009 avevamo già avuto i salvataggi bancari e l'epidemia di pignoramenti. Così, sembra abbastanza chiaro che la differenza è stata prodotta dal movimento OWS.
Il 66% delle persone pensano che ci sia "forte" o "molto forte" il conflitto di classe negli Stati Uniti. Quindi, non solo vedono che c'è un divario di ricchezza, ma vedono che c'è un conflitto in corso.
Il 66% delle persone pensano anche che questo è il conflitto principale negli USA"
Poi a dire il vero prendono le distanze dai sondaggi a cui in generale non credono molto, "anche se potrebbero indicare qualcosa".
ed eccovi l'interessante sondaggio che linkano:
UNA PERCENTUALE CRESCENTE DI AMERICANI VEDE IL CONFLITTO TRA RICCHI E POVERI
Il sondaggio che il Sweet Streeter Social Club segnala è interessante non solo perchè attribuisce non a un mero fattore oggettivo come la crisi economica la crescita della coscienza di classe (o comunque della percezione del conflitto di classe), ma all'intervento soggettivo dentro la crisi del movimento Occupy Wall Street.
Ovviamente la percezione del conflitto tra ricchi e poveri non implica necessariamente quella coscienza di classe di cui parlavano Kautsky, Lenin, Lukacs e i marxismi del novecento. Però neanche tanto si allontana secondo quanto sostengono Barbara e John Ehrenreich nell'articolo "La formazione del 99% e il crollo della classe media" quando evocano il grande storico del movimento operaio E.P.Thompson: "Una classe si crea quando alcuni uomini, per via di esperienze comuni (ereditate o condivise), sentono e articolano l’identità di interessi tra loro, e contro altri uomini i cui interessi sono differenti (e generalmente opposti) ai loro".
Questo ritorno della lotta di classe nel dibattito pubblico (esemplificato con la formula del 99% contro l'1% dei super-ricchi) è davvero interessante perchè la crisi costituisce sempre un terreno fertile per le "guerre tra poveri". Invece secondo il sondaggio il conflitto bianchi/neri retrocede e quelli tra vecchi e giovani e tra immigrati e nativi rimangono comunque su percentuali inferiori.
Già ci eravamo occupati su controlacrisi.org di sondaggi riguardanti una sorprendente epidemia di simpatia per la parola socialismo tra i giovani americani.
Non siamo in grado di valutare l'attendibilità di questi sondaggi, comunque il fatto che parole proibite come "classe" e "socialismo" ritornino nel dibattito pubblico americano giustifica l'entusiasmo che esprimono Tom Morello e Bootsy Collins che chiudono il loro post con queste parole: "This movement is winning. Now is the time. Join it and add your expertise".
Tom Morello, già ultranoto chitarrista dei Rage Against The Machine e degli Audioslaves, ultimamente ha formato una band con il rapper afroamericano Bootsy Collins.
Il gruppo si chiama Street Sweeper Social Club. I due sono notoriamente oltre che musicisti degli autentici militanti (si definiscono comunisti) e stanno partecipando al movimento Occupy. Morello suona in tutte le piazze dal Wisconsin a Zuccotti Park i suoi hit e le antiche canzoni di lotta dei tempi di Woody Guthrie. Bootsy è uno degli organizzatori di Occupy Oakland.
Sulla pagina facebook del gruppo trovate questa nota:
"Qui c'è un rapporto di Pew Research che mostra, attraverso una "scientifica", indagine casuale di oltre 2000 persone, che il movimento OWS ha notevolmente cambiato la coscienza di classe della popolazione statunitense. Di circa 20 punti percentuali dal 2009. Nel 2009 avevamo già avuto i salvataggi bancari e l'epidemia di pignoramenti. Così, sembra abbastanza chiaro che la differenza è stata prodotta dal movimento OWS.
Il 66% delle persone pensano che ci sia "forte" o "molto forte" il conflitto di classe negli Stati Uniti. Quindi, non solo vedono che c'è un divario di ricchezza, ma vedono che c'è un conflitto in corso.
Il 66% delle persone pensano anche che questo è il conflitto principale negli USA"
Poi a dire il vero prendono le distanze dai sondaggi a cui in generale non credono molto, "anche se potrebbero indicare qualcosa".
ed eccovi l'interessante sondaggio che linkano:
UNA PERCENTUALE CRESCENTE DI AMERICANI VEDE IL CONFLITTO TRA RICCHI E POVERI
Il sondaggio che il Sweet Streeter Social Club segnala è interessante non solo perchè attribuisce non a un mero fattore oggettivo come la crisi economica la crescita della coscienza di classe (o comunque della percezione del conflitto di classe), ma all'intervento soggettivo dentro la crisi del movimento Occupy Wall Street.
Ovviamente la percezione del conflitto tra ricchi e poveri non implica necessariamente quella coscienza di classe di cui parlavano Kautsky, Lenin, Lukacs e i marxismi del novecento. Però neanche tanto si allontana secondo quanto sostengono Barbara e John Ehrenreich nell'articolo "La formazione del 99% e il crollo della classe media" quando evocano il grande storico del movimento operaio E.P.Thompson: "Una classe si crea quando alcuni uomini, per via di esperienze comuni (ereditate o condivise), sentono e articolano l’identità di interessi tra loro, e contro altri uomini i cui interessi sono differenti (e generalmente opposti) ai loro".
Questo ritorno della lotta di classe nel dibattito pubblico (esemplificato con la formula del 99% contro l'1% dei super-ricchi) è davvero interessante perchè la crisi costituisce sempre un terreno fertile per le "guerre tra poveri". Invece secondo il sondaggio il conflitto bianchi/neri retrocede e quelli tra vecchi e giovani e tra immigrati e nativi rimangono comunque su percentuali inferiori.
Già ci eravamo occupati su controlacrisi.org di sondaggi riguardanti una sorprendente epidemia di simpatia per la parola socialismo tra i giovani americani.
Non siamo in grado di valutare l'attendibilità di questi sondaggi, comunque il fatto che parole proibite come "classe" e "socialismo" ritornino nel dibattito pubblico americano giustifica l'entusiasmo che esprimono Tom Morello e Bootsy Collins che chiudono il loro post con queste parole: "This movement is winning. Now is the time. Join it and add your expertise".
Piero Bevilacqua. Consumare di notte. Sulla liberalizzazione degli orari del commercio.
controlacrisi
Scriveva Marx, ai suoi tempi, che nella società capitalistica i paesi industrialmente più avanzati indicano agli altri il proprio avvenire. Chi è più avanti nello sviluppo anticipa trasformazioni e fenomeni che anche gli altri, più indietro nel processo di modernizzazione capitalistica, conosceranno qualche decennio più tardi.
Questa analisi-profezia, che ha resistito gagliardamente alla prova del tempo, sembrava essersi appannata nella seconda metà del XX secolo, quando un capitalismo incarnato e imbrigliato nelle culture e nelle istituzioni nazionali, sembrava dare a ciascun paese un proprio Sonderveg, come dicono i tedeschi, un proprio originale sentiero. I paesi europei, ad esempio, col loro solido welfare, si distinguevano dagli USA e sembravano capaci di contenere e filtrare i fenomeni più dirompenti che in quel paese facevano da avanguardia. Ma questo scarto è durato poco e, sotto la furia del pensiero unico - che nell'ultimo trentennio ha visto capitolare molti antichi presidi nazionali di costume e di cultura - lo sguardo anticipatore di Marx ha acquistato un nuovo e lucente smalto. Oggi abbiamo la possibilità di osservare sul nascere, e per così dire in vitro, come si afferma e diventa generale tale tendenza, chi sono i soggetti che la promuovono, quali motivazioni la sostengono.
La proposta del governo italiano in carica di prolungare l'orario di lavoro dei negozi è, a dispetto delle apparenze, un sontuoso cavallo di Troia che nasconde nella pancia alcuni fenomeni già all'opera nelle “società più avanzate”. Sembra una semplice iniziativa volta a facilitare gli acquisti dei cittadini-consumatori e naturalmente cova la speranza di innalzare il ritmo dei consumi. Ma essa contiene molto altro, costituisce il tassello di un processo, in atto da tempo, di distruzione di un modello di civiltà. Si fa presto a scoprirlo. E' sufficiente andare a vedere che cosa è accaduto là dove gli orari dei negozi sono stati deregolamentati per tempo.
Negli USA, che sono oggi “ il punto più avanzato dello sviluppo”, è possibile scoprire la trappola in cui sono caduti i cittadini americani, trascinati da decenni in una “bolla consumistica” che alla fine è esplosa con immenso fragore. I fondatori del gruppo Take Back Your Time, riprenditi il tuo tempo, hanno compreso, e denunciano da anni, che la spinta all'iperconsumo cui sono stati spinti i cittadini americani è stato un surrogato della riduzione dell'orario di lavoro. I guadagni di produttività oraria realizzati nell'industria e nei servizi USA non sono stati utilizzati , come era accaduto sino ad allora, per accrescere il tempo libero. Qui si è interrotto un antico percorso delle società industriali contemporanee. Gli incrementi produttivi sono stati monetizzati, tradotti in salario, grazie all'esca lucente di consumi sempre più abbondanti. Dove non bastava il salario, naturalmente, il credito bancario veniva amorevolmente in aiuto dei bisognosi di acquisto. Il risultato, dopo oltre un trentennio di questa gioiosa modernità, è che i lavoratori americani si sono trovati a lavorare in media 50 ore alla settimana e 350 ore annue in più dei loro equivalenti europei. Non c'è di che stupirsi. Come si fa a rinunciare ai sontuosi beni offerti da una smisurata macchina produttiva, a prezzi sempre più economici, resi sempre più indispensabili da una pubblicità senza quartiere? Come si fa rinunciare, se bastano un paio d'ore di straordinario al giorno per avere i dollari necessari a comprare l'ultima consolle, la macchina nuova, una pelliccia da sogno?
Scriveva Marx, ai suoi tempi, che nella società capitalistica i paesi industrialmente più avanzati indicano agli altri il proprio avvenire. Chi è più avanti nello sviluppo anticipa trasformazioni e fenomeni che anche gli altri, più indietro nel processo di modernizzazione capitalistica, conosceranno qualche decennio più tardi.
Questa analisi-profezia, che ha resistito gagliardamente alla prova del tempo, sembrava essersi appannata nella seconda metà del XX secolo, quando un capitalismo incarnato e imbrigliato nelle culture e nelle istituzioni nazionali, sembrava dare a ciascun paese un proprio Sonderveg, come dicono i tedeschi, un proprio originale sentiero. I paesi europei, ad esempio, col loro solido welfare, si distinguevano dagli USA e sembravano capaci di contenere e filtrare i fenomeni più dirompenti che in quel paese facevano da avanguardia. Ma questo scarto è durato poco e, sotto la furia del pensiero unico - che nell'ultimo trentennio ha visto capitolare molti antichi presidi nazionali di costume e di cultura - lo sguardo anticipatore di Marx ha acquistato un nuovo e lucente smalto. Oggi abbiamo la possibilità di osservare sul nascere, e per così dire in vitro, come si afferma e diventa generale tale tendenza, chi sono i soggetti che la promuovono, quali motivazioni la sostengono.
La proposta del governo italiano in carica di prolungare l'orario di lavoro dei negozi è, a dispetto delle apparenze, un sontuoso cavallo di Troia che nasconde nella pancia alcuni fenomeni già all'opera nelle “società più avanzate”. Sembra una semplice iniziativa volta a facilitare gli acquisti dei cittadini-consumatori e naturalmente cova la speranza di innalzare il ritmo dei consumi. Ma essa contiene molto altro, costituisce il tassello di un processo, in atto da tempo, di distruzione di un modello di civiltà. Si fa presto a scoprirlo. E' sufficiente andare a vedere che cosa è accaduto là dove gli orari dei negozi sono stati deregolamentati per tempo.
Negli USA, che sono oggi “ il punto più avanzato dello sviluppo”, è possibile scoprire la trappola in cui sono caduti i cittadini americani, trascinati da decenni in una “bolla consumistica” che alla fine è esplosa con immenso fragore. I fondatori del gruppo Take Back Your Time, riprenditi il tuo tempo, hanno compreso, e denunciano da anni, che la spinta all'iperconsumo cui sono stati spinti i cittadini americani è stato un surrogato della riduzione dell'orario di lavoro. I guadagni di produttività oraria realizzati nell'industria e nei servizi USA non sono stati utilizzati , come era accaduto sino ad allora, per accrescere il tempo libero. Qui si è interrotto un antico percorso delle società industriali contemporanee. Gli incrementi produttivi sono stati monetizzati, tradotti in salario, grazie all'esca lucente di consumi sempre più abbondanti. Dove non bastava il salario, naturalmente, il credito bancario veniva amorevolmente in aiuto dei bisognosi di acquisto. Il risultato, dopo oltre un trentennio di questa gioiosa modernità, è che i lavoratori americani si sono trovati a lavorare in media 50 ore alla settimana e 350 ore annue in più dei loro equivalenti europei. Non c'è di che stupirsi. Come si fa a rinunciare ai sontuosi beni offerti da una smisurata macchina produttiva, a prezzi sempre più economici, resi sempre più indispensabili da una pubblicità senza quartiere? Come si fa rinunciare, se bastano un paio d'ore di straordinario al giorno per avere i dollari necessari a comprare l'ultima consolle, la macchina nuova, una pelliccia da sogno?
LIBERALIZZAZIONI Quello che non si dice
di Tonino Perna ilmanifesto
«Si restituisca a tutti i sudditi di sua maestà, come ai soldati e ai marinai, la libertà naturale di esercitare qualsiasi tipo di attività piaccia loro, si abbattano così i privilegi esclusivi delle Corporazioni e si revochi lo statuto dell'apprendistato, che sono vere usurpazioni della libertà naturale, e si aggiunga a ciò la revoca delle leggi sui domicili, in modo che un operaio povero, quando perde un'occupazione in un mestiere o in un luogo, possa cercarne un'altra in un altro mestiere o in un altro luogo...» (Adam Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, p. 459).
Il padre dell'economia politica moderna, il fondatore del pensiero economico liberale, mise al centro della sua teoria la lotta alle Corporazioni, in quanto impedivano lo sviluppo della concorrenza e la crescita economica di una nazione. Smith era convinto, infatti, che la causa prima della povertà e della disoccupazione fosse dovuta alla mancanza di un libero mercato del lavoro, correlata alla presenza di monopoli gestiti dalle corporazioni che impedivano al capitale il libero accesso alle diverse attività. Le liberalizzazioni sbandierate dal governo Monti, e osannate dalle "lenzuolate" di Bersani, sono perfettamente coerenti con la teoria smithiana, che risale alla fine del XVIII secolo, usando spesso lo stesso linguaggio e gli stessi ragionamenti.
Anche Marx vedeva nelle Corporazioni un constraint, un vincolo, allo sviluppo del capitalismo, ma da un'altra angolazione: «Il capitale denaro formatosi mediante l'usura e il commercio veniva intralciato nella sua trasformazione in capitale industriale, nelle campagne dalla costituzione feudale, nelle città dalla costituzione corporativa» (Marx, Il Capitale, Cap. XXIV, p. 209). E spiegava bene i termini dello scontro sociale che si registrò in quel periodo: «Le leggi delle Corporazioni impedivano sistematicamente, limitando all'estremo il numero dei garzoni che potevano essere impiegati da un singolo maestro artigiano, che questi si trasformasse in capitalista... La Corporazione respingeva gelosamente ogni usurpazione da parte del capitale mercantile, l'unica forma libera di capitale che le si contrapponesse. Il mercante poteva comprare tutte le merci; ma non poteva comprare il lavoro come merce» (Cap. XII p. 59).
In sintesi, sia Smith che Marx hanno visto nelle Corporazioni delle arti e mestieri un vincolo allo sviluppo del capitalismo. Con la differenza che Marx, che certo non difendeva le istituzioni feudali, aveva colto la vera natura dello scontro: la mercificazione del lavoro, l'espansione della sfera di influenza del capitale, un ruolo rilevante nella fase dell'accumulazione originaria del capitale. Non di certo uno strumento per combattere la povertà o la disoccupazione. Anzi, questo processo comportava una crescita della proletarizzazione che investiva i lavoratori autonomi, gli artigiani e i contadini.
«Si restituisca a tutti i sudditi di sua maestà, come ai soldati e ai marinai, la libertà naturale di esercitare qualsiasi tipo di attività piaccia loro, si abbattano così i privilegi esclusivi delle Corporazioni e si revochi lo statuto dell'apprendistato, che sono vere usurpazioni della libertà naturale, e si aggiunga a ciò la revoca delle leggi sui domicili, in modo che un operaio povero, quando perde un'occupazione in un mestiere o in un luogo, possa cercarne un'altra in un altro mestiere o in un altro luogo...» (Adam Smith, Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, p. 459).
Il padre dell'economia politica moderna, il fondatore del pensiero economico liberale, mise al centro della sua teoria la lotta alle Corporazioni, in quanto impedivano lo sviluppo della concorrenza e la crescita economica di una nazione. Smith era convinto, infatti, che la causa prima della povertà e della disoccupazione fosse dovuta alla mancanza di un libero mercato del lavoro, correlata alla presenza di monopoli gestiti dalle corporazioni che impedivano al capitale il libero accesso alle diverse attività. Le liberalizzazioni sbandierate dal governo Monti, e osannate dalle "lenzuolate" di Bersani, sono perfettamente coerenti con la teoria smithiana, che risale alla fine del XVIII secolo, usando spesso lo stesso linguaggio e gli stessi ragionamenti.
Anche Marx vedeva nelle Corporazioni un constraint, un vincolo, allo sviluppo del capitalismo, ma da un'altra angolazione: «Il capitale denaro formatosi mediante l'usura e il commercio veniva intralciato nella sua trasformazione in capitale industriale, nelle campagne dalla costituzione feudale, nelle città dalla costituzione corporativa» (Marx, Il Capitale, Cap. XXIV, p. 209). E spiegava bene i termini dello scontro sociale che si registrò in quel periodo: «Le leggi delle Corporazioni impedivano sistematicamente, limitando all'estremo il numero dei garzoni che potevano essere impiegati da un singolo maestro artigiano, che questi si trasformasse in capitalista... La Corporazione respingeva gelosamente ogni usurpazione da parte del capitale mercantile, l'unica forma libera di capitale che le si contrapponesse. Il mercante poteva comprare tutte le merci; ma non poteva comprare il lavoro come merce» (Cap. XII p. 59).
In sintesi, sia Smith che Marx hanno visto nelle Corporazioni delle arti e mestieri un vincolo allo sviluppo del capitalismo. Con la differenza che Marx, che certo non difendeva le istituzioni feudali, aveva colto la vera natura dello scontro: la mercificazione del lavoro, l'espansione della sfera di influenza del capitale, un ruolo rilevante nella fase dell'accumulazione originaria del capitale. Non di certo uno strumento per combattere la povertà o la disoccupazione. Anzi, questo processo comportava una crescita della proletarizzazione che investiva i lavoratori autonomi, gli artigiani e i contadini.
giovedì 12 gennaio 2012
Insolvenza sociale (?)
di Franco Berardi “Bifo”. micromega
Qualche giorno fa ho letto su un giornale questa dichiarazione di Nichi Vendola:
“Il PD ha dimostrato una grande generosità sostenendo Monti, ma in ogni caso noi non romperemo per questo con Bersani perché la cosa più importante è la prospettiva. Noi non siamo il governo, vogliamo chiudere il berlusconismo con una svolta a sinistra. Monti faccia la sua opera, nel tempo più breve possibile e poi la parola passi alla democrazia.”
Chissà se Nichi Vendola può rendersi conto della bestialità che gli è uscita di bocca.
Qui provo ad aiutarlo nella riflessione.
Cosa significa la frase: Monti faccia la sua opera? Traducendo in italiano Vendola ha detto: che Monti si sbrighi a distruggere la vita di milioni di pensionati, lavoratori, insegnanti, studenti, migranti, si sbrighi a spostare un’enorme quantità di risorse dalla società alle casse del ceto finanziario predone, insomma si sbrighi a distruggere la vita civile e a creare le condizioni per un’ondata di rigetto anti-europeo razzista e nazionalista. Poi si ritorni alla democrazia. Per farci cosa?
Per decidere il colore con cui dipingere le macerie?
Non si può sospendere la democrazia quando si prendono decisioni importanti per poi riprenderne l’uso quando si tratta di gestirne gli effetti.
La democrazia è stata definitivamente eliminata dalla storia europea nel momento in cui il capo del governo greco, Papandreou, è stato dimissionato perché aveva osato proporre un referendum che sancisse le misure economiche che stanno distruggendo il tessuto civile del suo paese. E’ stata definitivamente seppellita quando la Goldman Sachs ha delegato due suoi funzionari a occuparsi delle province greca e italiana.
Le manovre che Monti sta realizzando sono esattamente quelle che Berlusconi aveva promesso nelle sue lettere d’intenti, preparano una devastazione della società italiana, una recessione di lungo periodo e un conseguente aumento del debito che si pretende di voler sanare. La manovra Monti è del tutto coerente con i processi di impoverimento e imbarbarimento della vita sociale, e la cancellazione dei diritti del lavoro. La cacciata della FIOM, un sindacato che rappresenta un terzo dei lavoratori della FIAT, dal luogo di lavoro è il punto di arrivo dello smantellamento del diritto di organizzazione sindacale e politica che permette ai lavoratori di difendere i loro interessi e la loro vita. Il padronato italiano, incapace di pensare una via d’uscita dal disastro che il liberismo ha provocato, sa immaginare solamente questo: spogliare la società di ogni difesa, sfruttarla ferocemente per permettere alla classe finanziaria di avere ancora qualcosa da rapinare.
Del resto Monti lo aveva detto, nel giorno in cui il suo governo si costituiva: la riforma Gelmini e la rivoluzione Marchionne sono le sue stelle polari.
Qualche giorno fa ho letto su un giornale questa dichiarazione di Nichi Vendola:
“Il PD ha dimostrato una grande generosità sostenendo Monti, ma in ogni caso noi non romperemo per questo con Bersani perché la cosa più importante è la prospettiva. Noi non siamo il governo, vogliamo chiudere il berlusconismo con una svolta a sinistra. Monti faccia la sua opera, nel tempo più breve possibile e poi la parola passi alla democrazia.”
Chissà se Nichi Vendola può rendersi conto della bestialità che gli è uscita di bocca.
Qui provo ad aiutarlo nella riflessione.
Cosa significa la frase: Monti faccia la sua opera? Traducendo in italiano Vendola ha detto: che Monti si sbrighi a distruggere la vita di milioni di pensionati, lavoratori, insegnanti, studenti, migranti, si sbrighi a spostare un’enorme quantità di risorse dalla società alle casse del ceto finanziario predone, insomma si sbrighi a distruggere la vita civile e a creare le condizioni per un’ondata di rigetto anti-europeo razzista e nazionalista. Poi si ritorni alla democrazia. Per farci cosa?
Per decidere il colore con cui dipingere le macerie?
Non si può sospendere la democrazia quando si prendono decisioni importanti per poi riprenderne l’uso quando si tratta di gestirne gli effetti.
La democrazia è stata definitivamente eliminata dalla storia europea nel momento in cui il capo del governo greco, Papandreou, è stato dimissionato perché aveva osato proporre un referendum che sancisse le misure economiche che stanno distruggendo il tessuto civile del suo paese. E’ stata definitivamente seppellita quando la Goldman Sachs ha delegato due suoi funzionari a occuparsi delle province greca e italiana.
Le manovre che Monti sta realizzando sono esattamente quelle che Berlusconi aveva promesso nelle sue lettere d’intenti, preparano una devastazione della società italiana, una recessione di lungo periodo e un conseguente aumento del debito che si pretende di voler sanare. La manovra Monti è del tutto coerente con i processi di impoverimento e imbarbarimento della vita sociale, e la cancellazione dei diritti del lavoro. La cacciata della FIOM, un sindacato che rappresenta un terzo dei lavoratori della FIAT, dal luogo di lavoro è il punto di arrivo dello smantellamento del diritto di organizzazione sindacale e politica che permette ai lavoratori di difendere i loro interessi e la loro vita. Il padronato italiano, incapace di pensare una via d’uscita dal disastro che il liberismo ha provocato, sa immaginare solamente questo: spogliare la società di ogni difesa, sfruttarla ferocemente per permettere alla classe finanziaria di avere ancora qualcosa da rapinare.
Del resto Monti lo aveva detto, nel giorno in cui il suo governo si costituiva: la riforma Gelmini e la rivoluzione Marchionne sono le sue stelle polari.
Consumare di notte.
di Bevilacqua, Piero. eddyburg
Scriveva Marx, ai suoi tempi, che nella società capitalistica i paesi industrialmente più avanzati indicano agli altri il proprio avvenire. Chi è più avanti nello sviluppo anticipa trasformazioni e fenomeni che anche gli altri, più indietro nel processo di modernizzazione capitalistica, conosceranno qualche decennio più tardi.
Questa analisi-profezia, che ha resistito gagliardamente alla prova del tempo, sembrava essersi appannata nella seconda metà del XX secolo, quando un capitalismo incarnato e imbrigliato nelle culture e nelle istituzioni nazionali, sembrava dare a ciascun paese un proprio Sonderveg, come dicono i tedeschi, un proprio originale sentiero. I paesi europei, ad esempio, col loro solido welfare, si distinguevano dagli USA e sembravano capaci di contenere e filtrare i fenomeni più dirompenti che in quel paese facevano da avanguardia. Ma questo scarto è durato poco e, sotto la furia del pensiero unico - che nell'ultimo trentennio ha visto capitolare molti antichi presidi nazionali di costume e di cultura - lo sguardo anticipatore di Marx ha acquistato un nuovo e lucente smalto. Oggi abbiamo la possibilità di osservare sul nascere, e per così dire in vitro, come si afferma e diventa generale tale tendenza, chi sono i soggetti che la promuovono, quali motivazioni la sostengono.
La proposta del governo italiano in carica di prolungare l'orario di lavoro dei negozi è, a dispetto delle apparenze, un sontuoso cavallo di Troia che nasconde nella pancia alcuni fenomeni già all'opera nelle “società più avanzate”. Sembra una semplice iniziativa volta a facilitare gli acquisti dei cittadini-consumatori e naturalmente cova la speranza di innalzare il ritmo dei consumi. Ma essa contiene molto altro, costituisce il tassello di un processo, in atto da tempo, di distruzione di un modello di civiltà. Si fa presto a scoprirlo. E' sufficiente andare a vedere che cosa è accaduto là dove gli orari dei negozi sono stati deregolamentati per tempo.
Negli USA, che sono oggi “ il punto più avanzato dello sviluppo”, è possibile scoprire la trappola in cui sono caduti i cittadini americani, trascinati da decenni in una “bolla consumistica” che alla fine è esplosa con immenso fragore. I fondatori del gruppo Take Back Your Time, riprenditi il tuo tempo, hanno compreso, e denunciano da anni, che la spinta all'iperconsumo cui sono stati spinti i cittadini americani è stato un surrogato della riduzione dell'orario di lavoro. I guadagni di produttività oraria realizzati nell'industria e nei servizi USA non sono stati utilizzati , come era accaduto sino ad allora, per accrescere il tempo libero. Qui si è interrotto un antico percorso delle società industriali contemporanee. Gli incrementi produttivi sono stati monetizzati, tradotti in salario, grazie all'esca lucente di consumi sempre più abbondanti. Dove non bastava il salario, naturalmente, il credito bancario veniva amorevolmente in aiuto dei bisognosi di acquisto. Il risultato, dopo oltre un trentennio di questa gioiosa modernità, è che i lavoratori americani si sono trovati a lavorare in media 50 ore alla settimana e 350 ore annue in più dei loro equivalenti europei. Non c'è di che stupirsi. Come si fa a rinunciare ai sontuosi beni offerti da una smisurata macchina produttiva, a prezzi sempre più economici, resi sempre più indispensabili da una pubblicità senza quartiere? Come si fa rinunciare, se bastano un paio d'ore di straordinario al giorno per avere i dollari necessari a comprare l'ultima consolle, la macchina nuova, una pelliccia da sogno?
Scriveva Marx, ai suoi tempi, che nella società capitalistica i paesi industrialmente più avanzati indicano agli altri il proprio avvenire. Chi è più avanti nello sviluppo anticipa trasformazioni e fenomeni che anche gli altri, più indietro nel processo di modernizzazione capitalistica, conosceranno qualche decennio più tardi.
Questa analisi-profezia, che ha resistito gagliardamente alla prova del tempo, sembrava essersi appannata nella seconda metà del XX secolo, quando un capitalismo incarnato e imbrigliato nelle culture e nelle istituzioni nazionali, sembrava dare a ciascun paese un proprio Sonderveg, come dicono i tedeschi, un proprio originale sentiero. I paesi europei, ad esempio, col loro solido welfare, si distinguevano dagli USA e sembravano capaci di contenere e filtrare i fenomeni più dirompenti che in quel paese facevano da avanguardia. Ma questo scarto è durato poco e, sotto la furia del pensiero unico - che nell'ultimo trentennio ha visto capitolare molti antichi presidi nazionali di costume e di cultura - lo sguardo anticipatore di Marx ha acquistato un nuovo e lucente smalto. Oggi abbiamo la possibilità di osservare sul nascere, e per così dire in vitro, come si afferma e diventa generale tale tendenza, chi sono i soggetti che la promuovono, quali motivazioni la sostengono.
La proposta del governo italiano in carica di prolungare l'orario di lavoro dei negozi è, a dispetto delle apparenze, un sontuoso cavallo di Troia che nasconde nella pancia alcuni fenomeni già all'opera nelle “società più avanzate”. Sembra una semplice iniziativa volta a facilitare gli acquisti dei cittadini-consumatori e naturalmente cova la speranza di innalzare il ritmo dei consumi. Ma essa contiene molto altro, costituisce il tassello di un processo, in atto da tempo, di distruzione di un modello di civiltà. Si fa presto a scoprirlo. E' sufficiente andare a vedere che cosa è accaduto là dove gli orari dei negozi sono stati deregolamentati per tempo.
Negli USA, che sono oggi “ il punto più avanzato dello sviluppo”, è possibile scoprire la trappola in cui sono caduti i cittadini americani, trascinati da decenni in una “bolla consumistica” che alla fine è esplosa con immenso fragore. I fondatori del gruppo Take Back Your Time, riprenditi il tuo tempo, hanno compreso, e denunciano da anni, che la spinta all'iperconsumo cui sono stati spinti i cittadini americani è stato un surrogato della riduzione dell'orario di lavoro. I guadagni di produttività oraria realizzati nell'industria e nei servizi USA non sono stati utilizzati , come era accaduto sino ad allora, per accrescere il tempo libero. Qui si è interrotto un antico percorso delle società industriali contemporanee. Gli incrementi produttivi sono stati monetizzati, tradotti in salario, grazie all'esca lucente di consumi sempre più abbondanti. Dove non bastava il salario, naturalmente, il credito bancario veniva amorevolmente in aiuto dei bisognosi di acquisto. Il risultato, dopo oltre un trentennio di questa gioiosa modernità, è che i lavoratori americani si sono trovati a lavorare in media 50 ore alla settimana e 350 ore annue in più dei loro equivalenti europei. Non c'è di che stupirsi. Come si fa a rinunciare ai sontuosi beni offerti da una smisurata macchina produttiva, a prezzi sempre più economici, resi sempre più indispensabili da una pubblicità senza quartiere? Come si fa rinunciare, se bastano un paio d'ore di straordinario al giorno per avere i dollari necessari a comprare l'ultima consolle, la macchina nuova, una pelliccia da sogno?
Lavoro, ritorno al passato
Autore: Dario Bevilacqua dirittiglobali
I manuali di diritto del lavoro adottati nelle facoltà di Giurisprudenza partono tutti da un concetto consolidato: il contratto tra datore e prestatore di lavoro non è uguale ai normali rapporti tra contraenti, avendo invece un contenuto e una ratio speciale, derogatoria, perché le due parti in causa sono, per definizione, in posizione di disparità sostanziale.
La debolezza del lavoratore è rinvenibile in due cause fondamentali: il suo salario è fonte esclusiva, o prevalente, di sostentamento per lui e la sua famiglia e il mercato del lavoro lo pone in condizione di debolezza, per un eccesso di domanda e una scarsità di offerta, condizionando quindi il contenuto del contratto in senso a lui sfavorevole, con effetti sullo svolgimento del rapporto, caratterizzato da una soggezione al datore di lavoro e al suo potere direttivo e disciplinare.
Da qui il caratterizzarsi del diritto del lavoro come diritto "diseguale", cioè tendente a riportare un minimo di equilibrio tra parti dotate di diverso potere nella conclusione del contratto e nella conduzione del rapporto; prefissando questo contenuto ex lege e sottraendolo alla libera disponibilità dei contraenti. Le norme che regolano il rapporto di lavoro hanno, dunque, una funzione specifica, accettata dalla scienza giuridica e riconosciuta altresì dalla giurisprudenza: assicurare una parità sostanziale, almeno nei rapporti giuridici, tra soggetti che si trovano invece in una condizione di disparità.
I temi e le proposte discussi in questi ultimi giorni, segnatamente riguardo ai licenziamenti, art. 18 dello Statuto dei lavoratori e ripensamento delle norme che regolano i rapporti tra datore e prestatore di lavoro, vanno trattati avendo bene in mente la filosofia della dottrina giuslavoristica. Occorre, in tal senso, mettere in chiaro un primo aspetto: il diritto del lavoro non ha, come finalità primaria, la crescita, il rilancio dell'economia, la dinamicità delle imprese di un Paese. Il diritto del lavoro serve - anche per favorire indirettamente il raggiungimento di questi ultimi obiettivi - a tutelare il prestatore d'opera, riequilibrando il rapporto di forza tra questi e il datore di lavoro. Questa finalità - che dovrebbe rimanere intoccabile - è funzionale al benessere dell'economia, alla tutela dell'ordine pubblico, alla pace sociale: un lavoratore ben retribuito o sicuro del suo posto lavorerà meglio e sarà disposto a fare sacrifici per l'impresa in cui lavora; un lavoratore con salario dignitoso, cui sono garantite ferie, malattia e pause pranzo sarà ben disposto a consumare, investire, creare una famiglia, iscrivere i propri figli all'università; un lavoratore garantito e retribuito in modo equo avrà meno ragioni per ribellarsi, per protestare, per cercare soluzioni nell'illegalità. E così via.
I manuali di diritto del lavoro adottati nelle facoltà di Giurisprudenza partono tutti da un concetto consolidato: il contratto tra datore e prestatore di lavoro non è uguale ai normali rapporti tra contraenti, avendo invece un contenuto e una ratio speciale, derogatoria, perché le due parti in causa sono, per definizione, in posizione di disparità sostanziale.
La debolezza del lavoratore è rinvenibile in due cause fondamentali: il suo salario è fonte esclusiva, o prevalente, di sostentamento per lui e la sua famiglia e il mercato del lavoro lo pone in condizione di debolezza, per un eccesso di domanda e una scarsità di offerta, condizionando quindi il contenuto del contratto in senso a lui sfavorevole, con effetti sullo svolgimento del rapporto, caratterizzato da una soggezione al datore di lavoro e al suo potere direttivo e disciplinare.
Da qui il caratterizzarsi del diritto del lavoro come diritto "diseguale", cioè tendente a riportare un minimo di equilibrio tra parti dotate di diverso potere nella conclusione del contratto e nella conduzione del rapporto; prefissando questo contenuto ex lege e sottraendolo alla libera disponibilità dei contraenti. Le norme che regolano il rapporto di lavoro hanno, dunque, una funzione specifica, accettata dalla scienza giuridica e riconosciuta altresì dalla giurisprudenza: assicurare una parità sostanziale, almeno nei rapporti giuridici, tra soggetti che si trovano invece in una condizione di disparità.
I temi e le proposte discussi in questi ultimi giorni, segnatamente riguardo ai licenziamenti, art. 18 dello Statuto dei lavoratori e ripensamento delle norme che regolano i rapporti tra datore e prestatore di lavoro, vanno trattati avendo bene in mente la filosofia della dottrina giuslavoristica. Occorre, in tal senso, mettere in chiaro un primo aspetto: il diritto del lavoro non ha, come finalità primaria, la crescita, il rilancio dell'economia, la dinamicità delle imprese di un Paese. Il diritto del lavoro serve - anche per favorire indirettamente il raggiungimento di questi ultimi obiettivi - a tutelare il prestatore d'opera, riequilibrando il rapporto di forza tra questi e il datore di lavoro. Questa finalità - che dovrebbe rimanere intoccabile - è funzionale al benessere dell'economia, alla tutela dell'ordine pubblico, alla pace sociale: un lavoratore ben retribuito o sicuro del suo posto lavorerà meglio e sarà disposto a fare sacrifici per l'impresa in cui lavora; un lavoratore con salario dignitoso, cui sono garantite ferie, malattia e pause pranzo sarà ben disposto a consumare, investire, creare una famiglia, iscrivere i propri figli all'università; un lavoratore garantito e retribuito in modo equo avrà meno ragioni per ribellarsi, per protestare, per cercare soluzioni nell'illegalità. E così via.
Stefano Galieni. COSA SCRIVEREBBE DE ANDRE'?
Stefano Galieni. Fonte: qui
La piramide di Cheope, volle essere ricostruita, masso per masso, schiavo per schiavo, comunista per comunista". Non sono state scritte oggi questi versi, raccontano l'orrore oligarchico di un potere sempre più forte che andava espandendosi con la sua logica di guerra, di paura e di anestetizzazione delle coscienze. Frasi estratte da "La domenica delle salme, incisa nel 1990 nell'album "Le nuvole", la voce quella unica e inimitabile di Fabrizio De Andrè che giusto l'11 gennaio di 13 anni fa spariva da questo mondo e dai suoi conflitti. Alcool e conoscenza diretta del mondo dei disperati, dei drop out, delle prostitute dei vicoli di Genova. E poi la Sardegna, il Mediterraneo con la sua mescolanza di dialetti e sapori, con i suoi conflitti aspri, con quell'odore di mare che ti si appiccica addosso e non ti vuoi levare via. E l'anarchia, quella vera, quella per cui "non ci sono poteri buoni", quella dei sogni individuali capaci di tornare collettivi anche "Nella mia ora di libertà". la voce di Edgar Lee Master e delle sue lapidi che raccontano si raccontano senza pudore, di Brassens, Brel, Dylan, tradotti e portati in Italia con l'eterna sigaretta appesa. La voce timida e lo sguardo vuoto di chi è all'ultimo bicchiere e contemporaneamente sempre al primo concerto, timido e impacciato ma con lo sguardo perenemente sospeso fra stupore e disincanto. La voce che si è espressa contro la guerra e i falsi moralismi, i versi capaci di ridare senso a rom e nativi d'america, al servo pastore sardo e al rapitore, ad un amore carnale e vitale. Una voce eterna, patrimonio dei diseredati e inadatta ai padroni. Una voce che ancora oggi risuona ancora al presente cantando"Ci hanno insegnato la meraviglia, verso la gente che ruba il pane, ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame". Cosa scriverebbe oggi "Faber". Parlerebbe di banche e di migranti, di lavoratori in strada e dello squallore volgare della ricchezza, dei tanti Piero che ancora crepano in guerra e delle tante Sidun attorno a cui si radunano padri disperati, probabilmente anche della voglia di tanti giovani di riprendersi il futuro. Ovviamente "Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria".
I Brezneviani delle liberalizzazioni
di Emiliano Brancaccio. Da Omnibus - La7
Guarda il video QUI
La ricerca economica non conferma l’esistenza di correlazioni significative tra precarizzazione del lavoro da un lato e crescita dell’occupazione dall’altro, né conferma l’esistenza di un legame tra liberalizzazioni e riduzioni dei prezzi. Anzi, può accadere che a seguito delle liberalizzazioni i prezzi aumentino anche più dell’inflazione. Per esempio, nel campo delle assicurazioni auto, il passaggio dai prezzi amministrati ai prezzi liberalizzati ha comportato un boom delle tariffe oltre quattro volte superiore all’inflazione. I fautori delle liberalizzazioni replicano sostenendo che non si è ancora liberalizzato a sufficienza. Così facendo però ricordano sempre di più quei “brezneviani” che all’epoca della stagnazione sovietica affermavano che non si era fatto abbastanza socialismo… Emiliano Brancaccio (Università del Sannio), Francesco Boccia (Partito Democratico), Lina Palmerini (Il Sole 24 Ore), Alfredo mantovano (Popolo delle Libertà). Conduce Andrea Pancani
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La ricerca economica non conferma l’esistenza di correlazioni significative tra precarizzazione del lavoro da un lato e crescita dell’occupazione dall’altro, né conferma l’esistenza di un legame tra liberalizzazioni e riduzioni dei prezzi. Anzi, può accadere che a seguito delle liberalizzazioni i prezzi aumentino anche più dell’inflazione. Per esempio, nel campo delle assicurazioni auto, il passaggio dai prezzi amministrati ai prezzi liberalizzati ha comportato un boom delle tariffe oltre quattro volte superiore all’inflazione. I fautori delle liberalizzazioni replicano sostenendo che non si è ancora liberalizzato a sufficienza. Così facendo però ricordano sempre di più quei “brezneviani” che all’epoca della stagnazione sovietica affermavano che non si era fatto abbastanza socialismo… Emiliano Brancaccio (Università del Sannio), Francesco Boccia (Partito Democratico), Lina Palmerini (Il Sole 24 Ore), Alfredo mantovano (Popolo delle Libertà). Conduce Andrea Pancani
hai votato contro la privatizzazione dell'acqua e hai vinto? E chi se ne frega!!
di Angelo Mastrandrea. ilmanifesto
I governi passano, le cattive abitudini a largheggiare, in taluni casi, sulle regole della democrazia restano, viene da dire a guardare come il governo Monti sta arando in queste ore, con abile strategia mediatica, il terreno delle liberalizzazioni. Dopo il premier ospite da Fabio Fazio a Che tempo che fa, è toccato al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Antonio Catricalà affacciarsi nelle case degli italiani dal salotto di Bruno Vespa per annunciare il decreto prossimo venturo. Senza che a nessuno venisse in mente di chiedergli davvero conto di come ovviare al responso contrario dei referendum di giugno, l'autorevole rappresentante del governo ha elencato i settori da aprire al mercato: l'energia, le assicurazioni, i trasporti, le farmacie, i notai, l'acqua.Ancora più chiaro è stato un altro sottosegretario. Sempre da uno schermo televisivo (la trasmissione Agorà di Rai3, questa volta) Gianfranco Polillo, delega all'Economia, dopo aver tentato l'ennesimo assalto a un altro baluardo dei diritti nel nostro Paese, l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, ha definito senza mezzi termini il voto che ha portato alle urne 27 milioni di persone «un mezzo imbroglio», prima di raccontarci in cosa consisterà la riforma: «L'acqua è e rimane un bene pubblico, è il servizio di distribuzione che va liberalizzato». Insomma, sarà pure di tutti finché cade dal cielo e scorre per torrenti e fiumiciattoli, ma quando viene incanalata in tubi e rubinetti l'acqua va affidata al profitto privato. Poco male, pur essendo noi di tutt'altra opinione, se di mezzo non ci fosse stato un voto pesante che ha affermato con nettezza il contrario. Ma evidentemente quello della gestione degli acquedotti è un boccone troppo ghiotto per essere abbandonato alle decisioni popolari. L'imbroglio è tutto qui, alla luce del sole e senza alcun retroscena. Inutile dire che va bloccato sul nascere.
mercoledì 11 gennaio 2012
Il totalitarismo dei consumi.
di Goffredo Adinolfi. ilmanifesto
La liberalizzazione degli orari di vendita ha portato con sé, in Portogallo, quella delle licenze di costruzione. E la città ne è uscita sfigurata
C'è una cosa su cui il Portogallo è sicuramente molto avanti rispetto all'Italia: le liberalizzazioni. Qui questo annoso e antipatico problema degli orari dei negozi è stato risolto da tempo: la libertà di scelta dei negozianti è ampia e così i clienti non sono più vincolati da «assurde» leggi dal carattere vagamente bolscevico (come accade ad esempio in Germania, Svizzera o Belgio) che impediscono loro di acquistare quando meglio credono. Dalle 9 del mattino alla mezzanotte, dal lunedì alla domenica supermercati, libri, farmacie, tecnologie varie, vestititi eccetera: non resterete mai a secco.
Concomitante, o conseguente, a questo processo di liberalizzazione degli orari di vendita anche la liberalizzazione sostanziale delle licenze di costruzione. La Lisbona dei quartieri arabi come l'Alfama e la Mouraria, del Fado di Amalia Rodriguez e della Rivoluzione dei Capitani di aprile si è «finalmente» modernizzata. Nuovi panorami caratterizzano oggi la città, fra i quali certamente merita di essere citato l'avveniristico centro commerciale «Colombo» che, fino a pochi anni fa, era uno degli spazi di vendita più grandi d'Europa, facilmente raggiungibile con la metropolitana. Un luogo, o meglio un non luogo, fatto di strade, piazze, parchi e, non ci crederete mai, anche una piccola cappella. Si sa quando facciamo acquisti ci sentiamo sempre un po' in colpa, nel caso ci si confessa e via possiamo alleggerire oltre che il portafogli anche il nostro cuore.
Anche la meravigliosa Praça de Touros, a Campo Pequeno, è stata devastata dal centro commerciale: sotto il circo delle corride, potrete trovare para-farmacie, supermercati e, chiaro, fast food in abbondanza. Chissà, potrebbe essere un modo per finanziare i costosi restauri del Colosseo o per dare una nuova vita al Pantheon o a Campo dei Fiori, non vi pare?
Beh certo ogni processo di modernizzazione ha i suoi contraltari, ma si sa un prezzo va pure pagato per il progresso. Avere un negozio al centro commerciale è caro e se ne sei fuori nessuno ti conosce, difficile reggere sul mercato. Chi se lo può permettere? Così le grandi catene prendono il posto dei vecchi, slabbrati e polverosi negozietti: Zara, Massimo Dutti, Vobis, Calzedonia e Mediaworld tanto per citare a memoria. Processo di uniformizzazione? Forse, ma suvvia non facciamo i polemici, in fondo il fatto che ci si vesta tutti negli stessi negozi potrebbe avere anche qualche aspetto positivo: ricordate il tanto criticato modello sovietico?
A ben guardare c'è però un altro piccolo regalo che i processi di liberalizzazione di orari e licenze hanno portato: la desertificazione delle città e questo per due motivi. Innanzitutto, il piccolo commerciante i soldi per tenere aperto il suo negozio dalle 9 del mattino alla mezzanotte non li ha e quindi deve chiudere. In secondo luogo perché le catene si concentrano in pochi spazi, oltre ai centri commerciali ci sono le vie del centro, solo quelle più trafficate, chiaro! Così la rua Augusta, che porta alla maestosa praça do Comercio, quella della scena finale del film Sostiene Pereira, diventa uguale a tante vie del centro di altri luoghi sparsi un po' in tutto il mondo, ma questo è problema studiato. Lo aveva previsto Pasolini nel 1974 che una società ancora troppo contadina come quella portoghese male avrebbe resistito al «totalitarismo del capitalismo del consumo».
La liberalizzazione degli orari di vendita ha portato con sé, in Portogallo, quella delle licenze di costruzione. E la città ne è uscita sfigurata
C'è una cosa su cui il Portogallo è sicuramente molto avanti rispetto all'Italia: le liberalizzazioni. Qui questo annoso e antipatico problema degli orari dei negozi è stato risolto da tempo: la libertà di scelta dei negozianti è ampia e così i clienti non sono più vincolati da «assurde» leggi dal carattere vagamente bolscevico (come accade ad esempio in Germania, Svizzera o Belgio) che impediscono loro di acquistare quando meglio credono. Dalle 9 del mattino alla mezzanotte, dal lunedì alla domenica supermercati, libri, farmacie, tecnologie varie, vestititi eccetera: non resterete mai a secco.
Concomitante, o conseguente, a questo processo di liberalizzazione degli orari di vendita anche la liberalizzazione sostanziale delle licenze di costruzione. La Lisbona dei quartieri arabi come l'Alfama e la Mouraria, del Fado di Amalia Rodriguez e della Rivoluzione dei Capitani di aprile si è «finalmente» modernizzata. Nuovi panorami caratterizzano oggi la città, fra i quali certamente merita di essere citato l'avveniristico centro commerciale «Colombo» che, fino a pochi anni fa, era uno degli spazi di vendita più grandi d'Europa, facilmente raggiungibile con la metropolitana. Un luogo, o meglio un non luogo, fatto di strade, piazze, parchi e, non ci crederete mai, anche una piccola cappella. Si sa quando facciamo acquisti ci sentiamo sempre un po' in colpa, nel caso ci si confessa e via possiamo alleggerire oltre che il portafogli anche il nostro cuore.
Anche la meravigliosa Praça de Touros, a Campo Pequeno, è stata devastata dal centro commerciale: sotto il circo delle corride, potrete trovare para-farmacie, supermercati e, chiaro, fast food in abbondanza. Chissà, potrebbe essere un modo per finanziare i costosi restauri del Colosseo o per dare una nuova vita al Pantheon o a Campo dei Fiori, non vi pare?
Beh certo ogni processo di modernizzazione ha i suoi contraltari, ma si sa un prezzo va pure pagato per il progresso. Avere un negozio al centro commerciale è caro e se ne sei fuori nessuno ti conosce, difficile reggere sul mercato. Chi se lo può permettere? Così le grandi catene prendono il posto dei vecchi, slabbrati e polverosi negozietti: Zara, Massimo Dutti, Vobis, Calzedonia e Mediaworld tanto per citare a memoria. Processo di uniformizzazione? Forse, ma suvvia non facciamo i polemici, in fondo il fatto che ci si vesta tutti negli stessi negozi potrebbe avere anche qualche aspetto positivo: ricordate il tanto criticato modello sovietico?
A ben guardare c'è però un altro piccolo regalo che i processi di liberalizzazione di orari e licenze hanno portato: la desertificazione delle città e questo per due motivi. Innanzitutto, il piccolo commerciante i soldi per tenere aperto il suo negozio dalle 9 del mattino alla mezzanotte non li ha e quindi deve chiudere. In secondo luogo perché le catene si concentrano in pochi spazi, oltre ai centri commerciali ci sono le vie del centro, solo quelle più trafficate, chiaro! Così la rua Augusta, che porta alla maestosa praça do Comercio, quella della scena finale del film Sostiene Pereira, diventa uguale a tante vie del centro di altri luoghi sparsi un po' in tutto il mondo, ma questo è problema studiato. Lo aveva previsto Pasolini nel 1974 che una società ancora troppo contadina come quella portoghese male avrebbe resistito al «totalitarismo del capitalismo del consumo».
"Vi mostriamo come si muore di povertà"
Fonte: dirittiglobali - FRANCESCA RUSSI - la Repubblica
Martedì 10 Gennaio 2012 11:58 -
Bari, il biglietto di addio di due coniugi. Lui aveva perso il lavoro,
si sono uccisi insieme
BARI - «Vivere senza un lavoro, specie se si è in età avanzata ma ancora produttiva è
peggio di una diagnosi di cancro: mentre questa ti conserva la dignità e gli affetti, la condizione
di disoccupato, oltre a spingerti a rinunciare alla vita, ti fa perdere la dignità, gli affetti e gli amici.
Da malato ti sono tutti attorno, premurosi e generosi, da disoccupato tutti ti evitano, giudicandoti
un incapace degno soltanto del minimo vitale». È un testamento spirituale quello che Salvatore
De Salvo, 64 anni e da 7 senza un lavoro, lascia a tutti prima di morire. Sono le ultime parole,
affidate a un blog, prima di farla finita in compagnia della moglie.
Il cadavere di De Salvo è stato restituito dal mare domenica mattina. Il corpo della donna,
Antonia Azzolini, 69 anni, è stato trovato invece poche ore dopo sul letto di una stanza
d´albergo del lungomare di Bari. È qui che i due avrebbero deciso di suicidarsi. Forse
assumendo barbiturici. È l´ipotesi al vaglio di carabinieri e polizia: sui due corpi infatti non sono
state trovate lesioni evidenti, ma sarà l´autopsia a confermare come sono morti i coniugi. Nella
camera però sono state trovate decine di lettere che raccontano la disperazione dei due.
Il dramma della coppia inizia nel 2004 quando Salvatore, rappresentante di tessuti, perde il
lavoro. I due scivolano in una profonda depressione. Provano per due volte a suicidarsi
assumendo barbiturici ma qualcosa non va e si risvegliano di nuovo insieme. Nel 2007 vengono
sfrattati e chiedono aiuto ai servizi sociali. Attraverso l´intervento del Comune di Bari vengono
ospitati in un alloggio sociale. Cercano di risalire la china. Salvatore scrive quasi 600 lettere di
richiesta di assunzione. Ma a 60 anni è difficile trovare un nuovo lavoro. Così l´uomo decide di
rivolgersi ai politici.
Martedì 10 Gennaio 2012 11:58 -
Bari, il biglietto di addio di due coniugi. Lui aveva perso il lavoro,
si sono uccisi insieme
BARI - «Vivere senza un lavoro, specie se si è in età avanzata ma ancora produttiva è
peggio di una diagnosi di cancro: mentre questa ti conserva la dignità e gli affetti, la condizione
di disoccupato, oltre a spingerti a rinunciare alla vita, ti fa perdere la dignità, gli affetti e gli amici.
Da malato ti sono tutti attorno, premurosi e generosi, da disoccupato tutti ti evitano, giudicandoti
un incapace degno soltanto del minimo vitale». È un testamento spirituale quello che Salvatore
De Salvo, 64 anni e da 7 senza un lavoro, lascia a tutti prima di morire. Sono le ultime parole,
affidate a un blog, prima di farla finita in compagnia della moglie.
Il cadavere di De Salvo è stato restituito dal mare domenica mattina. Il corpo della donna,
Antonia Azzolini, 69 anni, è stato trovato invece poche ore dopo sul letto di una stanza
d´albergo del lungomare di Bari. È qui che i due avrebbero deciso di suicidarsi. Forse
assumendo barbiturici. È l´ipotesi al vaglio di carabinieri e polizia: sui due corpi infatti non sono
state trovate lesioni evidenti, ma sarà l´autopsia a confermare come sono morti i coniugi. Nella
camera però sono state trovate decine di lettere che raccontano la disperazione dei due.
Il dramma della coppia inizia nel 2004 quando Salvatore, rappresentante di tessuti, perde il
lavoro. I due scivolano in una profonda depressione. Provano per due volte a suicidarsi
assumendo barbiturici ma qualcosa non va e si risvegliano di nuovo insieme. Nel 2007 vengono
sfrattati e chiedono aiuto ai servizi sociali. Attraverso l´intervento del Comune di Bari vengono
ospitati in un alloggio sociale. Cercano di risalire la china. Salvatore scrive quasi 600 lettere di
richiesta di assunzione. Ma a 60 anni è difficile trovare un nuovo lavoro. Così l´uomo decide di
rivolgersi ai politici.
Cinque domande sulla crisi a Andrea Fumagalli, Christian Marazzi e Carlo Vercellone
a cura di SANDRO MEZZADRA e TONI NEGRI. controlacrisi
L’approfondimento della crisi, con le sue devastanti conseguenze sociali, continua a spiazzare consolidati paradigmi interpretativi. Ne risultano non soltanto la bancarotta della scienza economica mainstream, ma anche inedite sfide per quanti hanno continuato in questi anni a praticare in forme originali la critica dell’economia politica. In questione, sempre più chiaramente, ci sembra essere proprio il rapporto tra le categorie economiche e le categorie politiche. Per aprire la discussione all’interno del sito di UniNomade abbiamo rivolto cinque domande ad Andrea Fumagalli, Christian Marazzi e Carlo Vercellone. Presentiamo di seguito le risposte di Andrea e di Christian, in forma di dialogo. Carlo ha svolto alcune riflessioni sull’insieme dei temi da noi proposti: le si possono leggere in conclusione.
Pensate che davvero i mercati non abbiano una leadership latente, qualcuno che suggerisca le operazioni da fare? Questo fuori da ogni teoria del complotto, ma semplicemente dentro l’analisi di ogni meccanismo di decisione, che prevede momenti di unificazione cosciente e non semplicemente condensazioni di spontaneità.
Andrea Fumagalli: le grandi società finanziarie hanno un comportamento che possiamo definire da oligopolio collusivo. Il loro scopo è fare plusvalenze. In questa fase, le plusvalenze più elevate sono ricavabili dallo scambio dei derivati Cds, in particolare quelli relativi al rischio di default privato e pubblico. La natura collusiva dell’oligopolio finanziario viene garantita dall’intermediazione svolta dalle società di rating. A partire dalla crisi dei sub-prime (fine 2007), si è assistito ad un ulteriore processo di concentrazione nei mercati finanziari. Ecco alcuni dati.
Se il Pil del mondo intero nel 2010 è stato di 74 mila miliardi di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 mila miliardi di dollari, le borse di tutto il mondo 50 mila miliardi, i derivati 466 mila miliardi. Tutti insieme questi mercati muovono un ammontare di ricchezza otto volte più grande di quella prodotta in termini reali: industrie, agricoltura, servizi. Tutto ciò è noto, ma ciò che spesso si dimentica è che tale processo, oltre a spostare il centro della valorizzazione e dell’accumulazione capitalistica dalla produzione materiale a quella immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria” caratterizzata da un elevato grado di concentrazione. Per quanto riguarda il settore bancario, i dati della Federal Reserve ci dicono che dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, circa una media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500. Al 2011, cinque Sim (Società di Intermediazione Mobiliare e divisioni bancarie: J.P Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas) hanno raggiunto il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati. Nel mercato azionario, le strategie di fusione e acquisizione hanno ridotto in modo consistente il numero delle società quotate. Ad oggi, le prime 10 società con maggiore capitalizzazione di borsa, pari allo 0,12% delle 7.800 società registrate, detengono il 41% del valore totale, il 47% del totale dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate. In tale processo di concentrazione, il ruolo principale è detenuto dagli investitori istituzionali (termine con il quale si indicano tutti quegli operatori finanziari – da Sim, a banche, a assicurazioni – che gestiscono per conto terzi gli investimenti finanziari: sono oggi coloro che negli anni ’30 Keynes definiva gli “speculatori di professione”). Oggi, sempre secondo i dati della Federal Reserve, gli investitori istituzionali trattano titoli per un valore nominale pari a 39 miliardi, il 68,4% del totale, con un incremento di 20 volte rispetto a venti anni fa. Inoltre, tale quota è aumentata nell’ultimo anno, grazie alla diffusione dei titoli di debito sovrano.
L’approfondimento della crisi, con le sue devastanti conseguenze sociali, continua a spiazzare consolidati paradigmi interpretativi. Ne risultano non soltanto la bancarotta della scienza economica mainstream, ma anche inedite sfide per quanti hanno continuato in questi anni a praticare in forme originali la critica dell’economia politica. In questione, sempre più chiaramente, ci sembra essere proprio il rapporto tra le categorie economiche e le categorie politiche. Per aprire la discussione all’interno del sito di UniNomade abbiamo rivolto cinque domande ad Andrea Fumagalli, Christian Marazzi e Carlo Vercellone. Presentiamo di seguito le risposte di Andrea e di Christian, in forma di dialogo. Carlo ha svolto alcune riflessioni sull’insieme dei temi da noi proposti: le si possono leggere in conclusione.
Pensate che davvero i mercati non abbiano una leadership latente, qualcuno che suggerisca le operazioni da fare? Questo fuori da ogni teoria del complotto, ma semplicemente dentro l’analisi di ogni meccanismo di decisione, che prevede momenti di unificazione cosciente e non semplicemente condensazioni di spontaneità.
Andrea Fumagalli: le grandi società finanziarie hanno un comportamento che possiamo definire da oligopolio collusivo. Il loro scopo è fare plusvalenze. In questa fase, le plusvalenze più elevate sono ricavabili dallo scambio dei derivati Cds, in particolare quelli relativi al rischio di default privato e pubblico. La natura collusiva dell’oligopolio finanziario viene garantita dall’intermediazione svolta dalle società di rating. A partire dalla crisi dei sub-prime (fine 2007), si è assistito ad un ulteriore processo di concentrazione nei mercati finanziari. Ecco alcuni dati.
Se il Pil del mondo intero nel 2010 è stato di 74 mila miliardi di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 mila miliardi di dollari, le borse di tutto il mondo 50 mila miliardi, i derivati 466 mila miliardi. Tutti insieme questi mercati muovono un ammontare di ricchezza otto volte più grande di quella prodotta in termini reali: industrie, agricoltura, servizi. Tutto ciò è noto, ma ciò che spesso si dimentica è che tale processo, oltre a spostare il centro della valorizzazione e dell’accumulazione capitalistica dalla produzione materiale a quella immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria” caratterizzata da un elevato grado di concentrazione. Per quanto riguarda il settore bancario, i dati della Federal Reserve ci dicono che dal 1980 al 2005 si sono verificate circa 11.500 fusioni, circa una media di 440 all’anno, riducendo in tal modo il numero delle banche a meno di 7.500. Al 2011, cinque Sim (Società di Intermediazione Mobiliare e divisioni bancarie: J.P Morgan, Bank of America, Citybank, Goldman Sachs, Hsbc Usa) e cinque banche (Deutsche Bank, Ubs, Credit Suisse, Citycorp-Merrill Linch, Bnp-Parisbas) hanno raggiunto il controllo di oltre il 90% del totale dei titoli derivati. Nel mercato azionario, le strategie di fusione e acquisizione hanno ridotto in modo consistente il numero delle società quotate. Ad oggi, le prime 10 società con maggiore capitalizzazione di borsa, pari allo 0,12% delle 7.800 società registrate, detengono il 41% del valore totale, il 47% del totale dei ricavi e il 55% delle plusvalenze registrate. In tale processo di concentrazione, il ruolo principale è detenuto dagli investitori istituzionali (termine con il quale si indicano tutti quegli operatori finanziari – da Sim, a banche, a assicurazioni – che gestiscono per conto terzi gli investimenti finanziari: sono oggi coloro che negli anni ’30 Keynes definiva gli “speculatori di professione”). Oggi, sempre secondo i dati della Federal Reserve, gli investitori istituzionali trattano titoli per un valore nominale pari a 39 miliardi, il 68,4% del totale, con un incremento di 20 volte rispetto a venti anni fa. Inoltre, tale quota è aumentata nell’ultimo anno, grazie alla diffusione dei titoli di debito sovrano.
martedì 10 gennaio 2012
“Que se vayan todos”, l’Argentina dieci anni dopo il crac
di elvira Corona. unimondo
Siamo a pochi giorni dal Natale 2001, e il paese del Cono Sur è in una profonda crisi economica, finanziaria, politica e sociale, dovuta alle scelte scellerate di un governo neoliberista che - conclusasi la triste parentesi della dittatura - ha svenduto il paese ai privati, principalmente stranieri, seguendo tutte le ricette del Fondo Monetario Internazionale. Tanto da guadagnarsi il plauso e l’appellativo di migliore alunno dall’istituzione finanziaria internazionale.
Ma gli argentini non ci stanno, dopo anni di dittatura militare che conta 30 mila desaparecidos - persone scomode al regime fatte letteralmente sparire - ora non è disponibile ad accettare passivamente la desaparicion economica - come l’hanno chiamata alcuni analisti - cioè la retrocessione a uno stato di povertà che rende invisibili non solo i bisogni delle persone, ma le persone stesse. Per questo la notte del 19 dicembre 2001 prima a Buenos Aires e poi in tutte le maggiori città e piccoli paesi dell’Argentina, la gente esausta, senza un’organizzazione nè un leader, scende in strada a protestare con lo slogan !Que se vayan todos” (che se ne vadano tutti). Già, todos, perché nessuno fino ad allora era riuscito a dare risposte alla nazione ricca di risorse naturali ma sull’orlo del baratro. I politici sopratutto, arroccati al potere con un Carlos Menem che da dieci anni alla Casa Rosada, insieme al suo ministro dell’economia Domingo Cavallo, erano riusciti a svendere il paese, pezzo per pezzo, inaugurando l’illusorio piano di convertibilità monetaria un peso/un dollaro, ma anche a proteggere gli interessi economici dell’elite. Ferrovie, società petrolifere, poste, trasporto aereo, energia elettrica, telecomunicazioni, i settori strategici di uno Stato furono i primi ad essere svenduti a prezzi di saldo, in un contesto di corruzione dilagante.
Le nuove riforme che danno spazio alla flessibilità lavorativa e la liberalizzazione di mercati di beni e denaro fanno il resto, portando il paese sul lastrico, con tassi di disoccupazione vicini al 50% della popolazione. Nel frattempo le banche prestano i soldi dei propri risparmiatori per finanziare affari rischiosissimi, per questo decidono che ogni correntista non poteva prelevare più di 250 pesos alla settimana. E’ il corralito, la goccia che fa traboccare il vaso. Gli argentini assaltano i bancomat, i supermercati e si scontrano con la polizia in una guerriglia urbana che fa più di 30 morti.
Siamo a pochi giorni dal Natale 2001, e il paese del Cono Sur è in una profonda crisi economica, finanziaria, politica e sociale, dovuta alle scelte scellerate di un governo neoliberista che - conclusasi la triste parentesi della dittatura - ha svenduto il paese ai privati, principalmente stranieri, seguendo tutte le ricette del Fondo Monetario Internazionale. Tanto da guadagnarsi il plauso e l’appellativo di migliore alunno dall’istituzione finanziaria internazionale.
Ma gli argentini non ci stanno, dopo anni di dittatura militare che conta 30 mila desaparecidos - persone scomode al regime fatte letteralmente sparire - ora non è disponibile ad accettare passivamente la desaparicion economica - come l’hanno chiamata alcuni analisti - cioè la retrocessione a uno stato di povertà che rende invisibili non solo i bisogni delle persone, ma le persone stesse. Per questo la notte del 19 dicembre 2001 prima a Buenos Aires e poi in tutte le maggiori città e piccoli paesi dell’Argentina, la gente esausta, senza un’organizzazione nè un leader, scende in strada a protestare con lo slogan !Que se vayan todos” (che se ne vadano tutti). Già, todos, perché nessuno fino ad allora era riuscito a dare risposte alla nazione ricca di risorse naturali ma sull’orlo del baratro. I politici sopratutto, arroccati al potere con un Carlos Menem che da dieci anni alla Casa Rosada, insieme al suo ministro dell’economia Domingo Cavallo, erano riusciti a svendere il paese, pezzo per pezzo, inaugurando l’illusorio piano di convertibilità monetaria un peso/un dollaro, ma anche a proteggere gli interessi economici dell’elite. Ferrovie, società petrolifere, poste, trasporto aereo, energia elettrica, telecomunicazioni, i settori strategici di uno Stato furono i primi ad essere svenduti a prezzi di saldo, in un contesto di corruzione dilagante.
Le nuove riforme che danno spazio alla flessibilità lavorativa e la liberalizzazione di mercati di beni e denaro fanno il resto, portando il paese sul lastrico, con tassi di disoccupazione vicini al 50% della popolazione. Nel frattempo le banche prestano i soldi dei propri risparmiatori per finanziare affari rischiosissimi, per questo decidono che ogni correntista non poteva prelevare più di 250 pesos alla settimana. E’ il corralito, la goccia che fa traboccare il vaso. Gli argentini assaltano i bancomat, i supermercati e si scontrano con la polizia in una guerriglia urbana che fa più di 30 morti.
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BENVENUTI AD AZZARDOPOLI
Fonte: libera
Un paese dove si spendono circa 1260 euro procapite,neonati compresi, per tentare la fortuna che possa cambiare la vita tra videopoker, slot-machine, gratta e vinci, sale bingo. E dove si stimano 800mila persone dipendenti da gioco d'azzardo e quasi due milioni di giocatori a rischio. Un fatturato legale stimato in 76,1 miliardi di euro, a cui si devono aggiungere, mantenendoci prudenti, i dieci miliardi di quello illegale. E' "la terza impresa" italiana, l'unica con un bilancio sempre in attivo e che non risente della crisi che colpisce il nostro paese. Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie ha presentato il dossier Azzardopoli, il paese del gioco d'azzardo, dove quando il gioco si fa duro, le mafie iniziano a giocare che fotografa con storie e numeri una vera calamità economica, sociale e criminale, curato da Daniele Poto e che prossimamente diventerà una pubblicazione. Sono ben 41 clan che gestiscono "i giochi delle mafie" e fanno saltare il banco. Da Chivasso a Caltanissetta, passando per la via Emilia e la Capitale. Con i soliti noti seduti al "tavolo verde" dai Casalesi di Bidognetti ai Mallardo, da Santapaola ai Condello, dai Mancuso ai Cava, dai Lo Piccolo agli Schiavone. Le mafie sui giochi non vanno mai in tilt e di fatto si accreditano ad essere l'undicesimo concessionario "occulto" del Monopolio. Sono ben dieci le Procure della Repubblica direzioni distrettuali antimafia che nell'ultimo anno hanno effettuati indagini: Bologna, Caltanissetta, Catania, Firenze, Lecce, Napoli, Palermo, Potenza, Reggio Calabria, Roma. Sono invece 22 le città dove nel 2010 sono stati effettuate indagini e operazioni delle Forze di Polizia in materia di gioco d'azzardo con arresti e sequestri direttamente riferibili alla criminalità organizzata.
Ad Azzardopoli i clan fanno il loro gioco. Sono tante, svariate e di vera fantasia criminale i modi e le tipologie fare bingo. Infiltrazioni delle società di gestione di punti scommesse, di Sale Bingo,che si prestano in modo "legale" ad essere le "lavanderie" per riciclaggio di soldi sporchi. Imposizione di noleggio di apparecchi di videogiochi, gestione di bische clandestine, toto nero e clandestino. Il grande mondo del calcio scommesse, un mercato che da solo vale oltre 2,5 miliardi di euro. La grande giostra intorno alle scommesse delle corse clandestine dei cavalli e del mondo dell'ippica. Sale giochi utilizzate per adescare le persone in difficoltà, bisognose di soldi, che diventano vittime dell'usura. Il racket delle slotmachine. E non ultimo quello dell'acquisto da parte dei clan dei biglietti vincenti di Lotto, Superenalotto, Gratta e vinci. I clan sono pronto infatti a comprare da normali giocatori i biglietti vincenti, pagando un sovrapprezzo che va dal cinque al dieci per cento: una una maniera "pulita" per riciclare il denaro sporco. Esibendo alle forze di polizia i tagliandi vincenti di giochi e lotterie possono infatti giustificare l´acquisto di beni e attività commerciali. Eludendo così i sequestri.
Un paese dove si spendono circa 1260 euro procapite,neonati compresi, per tentare la fortuna che possa cambiare la vita tra videopoker, slot-machine, gratta e vinci, sale bingo. E dove si stimano 800mila persone dipendenti da gioco d'azzardo e quasi due milioni di giocatori a rischio. Un fatturato legale stimato in 76,1 miliardi di euro, a cui si devono aggiungere, mantenendoci prudenti, i dieci miliardi di quello illegale. E' "la terza impresa" italiana, l'unica con un bilancio sempre in attivo e che non risente della crisi che colpisce il nostro paese. Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie ha presentato il dossier Azzardopoli, il paese del gioco d'azzardo, dove quando il gioco si fa duro, le mafie iniziano a giocare che fotografa con storie e numeri una vera calamità economica, sociale e criminale, curato da Daniele Poto e che prossimamente diventerà una pubblicazione. Sono ben 41 clan che gestiscono "i giochi delle mafie" e fanno saltare il banco. Da Chivasso a Caltanissetta, passando per la via Emilia e la Capitale. Con i soliti noti seduti al "tavolo verde" dai Casalesi di Bidognetti ai Mallardo, da Santapaola ai Condello, dai Mancuso ai Cava, dai Lo Piccolo agli Schiavone. Le mafie sui giochi non vanno mai in tilt e di fatto si accreditano ad essere l'undicesimo concessionario "occulto" del Monopolio. Sono ben dieci le Procure della Repubblica direzioni distrettuali antimafia che nell'ultimo anno hanno effettuati indagini: Bologna, Caltanissetta, Catania, Firenze, Lecce, Napoli, Palermo, Potenza, Reggio Calabria, Roma. Sono invece 22 le città dove nel 2010 sono stati effettuate indagini e operazioni delle Forze di Polizia in materia di gioco d'azzardo con arresti e sequestri direttamente riferibili alla criminalità organizzata.
Ad Azzardopoli i clan fanno il loro gioco. Sono tante, svariate e di vera fantasia criminale i modi e le tipologie fare bingo. Infiltrazioni delle società di gestione di punti scommesse, di Sale Bingo,che si prestano in modo "legale" ad essere le "lavanderie" per riciclaggio di soldi sporchi. Imposizione di noleggio di apparecchi di videogiochi, gestione di bische clandestine, toto nero e clandestino. Il grande mondo del calcio scommesse, un mercato che da solo vale oltre 2,5 miliardi di euro. La grande giostra intorno alle scommesse delle corse clandestine dei cavalli e del mondo dell'ippica. Sale giochi utilizzate per adescare le persone in difficoltà, bisognose di soldi, che diventano vittime dell'usura. Il racket delle slotmachine. E non ultimo quello dell'acquisto da parte dei clan dei biglietti vincenti di Lotto, Superenalotto, Gratta e vinci. I clan sono pronto infatti a comprare da normali giocatori i biglietti vincenti, pagando un sovrapprezzo che va dal cinque al dieci per cento: una una maniera "pulita" per riciclare il denaro sporco. Esibendo alle forze di polizia i tagliandi vincenti di giochi e lotterie possono infatti giustificare l´acquisto di beni e attività commerciali. Eludendo così i sequestri.
Non è il lavoratore protetto a creare il precario
di Francesco Bogliacino controlacrisi
Analizziamo i modelli di chi vuole “riformare” il mercato del lavoro e abolire l’articolo 18: i risultati non migliorano la situazione dei precari, ma delle imprese
Precari contro garantiti? Proviamo a fare un piccolo ragionamento di economia. Dell’articolo 18 si si sanno i termini del problema: vieta il licenziamento discriminatorio, a cui per il momento siamo ancora tutti contrari (ma aspettiamoci qualche mossa da parte di un “riformista” con la mania di apparire sui giornali, sotto il titolo leggermente abusato “Niente tabù”) e vieta quello senza motivazione economica oggettiva, cioè consente di licenziare per una riorganizzazione dell’attività, ma non perché qualcuno si offre semplicemente di lavorare a un salario più basso.
I giuslavoristi confermano che di cause in tribunale per articolo 18 praticamente non se ne fanno; ma questo può voler dire poco, visto che le imprese e i lavoratori lo scontano nelle loro decisioni. Quanti sono i lavoratori “garantiti” dall’articolo 18, che si applica alle imprese oltre i 15 addetti? Una stima ragionevole è intorno al 45% degli occupati nel settore privato (Eurostat ci dice che gli addetti di industria, costruzioni e servizi in aziende sopra i 10 dipendenti sono il 50.75% del totale nel 2008, anno pre-crisi).
Se i garantiti creassero i precari, si dovrebbe quantomeno riscontrare un “effetto soglia” nei dati empirici: le imprese “scapperebbero” sotto i 15 dipendenti. Ci sono gli studi di Boeri e Jimeno (pubblicato nel 2005 su European Economic Review) e un Tema di Discussione della Banca d’Italia di Schivardi e Torrini (il 504 del 2004). In entrambi i casi, l’effetto soglia, se esiste, è quantitativamente molto piccolo. Questo implica che rimuovere il vincolo avrebbe un effetto molto limitato: l’Italia è terra di piccole imprese; bello o brutto che sia, non sembra causato dall’esistenza dell’articolo 18. Se avete un cane di 100 chili che passa il giorno a dormire sul divano, non avrete grande effetto aprendogli la porta di casa.
Il punto analitico è un altro. Prendiamo sul serio i modelli neoclassici del mercato del lavoro e il punto di vista dei “riformatori”. Ragioniamo di tutele in generale; ipotizziamo un mercato del lavoro standard, con imprese e lavoratori che domandano e offrono lavoro. Tutti hanno accesso alla stessa informazione. Domanda e offerta si incrociano in un punto solo che è il salario di equilibrio. Se per qualche ragione (potere contrattuale o costi di licenziamento) per un gruppo di lavoratori il salario è al di sopra del livello di equilibrio, mentre per gli altri è liberamente contrattato (cocopro e affini) sono i primi a determinare la condizione dei secondi? Niente affatto, perché ciò che conta è la condizione “al margine”, dell’ultimo lavoratore che viene assunto. Per il lavoratore “al margine” i salari sono uguali al suo salario “di riserva”, cioè appena sufficienti a convincerlo a lavorare. L’offerta di lavoro dei lavoratori “al margine” non è determinata dalle condizioni del mercato dei garantiti, ma dal salario che sono disposti ad accettare. In situazione di dualismo ci saranno lavoratori con un salario più alto e altri con un salario più basso, a parità di caratteristiche individuali e di altri fattori. È ingiusto, ma irrilevante per il risultato aggregato in termini di occupazione e salario di equilibrio. Se rimuoviamo del tutto le tutele, tutti i lavoratori avranno lo stesso salario di equilibrio, uguale a quello dei lavoratori non garantiti, che non cambiano in nulla la loro situazione. Semplicemente, i vantaggi che prima avevano i lavoratori protetti ora li ottiene l’impresa che paga salari più bassi.
Analizziamo i modelli di chi vuole “riformare” il mercato del lavoro e abolire l’articolo 18: i risultati non migliorano la situazione dei precari, ma delle imprese
Precari contro garantiti? Proviamo a fare un piccolo ragionamento di economia. Dell’articolo 18 si si sanno i termini del problema: vieta il licenziamento discriminatorio, a cui per il momento siamo ancora tutti contrari (ma aspettiamoci qualche mossa da parte di un “riformista” con la mania di apparire sui giornali, sotto il titolo leggermente abusato “Niente tabù”) e vieta quello senza motivazione economica oggettiva, cioè consente di licenziare per una riorganizzazione dell’attività, ma non perché qualcuno si offre semplicemente di lavorare a un salario più basso.
I giuslavoristi confermano che di cause in tribunale per articolo 18 praticamente non se ne fanno; ma questo può voler dire poco, visto che le imprese e i lavoratori lo scontano nelle loro decisioni. Quanti sono i lavoratori “garantiti” dall’articolo 18, che si applica alle imprese oltre i 15 addetti? Una stima ragionevole è intorno al 45% degli occupati nel settore privato (Eurostat ci dice che gli addetti di industria, costruzioni e servizi in aziende sopra i 10 dipendenti sono il 50.75% del totale nel 2008, anno pre-crisi).
Se i garantiti creassero i precari, si dovrebbe quantomeno riscontrare un “effetto soglia” nei dati empirici: le imprese “scapperebbero” sotto i 15 dipendenti. Ci sono gli studi di Boeri e Jimeno (pubblicato nel 2005 su European Economic Review) e un Tema di Discussione della Banca d’Italia di Schivardi e Torrini (il 504 del 2004). In entrambi i casi, l’effetto soglia, se esiste, è quantitativamente molto piccolo. Questo implica che rimuovere il vincolo avrebbe un effetto molto limitato: l’Italia è terra di piccole imprese; bello o brutto che sia, non sembra causato dall’esistenza dell’articolo 18. Se avete un cane di 100 chili che passa il giorno a dormire sul divano, non avrete grande effetto aprendogli la porta di casa.
Il punto analitico è un altro. Prendiamo sul serio i modelli neoclassici del mercato del lavoro e il punto di vista dei “riformatori”. Ragioniamo di tutele in generale; ipotizziamo un mercato del lavoro standard, con imprese e lavoratori che domandano e offrono lavoro. Tutti hanno accesso alla stessa informazione. Domanda e offerta si incrociano in un punto solo che è il salario di equilibrio. Se per qualche ragione (potere contrattuale o costi di licenziamento) per un gruppo di lavoratori il salario è al di sopra del livello di equilibrio, mentre per gli altri è liberamente contrattato (cocopro e affini) sono i primi a determinare la condizione dei secondi? Niente affatto, perché ciò che conta è la condizione “al margine”, dell’ultimo lavoratore che viene assunto. Per il lavoratore “al margine” i salari sono uguali al suo salario “di riserva”, cioè appena sufficienti a convincerlo a lavorare. L’offerta di lavoro dei lavoratori “al margine” non è determinata dalle condizioni del mercato dei garantiti, ma dal salario che sono disposti ad accettare. In situazione di dualismo ci saranno lavoratori con un salario più alto e altri con un salario più basso, a parità di caratteristiche individuali e di altri fattori. È ingiusto, ma irrilevante per il risultato aggregato in termini di occupazione e salario di equilibrio. Se rimuoviamo del tutto le tutele, tutti i lavoratori avranno lo stesso salario di equilibrio, uguale a quello dei lavoratori non garantiti, che non cambiano in nulla la loro situazione. Semplicemente, i vantaggi che prima avevano i lavoratori protetti ora li ottiene l’impresa che paga salari più bassi.
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Ripensare l’economia per ritrovare le politiche.
di Roberto Schiattarella. sbilanciamoci
La crisi è anche il risultato degli schemi conoscitivi dell’economia tradizionale. Le soluzioni richiedono interventi che riflettano un diverso modo di pensare. A cominciare dalla finanza, dal debito, dal lavoro, dalla distribuzione del reddito
Alcuni interventi usciti su Sbilanciamoci hanno messo giustamente in evidenza il carattere paradossale che ha assunto la politica di intervento a partire dall’insorgere della crisi, in particolare in Europa. Il fatto che si parli di articolo 18 quando il problema è chiaramente quello della disoccupazione di lungo periodo, che la banca centrale abbia deciso di passare attraverso il sistema bancario europeo per sostenere i paesi con problemi di debito sovrano, permettendo a questo di lucrare abbondantemente nell’intermediazione, può costituire una misura del ruolo assunto dalla finanza nel sistema economico internazionale. Ruolo che emerge forse anche con maggiore chiarezza nel fatto che quegli stessi mercati finanziari che, nell’opinione comune, con i loro comportamenti a dir poco omertosi, hanno contribuito all’esplodere della crisi, si ritrovano ad essere considerati i giudici della qualità delle manovre economiche avviate per risolvere i problemi di debito pubblico di alcuni paesi che sicuramente le politiche di salvataggio della finanza hanno accentuato.
Guardando le cose un po’ più da lontano mi sembra che si possa dire che la politica di intervento stia apparendo sempre più paradossale per tre ordini di motivi. Il primo è che in momenti di crisi è molto più difficile che una società che sta pagando costi elevati dia per scontato il fatto che siano le strutture sociali all’interno dei singoli paesi ad adattarsi alle regole imposte dai mercati finanziari, e non il contrario. Il secondo è perché il contenuto delle risposte che si stanno dando alla crisi rende più trasparente da un lato il potere dei mercati finanziari nel condizionare il nostro modo di vivere e, dall’altro, il fatto che questi mercati sono il luogo dove si coagulano – e si organizzano – interessi che quasi mai coincidono con quelli della gran parte delle società nazionali. In sostanza perché le regole che ci governano, plasmate in funzione degli interessi dei gruppi sociali più forti, hanno attivato meccanismi economici che entrano in misura crescente in conflitto con diritti che la società considerava ormai acquisiti. Ma esiste un terzo motivo, forse anche più determinante nel far apparire paradossali le politiche che si stanno perseguendo. La percezione diffusa è che queste politiche, nonostante gli alti costi sociali connessi a esse, non riescano a garantire il raggiungimento dei risultati sperati. Quella che sta emergendo, in altre parole, è una consapevolezza crescente non solo del fatto che un sistema internazionale centrato sui mercati finanziari incontra ostacoli significativi, ma non funziona più la cultura che quel mondo aveva generato. Quella che si è realizzata, in altre parole, è una frattura tra “il progetto operativo” a cui si è fatto riferimento in questi anni (e quindi “gli schemi conoscitivi” che ne hanno costituito il retroterra) e che viene riproposto con la politica di intervento e gli obiettivi che è diventato necessario perseguire.
Se il compito degli economisti (come ricordano Kuznets e Myrdal) può essere considerato normalmente quello di sollecitare la politica affinché “siano realizzate tempestivamente le trasformazioni istituzionali e ideologiche essenziali per l’avanzamento civile”, credo che tutti noi dobbiamo avere la coscienza che in un momento in cui il nesso tra obiettivi, schema conoscitivo e progetto operativo è in qualche modo da ricostruire, in cui la politica è estremamente debole, questo compito richiede uno sforzo assolutamente eccezionale. Eccezionale ma reso necessario dalla consapevolezza che la tendenza all’impoverimento dei ceti medi non può che minare la coesione sociale e politica in Europa e in Italia con il conseguente rafforzamento delle posizioni populiste – che hanno avuto come massimo esponente Berlusconi – e indebolimento delle democrazie.
La crisi è anche il risultato degli schemi conoscitivi dell’economia tradizionale. Le soluzioni richiedono interventi che riflettano un diverso modo di pensare. A cominciare dalla finanza, dal debito, dal lavoro, dalla distribuzione del reddito
Alcuni interventi usciti su Sbilanciamoci hanno messo giustamente in evidenza il carattere paradossale che ha assunto la politica di intervento a partire dall’insorgere della crisi, in particolare in Europa. Il fatto che si parli di articolo 18 quando il problema è chiaramente quello della disoccupazione di lungo periodo, che la banca centrale abbia deciso di passare attraverso il sistema bancario europeo per sostenere i paesi con problemi di debito sovrano, permettendo a questo di lucrare abbondantemente nell’intermediazione, può costituire una misura del ruolo assunto dalla finanza nel sistema economico internazionale. Ruolo che emerge forse anche con maggiore chiarezza nel fatto che quegli stessi mercati finanziari che, nell’opinione comune, con i loro comportamenti a dir poco omertosi, hanno contribuito all’esplodere della crisi, si ritrovano ad essere considerati i giudici della qualità delle manovre economiche avviate per risolvere i problemi di debito pubblico di alcuni paesi che sicuramente le politiche di salvataggio della finanza hanno accentuato.
Guardando le cose un po’ più da lontano mi sembra che si possa dire che la politica di intervento stia apparendo sempre più paradossale per tre ordini di motivi. Il primo è che in momenti di crisi è molto più difficile che una società che sta pagando costi elevati dia per scontato il fatto che siano le strutture sociali all’interno dei singoli paesi ad adattarsi alle regole imposte dai mercati finanziari, e non il contrario. Il secondo è perché il contenuto delle risposte che si stanno dando alla crisi rende più trasparente da un lato il potere dei mercati finanziari nel condizionare il nostro modo di vivere e, dall’altro, il fatto che questi mercati sono il luogo dove si coagulano – e si organizzano – interessi che quasi mai coincidono con quelli della gran parte delle società nazionali. In sostanza perché le regole che ci governano, plasmate in funzione degli interessi dei gruppi sociali più forti, hanno attivato meccanismi economici che entrano in misura crescente in conflitto con diritti che la società considerava ormai acquisiti. Ma esiste un terzo motivo, forse anche più determinante nel far apparire paradossali le politiche che si stanno perseguendo. La percezione diffusa è che queste politiche, nonostante gli alti costi sociali connessi a esse, non riescano a garantire il raggiungimento dei risultati sperati. Quella che sta emergendo, in altre parole, è una consapevolezza crescente non solo del fatto che un sistema internazionale centrato sui mercati finanziari incontra ostacoli significativi, ma non funziona più la cultura che quel mondo aveva generato. Quella che si è realizzata, in altre parole, è una frattura tra “il progetto operativo” a cui si è fatto riferimento in questi anni (e quindi “gli schemi conoscitivi” che ne hanno costituito il retroterra) e che viene riproposto con la politica di intervento e gli obiettivi che è diventato necessario perseguire.
Se il compito degli economisti (come ricordano Kuznets e Myrdal) può essere considerato normalmente quello di sollecitare la politica affinché “siano realizzate tempestivamente le trasformazioni istituzionali e ideologiche essenziali per l’avanzamento civile”, credo che tutti noi dobbiamo avere la coscienza che in un momento in cui il nesso tra obiettivi, schema conoscitivo e progetto operativo è in qualche modo da ricostruire, in cui la politica è estremamente debole, questo compito richiede uno sforzo assolutamente eccezionale. Eccezionale ma reso necessario dalla consapevolezza che la tendenza all’impoverimento dei ceti medi non può che minare la coesione sociale e politica in Europa e in Italia con il conseguente rafforzamento delle posizioni populiste – che hanno avuto come massimo esponente Berlusconi – e indebolimento delle democrazie.
The Ideological Crisis of Western Capitalism
By Joseph Stiglitz. socialeurope
Just a few years ago, a powerful ideology – the belief in free and unfettered markets – brought the world to the brink of ruin. Even in its hey-day, from the early 1980’s until 2007, American-style deregulated capitalism brought greater material well-being only to the very richest in the richest country of the world. Indeed, over the course of this ideology’s 30-year ascendance, most Americans saw their incomes decline or stagnate year after year.
Moreover, output growth in the United States was not economically sustainable. With so much of US national income going to so few, growth could continue only through consumption financed by a mounting pile of debt.
I was among those who hoped that, somehow, the financial crisis would teach Americans (and others) a lesson about the need for greater equality, stronger regulation, and a better balance between the market and government. Alas, that has not been the case. On the contrary, a resurgence of right-wing economics, driven, as always, by ideology and special interests, once again threatens the global economy – or at least the economies of Europe and America, where these ideas continue to flourish.
In the US, this right-wing resurgence, whose adherents evidently seek to repeal the basic laws of math and economics, is threatening to force a default on the national debt. If Congress mandates expenditures that exceed revenues, there will be a deficit, and that deficit has to be financed. Rather than carefully balancing the benefits of each government expenditure program with the costs of raising taxes to finance those benefits, the right seeks to use a sledgehammer – not allowing the national debt to increase forces expenditures to be limited to taxes.
This leaves open the question of which expenditures get priority – and if expenditures to pay interest on the national debt do not, a default is inevitable. Moreover, to cut back expenditures now, in the midst of an ongoing crisis brought on by free-market ideology, would inevitably simply prolong the downturn.
A decade ago, in the midst of an economic boom, the US faced a surplus so large that it threatened to eliminate the national debt. Unaffordable tax cuts and wars, a major recession, and soaring health-care costs – fueled in part by the commitment of George W. Bush’s administration to giving drug companies free rein in setting prices, even with government money at stake – quickly transformed a huge surplus into record peacetime deficits.
Just a few years ago, a powerful ideology – the belief in free and unfettered markets – brought the world to the brink of ruin. Even in its hey-day, from the early 1980’s until 2007, American-style deregulated capitalism brought greater material well-being only to the very richest in the richest country of the world. Indeed, over the course of this ideology’s 30-year ascendance, most Americans saw their incomes decline or stagnate year after year.
Moreover, output growth in the United States was not economically sustainable. With so much of US national income going to so few, growth could continue only through consumption financed by a mounting pile of debt.
I was among those who hoped that, somehow, the financial crisis would teach Americans (and others) a lesson about the need for greater equality, stronger regulation, and a better balance between the market and government. Alas, that has not been the case. On the contrary, a resurgence of right-wing economics, driven, as always, by ideology and special interests, once again threatens the global economy – or at least the economies of Europe and America, where these ideas continue to flourish.
In the US, this right-wing resurgence, whose adherents evidently seek to repeal the basic laws of math and economics, is threatening to force a default on the national debt. If Congress mandates expenditures that exceed revenues, there will be a deficit, and that deficit has to be financed. Rather than carefully balancing the benefits of each government expenditure program with the costs of raising taxes to finance those benefits, the right seeks to use a sledgehammer – not allowing the national debt to increase forces expenditures to be limited to taxes.
This leaves open the question of which expenditures get priority – and if expenditures to pay interest on the national debt do not, a default is inevitable. Moreover, to cut back expenditures now, in the midst of an ongoing crisis brought on by free-market ideology, would inevitably simply prolong the downturn.
A decade ago, in the midst of an economic boom, the US faced a surplus so large that it threatened to eliminate the national debt. Unaffordable tax cuts and wars, a major recession, and soaring health-care costs – fueled in part by the commitment of George W. Bush’s administration to giving drug companies free rein in setting prices, even with government money at stake – quickly transformed a huge surplus into record peacetime deficits.
lunedì 9 gennaio 2012
Emiliano Brancaccio. Tobin Tax.
di Emiliano Brancaccio.
Quando Keynes (1936) e Tobin (1972) proposero, rispettivamente, un’imposta sulle transazioni finanziarie e un’imposta sulle transazioni valutarie, il loro scopo prioritario era quello di fissare un’aliquota sufficientemente elevata in modo da scoraggiare le transazioni. Il proposito principale, infatti, non era quello di ricavare gettito dagli scambi di titoli o di valuta. Al contrario, l’intento era di scoraggiare quegli scambi. In particolare, Keynes mirava a render costose le transazioni al fine di ridimensionare il ruolo della Borsa. Tobin puntava a rendere onerosi i movimenti internazionali di capitale in modo da ripristinare almeno in parte la sovranità dei singoli paesi sulla politica monetaria.
L’imposta di cui si parla oggi, invece, viene concepita con un’aliquota bassa, che cioè non scoraggi le transazioni. Il motivo è semplice: si vuole ottenere gettito fiscale dagli scambi, per cui questi non devono essere disincentivati. Apparentemente, tirare fuori un po’ di soldi dagli operatori finanziari sembra una mossa giusta e radicale, degna della tassa talvolta ribattezzata “Robin Hood”. Ma la verità è che, in tal modo, la vecchia e oggettivamente interessante proposta dei due maestri del pensiero economico viene ridotta alla stregua di un piccolo pedaggio: si dice infatti agli operatori finanziari che essi sono assolutamente liberi di scorazzare sulle autostrade dei mercati internazionali, purché ad ogni passaggio paghino un modestissimo obolo…
Naturalmente, l’adozione di una imposta sulle transazioni finanziarie potrebbe comunque esser salutata con favore, se non altro perché magari, in seguito, lo strumento potrebbe essere riorientato sui suoi veri obiettivi originari.
E’ chiaro però che considerare questa imposta - specialmente la sua attuale versione - come una “panacea” è semplicemente ridicolo. La polemica corrente intorno alla “imposta pedaggio autostradale” è dunque in gran parte fatta di fumo, e ci distrae soltanto dai problemi urgenti che incombono sulle nostre teste.
Emiliano Brancaccio*
* estensore della proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione di una imposta sulle transazioni valutarie, avanzata dalla associazione ATTAC e depositata in Parlamento nel 2002 con 180.000 firme di sostegno.
Quando Keynes (1936) e Tobin (1972) proposero, rispettivamente, un’imposta sulle transazioni finanziarie e un’imposta sulle transazioni valutarie, il loro scopo prioritario era quello di fissare un’aliquota sufficientemente elevata in modo da scoraggiare le transazioni. Il proposito principale, infatti, non era quello di ricavare gettito dagli scambi di titoli o di valuta. Al contrario, l’intento era di scoraggiare quegli scambi. In particolare, Keynes mirava a render costose le transazioni al fine di ridimensionare il ruolo della Borsa. Tobin puntava a rendere onerosi i movimenti internazionali di capitale in modo da ripristinare almeno in parte la sovranità dei singoli paesi sulla politica monetaria.
L’imposta di cui si parla oggi, invece, viene concepita con un’aliquota bassa, che cioè non scoraggi le transazioni. Il motivo è semplice: si vuole ottenere gettito fiscale dagli scambi, per cui questi non devono essere disincentivati. Apparentemente, tirare fuori un po’ di soldi dagli operatori finanziari sembra una mossa giusta e radicale, degna della tassa talvolta ribattezzata “Robin Hood”. Ma la verità è che, in tal modo, la vecchia e oggettivamente interessante proposta dei due maestri del pensiero economico viene ridotta alla stregua di un piccolo pedaggio: si dice infatti agli operatori finanziari che essi sono assolutamente liberi di scorazzare sulle autostrade dei mercati internazionali, purché ad ogni passaggio paghino un modestissimo obolo…
Naturalmente, l’adozione di una imposta sulle transazioni finanziarie potrebbe comunque esser salutata con favore, se non altro perché magari, in seguito, lo strumento potrebbe essere riorientato sui suoi veri obiettivi originari.
E’ chiaro però che considerare questa imposta - specialmente la sua attuale versione - come una “panacea” è semplicemente ridicolo. La polemica corrente intorno alla “imposta pedaggio autostradale” è dunque in gran parte fatta di fumo, e ci distrae soltanto dai problemi urgenti che incombono sulle nostre teste.
Emiliano Brancaccio*
* estensore della proposta di legge di iniziativa popolare per l’istituzione di una imposta sulle transazioni valutarie, avanzata dalla associazione ATTAC e depositata in Parlamento nel 2002 con 180.000 firme di sostegno.
Il gioco si fa sulla pelle dei lavoratori, ma il tavolo da gioco è da un'altra parte
di Zag in ListaSinistra
E' passato quasi sotto silenzio o perlomeno ha fatto poco rumore la notizia che il Super Draghi ha fatto dono di 489 miliardi di euro, destinati a 523 banche europee in difficoltà a un tasso di interesse dell’1% per tre anni. In questo non allontanandosi molto da quell'altro pacco dono preparato dalla Fed americana che si è fatta carico di titoli tossici legati ai mutui subprime per 1,45 trilioni di dollari che ancora ha sul groppone e che ancora non riesce a scrollarsi di dosso ( in realtà sono i popoli della terra che si sono sobbarcati questa monnezza a loro insaputa e senza nessuna contropartita.) La differenza sta nel fatto che la BCE l'operazione non l'ha fatta direttamente , ma dalle sue succursali. Ora la Fed ha compiuta l'operazione per sgravare le banche dai loro titoli tossici e consentendo così di non essere sommersi dallo sterco da loro stessi prodotto. La BCE invece ha colmato il sogno di alcuni(molti) economisti keynesiani, comparsi tutto d'un colpo e all'improvviso dopo la crisi rivelatasi nel 2008. La loro tesi è che immettendo liquidità nel sistema si possa spingere le banche a rilanciare il credito alle industrie e ai privati in modo da creare crescita nell'economia reale.
Ma il primo dubbio che sovviene è che sino a che i salari non saliranno e fino a che il potere di acquisto di lavoratori e pensionati non aumenta e sopratutto fino a che si continuano a fare manovre tutte lacrime e sangue per i lavoratori, c'è poco da immettere merci sul mercato, c'è poco da aumentare la produzione se poi le merci rimangono invendute nei magazzini.
E tutto questo anche se il meccanismo potesse veramente funzionare. Ma , appunto , vi è un altro inghippo all'origine. La banche ricevono danaro all'1% mentre i tassi d'interesse per i titoli di stato viaggiano al 7%. Cioè una rendita secca dell'6% ! Quindi le banche prendono soldi dallo stato per finanziare lo stato il quale a sua volta rigira il danaro alle stesse banche. I primi guadagnano un 6% e lo stato ci perde un altrettanto 6% . D'altronde questa genialata non è nuova, ma proviene da quella mente eccelsa del Tremonti pensiero con i suoi Tremonti bond. Niente di nuovo, ancora sotto il cielo!
Il dato che non si vuole/possono leggere è che non si dice, è che i famosi paesi a rischio default, i PIGS, costituiscono ancora la principale fonte di osservazione dei famosi CDS che sempre più perversano e pervadono i mercati di tutto il mondo. Questi cosidetti Credit Default Swap sono dei contratti assicurativi contro il default degli stati. Cioè una insolvenza di uno stato significa che la banca provvede a risarcire l'investitore coperto dal rischio default. l valore di mercato dei CDS sui titoli di stato è tanto più elevato quanto più una nazione è a rischio. Ad es. l’assicurazione contro il rischio di mancato pagamento degli interessi sui titoli greci corrisponde quasi al 100%, ossia bisogna raddoppiare il capitale investito in titoli greci se si vuole essere assicurati contro il rischio. Per i titoli italiani siamo al 5%, per quelli portoghesi all’11% e per i Bund tedeschi all’1%. Ma non finisce qua. Le Banche nel corso di questi anni hanno emesso molti duplicati di questi contratti assicurativi utilizzati a loro volta come prestiti, cui si deve un interesse, truffando così investitori di vario genere e le stesse banche che si trasferivano vicendevolmente questa spazzatura. L’esposizione delle grandi banche d’affari sui CDS di Portogallo, Italia, Grecia e Spagna ammonta a circa 500 miliardi di dollari
Da questo si chiarisce come la corsa sia da un lato da parte delle banche possessori di CDS a comprare titoli di stato per evitare che questi vadano in default e quindi costretti a pagare gli investitori di queste assicurazioni, e più volte visto che gli stessi CDS sono state riciclate più e più volte e dall'altro gli investitori che giocano al ribasso per favorire la corsa al default di quegli stati di cui posseggono i titoli e riscuotere la forma assicurativa.
Se non si ferma questa corsa , questa folle corsa, se non si ferma questa corsa a forme di investimenti drogati, derivati e similari, se non si ritorna a mettere regole e divieti ai capitali finanziari liberi di scorrazzare in giro per il mondo , non basteranno tutte le manovre Montiane o Tremontiane, a fermare lo spread o i gli interessi sui titoli di stato. I giochi si fanno sulla pelle dei cittadini, ma il tavolo da gioco è da un'altra parte!
--
Zag(c)
E' passato quasi sotto silenzio o perlomeno ha fatto poco rumore la notizia che il Super Draghi ha fatto dono di 489 miliardi di euro, destinati a 523 banche europee in difficoltà a un tasso di interesse dell’1% per tre anni. In questo non allontanandosi molto da quell'altro pacco dono preparato dalla Fed americana che si è fatta carico di titoli tossici legati ai mutui subprime per 1,45 trilioni di dollari che ancora ha sul groppone e che ancora non riesce a scrollarsi di dosso ( in realtà sono i popoli della terra che si sono sobbarcati questa monnezza a loro insaputa e senza nessuna contropartita.) La differenza sta nel fatto che la BCE l'operazione non l'ha fatta direttamente , ma dalle sue succursali. Ora la Fed ha compiuta l'operazione per sgravare le banche dai loro titoli tossici e consentendo così di non essere sommersi dallo sterco da loro stessi prodotto. La BCE invece ha colmato il sogno di alcuni(molti) economisti keynesiani, comparsi tutto d'un colpo e all'improvviso dopo la crisi rivelatasi nel 2008. La loro tesi è che immettendo liquidità nel sistema si possa spingere le banche a rilanciare il credito alle industrie e ai privati in modo da creare crescita nell'economia reale.
Ma il primo dubbio che sovviene è che sino a che i salari non saliranno e fino a che il potere di acquisto di lavoratori e pensionati non aumenta e sopratutto fino a che si continuano a fare manovre tutte lacrime e sangue per i lavoratori, c'è poco da immettere merci sul mercato, c'è poco da aumentare la produzione se poi le merci rimangono invendute nei magazzini.
E tutto questo anche se il meccanismo potesse veramente funzionare. Ma , appunto , vi è un altro inghippo all'origine. La banche ricevono danaro all'1% mentre i tassi d'interesse per i titoli di stato viaggiano al 7%. Cioè una rendita secca dell'6% ! Quindi le banche prendono soldi dallo stato per finanziare lo stato il quale a sua volta rigira il danaro alle stesse banche. I primi guadagnano un 6% e lo stato ci perde un altrettanto 6% . D'altronde questa genialata non è nuova, ma proviene da quella mente eccelsa del Tremonti pensiero con i suoi Tremonti bond. Niente di nuovo, ancora sotto il cielo!
Il dato che non si vuole/possono leggere è che non si dice, è che i famosi paesi a rischio default, i PIGS, costituiscono ancora la principale fonte di osservazione dei famosi CDS che sempre più perversano e pervadono i mercati di tutto il mondo. Questi cosidetti Credit Default Swap sono dei contratti assicurativi contro il default degli stati. Cioè una insolvenza di uno stato significa che la banca provvede a risarcire l'investitore coperto dal rischio default. l valore di mercato dei CDS sui titoli di stato è tanto più elevato quanto più una nazione è a rischio. Ad es. l’assicurazione contro il rischio di mancato pagamento degli interessi sui titoli greci corrisponde quasi al 100%, ossia bisogna raddoppiare il capitale investito in titoli greci se si vuole essere assicurati contro il rischio. Per i titoli italiani siamo al 5%, per quelli portoghesi all’11% e per i Bund tedeschi all’1%. Ma non finisce qua. Le Banche nel corso di questi anni hanno emesso molti duplicati di questi contratti assicurativi utilizzati a loro volta come prestiti, cui si deve un interesse, truffando così investitori di vario genere e le stesse banche che si trasferivano vicendevolmente questa spazzatura. L’esposizione delle grandi banche d’affari sui CDS di Portogallo, Italia, Grecia e Spagna ammonta a circa 500 miliardi di dollari
Da questo si chiarisce come la corsa sia da un lato da parte delle banche possessori di CDS a comprare titoli di stato per evitare che questi vadano in default e quindi costretti a pagare gli investitori di queste assicurazioni, e più volte visto che gli stessi CDS sono state riciclate più e più volte e dall'altro gli investitori che giocano al ribasso per favorire la corsa al default di quegli stati di cui posseggono i titoli e riscuotere la forma assicurativa.
Se non si ferma questa corsa , questa folle corsa, se non si ferma questa corsa a forme di investimenti drogati, derivati e similari, se non si ritorna a mettere regole e divieti ai capitali finanziari liberi di scorrazzare in giro per il mondo , non basteranno tutte le manovre Montiane o Tremontiane, a fermare lo spread o i gli interessi sui titoli di stato. I giochi si fanno sulla pelle dei cittadini, ma il tavolo da gioco è da un'altra parte!
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Zag(c)
Giorgio Cremaschi. Basta con le chiacchiere.
di Giorgio Cremaschi. megachip
Per far del bene ai giovani il governo ha deciso che si dovrà lavorare fino a 70 anni. Saranno proprio i giovani a vedere allungata in maniera così stupida e barbara la loro vita lavorativa prima della pensione. Perché proprio per essi varrà di più il meccanismo di penalizzazioni e compensazioni che costringerà chi ha lavoro, se ha la fortuna di conservarlo e di restare in salute, di restarvi fino a tarda età. Allo stesso modo ora, sul mercato del lavoro, si vuol fare altrettanto bene sempre ai giovani. Si propone, ci par di capire, un contratto a tempo indeterminato che abbia però un lunghissimo periodo di prova, da tre anni in su, durante il quale sia libera la possibilità di licenziare per il padrone.
A parte la stupidità di un provvedimento che vuole favorire l'occupazione con più facilità di licenziamento. A parte il fatto che l'essenza della precarietà è proprio il ricatto permanente sul posto di lavoro, che qui viene formalizzato nel periodo di prova infinito. A parte il fatto, insomma, che questo contratto è semplicemente il cavallo di Troia attraverso il quale passa la demolizione dell'articolo 18 per tutti i lavoratori; così come si è esteso a tutti i lavoratori il contributivo sulle pensioni, dopo che inizialmente lo si era affibbiato solo ai più giovani. A parte tutto questo, la malafede dell'operazione sta nel fatto che questo contratto "nuovo" si aggiunge semplicemente agli altri precari già esistenti, non ne cancella neanche uno. Sostanzialmente avremmo quindi il 46esimo contratto precario, dopo i 45 già definiti dal pacchetto Treu e dalla legge Biagi. Anche qui, dunque, per favorire i giovani, li si colpisce e se ne aumenta la precarietà.
Il governo Monti, d'altra parte, ha un mandato preciso, che non è quello del parlamento italiano e neanche quello del Presidente della Repubblica, il quale dovrebbe ricordare che l'Italia non è una repubblica presidenziale.
Il mandato di Monti nasce prima di tutto da due privati cittadini, che in virtù del potere della Banca centrale europea, si sono permessi di indicare il 5 agosto 2011 ai governi italiani, tutti, cosa dovrebbero fare. Tra i tanti appunti della lettera Draghi-Trichet è bene ricordare quello che recita: "dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti ".
Nessuno faccia il furbo, quindi. Davvero non ne possiamo più di piccoli imbrogli e ipocrisie. Il governo Monti deve portare in Europa lo scalpo dell'articolo 18, o almeno un pezzetto di esso. Questo per rendere il lavoro sempre più flessibile e precario, anche con la distruzione del contratto nazionale, anch'essa chiesta dalla Bce e praticata da Marchionne. La linea di politica economia reazionaria dell'attuale governo è in piena continuità con quella del governo precedente. Anche nelle procedure e nel linguaggio, visto che Monti, come Berlusconi, rifiuta la concertazione da destra e propone un vuoto dialogo sociale, che nella sostanza serve solo ad autorizzare il governo a fare quello che vuole.
Per far del bene ai giovani il governo ha deciso che si dovrà lavorare fino a 70 anni. Saranno proprio i giovani a vedere allungata in maniera così stupida e barbara la loro vita lavorativa prima della pensione. Perché proprio per essi varrà di più il meccanismo di penalizzazioni e compensazioni che costringerà chi ha lavoro, se ha la fortuna di conservarlo e di restare in salute, di restarvi fino a tarda età. Allo stesso modo ora, sul mercato del lavoro, si vuol fare altrettanto bene sempre ai giovani. Si propone, ci par di capire, un contratto a tempo indeterminato che abbia però un lunghissimo periodo di prova, da tre anni in su, durante il quale sia libera la possibilità di licenziare per il padrone.
A parte la stupidità di un provvedimento che vuole favorire l'occupazione con più facilità di licenziamento. A parte il fatto che l'essenza della precarietà è proprio il ricatto permanente sul posto di lavoro, che qui viene formalizzato nel periodo di prova infinito. A parte il fatto, insomma, che questo contratto è semplicemente il cavallo di Troia attraverso il quale passa la demolizione dell'articolo 18 per tutti i lavoratori; così come si è esteso a tutti i lavoratori il contributivo sulle pensioni, dopo che inizialmente lo si era affibbiato solo ai più giovani. A parte tutto questo, la malafede dell'operazione sta nel fatto che questo contratto "nuovo" si aggiunge semplicemente agli altri precari già esistenti, non ne cancella neanche uno. Sostanzialmente avremmo quindi il 46esimo contratto precario, dopo i 45 già definiti dal pacchetto Treu e dalla legge Biagi. Anche qui, dunque, per favorire i giovani, li si colpisce e se ne aumenta la precarietà.
Il governo Monti, d'altra parte, ha un mandato preciso, che non è quello del parlamento italiano e neanche quello del Presidente della Repubblica, il quale dovrebbe ricordare che l'Italia non è una repubblica presidenziale.
Il mandato di Monti nasce prima di tutto da due privati cittadini, che in virtù del potere della Banca centrale europea, si sono permessi di indicare il 5 agosto 2011 ai governi italiani, tutti, cosa dovrebbero fare. Tra i tanti appunti della lettera Draghi-Trichet è bene ricordare quello che recita: "dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti ".
Nessuno faccia il furbo, quindi. Davvero non ne possiamo più di piccoli imbrogli e ipocrisie. Il governo Monti deve portare in Europa lo scalpo dell'articolo 18, o almeno un pezzetto di esso. Questo per rendere il lavoro sempre più flessibile e precario, anche con la distruzione del contratto nazionale, anch'essa chiesta dalla Bce e praticata da Marchionne. La linea di politica economia reazionaria dell'attuale governo è in piena continuità con quella del governo precedente. Anche nelle procedure e nel linguaggio, visto che Monti, come Berlusconi, rifiuta la concertazione da destra e propone un vuoto dialogo sociale, che nella sostanza serve solo ad autorizzare il governo a fare quello che vuole.
"Così l´euro finirà in una lenta agonia"
di Federico Rampini - controlacrisi
Gli esperti Usa sono sicuri: è scattata la "trappola della liquidità". Recessione, sfiducia e tagli la morte lenta dell´euro che la Bce non può fermare. La generosa politica monetaria di Mario Draghi stenta a produrre effetti sui mercati finanziari. Come negli anni ´30: le banche aumentano le riserve e non fanno credito a famiglie e aziende. Se la ripresa americana sarà forte il cambio con il dollaro può tornare a 1,10 o verso la paritàUna forte svalutazione può aiutare l´Ue, ma c´è chi teme gli effetti della fuga di capitali
NEW YORK Esperti che nel weekend si sono avvicendati al capezzale del "paziente-eurozona". Un verdetto quasi unanime, dalle colonne della grande stampa Usa riassume gli scenari dominanti, visti dalla Casa Bianca o da Wall Street. Quattro sono i temi principali: la forbice divaricante che si è aperta tra Europa e Stati Uniti accelerando la caduta dell´euro; l´inefficacia degli interventi della Bce che vengono inghiottiti nel pozzo senza fondo delle banche; gli effetti perversi della recessione che è già iniziata nel Vecchio Continente; i benefici illusori di una svalutazione cancellati dalle fughe di capitali.
L´euro in caduta libera
Il panel di esperti del mercato valutario interpellati dal Washington Post fa dire al quotidiano della capitale che «con la caduta sotto quota 1,28 col dollari si è aperta una nuova fase». Nel 2010 e 2011 l´euro aveva già attraversato periodi di debolezza, poi seguiti da recuperi legati anche alle magagne del dollaro. Ora la sfiducia sembra più profonda, unilaterale e quasi insanabile dopo lo stillicidio di notizie negative: «dati negativi sull´economia reale in Germania, sulle finanze pubbliche in Grecia e Spagna, perfino la crisi di un paese extra-euro come l´Ungheria» che contribuisce al senso di un marasma generale. Una cifra domina su tutte le altre: mentre in un mese gli Stati Uniti hanno visto una creazione netta di 200.000 posti di lavoro aggiuntivi, e un calo della disoccupazione all´8,5%, nell´eurozona si sono aggiunti 45.000 disoccupati e il numero totale dei senza lavoro ha toccato i 16,3 milioni cioè il record storico da quando vengono compilate statistiche omogenee (1995). Come osserva la Lex del Financial Times, «storicamente non c´è nulla che affondi l´euro più rapidamente, di un confronto negativo con le potenzialità di crescita degli Stati Uniti». Donde la previsione di una caduta della moneta unica fino a 1,10 o anche sotto la parità, com´era accaduto alla nascita. Christine Lagarde, direttrice del Fmi, ha annunciato una revisione al ribasso della crescita mondiale, esclusivamente per colpa della frenata europea, proprio mentre gli Usa ripartono.
Gli esperti Usa sono sicuri: è scattata la "trappola della liquidità". Recessione, sfiducia e tagli la morte lenta dell´euro che la Bce non può fermare. La generosa politica monetaria di Mario Draghi stenta a produrre effetti sui mercati finanziari. Come negli anni ´30: le banche aumentano le riserve e non fanno credito a famiglie e aziende. Se la ripresa americana sarà forte il cambio con il dollaro può tornare a 1,10 o verso la paritàUna forte svalutazione può aiutare l´Ue, ma c´è chi teme gli effetti della fuga di capitali
NEW YORK Esperti che nel weekend si sono avvicendati al capezzale del "paziente-eurozona". Un verdetto quasi unanime, dalle colonne della grande stampa Usa riassume gli scenari dominanti, visti dalla Casa Bianca o da Wall Street. Quattro sono i temi principali: la forbice divaricante che si è aperta tra Europa e Stati Uniti accelerando la caduta dell´euro; l´inefficacia degli interventi della Bce che vengono inghiottiti nel pozzo senza fondo delle banche; gli effetti perversi della recessione che è già iniziata nel Vecchio Continente; i benefici illusori di una svalutazione cancellati dalle fughe di capitali.
L´euro in caduta libera
Il panel di esperti del mercato valutario interpellati dal Washington Post fa dire al quotidiano della capitale che «con la caduta sotto quota 1,28 col dollari si è aperta una nuova fase». Nel 2010 e 2011 l´euro aveva già attraversato periodi di debolezza, poi seguiti da recuperi legati anche alle magagne del dollaro. Ora la sfiducia sembra più profonda, unilaterale e quasi insanabile dopo lo stillicidio di notizie negative: «dati negativi sull´economia reale in Germania, sulle finanze pubbliche in Grecia e Spagna, perfino la crisi di un paese extra-euro come l´Ungheria» che contribuisce al senso di un marasma generale. Una cifra domina su tutte le altre: mentre in un mese gli Stati Uniti hanno visto una creazione netta di 200.000 posti di lavoro aggiuntivi, e un calo della disoccupazione all´8,5%, nell´eurozona si sono aggiunti 45.000 disoccupati e il numero totale dei senza lavoro ha toccato i 16,3 milioni cioè il record storico da quando vengono compilate statistiche omogenee (1995). Come osserva la Lex del Financial Times, «storicamente non c´è nulla che affondi l´euro più rapidamente, di un confronto negativo con le potenzialità di crescita degli Stati Uniti». Donde la previsione di una caduta della moneta unica fino a 1,10 o anche sotto la parità, com´era accaduto alla nascita. Christine Lagarde, direttrice del Fmi, ha annunciato una revisione al ribasso della crescita mondiale, esclusivamente per colpa della frenata europea, proprio mentre gli Usa ripartono.
Vendo promesse
di Nicola Melloni - lunedì, 9 gennaio Liberazione
Il giro europeo di Monti riporta d’attualità la gestione comunitaria della crisi che va ben al di là dell’operazione di bassa macelleria sociale attuata dal governo sul finire del 2011. Il nostro Primo Ministro ha cominciato un tour che lo porterà nelle principali capitali europee per perorare la causa italiana con un messaggio molto semplice: se non ci aiutate voi, non ci sono finanziarie che tengano. Da soli non ce la facciamo.
Bella scoperta. A fronte di una delle più sanguinose manovre economiche di sempre il mercato ha reagito aumentando ulteriormente lo spread, ormai ai suoi massimi storici – altro che governo tecnico dei miracoli. Ed indubbiamente il mercato, per una volta, ha ragione. Perché dare fiducia ad un paese che si auto-infligge una recessione, diminuendo volontariamente i consumi privati con tasse più alte per i redditi più bassi?
Già, perché? In realtà il governo Monti ha semplicemente ubbidito al diktat tedesco, tagli dopo tagli, perché i paesi indebitati devono pagare sulla propria pelle i propri sbagli. E’ la logica del podestà straniero che proprio Monti stigmatizzava quest’estate sulle colonne del Corriere della Sera. Salvo poi adeguarsi senza colpo ferire una volta preso il posto di Silvio Berlusconi, tanto da giustificare le misure sulle pensioni, e quelle in arrivo sul mercato del lavoro, come obbligate perché richieste dall’Europa. Non è però ben chiaro cosa sia questa Europa in cui ormai una larghissima maggioranza di paesi chiede gli euro-bond senza successo mentre la sola Germania ha il potere di decidere le politiche fiscali di altre nazioni sovrane, o supposte tali.
Qualsiasi persona di buon senso capisce che non è possibile uscire dalla crisi solo con lacrime e sangue. Non è successo in America negli anni ’30, non è successo in Grecia negli ultimi due anni. Sono tutti fatti stranoti che Berlino non può certo ignorare ma che vengono usati ad uso e consumo della Germania. Berlino sta semplicementre replicando il modello di egemonia economica americana degli anni ’90, quando il Fondo Monetario Internazionale imponeva riforme economiche punitive – e che avvantaggiavano solamente il capitale transnazionale di origine prevalentemente americana – in cambio dell’erogazione di prestiti. Merkel ha fatto lo stesso prima con la Grecia, ed ora con l’Italia, tentando in maniera neanche troppo mascherata un anschluss economico che mina però anche le basi della democrazia.
Le finanziarie non si fanno più nel rispetto della volontà popolare, non per aiutare l’economia ed il popolo italiano, ma per compiacere le richieste che vengono da Berlino. Si badi bene, alcuni sostanziali cambiamenti di rotta sono necessari. A nostro parere è la scandalosa sperequazione nella distribuzione del reddito a tarpare le ali all’economia italiana. Altri pensano siano le pensioni di anzianità e i contratti di lavoro. Ovviamente non siamo d’accordo, ma questo è il terreno della lotta politica e del confronto democratico; non può essere deciso ex cathedra da Merkel ed imposto per interposta persona.
Il giro europeo di Monti riporta d’attualità la gestione comunitaria della crisi che va ben al di là dell’operazione di bassa macelleria sociale attuata dal governo sul finire del 2011. Il nostro Primo Ministro ha cominciato un tour che lo porterà nelle principali capitali europee per perorare la causa italiana con un messaggio molto semplice: se non ci aiutate voi, non ci sono finanziarie che tengano. Da soli non ce la facciamo.
Bella scoperta. A fronte di una delle più sanguinose manovre economiche di sempre il mercato ha reagito aumentando ulteriormente lo spread, ormai ai suoi massimi storici – altro che governo tecnico dei miracoli. Ed indubbiamente il mercato, per una volta, ha ragione. Perché dare fiducia ad un paese che si auto-infligge una recessione, diminuendo volontariamente i consumi privati con tasse più alte per i redditi più bassi?
Già, perché? In realtà il governo Monti ha semplicemente ubbidito al diktat tedesco, tagli dopo tagli, perché i paesi indebitati devono pagare sulla propria pelle i propri sbagli. E’ la logica del podestà straniero che proprio Monti stigmatizzava quest’estate sulle colonne del Corriere della Sera. Salvo poi adeguarsi senza colpo ferire una volta preso il posto di Silvio Berlusconi, tanto da giustificare le misure sulle pensioni, e quelle in arrivo sul mercato del lavoro, come obbligate perché richieste dall’Europa. Non è però ben chiaro cosa sia questa Europa in cui ormai una larghissima maggioranza di paesi chiede gli euro-bond senza successo mentre la sola Germania ha il potere di decidere le politiche fiscali di altre nazioni sovrane, o supposte tali.
Qualsiasi persona di buon senso capisce che non è possibile uscire dalla crisi solo con lacrime e sangue. Non è successo in America negli anni ’30, non è successo in Grecia negli ultimi due anni. Sono tutti fatti stranoti che Berlino non può certo ignorare ma che vengono usati ad uso e consumo della Germania. Berlino sta semplicementre replicando il modello di egemonia economica americana degli anni ’90, quando il Fondo Monetario Internazionale imponeva riforme economiche punitive – e che avvantaggiavano solamente il capitale transnazionale di origine prevalentemente americana – in cambio dell’erogazione di prestiti. Merkel ha fatto lo stesso prima con la Grecia, ed ora con l’Italia, tentando in maniera neanche troppo mascherata un anschluss economico che mina però anche le basi della democrazia.
Le finanziarie non si fanno più nel rispetto della volontà popolare, non per aiutare l’economia ed il popolo italiano, ma per compiacere le richieste che vengono da Berlino. Si badi bene, alcuni sostanziali cambiamenti di rotta sono necessari. A nostro parere è la scandalosa sperequazione nella distribuzione del reddito a tarpare le ali all’economia italiana. Altri pensano siano le pensioni di anzianità e i contratti di lavoro. Ovviamente non siamo d’accordo, ma questo è il terreno della lotta politica e del confronto democratico; non può essere deciso ex cathedra da Merkel ed imposto per interposta persona.
La ricchezza in mano al 10% delle famiglie
di MAURIZIO RICCI. larepubblica 08 gennaio 2012
TOSATE i ricchi! Con le pensioni, l' appello ad una severa imposta patrimonialeè stato uno dei temi più dibattuti in questi mesi, suscitando passioni che sembravano scomparse dalla scena politica, fino a indurre anche parecchie vittime potenziali della tassa a rivendicarne l' attuazione. LA CRISI ha, infatti, messo a nudo un rancore crescente verso l' ineguaglianza sociale e verso il paradosso che vede l' Italia come uno dei paesi più ricchi del mondo, senza che questo venga riconosciuto nell' esperienza quotidiana. Un paese ricco, abitato da poveri, si è detto. Per sciogliere il paradosso, bisogna rispondere a due domande. Quanti sonoi ricchi, in Italia? E quanto sono ricchi?
TOSATE i ricchi! Con le pensioni, l' appello ad una severa imposta patrimonialeè stato uno dei temi più dibattuti in questi mesi, suscitando passioni che sembravano scomparse dalla scena politica, fino a indurre anche parecchie vittime potenziali della tassa a rivendicarne l' attuazione. LA CRISI ha, infatti, messo a nudo un rancore crescente verso l' ineguaglianza sociale e verso il paradosso che vede l' Italia come uno dei paesi più ricchi del mondo, senza che questo venga riconosciuto nell' esperienza quotidiana. Un paese ricco, abitato da poveri, si è detto. Per sciogliere il paradosso, bisogna rispondere a due domande. Quanti sonoi ricchi, in Italia? E quanto sono ricchi?
PORTAFOGLIO GONFIO La risposta è che una delle duecentomila famiglie di straricchi, in Italia, ha, in media, un patrimonio che vale 65 volte quello di cui dispone una qualsiasi della maggioranza delle famiglie italiane. In termini statistici complessivi, non sembra una gran novità: l' Italia era un paese più egualitario negli anni ' 70 e ' 80, ma, dai primi anni ' 90, è andata avvicinandosi agli squilibri sociali tipici di paesi come Usa e Gran Bretagna. Negli ultimi vent' anni, tuttavia, la situazione è rimasta, più o meno, stabile. Questo, però, è uno dei tanti miraggi delle statistiche. Due fattori hanno profondamente modificato, in quantità e qualità, la piramide sociale italiana. Il primo è che, avvertono gli studi della Banca d' Italia, si è aperta una spaccatura verticale: un travaso progressivo di ricchezza, dai lavoratori dipendenti agli autonomi: imprenditori, liberi professionisti, commercianti. Il secondo è il lungo ristagno dei redditi, che ha svuotato e affondato i ceti medi. Quando si sono accorti di non essere affatto sulla strada per diventare ricchi, anche nei ceti medi si è risvegliata l' insofferenza verso gli squilibri sociali. QUATTRO VOLTE IL DEBITO Secondo le indagini della Banca d' Italia, la ricchezza netta degli italiani (tolti, cioè, mutui e prestiti) era pari, nel 2010, a 8.640 miliardi di euro. Una cifra imponente, pari ad oltre quattro volte la montagna del debito pubblico. In media, significa una ricchezza di poco inferiore a 400 mila euro, per ognuna dei 24 milioni di famiglie italiane. Ma, naturalmente, quei 400 mila euro sono il consueto miraggio statistico. Il 50 per cento delle famiglie italiane possiede, infatti, dice sempre Via Nazionale, meno del 10 per cento di tutta quella ricchezza. Ovvero, 12 milioni di famiglie si spartiscono, in realtà, un patrimonio di non più di 860 miliardi di euro. Questi 12 milioni di famiglie più povere costituiscono quelli che i sociologi di una volta avrebbero definito ceti popolari.
domenica 8 gennaio 2012
Pronti i nuovi ammortizzatori sociali: i licenziati andranno a cena da mamma.
di Alessandro Robecchi, pubblicato in Il Misfatto.
Una straordinaria riforma del Welfare a costo zero: i nuovi disoccupati vittime della crisi potranno dormire sotto i ponti senza pagare l’Ici – Offerta dalla Camorra: “Assumiamo noi, ma con turni festivi e notturni, e senza pause” – Marchionne indignato: “Copioni!”
Servono urgentemente nuovi ammortizzatori sociali per far fronte alla crisi. Tutti d’accordo, dal Presidente della Repubblica, che ha lanciato l’accorato appello, ai sindacati. Già, ma come fare? Le fabbriche di ammortizzatori contattate dal governo hanno subito declinato l’invito: “Se un lavoratore finisce col culo a terra non c’è ammortizzatore che tenga, come minimo rovina i semiassi e la coppa dell’olio”. Solo la Fiat si è offerta di fornire agli italiani rimasti senza lavoro un nuovo ammortizzatore, quello della vecchia Panda: “Ai disoccupati che abbiamo creato noi – dice un dirigente del Lingotto – li montiamo di serie, gli altri potranno pagarli a rate”. Ma non è solo alla meccanica che ci si rivolge per alleviare le situazioni critiche di tanti italiani spinti verso la soglia di povertà. Raffaele Bonanni, il capocomico della Cisl, ha avanzato ieri nuove soluzioni: “Uno zio in Puglia da cui mandare i bambini è una buona soluzione – ha detto -. Ma anche i nonni al posto degli asili funzionano bene. Un altro buon ammortizzatore sociale è la vecchia cara moglie: perché mandarla a lavorare pesando sui conti delle aziende quando si può farle fare la badante al nonno invalido?”. La Confindustria si è detta interessata, anche se ha sollevato un problema di produttività: “Non si potrebbero affidare a ogni moglie due nonni invalidi?”. Intanto, molte organizzazioni si offrono come ammortizzatori sociali sul territorio. La Camorra, per esempio, fa sapere che potrebbe assumere qualche migliaio di disoccupati campani. “Lo facciamo da anni e ci troviamo benissimo – dice Ciccio Mezzacanna, capobastone di Caserta Sud – anche se i nuovi assunti entreranno senza contratto e a salario minimo, una cosa che ci ha insegnato Marchionne”. In ogni caso, come dice il governo, bisogna fare presto e agire prima che i disoccupati si costruiscano da soli ammortizzatori sociali improvvisati, come la rapina al supermercato, al distributore di benzina o al tabaccaio. “Sarebbero soluzioni provvisorie – dicono al ministero del Lavoro – mentre l’Europa ci chiede riforme strutturali”.
Una straordinaria riforma del Welfare a costo zero: i nuovi disoccupati vittime della crisi potranno dormire sotto i ponti senza pagare l’Ici – Offerta dalla Camorra: “Assumiamo noi, ma con turni festivi e notturni, e senza pause” – Marchionne indignato: “Copioni!”
Servono urgentemente nuovi ammortizzatori sociali per far fronte alla crisi. Tutti d’accordo, dal Presidente della Repubblica, che ha lanciato l’accorato appello, ai sindacati. Già, ma come fare? Le fabbriche di ammortizzatori contattate dal governo hanno subito declinato l’invito: “Se un lavoratore finisce col culo a terra non c’è ammortizzatore che tenga, come minimo rovina i semiassi e la coppa dell’olio”. Solo la Fiat si è offerta di fornire agli italiani rimasti senza lavoro un nuovo ammortizzatore, quello della vecchia Panda: “Ai disoccupati che abbiamo creato noi – dice un dirigente del Lingotto – li montiamo di serie, gli altri potranno pagarli a rate”. Ma non è solo alla meccanica che ci si rivolge per alleviare le situazioni critiche di tanti italiani spinti verso la soglia di povertà. Raffaele Bonanni, il capocomico della Cisl, ha avanzato ieri nuove soluzioni: “Uno zio in Puglia da cui mandare i bambini è una buona soluzione – ha detto -. Ma anche i nonni al posto degli asili funzionano bene. Un altro buon ammortizzatore sociale è la vecchia cara moglie: perché mandarla a lavorare pesando sui conti delle aziende quando si può farle fare la badante al nonno invalido?”. La Confindustria si è detta interessata, anche se ha sollevato un problema di produttività: “Non si potrebbero affidare a ogni moglie due nonni invalidi?”. Intanto, molte organizzazioni si offrono come ammortizzatori sociali sul territorio. La Camorra, per esempio, fa sapere che potrebbe assumere qualche migliaio di disoccupati campani. “Lo facciamo da anni e ci troviamo benissimo – dice Ciccio Mezzacanna, capobastone di Caserta Sud – anche se i nuovi assunti entreranno senza contratto e a salario minimo, una cosa che ci ha insegnato Marchionne”. In ogni caso, come dice il governo, bisogna fare presto e agire prima che i disoccupati si costruiscano da soli ammortizzatori sociali improvvisati, come la rapina al supermercato, al distributore di benzina o al tabaccaio. “Sarebbero soluzioni provvisorie – dicono al ministero del Lavoro – mentre l’Europa ci chiede riforme strutturali”.
Divisioni a sinistra, parliamone
Autore: IMMANUEL WALLERSTEIN. controlacrisi
Andare al governo o cambiare il mondo senza prendere il potere? Stare dentro o lontani dai partiti di centrosinistra? Essere per lo sviluppo o contro? Discutiamo di tattiche, a breve e lungo termine
Sotto tutti i punti di vista, il 2011 è stato un buon anno per la sinistra mondiale - qualunque sia la definizione, ristretta o ampia, che viene data di sinistra mondiale. La ragione di fondo dipende dalle condizioni economiche negative di cui soffre gran parte del mondo. La disoccupazione è alta e sta aumentando. Molti governi hanno dovuto far fronte alla sfida di alti debiti e entrate in diminuzione. La risposta è stata di cercare di imporre alle popolazioni delle misure di austerità, mentre contemporaneamente hanno cercato di proteggere le banche.
Il risultato è stata una rivolta mondiale di coloro che il movimento Occupy Wall Street (Ows) ha chiamato «il 99%». La rivolta si è focalizzata contro l'eccessiva polarizzazione della ricchezza, contro i governi corrotti e la natura essenzialmente non democratica di questi governi, che siano o no basati su un sistema multipartito.
Questo non vuol dire che Ows, le primavere arabe o gli indignados abbiamo realizzato tutto quello che auspicavano. Ma significa che sono riusciti a cambiare il discorso dominante a livello mondiale, spostandolo dai mantra ideologici del neoliberismo verso temi come l'ineguaglianza, l'ingiustizia e la decolonizzazione. Per la prima volta da molto tempo, la gente normale ha discusso sulla vera natura del sistema in cui vive; non lo prendono più come una fatalità.
Adesso per la sinistra mondiale la questione è come andare più avanti e trasformare questo successo iniziale a livello del discorso in una trasformazione politica. Il problema può essere posto in termini abbastanza semplici. Benché dal punto di vista economico persista una chiara e crescente distanza tra un piccolosissimo gruppo (l'1%) e uno molto più grande (il 99%), non ne discende che questa sia la divisione politica esistente. A livello mondiale, le forze di centrodestra dominano ancora circa la metà della popolazione del mondo, o almeno di coloro che in qualche modo sono politicamente attivi. Quindi, per trasformare il mondo, la sinistra mondiale avrà bisogno di un grado di unità politica che ancora non possiede. In effetti, ci sono profonde distorsioni tra gli obiettivi di lungo periodo e le tattiche di breve periodo. Certo, questi problemi sono stati dibattuti. Sono stati dibattuti addirittura animatamente, ma sono stati fatti pochi passi avanti per superare le divisioni.
Queste divisioni non sono nuove. E questo non le rende certo più facili da risolvere. Due dominano. La prima ha a che vedere con le elezioni. Non ci sono solo due, ma tre posizioni diverse relative alle elezioni. Esiste un gruppo profondamente sospettoso delle elezioni, che sostiene che parteciparvi sia non soltanto inefficace ma rafforzi la legittimità del sistema mondiale esistente. Gli altri pensano che partecipare al processo elettorale sia cruciale. Ma questo gruppo è spaccato in due. Da un lato, ci sono coloro che vogliono essere pragmatici. Vogliono lavorare dall'interno - all'interno dei grandi partiti di centrosinistra quando esiste un sistema multipartitico funzionante, o all'interno del sistema de facto a partito unico, quando l'alternanza parlamentanre non è permessa.
Andare al governo o cambiare il mondo senza prendere il potere? Stare dentro o lontani dai partiti di centrosinistra? Essere per lo sviluppo o contro? Discutiamo di tattiche, a breve e lungo termine
Sotto tutti i punti di vista, il 2011 è stato un buon anno per la sinistra mondiale - qualunque sia la definizione, ristretta o ampia, che viene data di sinistra mondiale. La ragione di fondo dipende dalle condizioni economiche negative di cui soffre gran parte del mondo. La disoccupazione è alta e sta aumentando. Molti governi hanno dovuto far fronte alla sfida di alti debiti e entrate in diminuzione. La risposta è stata di cercare di imporre alle popolazioni delle misure di austerità, mentre contemporaneamente hanno cercato di proteggere le banche.
Il risultato è stata una rivolta mondiale di coloro che il movimento Occupy Wall Street (Ows) ha chiamato «il 99%». La rivolta si è focalizzata contro l'eccessiva polarizzazione della ricchezza, contro i governi corrotti e la natura essenzialmente non democratica di questi governi, che siano o no basati su un sistema multipartito.
Questo non vuol dire che Ows, le primavere arabe o gli indignados abbiamo realizzato tutto quello che auspicavano. Ma significa che sono riusciti a cambiare il discorso dominante a livello mondiale, spostandolo dai mantra ideologici del neoliberismo verso temi come l'ineguaglianza, l'ingiustizia e la decolonizzazione. Per la prima volta da molto tempo, la gente normale ha discusso sulla vera natura del sistema in cui vive; non lo prendono più come una fatalità.
Adesso per la sinistra mondiale la questione è come andare più avanti e trasformare questo successo iniziale a livello del discorso in una trasformazione politica. Il problema può essere posto in termini abbastanza semplici. Benché dal punto di vista economico persista una chiara e crescente distanza tra un piccolosissimo gruppo (l'1%) e uno molto più grande (il 99%), non ne discende che questa sia la divisione politica esistente. A livello mondiale, le forze di centrodestra dominano ancora circa la metà della popolazione del mondo, o almeno di coloro che in qualche modo sono politicamente attivi. Quindi, per trasformare il mondo, la sinistra mondiale avrà bisogno di un grado di unità politica che ancora non possiede. In effetti, ci sono profonde distorsioni tra gli obiettivi di lungo periodo e le tattiche di breve periodo. Certo, questi problemi sono stati dibattuti. Sono stati dibattuti addirittura animatamente, ma sono stati fatti pochi passi avanti per superare le divisioni.
Queste divisioni non sono nuove. E questo non le rende certo più facili da risolvere. Due dominano. La prima ha a che vedere con le elezioni. Non ci sono solo due, ma tre posizioni diverse relative alle elezioni. Esiste un gruppo profondamente sospettoso delle elezioni, che sostiene che parteciparvi sia non soltanto inefficace ma rafforzi la legittimità del sistema mondiale esistente. Gli altri pensano che partecipare al processo elettorale sia cruciale. Ma questo gruppo è spaccato in due. Da un lato, ci sono coloro che vogliono essere pragmatici. Vogliono lavorare dall'interno - all'interno dei grandi partiti di centrosinistra quando esiste un sistema multipartitico funzionante, o all'interno del sistema de facto a partito unico, quando l'alternanza parlamentanre non è permessa.
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