di Francesco Bogliacino controlacrisi
Analizziamo i modelli di chi vuole “riformare” il mercato del lavoro e abolire l’articolo 18: i risultati non migliorano la situazione dei precari, ma delle imprese
Precari contro garantiti? Proviamo a fare un piccolo ragionamento di economia. Dell’articolo 18 si si sanno i termini del problema: vieta il licenziamento discriminatorio, a cui per il momento siamo ancora tutti contrari (ma aspettiamoci qualche mossa da parte di un “riformista” con la mania di apparire sui giornali, sotto il titolo leggermente abusato “Niente tabù”) e vieta quello senza motivazione economica oggettiva, cioè consente di licenziare per una riorganizzazione dell’attività, ma non perché qualcuno si offre semplicemente di lavorare a un salario più basso.
I giuslavoristi confermano che di cause in tribunale per articolo 18 praticamente non se ne fanno; ma questo può voler dire poco, visto che le imprese e i lavoratori lo scontano nelle loro decisioni. Quanti sono i lavoratori “garantiti” dall’articolo 18, che si applica alle imprese oltre i 15 addetti? Una stima ragionevole è intorno al 45% degli occupati nel settore privato (Eurostat ci dice che gli addetti di industria, costruzioni e servizi in aziende sopra i 10 dipendenti sono il 50.75% del totale nel 2008, anno pre-crisi).
Se i garantiti creassero i precari, si dovrebbe quantomeno riscontrare un “effetto soglia” nei dati empirici: le imprese “scapperebbero” sotto i 15 dipendenti. Ci sono gli studi di Boeri e Jimeno (pubblicato nel 2005 su European Economic Review) e un Tema di Discussione della Banca d’Italia di Schivardi e Torrini (il 504 del 2004). In entrambi i casi, l’effetto soglia, se esiste, è quantitativamente molto piccolo. Questo implica che rimuovere il vincolo avrebbe un effetto molto limitato: l’Italia è terra di piccole imprese; bello o brutto che sia, non sembra causato dall’esistenza dell’articolo 18. Se avete un cane di 100 chili che passa il giorno a dormire sul divano, non avrete grande effetto aprendogli la porta di casa.
Il punto analitico è un altro. Prendiamo sul serio i modelli neoclassici del mercato del lavoro e il punto di vista dei “riformatori”. Ragioniamo di tutele in generale; ipotizziamo un mercato del lavoro standard, con imprese e lavoratori che domandano e offrono lavoro. Tutti hanno accesso alla stessa informazione. Domanda e offerta si incrociano in un punto solo che è il salario di equilibrio. Se per qualche ragione (potere contrattuale o costi di licenziamento) per un gruppo di lavoratori il salario è al di sopra del livello di equilibrio, mentre per gli altri è liberamente contrattato (cocopro e affini) sono i primi a determinare la condizione dei secondi? Niente affatto, perché ciò che conta è la condizione “al margine”, dell’ultimo lavoratore che viene assunto. Per il lavoratore “al margine” i salari sono uguali al suo salario “di riserva”, cioè appena sufficienti a convincerlo a lavorare. L’offerta di lavoro dei lavoratori “al margine” non è determinata dalle condizioni del mercato dei garantiti, ma dal salario che sono disposti ad accettare. In situazione di dualismo ci saranno lavoratori con un salario più alto e altri con un salario più basso, a parità di caratteristiche individuali e di altri fattori. È ingiusto, ma irrilevante per il risultato aggregato in termini di occupazione e salario di equilibrio. Se rimuoviamo del tutto le tutele, tutti i lavoratori avranno lo stesso salario di equilibrio, uguale a quello dei lavoratori non garantiti, che non cambiano in nulla la loro situazione. Semplicemente, i vantaggi che prima avevano i lavoratori protetti ora li ottiene l’impresa che paga salari più bassi.
Cambierebbe qualcosa se eliminassimo i contratti precari? Sì, cambia, perché il lavoratore marginale diventa un protetto, i salari sono più alti e l’occupazione si riduce. O, se preferite, si crea lavoro nero, dove il lavoratore “al margine” è nelle condizioni del cocopro. Si ripristina un dualismo dove le condizioni di equilibrio sono sempre determinate dal lavoratore marginale, sia per quanto riguarda l’occupazione totale sia per quanto riguarda il salario. Se togliamo le tutele, tutti i lavoratori avranno il salario del lavoratore in nero, che è poi il salario del cocopro, e i soldi degli ex garantiti vanno alle imprese. Se abbassiamo un po’ le tutele ai garantiti e le alziamo un po’ ai non protetti, abbiamo un po’ di lavoratori che stanno peggio, un po’ di lavoratori che stanno meglio, un po’ di lavoratori disoccupati e un po’ di soldi alle imprese.
Senonché l’equilibrio si determina tra domanda e offerta di lavoro, e allora dipende anche dall’impresa marginale. In altri termini, dipende anche da quanto un lavoratore è produttivo. Se la curva di domanda si sposta perché le imprese hanno bisogno di più lavoro, i salari crescono, e pure l’occupazione. Che cosa può accrescere la produttività dell’impresa marginale? L’impresa investe per fare soldi, contano gli incentivi a inventare qualcosa; se gli si abbassa il costo del lavoro, si alzano automaticamente i margini di profitto e la spinta a innovare cade, e con questa la produttività. Le garanzie per il lavoro possono agire da stimolo alla produttività, se spingono le imprese verso nuove tecniche.
Alcuni sottolineano il ruolo del capitale umano specifico: bisogna dare incentivi ai lavoratori ad accumulare conoscenze specifiche che non possono usare al di fuori dell’azienda. Qui il modello è leggermente più complicato (http://en.wikipedia.org/wiki/Hold-up_problem): il lavoratore deve accollarsi degli sforzi e vuole esserne premiato, ma il problema è che sa che una volta che si è sforzato l’impresa acquista potere contrattuale perché è l’unica “acquirente”. Allora bisogna ridurre il potere contrattuale dell’impresa o se volete dare più garanzie ai lavoratori precari. Si può fare senza ridurre le garanzie a quelli sul segmento protetto? Certo che sì.
Questo modello si può modificare con vari elementi più realistici – ma sempre rimanendo in un quadro neoclassico –, ma a quel punto non è nemmeno chiaro che l’aumento dei costi di licenziamento crei disoccupazione (www.jstor.org), quindi di nuovo non si capisce perché il protetto causi il precario. L’evidenza empirica su questo tema poi lascia pochi dubbi (http://www.bepress.com/cas/vol2/iss1/art1/).
Quale che sia il modello di riferimento, non si riesce a capire come le cose possano cambiare con il contratto unico: al netto di usare un contratto solo invece di 46 (peraltro non necessariamente un male), se non si modificano le condizioni nella fase di precariato, gli effetti aggregati sono zero. Se si modificano le condizioni dei precari – nello schema di riferimento di chi propone le “riforme” – quello che si crea è un po’ di redistribuzione e un po’ di lavoro nero. Non esattamente uno slogan per far ripartire la crescita.
Analizziamo i modelli di chi vuole “riformare” il mercato del lavoro e abolire l’articolo 18: i risultati non migliorano la situazione dei precari, ma delle imprese
Precari contro garantiti? Proviamo a fare un piccolo ragionamento di economia. Dell’articolo 18 si si sanno i termini del problema: vieta il licenziamento discriminatorio, a cui per il momento siamo ancora tutti contrari (ma aspettiamoci qualche mossa da parte di un “riformista” con la mania di apparire sui giornali, sotto il titolo leggermente abusato “Niente tabù”) e vieta quello senza motivazione economica oggettiva, cioè consente di licenziare per una riorganizzazione dell’attività, ma non perché qualcuno si offre semplicemente di lavorare a un salario più basso.
I giuslavoristi confermano che di cause in tribunale per articolo 18 praticamente non se ne fanno; ma questo può voler dire poco, visto che le imprese e i lavoratori lo scontano nelle loro decisioni. Quanti sono i lavoratori “garantiti” dall’articolo 18, che si applica alle imprese oltre i 15 addetti? Una stima ragionevole è intorno al 45% degli occupati nel settore privato (Eurostat ci dice che gli addetti di industria, costruzioni e servizi in aziende sopra i 10 dipendenti sono il 50.75% del totale nel 2008, anno pre-crisi).
Se i garantiti creassero i precari, si dovrebbe quantomeno riscontrare un “effetto soglia” nei dati empirici: le imprese “scapperebbero” sotto i 15 dipendenti. Ci sono gli studi di Boeri e Jimeno (pubblicato nel 2005 su European Economic Review) e un Tema di Discussione della Banca d’Italia di Schivardi e Torrini (il 504 del 2004). In entrambi i casi, l’effetto soglia, se esiste, è quantitativamente molto piccolo. Questo implica che rimuovere il vincolo avrebbe un effetto molto limitato: l’Italia è terra di piccole imprese; bello o brutto che sia, non sembra causato dall’esistenza dell’articolo 18. Se avete un cane di 100 chili che passa il giorno a dormire sul divano, non avrete grande effetto aprendogli la porta di casa.
Il punto analitico è un altro. Prendiamo sul serio i modelli neoclassici del mercato del lavoro e il punto di vista dei “riformatori”. Ragioniamo di tutele in generale; ipotizziamo un mercato del lavoro standard, con imprese e lavoratori che domandano e offrono lavoro. Tutti hanno accesso alla stessa informazione. Domanda e offerta si incrociano in un punto solo che è il salario di equilibrio. Se per qualche ragione (potere contrattuale o costi di licenziamento) per un gruppo di lavoratori il salario è al di sopra del livello di equilibrio, mentre per gli altri è liberamente contrattato (cocopro e affini) sono i primi a determinare la condizione dei secondi? Niente affatto, perché ciò che conta è la condizione “al margine”, dell’ultimo lavoratore che viene assunto. Per il lavoratore “al margine” i salari sono uguali al suo salario “di riserva”, cioè appena sufficienti a convincerlo a lavorare. L’offerta di lavoro dei lavoratori “al margine” non è determinata dalle condizioni del mercato dei garantiti, ma dal salario che sono disposti ad accettare. In situazione di dualismo ci saranno lavoratori con un salario più alto e altri con un salario più basso, a parità di caratteristiche individuali e di altri fattori. È ingiusto, ma irrilevante per il risultato aggregato in termini di occupazione e salario di equilibrio. Se rimuoviamo del tutto le tutele, tutti i lavoratori avranno lo stesso salario di equilibrio, uguale a quello dei lavoratori non garantiti, che non cambiano in nulla la loro situazione. Semplicemente, i vantaggi che prima avevano i lavoratori protetti ora li ottiene l’impresa che paga salari più bassi.
Cambierebbe qualcosa se eliminassimo i contratti precari? Sì, cambia, perché il lavoratore marginale diventa un protetto, i salari sono più alti e l’occupazione si riduce. O, se preferite, si crea lavoro nero, dove il lavoratore “al margine” è nelle condizioni del cocopro. Si ripristina un dualismo dove le condizioni di equilibrio sono sempre determinate dal lavoratore marginale, sia per quanto riguarda l’occupazione totale sia per quanto riguarda il salario. Se togliamo le tutele, tutti i lavoratori avranno il salario del lavoratore in nero, che è poi il salario del cocopro, e i soldi degli ex garantiti vanno alle imprese. Se abbassiamo un po’ le tutele ai garantiti e le alziamo un po’ ai non protetti, abbiamo un po’ di lavoratori che stanno peggio, un po’ di lavoratori che stanno meglio, un po’ di lavoratori disoccupati e un po’ di soldi alle imprese.
Senonché l’equilibrio si determina tra domanda e offerta di lavoro, e allora dipende anche dall’impresa marginale. In altri termini, dipende anche da quanto un lavoratore è produttivo. Se la curva di domanda si sposta perché le imprese hanno bisogno di più lavoro, i salari crescono, e pure l’occupazione. Che cosa può accrescere la produttività dell’impresa marginale? L’impresa investe per fare soldi, contano gli incentivi a inventare qualcosa; se gli si abbassa il costo del lavoro, si alzano automaticamente i margini di profitto e la spinta a innovare cade, e con questa la produttività. Le garanzie per il lavoro possono agire da stimolo alla produttività, se spingono le imprese verso nuove tecniche.
Alcuni sottolineano il ruolo del capitale umano specifico: bisogna dare incentivi ai lavoratori ad accumulare conoscenze specifiche che non possono usare al di fuori dell’azienda. Qui il modello è leggermente più complicato (http://en.wikipedia.org/wiki/Hold-up_problem): il lavoratore deve accollarsi degli sforzi e vuole esserne premiato, ma il problema è che sa che una volta che si è sforzato l’impresa acquista potere contrattuale perché è l’unica “acquirente”. Allora bisogna ridurre il potere contrattuale dell’impresa o se volete dare più garanzie ai lavoratori precari. Si può fare senza ridurre le garanzie a quelli sul segmento protetto? Certo che sì.
Questo modello si può modificare con vari elementi più realistici – ma sempre rimanendo in un quadro neoclassico –, ma a quel punto non è nemmeno chiaro che l’aumento dei costi di licenziamento crei disoccupazione (www.jstor.org), quindi di nuovo non si capisce perché il protetto causi il precario. L’evidenza empirica su questo tema poi lascia pochi dubbi (http://www.bepress.com/cas/vol2/iss1/art1/).
Quale che sia il modello di riferimento, non si riesce a capire come le cose possano cambiare con il contratto unico: al netto di usare un contratto solo invece di 46 (peraltro non necessariamente un male), se non si modificano le condizioni nella fase di precariato, gli effetti aggregati sono zero. Se si modificano le condizioni dei precari – nello schema di riferimento di chi propone le “riforme” – quello che si crea è un po’ di redistribuzione e un po’ di lavoro nero. Non esattamente uno slogan per far ripartire la crescita.
Nessun commento:
Posta un commento