Autore: Dario Bevilacqua dirittiglobali
I manuali di diritto del lavoro adottati nelle facoltà di Giurisprudenza partono tutti da un concetto consolidato: il contratto tra datore e prestatore di lavoro non è uguale ai normali rapporti tra contraenti, avendo invece un contenuto e una ratio speciale, derogatoria, perché le due parti in causa sono, per definizione, in posizione di disparità sostanziale.
La debolezza del lavoratore è rinvenibile in due cause fondamentali: il suo salario è fonte esclusiva, o prevalente, di sostentamento per lui e la sua famiglia e il mercato del lavoro lo pone in condizione di debolezza, per un eccesso di domanda e una scarsità di offerta, condizionando quindi il contenuto del contratto in senso a lui sfavorevole, con effetti sullo svolgimento del rapporto, caratterizzato da una soggezione al datore di lavoro e al suo potere direttivo e disciplinare.
Da qui il caratterizzarsi del diritto del lavoro come diritto "diseguale", cioè tendente a riportare un minimo di equilibrio tra parti dotate di diverso potere nella conclusione del contratto e nella conduzione del rapporto; prefissando questo contenuto ex lege e sottraendolo alla libera disponibilità dei contraenti. Le norme che regolano il rapporto di lavoro hanno, dunque, una funzione specifica, accettata dalla scienza giuridica e riconosciuta altresì dalla giurisprudenza: assicurare una parità sostanziale, almeno nei rapporti giuridici, tra soggetti che si trovano invece in una condizione di disparità.
I temi e le proposte discussi in questi ultimi giorni, segnatamente riguardo ai licenziamenti, art. 18 dello Statuto dei lavoratori e ripensamento delle norme che regolano i rapporti tra datore e prestatore di lavoro, vanno trattati avendo bene in mente la filosofia della dottrina giuslavoristica. Occorre, in tal senso, mettere in chiaro un primo aspetto: il diritto del lavoro non ha, come finalità primaria, la crescita, il rilancio dell'economia, la dinamicità delle imprese di un Paese. Il diritto del lavoro serve - anche per favorire indirettamente il raggiungimento di questi ultimi obiettivi - a tutelare il prestatore d'opera, riequilibrando il rapporto di forza tra questi e il datore di lavoro. Questa finalità - che dovrebbe rimanere intoccabile - è funzionale al benessere dell'economia, alla tutela dell'ordine pubblico, alla pace sociale: un lavoratore ben retribuito o sicuro del suo posto lavorerà meglio e sarà disposto a fare sacrifici per l'impresa in cui lavora; un lavoratore con salario dignitoso, cui sono garantite ferie, malattia e pause pranzo sarà ben disposto a consumare, investire, creare una famiglia, iscrivere i propri figli all'università; un lavoratore garantito e retribuito in modo equo avrà meno ragioni per ribellarsi, per protestare, per cercare soluzioni nell'illegalità. E così via.
La tutela del contraente debole ha, quindi, anche riflessi sociali generali, favorendo lo sviluppo di una società sana, fondata sul lavoro (come prevede la Costituzione) ed economicamente autosufficiente. Ma la tutela del contraente debole, non si dimentichi, costituisce anche un baluardo giuridico contro lo sfruttamento, la diseguaglianza, le vessazioni, il ricatto. La tutela del lavoratore serve a garantire una serie di condizioni che in nessun modo possono essere considerate come privilegi o eccessi di tutele, ma che costituiscono la base del nostro ordinamento giuridico (si vedano, tra gli altri, gli artt. 1, 2, 3 e 4 della Costituzione) e i fondamenti di una società civile ed evoluta: si tratta della dignità, dell'eguaglianza sostanziale, della libertà di scelta e di autodeterminazione.
A fronte di tutto ciò e avendo in mente la situazione economica attuale, che vede numerosi comparti produttivi in crisi, un'economia stagnante e una crescita zero, la "giuslavoristica del licenziamento facile" chiede sacrifici ai lavoratori. Chiede un mercato del lavoro ancor più flessibile e, con uno strano concetto di eguaglianza al ribasso - proprio delle economie sovietiche - domanda che sia la flessibilità, invece delle garanzie, a essere estesa a tutti i lavoratori. Così che l'economia possa ripartire, che gli imprenditori investano e finiscano per assumere anche di più, trasformando quella flessibilità in un rapporto continuo, magari non scritto nella roccia, ma tenuto al sicuro dalla continua crescita economica e dal dinamismo delle stesse imprese.
Questa idea, anche quando mossa da assoluta buona fede e supportata da studi economici autorevoli, si è già rivelata un'utopia. Lo ha dimostrato la storia più recente, lo testimoniano dati attuali, i quali ci dicono che l'Italia è già troppo flessibile se confrontata con gli altri Paesi dell'Ocse, che il sillogismo maggior flessibilità uguale a maggior benessere dell'impresa, non funziona, che senza nuove e apposite politiche strutturali di rilancio dell'economia la crescita, tanto acclamata, non potrà ripartire.
A ciò si aggiunga che oggi, in Italia, l'art. 18 si applica al 5 per cento delle imprese nazionali (le imprese con più di 15 lavoratori sono pochissime) e che la stessa norma non impedisce di licenziare in caso di perdite o recessione dell'azienda, quindi non è un limite alla crescita e al benessere dell'impresa.
A cosa serve allora una riforma del lavoro che riduca le tutele e le garanzie dei lavoratori, che estenda la flessibilità a tutte le categorie, che depotenzi i poteri del sindacato? Non a rilanciare l'economia. Semmai a impoverire il diritto del lavoro: quell'insieme di norme a tutela di diritti fondamentali che costituiscono la civiltà di una società industriale. Se esso viene rimosso, non si riparte, si torna indietro, si va verso il passato.
I manuali di diritto del lavoro adottati nelle facoltà di Giurisprudenza partono tutti da un concetto consolidato: il contratto tra datore e prestatore di lavoro non è uguale ai normali rapporti tra contraenti, avendo invece un contenuto e una ratio speciale, derogatoria, perché le due parti in causa sono, per definizione, in posizione di disparità sostanziale.
La debolezza del lavoratore è rinvenibile in due cause fondamentali: il suo salario è fonte esclusiva, o prevalente, di sostentamento per lui e la sua famiglia e il mercato del lavoro lo pone in condizione di debolezza, per un eccesso di domanda e una scarsità di offerta, condizionando quindi il contenuto del contratto in senso a lui sfavorevole, con effetti sullo svolgimento del rapporto, caratterizzato da una soggezione al datore di lavoro e al suo potere direttivo e disciplinare.
Da qui il caratterizzarsi del diritto del lavoro come diritto "diseguale", cioè tendente a riportare un minimo di equilibrio tra parti dotate di diverso potere nella conclusione del contratto e nella conduzione del rapporto; prefissando questo contenuto ex lege e sottraendolo alla libera disponibilità dei contraenti. Le norme che regolano il rapporto di lavoro hanno, dunque, una funzione specifica, accettata dalla scienza giuridica e riconosciuta altresì dalla giurisprudenza: assicurare una parità sostanziale, almeno nei rapporti giuridici, tra soggetti che si trovano invece in una condizione di disparità.
I temi e le proposte discussi in questi ultimi giorni, segnatamente riguardo ai licenziamenti, art. 18 dello Statuto dei lavoratori e ripensamento delle norme che regolano i rapporti tra datore e prestatore di lavoro, vanno trattati avendo bene in mente la filosofia della dottrina giuslavoristica. Occorre, in tal senso, mettere in chiaro un primo aspetto: il diritto del lavoro non ha, come finalità primaria, la crescita, il rilancio dell'economia, la dinamicità delle imprese di un Paese. Il diritto del lavoro serve - anche per favorire indirettamente il raggiungimento di questi ultimi obiettivi - a tutelare il prestatore d'opera, riequilibrando il rapporto di forza tra questi e il datore di lavoro. Questa finalità - che dovrebbe rimanere intoccabile - è funzionale al benessere dell'economia, alla tutela dell'ordine pubblico, alla pace sociale: un lavoratore ben retribuito o sicuro del suo posto lavorerà meglio e sarà disposto a fare sacrifici per l'impresa in cui lavora; un lavoratore con salario dignitoso, cui sono garantite ferie, malattia e pause pranzo sarà ben disposto a consumare, investire, creare una famiglia, iscrivere i propri figli all'università; un lavoratore garantito e retribuito in modo equo avrà meno ragioni per ribellarsi, per protestare, per cercare soluzioni nell'illegalità. E così via.
La tutela del contraente debole ha, quindi, anche riflessi sociali generali, favorendo lo sviluppo di una società sana, fondata sul lavoro (come prevede la Costituzione) ed economicamente autosufficiente. Ma la tutela del contraente debole, non si dimentichi, costituisce anche un baluardo giuridico contro lo sfruttamento, la diseguaglianza, le vessazioni, il ricatto. La tutela del lavoratore serve a garantire una serie di condizioni che in nessun modo possono essere considerate come privilegi o eccessi di tutele, ma che costituiscono la base del nostro ordinamento giuridico (si vedano, tra gli altri, gli artt. 1, 2, 3 e 4 della Costituzione) e i fondamenti di una società civile ed evoluta: si tratta della dignità, dell'eguaglianza sostanziale, della libertà di scelta e di autodeterminazione.
A fronte di tutto ciò e avendo in mente la situazione economica attuale, che vede numerosi comparti produttivi in crisi, un'economia stagnante e una crescita zero, la "giuslavoristica del licenziamento facile" chiede sacrifici ai lavoratori. Chiede un mercato del lavoro ancor più flessibile e, con uno strano concetto di eguaglianza al ribasso - proprio delle economie sovietiche - domanda che sia la flessibilità, invece delle garanzie, a essere estesa a tutti i lavoratori. Così che l'economia possa ripartire, che gli imprenditori investano e finiscano per assumere anche di più, trasformando quella flessibilità in un rapporto continuo, magari non scritto nella roccia, ma tenuto al sicuro dalla continua crescita economica e dal dinamismo delle stesse imprese.
Questa idea, anche quando mossa da assoluta buona fede e supportata da studi economici autorevoli, si è già rivelata un'utopia. Lo ha dimostrato la storia più recente, lo testimoniano dati attuali, i quali ci dicono che l'Italia è già troppo flessibile se confrontata con gli altri Paesi dell'Ocse, che il sillogismo maggior flessibilità uguale a maggior benessere dell'impresa, non funziona, che senza nuove e apposite politiche strutturali di rilancio dell'economia la crescita, tanto acclamata, non potrà ripartire.
A ciò si aggiunga che oggi, in Italia, l'art. 18 si applica al 5 per cento delle imprese nazionali (le imprese con più di 15 lavoratori sono pochissime) e che la stessa norma non impedisce di licenziare in caso di perdite o recessione dell'azienda, quindi non è un limite alla crescita e al benessere dell'impresa.
A cosa serve allora una riforma del lavoro che riduca le tutele e le garanzie dei lavoratori, che estenda la flessibilità a tutte le categorie, che depotenzi i poteri del sindacato? Non a rilanciare l'economia. Semmai a impoverire il diritto del lavoro: quell'insieme di norme a tutela di diritti fondamentali che costituiscono la civiltà di una società industriale. Se esso viene rimosso, non si riparte, si torna indietro, si va verso il passato.
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