Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 3 settembre 2011

L’origine delle minacce alla Siria, ultimo baluardo del nazionalismo arabo.

di Giacomo Gabellini - Fonte: eurasia
Il progressivo acuirsi della tensione all’interno del mondo arabo ha inoppugnabilmente conferito alla religione – in specie dall’11 settembre 2001 in poi – un ruolo cruciale nello scatenamento dei conflitti ed esaltato una presunta incompatibilità fra civiltà islamica e civiltà occidentale sostenuta in tempi non sospetti dal celebre politologo Samuel Huntington.

Ciò che Huntington e i numerosi propugnatori dell’imminente scontro di civiltà si sono guardati dal considerare, tuttavia, è un altro fattore.

Il fatto, cioè, che il fenomeno più assiduamente preso di mira dalle potenze anglosassoni interessate ad imporre la propria egemonia sul Vicino e Medio Oriente sia espressione della più evidente vocazione europea.

Si tratta del nazionalismo arabo propugnato da uomini politici di notevole spessore animati dalla volontà di riscattare i propri paesi vessati e umiliati da decenni di imperialismo europeo e statunitense.

Non è frutto del caso il fatto che ogni forma e versione della spinta nazionalista – da Mossadeq a Nasser, da Saddam Hussein alla stirpe degli Assad – sia stata duramente colpita fino a scomparire dall’orizzonte politico mediorientale.

Con un’eccezione, che corrisponde alla Siria baathista.

Il Baath è un partito che affonda le radici in Europa dove Michel Aflaq, il suo ideologo principale, si era recato per approfondire la propria conoscenza del Vecchio Continente e studiare filosofia.

Si iscrisse alla Sorbona, dove ebbe modo di leggere le opere di Marx, Lenin, Nietzsche e Mazzini e di assistere all’ascesa al potere di Hitler.

Tornò in patria dopo aver maturato una complessa concezione ideologica frutto dell’assimilazione di svariate componenti del leninismo e del fascismo.

Aflaq concentrò tutti i propri sforzi nella fondazione del partito Baath, incardinato sulle intuizioni della precedente fase europea.

Finì in galera diverse volte a cavallo tra la fine degli anni ’40 e l’inzio degli anni ’50 ma riuscì infine nell’impresa di fondere il Baath con il partito socialista siriano, dando vita a una nuova formazione politica di cui si accingeva ad assumere il ruolo di segretario generale.

Il programma della nuova organizzazione prevedeva la rinascita del mondo arabo, la formazione di un’unica nazione araba basata sui modelli europei di cui i singoli paesi sarebbero divenuti province, la scolarizzazione delle masse imperniata sui principi di solidarietà e progressismo.

La struttura portante della nazione unitaria di cui Michel Aflaq e il suo compagno Akram Hurani intendevano promuovere la costruzione sarebbe dovuta scaturire dalla sintesi di elementi storici, culturali e geopolitici fusi in totale, armonica compenetrazione.

Da greco – ortodosso quale era, Aflaq sapeva che la realizzazione di un progetto tanto ambizioso non avrebbe mai potuto contemplare qualsiasi discriminazione di natura confessionale e infatti si premurò di esaltare il carattere laico dello Stato da costruire escludendo qualsiasi riferimento alla religione.

Ripudiare la guerra e le oppressioni: una via strettissima.

di Fabrizio Tringali – Fonte: Megachip.
Un interessante articolo di Rodolfo Monacelli su Megachip che descrive i "sei stadi dell'umanitarismo bombardatore" merita qualche considerazione aggiuntiva . L'articolo sottolinea che la "difesa dei diritti umani" è diventata il leitmotiv della strategia di manipolazione mediatica e comunicativa messa in atto dalle potenze che preparano un attacco militare. E' utile ragionare sui motivi per i quali questa strategia - pur mossa da altri fini - si è finora rivelata purtroppo efficace, in modo da capire come provare a gettare le basi per un’altrettanto efficace opposizione all'escalation militare e alla moltiplicazione dei conflitti armati. L'opinione pubblica in genere è contraria alle guerre. Per molti motivi, che possono essere morali, politici o anche economici. Dunque le potenze hanno sempre avuto bisogno di offrire “buoni” motivi per le conquiste desiderate dai ceti dominanti.

L'esperienza ha insegnato che il miglior casus belli, cioè quello comunemente più accettato dai cittadini, riguarda i diritti umani e la difesa della popolazione civile sotto l'attacco di un tiranno.

Agli occidentali piacerà sempre pensarsi come "liberatori", mentre difficilmente essi abboccherebbero ancora a stupidaggini palesemente inventate come le armi di distruzione di massa di Saddam.

Anche adesso che tutti sanno che quelle armi non sono mai esistite, il mainstream difende comunque le ragioni della guerra ricordando che Saddam era un dittatore, e sostenendo che quindi è stato un bene levarlo di mezzo.

Questa menzogna (“la guerra era giusta”) funziona ancora perché si collega ad una verità (“Saddam era un dittatore”). Le strategie di manipolazione mediatica dell'impero si sono affinate nel momento in cui è diventato chiaro che le menzogne che funzionano meglio sono quelle che si collegano a delle verità. La complessità del sistema informativo-comunicativo moderno fa sì che una menzogna che non ha nessun collegamento, nemmeno lontano, con fatti accertati (o che presentino almeno un fondo di verità) rischia, prima o poi, di venire a galla. Con il conseguente discredito e perdita di credibilità per chi ha diffuso la balla.

Se invece si riesce a collegare le menzogne a qualcosa di reale, anche la balla può restare in piedi.

Accade perciò che quando l'impero decide di conquistare Paesi governati da regimi autoritari preferisce utilizzare lo schema indicato da Monacelli e costruire una "emergenza umanitaria", anziché puntare su questioni che oramai avrebbero molto meno appeal presso l'opinione pubblica, come ad esempio la presunta pericolosità per il pianeta di Stati che hanno invece pochissima forza militare. Fatto questo, si possono poi utilizzare ulteriori menzogne, anche colossali, per sostenere le ragioni della guerra. E quel che ha fatto la NATO nel caso della Libia, diffondendo a mani larghe notizie inventate di massacri mai avvenuti, di fosse comuni mai esistite e così via.

Il punto è che queste falsità sono davvero efficaci proprio perché si basano su un fondo di verità. La propaganda della NATO attacca quei regimi che mette sotto tiro sul piano in cui essi sono effettivamente attaccabili (il loro carattere oppressivo), e non su uno nel quale in realtà non lo sono (la loro pericolosità militare).

La stragrande maggioranza delle popolazioni occidentali ha (giustamente) interiorizzato la difesa dei diritti umani e delle libertà civili come un dovere civico. Per questo, chi prova ancora ad opporsi alla guerra, può essere tentato di chiudere un occhio verso le dittature, e porsi sulla difensiva negando o minimizzando il carattere autoritario dei regimi che di volta in volta vengono inquadrati dal mirino della NATO, nel tentativo di disinnescare le ragioni degli interventisti.

Poiché spesso le caratteristiche di quei regimi sono ampiamente note, l'unico effetto che si può ottenere in questo modo è quello di rafforzare ulteriormente le ragioni della guerra, poiché chi vi si oppone sembra voler difendere dei dittatori.
I caratteri oppressivi di un regime non dovrebbero mai essere negati da chi ha a cuore le ragioni della pace e della democrazia. Del resto, le guerre della NATO sono un rimedio che ha sempre ulteriormente peggiorato il male delle dittature che avrebbero dovuto combattere. Le ragioni per essere contrari a qualsiasi "intervento umanitario" sono molteplici, ma il miglior modo per rafforzare la causa della Pace è mettere in luce le conseguenze che gli interventi militari hanno prodotto per le popolazioni che li hanno subiti.

Slavoj Žižek: Saccheggiatori di tutto il mondo, unitevi.

Fonte: nuovaresistenza
La ripetizione, secondo Hegel, svolge un ruolo storico fondamentale: una cosa che accade solo una volta può essere liquidata come un caso, un evento che avrebbe potuto essere evitato se la situazione fosse stata gestita diversamente; ma il suo ripetersi è sintomo di una dinamica storica più profonda. Quando Napoleone fu sconfitto a Lipsia, nel 1813, si pensò a un caso sfortunato; quando perse nuovamente a Waterloo fu chiaro che il suo tempo era finito. Lo stesso vale per la crisi finanziaria in corso. Nel settembre del 2008 fu presentata da alcuni come un’anomalia che poteva essere corretta con nuove regolamentazioni ecc.; ora che si susseguono i segnali di un nuovo tracollo finanziario è evidente che abbiamo a che fare con un fenomeno strutturale.
Continuano a dirci che stiamo attraversando una crisi del debito e che dobbiamo portare tutti insieme questo peso e tirare la cinghia. Tutti insieme con l’eccezione dei (molto) ricchi: l’idea di tassarli di più è un tabù. Se lo facessimo, si dice, i ricchi non sarebbero incentivati a investire, verrebbero creati meno posti di lavoro e tutti noi ne subiremmo le conseguenze. L’unica possibilità di salvezza in questi tempi difficili è che i poveri diventino più poveri e i ricchi più ricchi. Cosa resta da fare ai poveri? Cosa possono fare?

Benché le rivolte nel Regno Unito siano state scatenate dall’omicidio di Mark Duggan in circostanze sospette, tutti vi riconoscono l’espressione di un disagio più profondo. Ma che genere di disagio? Come nel caso delle auto incendiate nelle banlieue parigine nel 2005, i rivoltosi inglesi non avevano messaggi da comunicare. (Qui c’è un netto contrasto con le grandi manifestazioni studentesche del novembre 2010, anch’esse sfociate nella violenza. Gli studenti protestavano chiaramente contro le proposte di riforma universitaria.) Ecco perché è difficile considerare i rivoltosi inglesi in termini marxisti, come un esempio del manifestarsi del soggetto rivoluzionario; sono più simili alla “plebe” in senso hegeliano, alla moltitudine che sta all’esterno dello spazio sociale organizzato e che può esprimere il proprio scontento unicamente per mezzo di sfoghi “irrazionali” di violenza distruttiva – quello che Hegel chiamava “negatività astratta”.

C’è una vecchia barzelletta su un operaio sospettato di rubare: tutte le sere quando esce dalla fabbrica gli perquisiscono minuziosamente la carriola. Le guardie non trovano niente, la carriola è sempre vuota. Alla fine si scopre l’inganno: l’operaio sta rubando proprio le carriole. Le guardie si erano lasciate sfuggire l’ovvio, come gli opinionisti con le rivolte inglesi. Ci dicono che la disintegrazione dei regimi comunisti all’inizio degli anni Novanta ha segnato la fine delle ideologie: l’epoca dei grandi progetti ideologici culminati nella catastrofe totalitaria si è conclusa; siamo entrati in una nuova era fatta di politica razionale e pragmatica. Questa recente esplosione di violenza ci permette di verificare ce ci sia qualcosa di vero nel luogo comune secondo il quale staremmo vivendo in un’epoca post-ideologica. È stata una protesta di grado zero, un’azione violenta priva di rivendicazioni. Nel disperato tentativo di dare un significato alle rivolte, i sociologi e gli editorialisti hanno reso ancora più confuso l’enigma da esse proposto.

I contestatori, benché svantaggiati e di fatto socialmente emarginati, non stavano morendo di fame. Gente che si è ritrovata in difficoltà materiali ben peggiori, per non parlare delle condizioni di repressione fisica e ideologica, è stata capace di organizzarsi in forze politiche con obiettivi chiari e definiti. È il fatto stesso che i rivoltosi non avessero alcun programma a dover essere interpretato: la dice lunga sulla difficile situazione politico-ideologica in cui ci troviamo e sulla società in cui viviamo, una società che celebra la scelta ma nella quale l’unica alternativa possibile al consenso democratico imposto è un cieco acting out [in psicanalisi, insieme di azioni aggressive manifestate dal paziente verso gli altri o verso se stesso per ostacolare il processo di ricordo di fatti passati rimossi, N.d.T.]. L’opposizione al sistema, ormai incapace di articolarsi come alternativa realistica e perfino come progetto utopistico, può solo prendere la forma di un’esplosione di aggressività priva di senso. A cosa serve la nostra libertà di scelta se la sola scelta possibile è tra il rispetto delle regole e la violenza (auto-)distruttiva?

venerdì 2 settembre 2011

Noam Chomsky: La resa di Obama

Fonte: liberoit
“Che gli Stati Uniti siano ormai in declino e debbano affrontare la prospettiva di una totale decadenza è un’opinione sempre più condivisa”, scrive Giacomo Chiozza nell’ultimo numero di Political Science Quarterly. E ha ragione. Ci sono però alcune precisazioni da fare. Innanzitutto, il declino è cominciato in realtà quando gli Stati Uniti hanno raggiunto il loro apice, cioè dopo la seconda guerra mondiale. E poi questo declino è in gran parte autoinflitto. L’opera buffa andata in scena a Washington quest’estate nello scontro sul debito pubblico tra Obama e i repubblicani del congresso ha disgustato l’intera nazione e sconcertato il mondo. Lo spettacolo è stato così misero da spaventare persino gli sponsor di questa pagliacciata. Le grandi aziende temono, infatti, che gli estremisti che hanno messo ai posti di comando possano fare a pezzi il sistema che ha garantito loro tanto a lungo ricchezze e privilegi.

Il peso delle grandi aziende sulla politica e la società statunitensi ha raggiunto un livello tale che ormai entrambi i partiti sono schierati molto più a destra della popolazione. Per l’opinione pubblica il principale problema è la disoccupazione. Oggi la crisi dei posti di lavoro può essere superata solo attraverso un intervento significativo dello stato. Per le istituzioni finanziarie, invece, in cima alla lista dei problemi c’è il deficit. E dunque è solo di deficit che si discute. Secondo un sondaggio di Washington Post e Abc News una larga maggioranza della popolazione vorrebbe risolvere il problema tassando i più ricchi (72 per cento a favore, 27 per cento contro) mentre i tagli ai programmi sanitari scontentano gran parte degli americani.

Il Program on international policy attitudes (Pipa) ha studiato l’opinione degli americani sulle possibili soluzioni alla crisi del debito. Scrive il direttore del Pipa, Steven Kull: “È evidente che sia l’amministrazione Obama sia la camera a maggioranza repubblicana non sono in sintonia con le priorità dell’opinione pubblica sul bilancio. La differenza più netta sulla spesa pubblica è che le persone vorrebbero tagli sostanziali alla difesa, mentre Obama e la camera propongono un aumento dei fondi, anche se modesto. Inoltre, la popolazione chiede un contributo per la formazione, l’istruzione e il controllo dell’inquinamento molto più consistente rispetto a quello proposto sia dalla Casa Bianca sia dalla camera”.

Il “compromesso” finale tra il presidente e il congresso – cioè la resa incondizionata all’estrema destra – è l’opposto. Quasi certamente le scelte del governo porteranno a un ulteriore rallentamento della crescita, e nel lungo periodo danneggeranno tutti tranne i più ricchi e le grandi corporation.

Appello da New York. Prendiamo il toro per le corna: occupiamo Wall Street.

Fonte: carta
Adbusters, collettivo grafico-editoriale di cultural jamming, di deturnamento e provocazione tra i più efficaci e conosciuti nel mondo, lancia un’idea. Può sembrare uno scherzo o una provocazione, ma in rete e sui social network si diffonde a macchia d’olio l’appello. Il collegamento con gli indignati spagnoli e con la giornata mondiale del 15 ottobre è immediato. È l’inizio di un nuovo movimento negli Usa? Conviene guardare con molta attenzione. Carta seguirà gli sviluppi

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E allora, novantamila liberatrici e liberatori, ribelli e radicali,

in questo esatto momento la tattica rivoluzionaria sta attraversando un cambiamento che fa sperare bene per il futuro. Lo spirito di questa nuova tattica, una fusione tra Tahrir e le acampadas di Spagna, è ben espresso da queste parole:
“Il movimento antiglobalizzazione è stato il primo passo lungo questa strada. All’epoca il nostro modello era attaccare il sistema come un branco di lupi. C’era un maschio alfa, un lupo che guidava il gruppo, e altri che seguivano. Ora il modello si è evoluto. Oggi siamo un grande sciame di persone “.
-Raimundo Viejo, Università Pompeu Fabra
Barcellona, Spagna

La bellezza di questa nuova formula, e ciò che rende questa inedita tattica così avvincente, è la sua semplicità pragmatica: ci incontriamo fisicamente in varie sedi e in assemblee virtuali… capiamo quale può essere la nostra rivendicazione comune, una rivendicazione capace di risvegliare l’immaginazione che, se strappata, ci farà avanzare verso la democrazia radicale del futuro … e poi ci andiamo a prendere una piazza di forte valenza simbolica e rischiamo il culo per raggiungere il nostro obiettivo.

È giunta l’ora di dispiegare questo stratagemma emergente contro il più grande corruttore della nostra democrazia: Wall Street, la Gomorra finanziaria d’America. Il 17 settembre vogliamo vedere 20.000 persone riversarsi a Lower Manhattan, tirare su tende, cucine, barricate pacifiche e occupare Wall Street per qualche mese. Una volta lì, ribadiremo incessantemente un’unica, semplice, rivendicazione in una pluralità di voci.

Se Tahrir ha funzionato è stato soprattutto perché il popolo egiziano ha posto un ultimatum chiaro e tondo – Mubarak se ne deve andare -, reiterandolo più e più volte fino alla vittoria. Se volessimo seguire questo modello, quale sarebbe la nostra altrettanto chiara rivendicazione?

La candidata più entusiasmante che abbiamo sentito finora va dritta al perché oggi l’establishment politico americano è indegno di essere chiamato una democrazia: chiediamo che Barack Obama istituisca una commissione presidenziale incaricata di porre fine all’influenza esercitata dal denaro sui nostri rappresentanti a Washington. È tempo di democrazia e non corporatocrazia, o per noi sarà la fine.

Questa rivendicazione sembra cogliere lo stato d’animo del paese al momento, perché liberare Washington dalla corruzione è qualcosa che tutti gli americani, a destra e a sinistra, desiderano e che sono pronti ad appoggiare. Se sapremo tenere duro, ventimila volte forti, una settimana dopo l’altra, contro ogni tentativo della polizia e della Guardia Nazionale di cacciarci da Wall Street, Obama non potrà ignorarci. Il nostro governo sarà costretto a scegliere pubblicamente tra la volontà del popolo e le corporation che lucrano.

Potrebbe essere l’inizio di una dinamica sociale del tutto nuova in America, una spanna sopra il movimento Tea Party, dove invece di finire prede inermi dall’attuale struttura di potere noi, il popolo, iniziamo a prenderci ciò che vogliamo. Dallo smantellamento di metà delle mille basi militari americane nel mondo, al ripristino del Glass-Steagall Act o di una legge che sancisca il principio “alla terza volta sei fuori” per i criminali aziendali.

A partire da una semplice rivendicazione – una commissione presidenziale per la separazione tra denaro e politica – possiamo iniziare a delineare il progetto di una nuova America.

Invia un commento e capiamo insieme quale sarà la nostra rivendicazione. E poi tiriamo fuori il nostro coraggio, prepariamo le tende e incamminiamoci verso Wall Street per la vendetta del 17 settembre.

per i selvaggi,
Culture Jammers HQ

traduzione a cura di Carta&friends

Libia: Cessare i bombardamenti, subito.

di Paolo Ferrero. Fonte: controlacrisi
La Libia è lo specchio del degrado delle classi dirigenti a livello mondiale. L’ONU qualche mese fa ha benedetto la guerra dando il via libera ai bombardamenti contro Gheddafi. Lo ha fatto violando la sua carta costitutiva, che la obbligava ad aprire una trattativa tra le parti. Contravvenendo ai suoi scopi e ai suoi principi l’ONU ha accettato il fatto compiuto della guerra ovviamente in nome di scopi umanitari: fermare i massacri. Adesso che la guerra è stata vinta dalla parte appoggiata dai bombardieri, cosa fa l’ONU? Nulla. In Libia sono in corso vendette e man mano che il conflitto procede cambia il suo scopo. Adesso veniamo a sapere che il problema è uccidere Gheddafi e che per ottenere questo obiettivo il conflitto può proseguire e con esso la distruzione e gli ammazzamenti. Cosa ha da dire su questo l’ONU? Nulla. E le nazioni occidentali che hanno bombardato, cosa fanno? I più furbi e scaltri, come la Francia, hanno organizzato una Conferenza che dietro le belle dichiarazioni di principio è finalizzata unicamente alla spartizione del bottino di guerra. Al padrone di casa andrà la fetta più grande delle forniture petrolifere: gli altri sono in fila per prendere o difendere. E’ il caso del governo italiano che, confermando il detto “Francia o Spagna purché se magna”, dopo l’ennesima giravolta stanno cercando di mantenere con i nuovi padroni i contratti che avevano con i vecchi. Ovviamente chi è interessato a fare buoni accordi per lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi o di gas naturali non può certo mettersi a fare le pulci se viene compiuta qualche strage di troppo o se la guerra assume un profilo diverso da quella con cui era cominciata.
C’è un che di disgustoso in questa distanza tra le roboanti dichiarazioni umanitarie che hanno giustificato l’intervento militare e il totale disinteresse concreto per la vita delle persone che viene dimostrato oggi. Vite umane in cambio di petrolio, questo è il mercanteggiamento in corso oggi a Parigi.
Per quanto riguarda l’Italia le responsabilità di questa situazione non riguardano solo il governo. Coinvolgono l’opposizione parlamentare – PD in primis – e coinvolgono il Presidente della Repubblica. Che cosa ha da dire oggi Giorgio Napolitano di fronte ai massacri in corso in Libia e alla palese assenza di una soluzione politica che la nostra carta Costituzionale fissa come il punto fondante dei rapporti internazionali? Nulla. Il silenzio bipartisan sulla questione umanitaria si sostanzia della condiscendenza bipartisan dei mass media: i morti non fanno più scandalo, non fanno più inorridire il civilissimo occidente, sono derubricati a dato sociologico, insito nella fisiologia del conflitto. Come il neoliberismo anche i morti diventano un fenomeno naturale, che “non merita due parole su un giornale”.
Questa situazione è destinata ad aggravarsi decisamente: il CNT ha fatto un ultimatum e sabato comincerà a bombardare la città di Sirte. La città è piena di civili e questo vuol dire che ci sarà un altro massacro. Il CNT inoltre ha affermato che non vuole osservatori internazionali nemmeno disarmati perché in Libia non sarebbe in corso una guerra civile ma semplicemente un processo di liberazione dal tiranno.
L’azione del CNT in Libia è destinata quindi a produrre un massacro di dimensioni ben maggiori di quello che ha originato il conflitto. Nessuno potrà dire che non sapeva. Ne l’ONU, ne il governo, ne il Presidente della Repubblica, ne il PD. Siamo ancora in tempo a fermare questo massacro ma per questo servono gesti chiari e decisi.
Noi eravamo per la trattativa prima della guerra, siamo per la trattativa oggi. Pensiamo che la costruzione di una Libia democratica, senza il dittatore Gheddafi e dalle sue camarille e senza diventare un protettorato dei bombardatori sia l’unico obiettivo legittimo. Per questo chiediamo una cosa sola: la cessazione immediata dei bombardamenti, e l’apertura di una trattativa per porre immediatamente fine al conflitto e chiediamo al governo italiano e al Presidente della Repubblica di porre fine unilateralmente alle azioni militari e di imporre una trattativa.

Uomo morto non parla: Gli US Navy SEALs distrutti per coprire la bufala dell’esecuzione di bin Laden?

Fonte: megachip di Finian Cunningham - globalresearch.ca.
(Con nota di Pino Cabras in coda all’articolo).

L’eliminazione di 30 uomini delle forze speciali degli Stati Uniti nello schianto di un elicottero Chinook in Afghanistan arriva in un periodo in cui la versione ufficiale di Washington sul modo in cui è stata eseguita l’uccisione di Osama bin Laden stava crollando sotto i colpi dell’incredulità. Tra i 38 morti nel disastro dell'elicottero - la più grande perdita di vite statunitensi avvenuta in una singola occasione nel corso della decennale guerra di occupazione dell'Afghanistan - si pensa che vi siano molti dei 17 Navy Seals coinvolti nell'esecuzione di Osama bin Laden all’inizio di maggio. Tra i morti sono compresi anche altri membri delle forze speciali USA e dei commando afghani.
I primi servizi dei media occidentali indicavano che il Chinook potrebbe essere stato coinvolto in una considerevole operazione militare contro dei militanti afghani, al momento in cui è stato abbattuto nella provincia di Wardak, poco a ovest della capitale Kabul, alle prime ore di sabato.
Si è riferito che alcune fonti fra i taliban hanno affermato che i loro militanti hanno abbattuto il Chinook con un lancio di razzi.

Funzionari militari statunitensi dichiarano che stanno indagando sulle cause dello schianto.

Tuttavia, appare significativo che fonti anonime USA abbiano raccontato agli organi di informazione che ritenevano che l'elicottero sia stato abbattuto. Questo sorta di conferenza stampa non ufficiale degli USA appare alquanto strana. Perché le fonti militari statunitensi vogliono offrire ai combattenti nemici un così spettacolare colpo propagandistico?

Forse giova gli interessi degli USA distrarre dal motivo e dalla causa reali dello schianto dell'elicottero, sia stato esso colpito o meno da un razzo.

Funzionari statunitensi hanno ammesso che i Navy Seals deceduti facevano parte dell'unità Team 6 che avrebbe eseguito l'assassinio, lo scorso maggio, della presunta mente dell'11/9, Osama bin Laden.

Fin dai primordi, il resoconto di Washington in merito al modo in cui le sue forze speciali hanno ammazzato Bin Laden presso il suo complesso residenziale di Abbottabad, nel nord del Pakistan, era squarciato dalle contraddizioni. Perché mai, una volta liquidato, Bin Laden è stato seppellito in mare in fretta e furia? Come ha potuto il "Terrorista N°1" a livello mondiale risiedere, senza essere notato, ad appena poche miglia dal quartier generale militare pakistano di Rawalpindi?

15 ottobre, Indignados: si preparano le giornate napoletane.

Fonte: controlacrisi
Napoli. (di Giuliano Pennacchio). Ad Intramoenia, in Piazza Bellini, nei locali nel caffè letterario, ritrovo di tanti giovani e punto di riferimento di molte associazioni, ieri faceva molto caldo. Stipati, in una sala interna dei locali, i rappresentanti della variegata società precaria napoletana. Lavoratori della conoscenza, attori, cooperatori sociali, giornalisti precari, borsisti universitari ed insegnanti, tutti insieme a discutere. Il tentativo è quello di individuare le forme, i contenuti, i nessi per costruire un possibile movimento che prenda le mosse dalle rivolte sociali che attraversano i paesi del bacino euro mediterraneo, in vista della giornata europea di mobilitazione del 15 ottobre 2011, promossa dagli Indignados spagnoli.

Alfonso, che ha aperto la discussione, si è soffermato sulla necessità di costruire una narrazione capace di indicare ai lavoratori precari ed all’insieme del mondo del lavoro napoletano una possibile via di uscita dalla crisi, aggravata dai tagli allo stato sociale del governo Berlusconi. In questo senso gli effetti della riduzione della spesa sociale già si avvertono su settori come quelli della sanità e del trasporto; in particolare la mobilità viene fortemente messa in discussione nel napoletano con il taglio di migliaia di corse dei treni dei pendolari nelle ferrovie della Circumvesuviana e della Cumana.
La discussione è andata avanti per circa tre ore e Rita, una storica attrice napoletana, ha messo in risalto la condizione di lavoro della gente di spettacolo. Gli attori sono costretti a pause tra una rappresentazione ed un’altra e non essendo dotati di nessun ammortizzatore sociale (il governo ha tagliato anche l’indennità di disoccupazione) sono praticamente senza reddito per mesi. Giovanni, invece, giornalista precario ha sottolineato come il nuovo sfruttamento passi anche in professioni come la sua ad alto valore aggiunto.

Www.controlacrisi.org intervenendo nella discussione ha messo a disposizione il proprio blog per amplificare i contenuti della discussione. La mobilitazione internazionale del 15 ottobre, che viene proposta dagli Indignados può rappresentare nell’immaginario collettivo europeo un momento di risposta agli attacchi contro lo stato sociale, alle politiche recessive messe in campo dai governi e dai banchieri, ma soprattutto può indicare la via dell’unità dal basso dei popoli e degli oppressi, contro il tentativo di cancellazione degli elementi fondativi della civiltà europea.
Molti altri interventi, inoltre, si sono soffermati sulla necessità di una presenza nelle giornate del 6 settembre, alle mobilitazioni della CGIL e dei Sindacati di Base. Tutti si sono detti d’accordo. Qualcuno ha messo l’accento sulla necessità di costruire le condizioni per l’occupazione permanente di una piazza napoletana.

La discussione continuerà la prossima settimana e sarà focalizzata sulla costruzione delle tre giornate napoletane (assemblee, gruppi di lavoro tematici, concerti) da tenersi a fine settembre, in vista della mobilitazione europea de 15 ottobre.
POVERTY
"LET THEM EAT BRIOCHES"

giovedì 1 settembre 2011

Debito pubblico: la grande truffa

Fonte: megachip - di Giulietto Chiesa - lavocedellevoci.it.
Ma davvero dobbiamo tenerceli questi banchieri? A cosa servono le banche? Cos'e' la finanza? Perche' siamo tutti indebitati? Chi e' responsabile di questo debito? E' tutto normale in quello che sta accadendo, o c'e' qualcosa che non quadra?
Non si finirebbe piu' di fare domande quando si assiste alla commedia quotidiana delle borse che crollano, dei politici che si danno la colpa l'un l'altro, dei fantomatici “speculatori” che non si sa chi siano, salvo che sono certamente dei balordi miliardari che ci portano via i soldi dalle tasche. Eppure tutto e' chiaro come il sole. Chi comanda il mondo occidentale (non il mondo, ma solo l'Occidente) sono le grandi banche.

Le grandi banche sono solidali tra di loro e fanno parte di un pool molto ristretto. I “creditori”, apparentemente, sono loro. Sono loro che ormai dettano agli Stati quello che devono fare. E' la dittatura del denaro che ha cancellato ogni democrazia.
Ma e' poi vero che gli dobbiamo qualche cosa?

La risposta - la sanno tutti quelli che “sanno” - e' che siamo stati derubati. I grandi conglomerati finanziari dell'Occidente sono andati tutti in fallimento nel 2007. Sarebbero crollati tutti se la Federal Reserve, la Banca Centrale Europea e i paesi produttori di petrolio non fossero intervenuti, di fatto coprendo i loro crack. Hanno lasciato fallire la Lehman Brothers, per dare un contentino al grande pubblico ignaro. Tutti gli altri sono stati salvati. Con i soldi nostri.

Nessuna regola e' stata introdotta per tagliargli le unghie. E loro, una volta salvati dai governi, hanno chiesto di essere pagati una seconda volta. Certo i crediti, sulla carta, li hanno, ma sono i prestiti che hanno elargito sul niente. Producevano denaro con dei trucchi e lo prestavano facendosi pagare l'interesse da noi.

Quando si e' scoperto che bluffavano, hanno convocato i governi e i banchieri centrali (entrambi loro maggiordomi) e hanno detto: «siamo troppo grossi per fallire. Volete farci affondare? Peggio per voi. Niente piu' campagne elettorali gratis, niente piu' potere. Vi faremo fronteggiare le folle infuriate e scateneremo i nostri media contro di voi. Vi faremo a pezzi, pubblicheremo dove sono i vostri conti in banca, vi rinfacceremo i soldi che vi abbiamo dato sottobanco».


E governi e banche centrali hanno ovviamente ceduto, essendo i loro manutengoli. La Grecia, l'Irlanda, il Portogallo sono stati gli esperimenti preliminari. «Bisogna salvarli!», gridano tutti, altrimenti crolla l'euro, crolla l'Europa. Ma chi li deve salvare? Cioe' chi deve pagare i loro (falsi) debiti ai grandi banchieri? Gli Stati. Ma gli Stati sono gia' in rosso dopo i salvataggi delle banche del 2007-2008. Allora devono pagare le popolazioni. Anche l'Italia. Stanno dicendo ai popoli europei che e' finito il patto sociale che ha retto negli ultimi sessant'anni l'Europa occidentale.


Via il welfare, praticamente di colpo. E poi? Dicono: «poi si deve ricominciare a crescere».


Cioe' a consumare. Ma con quali soldi, se i redditi di tutti i lavoratori verranno falciati? E con quali beni, visto che dovremo privatizzare perfino il Colosseo, mentre le aste delle privatizzazioni saranno affollate di banchieri che verranno a comprare usando i nostri debiti, cioe' usando il denaro virtuale che loro hanno prodotto e noi abbiamo gia' pagato una volta.
Rapina bella e buona, o brutta e cattiva, se volete.


E noi che facciamo? I partiti, la sinistra non hanno nessuna idea alternativa, avendo da decenni ormai accettato tutti i ricatti possibili e immaginabili ed essendo parte della grande truffa.


La mia idea e' di mandarli tutti a quel paese e di organizzarci per impedire che ci esproprino. Bisogna dire, chiaro e tondo, che quei debiti sono illegali. Fatti da regimi corrotti alle nostre spalle. Cioe' non esigibili. Vogliamo sapere chi sono i creditori, vogliamo vederli in faccia, uno per uno. Vogliamo prima di tutto un “audit” indipendente. Poi vogliamo che cambino le regole. Uno Stato non e' equiparabile a una banca. Le vite di milioni di persone non sono quelle dei ricchi detentori delle maggioranze dei pacchetti azionari di una banca. Gli Stati devono avere accesso al denaro a tasso zero. Le banche devono avere riserve pari almeno alla quantita' di prestiti che erogano.

Eresia, eresia!, grideranno gli economisti che in tutti questi anni hanno tenuto bordone ai ladri.
Ma noi dobbiamo rispondere: «non pagheremo!».
Il problema e' come. La mia risposta e': difendere il nostro territorio. Come fanno i No tav della Val di Susa. Loro hanno capito e si sono organizzati. Facciamo la stessa cosa a Napoli e a Roma, a Palermo e a Bologna. Vedrete che li costringiamo a trattare.

Fonte: http://www.lavocedellevoci.it/inchieste1.php?id=438.

Il diritto al default come contropotere finanziario.

di Andrea Fumagalli* - Fonte: ilmanifesto
In queste settimane di crisi finanziaria e di pressione speculativa sui paesi mediterranei, l’Europa non ha fatto una bella figura. E non poteva essere altrimenti, dal momento che la costruzione di un’Europa politica, economica e sociale è ancora lungi dall’essere raggiunta. Al momento, siamo di fronte solo all’unione monetaria europea, che è cosa diversa dall’Europa. I poteri sono in mano alla Bce, non ad un parlamento regolarmente eletto a suffragio universale in grado di legiferare con poteri superiori a quelli nazionali. E, infatti, è la Bce che detta legge, tramite l’oligarchia dei poteri forti oggi rappresentati dall’asse Merkel – Sarkozy (un neo Berlusconi in salsa oltralpe!).

Eppure, ci potrebbero essere gli spazi per creare le premesse della costruzione di quell’Unione europea, sociale, economica, solidale e federale che tutti auspichiamo, in grado di essere superiore agli opportunismi nazionalistici. Un’ Unione europea che è del tutto antitetica a quella che viene rappresentata dalla lettera “segreta” o “confidenziale” di Trichet e Draghi al governo italiano, nella quale vengono dettate le linee di politica economica che l’Italia dovrebbe seguire se vuole ottenere un aiuto per evitare il rischio di default e l’aumento degli oneri d’interesse.

Il diktat della Bce si basa su due false ma comode convenzioni, che derivano dal dogma neo e social-liberista: a. neutralità dei mercati finanziari e fiducia nel loro ruolo di arbitro imparziale dell’efficienza del libero mercato e b. la possibilità che politiche fiscali recessive del tipo lacrime-sangue possano raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio pubblico e quindi contrastare la speculazione.

La favola dei mercati finanziari concorrenziali, imparziali e neutri.

Il biopotere dei mercati finanziari si è grandemente accresciuto con la finanziarizzazione dell’economia. Se il Prodotto interno lordo del mondo intero nel 2010 è stato di 74 mila miliardi di dollari, la finanza lo surclassa: il mercato obbligazionario mondiale vale 95 mila miliardi di dollari, le borse di tutto il mondo 50 mila miliardi, i derivati 466 mila miliardi. Tutti insieme (al netto delle attività sul mercato delle valute e del credito), questi mercati muovono un ammontare di ricchezza otto volte più grande di quella prodotta in termini reali: industrie, agricoltura, servizi. Tutto ciò è noto, ma ciò che spesso si dimentica di rilevare è che tale processo, oltre a spostare il centro della valorizzazione e dell’accumulazione capitalistica dalla produzione materiale a quella immateriale e dello sfruttamento dal solo lavoro manuale anche a quello cognitivo, ha dato origine ad una nuova “accumulazione originaria”, che, come tutte le accumulazioni originarie, è caratterizzata da un elevato grado di concentrazione.

Guerra e verità. I sei stadi dell'umanitarismo bombardatore.

Scritto da Rodolfo Monacelli. Mercoledì 31 Agosto
Fonte: megachip
Abbiamo assistito per mesi all’attacco imperialista nei confronti della Libia e del suo legittimo governo. Non certo una novità, poiché è uno scenario che - da almeno vent’anni a questa parte - è l’elemento costitutivo della politica estera degli Stati Uniti e dei paesi della NATO. La novità di questo conflitto è costituita dalla forma dell'utilizzazione dei media per la giustificazione del conflitto. Di per sé neanche questa sarebbe una novità perché ha inizio dalla prima guerra del Golfo di Bush padre contro l’Iraq. È facile obiettare che l’utilizzazione degli strumenti di comunicazione per la giustificazione o l’appoggio a un conflitto militare sia una pratica largamente adottata da quando esistono i media e le guerre. Qui parliamo però di una cosa profondamente diversa. Non è generica propaganda di guerra ma un’azione più sofisticata, un parallelo moralistico di religione dei diritti umani e umanitarismo bombardatore.

Non sembri esagerato tutto ciò. È semplicemente quel che in questi vent’anni è avvenuto. Un sistema mediatico-moralistico che procede a sei stadi, quasi come una caccia al tesoro, che cercheremo brevemente di esporre.

1° stadio: Creazione del caso.

Avete mai sentito parlare nel 2011 dello Yemen? O dell’Arabia Saudita? Nulla o forse poco.
Perché lì i diritti umani sono rispettati? Perché esiste un Parlamento? Perché esiste una Costituzione?
No, semplicemente perché non è stato creato l’evento. Fateci caso. E fate caso anche al fatto che in tutti questi eventi siano “scoppi improvvisi” di emergenze umanitarie.
Come mai, si potrebbe chiedere ai giornalisti del mainstream (e non solo), non ve ne siete accorti prima?

Come mai improvvisamente fate inchieste su un Paese specifico, sui suoi problemi, e in maniera quasi magica in contemporanea su tutti i vostri giornali?

2° stadio: Appelli per l’emergenza umanitaria.

Creata la notizia e sensibilizzata l’opinione pubblica ecco che entrano in campo i movimenti “pacifisti” in salsa americana (i Radicali) o di sinistra ma che rispondono alla stessa logica.

Prendendo per buone tutte le notizie che ci sono state comunicate, parlano di “emergenze umanitarie” e di “soluzioni politiche” per casi che, la maggior parte delle volte, non esistono o che sono largamente minoritari.

3° stadio: Creazione delle rivoluzioni colorate.

Ecco che la “soluzione politica” viene avviata, anche se non è certo come speravano (o fingevano di sperare?) i pacifisti de noantri.
Quelle piccole rivolte, quelle minoritarie proteste, quelle normali rivalse di personaggi esautorati dal governo sono esasperate attraverso l’intelligence, finanziate e sostenute.

E così, una piccola protesta che poteva essere risolta politicamente diventa una “rivoluzione” (colorata ovviamente) sostenuta da un punto di vista economico e logistico dall’impero.

4° stadio: Reazione dei governi.

All’interno di queste rivolte poi, anche in questo caso miracolosamente, si aggregano tagliagole e terroristi che iniziano a praticare atti di sangue con la naturale reazione dei governi.

Le reazioni possono essere brutali e autoritarie o anche di normale resistenza a un attacco terroristico interno (iniziamo a chiamare le cose con il loro nome).

Tornano in campo i media mainstream e i pacifisti da una parte sola che denunciano la repressione e richiedono soluzioni politiche per salvaguardare la difesa delle popolazioni.

5° stadio: Intervento dell’Onu e della Nato.

Ecco che, a questo punto, sotto pressione dell’opinione pubblica internazionale e, ovviamente (concetti così moralmente edificanti vanno sempre ripresi e ribaditi), per la difesa del popolo minacciato di genocidio esce una risoluzione dell’Onu e un conseguente intervento militare (Onu o Nato la differenza è poca come dimostra il caso della Serbia o della Libia).

Naturalmente non verrà mai chiamato “guerra” ma “intervento umanitario”, ed è attraverso questa ipocrisia a cui bene si adattano le anime belle della sinistra occidentale che paesi come l’Italia hanno la possibilità di partecipare attivamente a queste missioni militari pur avendo all’interno dei loro riferimenti costituzionali e di diritto internazionale il “rifiuto della guerra come mezzo per risolvere le controversie internazionali” e l’”Autodeterminazione dei Popoli”.

6° stadio: Cacciata del dittatore e ristabilimento della democrazia.

Ecco che, in finale, vi è un rovesciamento (che oseremmo definire “dialettico”) dell’operazione iniziale che inizialmente era difendere la popolazione dalla brutalità del novello Hitler di turno.

Quale fosse l’obiettivo iniziale tutti se lo sono dimenticati e nessuno lo ricorda. Il dittatore, dunque, viene ucciso o processato (grazie a quel vero e proprio strumento giuridico dell’Impero che è il Tribunale dell’Aja) e viene ristabilita la democrazia con le bombe, eliminata ogni sovranità economica e politica al Paese aggredito e inserito il paese “non allineato” all’interno del colonialismo e del dispositivo dell’impero.

Prima di rivoltarsi contro questa logica rivoltante, frutto d’ipocrisia e con un’evidente copertura a sinistra, bisogna essere consapevoli di questo sistema di comunicazione e occorre cercare di smascherarlo, informare più persone possibili per cercare di ribellarsi.

Prima di tutto questo, è necessario però lottare contro una logica che può essere assorbita da tutti noi. E questo si può fare innanzitutto distinguendo gli schieramenti delle forze in campo nel momento in cui soffia il vento della guerra e si rivelano i nemici, andando fin dove si spinge il blocco costituito non soltanto dall’Imperialismo. Anzi, forse la parte più pericolosa è costituita da quello che, per usare un gergo militare per rimanere nel tema, viene definito “fuoco amico”. Le anime belle, insomma, la cui parola d’ordine, per citare Hegel, è quella di “non sporcarsi le mani con i mali del mondo”. Prima o poi, però, il male arriva e allora le anime belle si trasformano nelle anime più brutte del mondo, non riconoscendo più le mani sporche dell’aggressore che si stringono sull’aggredito.

Il governo al calcio-mercato

di Alessandro Robecchi - pubblicato in Il Manifesto
Gentile Bce, egregi signori del Fondo Monetario Internazionale, dottor Standard & dottor Poor, l’accavallarsi simultaneo di due importanti scadenze ha agitato ieri per qualche ora la vita della Repubblica Italiana. La chiusura del calciomercato e il temine ultimo per la presentazione degli emendamenti alla manovra economica (bis, ter e quater) hanno creato notevole agitazione e anche un po’ di sconcerto, che tenteremo di dissipare con una precisa ricostruzione delle frenetiche ore della serata di ieri.
Come saprete, Zarate è passato dalla Lazio all’Inter, cosa assai gradita a tutte le altre squadre e molto meno ai tifosi nerazzurri che avrebbero preferito tenersi Eto’o e rinunciare al riscatto dell’anno di militare nel computo della pensione. Dal canto suo, il governo ha preferito rinunciare al sacrificio del riscatto degli anni universitari in cambio di Nocerino e un nuovo portiere. Purtroppo però Nocerino, all’ultimo minuto, ha firmato per il Milan. Prontissima la risposa del governo che ha offerto un contributo di solidarietà per i redditi sopra i centomila euro più la comproprietà di Brunetta, riscattabile a fine campionato. L’Udinese ha rifiutato asserendo che Brunetta non è forte di testa, è rissoso, cattivo, e che comunque a lei serve un centrocampista di fantasia. Gago è invece passato dal Real Madrid alla Roma, arrivo confermato con un fax giunto in extremis all’hotel Gallia di Milano. Con un fax arrivato in extremis all’hotel Chigi di Roma, invece, si opziona l’aumento dell’Iva di un punto percentuale, eventuali premi partita e gettoni per la Champions, più il taglio delle risorse per i Comuni, che passerebbe in prestito al Bologna. La doccia fredda di un nuovo infortunio a Umberto Bossi ha scompaginato i piani della Lega, che si è detta interessata a Brighi, che invece è stato ceduto dalla Roma all’Atalanta con promessa di riscatto se si aboliranno le province entro la fine del girone di andata. Ancora incerte, al momento, le sorti del contributo di solidarietà per i redditi medio-alti, che potrebbe far parte della manovra economica, ma anche passare al Lecce in cambio di un certo Giandonato che dicono giocasse nella Juventus, ma probabilmente è una pippa (se no la Juve se lo teneva, o lo scambiava con Prestigiacomo dell’Ambiente, considerato inutile dalla squadra di governo). La fine delle agevolazioni fiscali per le cooperative resta al Palermo, mentre passano alla manovra economica di Tremonti Floccari, più una straordinaria stangata per i lavoratori statali, gli unici che non riescono a giocare nemmeno nelle serie minori. Per tutta la giornata si è attesa la decisione del Pd sull’adesione allo sciopero generale della Cgil, ma la direzione del maggiore partito di opposizione ha comunicato in serata che per una decisione definitiva aspetta le visite mediche di Cigarini, passato all’Atalanta, oltre al via libera della Federazione sulla cessione di Sacconi (dal ministero del Lavoro al Siena). Per qualche ora si è temuto per la sorte di Bonanni: il suo passaggio dalla Cisl al Napoli (in cambio di Lavezzi e due stecche di Marlboro) era dato per certo finché il suo agente ha smentito con un secco comunicato: “Per il governo Berlusconi Bonanni è considerato incedibile, di Angeletti invece possiamo parlare, ma so che interessa al Chievo”. In serata l’Unione Europea ha fatto sapere che “servono urgenti misure per la crescita”. Brunetta, credendo si parlasse di lui, ha lasciato il consiglio dei ministri e si è offerto come centromediano alla Fiorentina, che ha rifiutato con raccapriccio considerandolo inaffidabile e comunque inferiore a Montolivo. In un comunicato congiunto Berlusconi, Calderoli e Galliani hanno detto che non è il caso di preoccuparsi e che troveranno la quadra.
Certi di avervi rassicurato sulla mano ferma e decisa che guida l’economia italiana, oltre che sulla credibilità e sulle capacità dell’attuale governo del paese, porgiamo distinti saluti.

il 6 settembre scioperate, prima di tutto da voi stessi!

di Gaetano Alessi
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani.
Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano.
L'indifferenza è abulia, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti”.

Sembrano scritte ieri queste parole di Antonio Gramsci, sembrano scritte per raccontare che la partecipazione è l’unico mezzo per garantire una democrazia compiuta e una vita dignitosa. Sembrano scritte per stimolare tutti quei ragazzi e ragazze che vedono il loro futuro spegnersi ogni giorno, che vivono in un eterno stare alla finestra senza riuscire ad uscire. Sembrano rivolte a loro le parole di Gramsci e sembrano dire: Scioperate.

Scioperate contro la vostra apatia, contro il vostro sentirvi sempre inadeguati, sconfitti, inermi, scioperate contro quei partiti che non hanno più il coraggio di promettervi un mondo diverso, scioperate contro chi vi dice di “lasciare perdere” e di non pensare agli altri, scioperate contro quei sindacati che non vi rappresentano più, scioperate dai giornali che non raccontano più la verità, scioperate contro le vostre paure, le vostre ansie che vi stanno togliendo non solo il presente ma anche l’avvenire. Scioperate da chi vi vuole merce di scambio e scioperate anche da chi vi promette un eterno “Happy hour”. Perché il “divertimento”, così come il “cavaliere” ce l’ha raccontato, è una lebbra del nostro tempo. Divertirsi sempre da “qualcosa” è il motto, e il “qualcosa” non è altro che la vita stessa mentre il mondo intorno sprofonda in un vortice d’indifferenza.

Scioperate non dal lavoro (che spesso non avete e se l’avete è precario) ma da una situazione di sfruttamento, di intimidazione, di scoramento, scioperate pretendendo pane per le vostre case, il diritto allo studio, al lavoro, alla sanità, all’acqua pubblica, alla democrazia, alla verità. Scioperate per il rispetto dei valori che creano una comunità, scioperate per riaffermare che non contano solo le carte di credito, ma la dignità delle persone, scioperate contro una cultura imperante che vuole le donne solo starlette televisive, i giovani carne da macello e i vecchi un peso nelle casse dello Stato. Scioperate contro le mafie ed i mafiosi. Scioperate contro un paese che emargina chi è diverso (e diverso da chi poi?). Scioperate contro un paese in cui si continua in un silenzio assordante a morire sul lavoro. Scioperate per dare la forza a chi ci crede ancora. Scioperate per affermare che la cultura, la musica, il teatro, la poesia non sono un costo, ma la malta con cui si costruisce un senso di comunità.

Scioperate perché in Italia c’è gente talmente povera che non trova neanche le parole per dirlo, scioperate perché con loro e per loro si deve ricominciare un cammino, scioperate!
Altrimenti avremo fallito, come militanti sociali, come giornalisti, come politici, come sindacalisti ma soprattutto come esseri umani.
Scioperate, perché l’Italia senza il vostro aiuto morirà in un’overdose di merda.
Il 6 settembre scioperate! Il futuro si scrive oggi e si scrive insieme.
WHITE DEATHS (death caused by industrial accident)
BUSINESS ITALIA TO HER VERY BEST SONS

Uniti contro la crisi in Europa, il 15 ottobre la giornata continentale dell'indignazione.

di Loris Campetti. Il Manifesto. Fonte: globalproject
L'autunno è già iniziato, non sarà la calura agostana a farci sperare in tempi lunghi per la costruzione di un movimento di lotta unitario, capace di agire subito ma anche di durare nel tempo.

Ieri il primo passo in questa direzione è stato fatto dalla Fiom che ha convocato vecchi e nuovi compagni di strada, studenti e precari, attivisti dei movimenti in difesa dei beni comuni, esperienze territoriali, ambientali, comitati e centri sociali, chi ha lavorato alla costruzione delle giornate di Genova 10 anni dopo.

Non si parte da zero: con la prova di dignità degli operai di Pomigliano e della Fiat in generale si è messo in moto un anno fa un treno che ha attraversato il 16 ottobre della Fiom, ha fatto sosta davanti ai palazzi della politica nelle giornate dicembrine degli studenti, ha preteso e ottenuto nuove stazioni con gli scioperi generali, ha accompagnato l’indignazione delle donne, del precariato, ha persino vinto una battaglia senza precedenti in cui la stragrande maggioranza degli italiani si è slegata dal giogo berlusconiano gridando che i beni comuni sono più importanti del profitto privato.

L’assemblea di ieri ha messo insieme proprio tutti i soggetti non pacificati che si battono contro il pensiero unico, riassunto dalle risposte date globalmente alla crisi di sistema che colpiscono i più deboli, allargano le diseguaglianze, tentano di cancellare i diritti e la democrazia nei luoghi di lavoro e nella società.


Ognuno declina la crisi secondo le proprie peculiarità, ma tutti concordano con le parole introduttive del segretario della Fiom, Maurizio Landini: si può vincere solo insieme, costruendo un percorso condiviso, mescolando culture e appendendo al chiodo appartenenze. Il contratto nazionale di lavoro che i metalmeccanici vogliono riconquistare è una battaglia generale, che si intreccia con quella per la riconquista del welfare. Il precariato non consente la costruzione di un nuovo modello di sviluppo e si estende all'intero mondo del lavoro. Perciò il reddito di cittadinanza diventa un obiettivo unificante.

Tutto è reso più difficile – e la riunificazione delle lotte è resa più urgente – dall’accelerazione impressa dalla crisi e dalla manovra classista del governo, non così dissimile da quelle di altri paesi europei. Un percorso condiviso, forte di un anno di esperienza, lavoro e mobilitazioni promosse da uniticontrolacrisi, ha tappe immediate e appuntamenti a medio termine. Serve costruire un lungo percorso di lotta e resistenza, come dicono dalle parti della «rete della conoscenza», ma avendo in testa l'alternativa, politica e di sistema. Mica poco.

Il 5 e 6 settembre metalmeccanici in piazza. Landini: «Percorso comune per cambiare governo»

mercoledì 31 agosto 2011

Chossudovsky: Libia, democrazia Nato firmata Al Qaeda.

Fonte: libreidee
«Uccidere la verità è parte integrante dell’agenda militare: la realtà viene capovolta e la menzogna diventa verità. E’ una dottrina inquisitoriale: il “consenso” della Nato ricorda l’Inquisizione spagnola». Parola di Michel Chossudovsky, accademico canadese e presidente di “Global Research”, osservatorio internazionale sulla globalizzazione e prestigiosa voce critica sulle crisi planetarie. Mentre i media raccontano che i “ribelli” avrebbero “liberato” Tripoli dalla dittatura di Gheddafi per instaurare la democrazia sotto la spinta popolare, Chossudovsky rivela che il piano, studiato a tavolino, non è che una tappa della nuova offensiva occidentale nella regione, basata sull’impiego massiccio di quelli che ieri erano presentati come acerrimi nemici: terroristi di Al Qaeda e miliziani della Jihad islamica.

«Spina dorsale» della “liberazione” della Libia, spiega Chossudovsky, sono stati i combattenti del Lifg, il “Libya Islamic Fighting Group”, creato in Afghanistan reclutando mujaheddin anti-Usa e fino a qualche anno fa sulla lista nera delle formazioni terroristiche. Miliziani ora riciclati in una nuova organizzazione battezzata “Islamic Movement for Change”. Come riferisce Mahdi Darius Nazemroaya, corrispondente di “Global Research” rimasto intrappolato nella capitale libica, a guidare la battaglia di Tripoli è stato Abdel Hakim Belhadj, noto anche come “Abu Abdullah al-Sadeq” e “Hakim al-Hasidi”. La stessa Cnn lo ha “riconosciuto” come il leader di «una delle più potenti brigate di ribelli», dimenticando però di sottolineare il ruolo della Nato: sia dal cielo, con una pioggia di bombe e di missili, sia sul terreno, dove l’Alleanza ha schierato il fiore delle proprie forze speciali.

«I nostri media, naturalmente, non ne hanno mai parlato apertamente: né del massacro compiuto dalla Nato, che sulla Libia ha sganciato 50.000 ordigni in oltre ottomila missioni aeree, né tantomeno del ruolo-chiave delle forze speciali impiegate sul terreno: mai documentate, identificate, fotograte, messe in prima pagina». Eppure, secondo “Global Research” e alcuni media indipendenti rimasti in prima linea a raccontare la guerra, i “ribelli”, «capeggiati da ex terroristi», sono stati guidati sugli obiettivi da Navy Seals americani, squadre Sas britanniche e unità francesi della Legione Straniera. Squadre “smash” di cui ha parlato la stampa inglese, che hanno prima individuato gli obiettivi sul terreno destinati ai raid aerei, ma poi hanno guidato all’attacco i “ribelli”, aiutandoli anche con incursioni di elicotteri Apache, di cui non si è parlato praticamente mai.

«I media occidentali – accusa Chossudovsky – costituiscono un fondamentale strumento bellico: i crimini di guerra commessi dalla Nato sono stati ignorati e la resistenza popolare libica contro l’invasione non è stata neppure menzionata». Risultato: «Una narrazione della “liberazione” e della “opposizione democratica dei ribelli” è stata instillata nella coscienza di milioni di persone». E’ quello che “Global Research” chiama «il consenso Nato», per definizione “umanitario” e quindi estraneo a massacri di civili. Di qui la legittimazione internazionale del Cnt di Bengasi e ogni altra mossa necessaria a condurre a termine il piano, prestabilito da lungo tempo: sfrattare Gheddafi e occupare stabilmente la Libia, paese-chiave nello scacchiere (petrolifero e non solo) del Mediterraneo. Per fare ciò è stato necessario «sviare l’opinione pubblica, in modo che non capisse cosa stesse realmente accadendo in Libia».

Chomsky: 10 mosse per manipolare ogni giorno la verità.

Noam Chomsky. Fonte: libreidee
Distrarre, rinviare, emozionare, dire e non dire. In una parola: disinformare, dando al pubblico l’illusione di essere perfettamente informato su tutto. E’ la “strategia della manipolazione” che il grande linguista americano Noam Chomsky, teorico della comunicazione impegnato da anni a smascherare la “fabbrica del consenso” a colpi di bestseller, condensa addirittura in un decalogo: dieci mosse, puntualmente ripetute dai mass media, per rassicurare l’opinione pubblica diffondendo false certezze e depistando la ricerca della verità. Una prassi, accusa Chomsky, che è ormai radicata nel dna dei media, ridotti a strumento planetario di controllo sociale.

Tecniche di manipolazione: la prima è la “strategia della distrazione”, elemento primordiale del controllo della società: «Consiste nel deviare l’attenzione del pubblico dai problemi importanti e dai cambiamenti decisi dalle élites politiche ed economiche, attraverso la tecnica del diluvio o inondazioni di continue distrazioni e di informazioni insignificanti». Strategia sistematicamente attuata da giornali e televisioni: «E’ anche indispensabile per impedire al pubblico d’interessarsi alle conoscenze essenziali, nell’area della scienza, dell’economia, della psicologia, della neurobiologia e della cibernetica». Obiettivo: mantenere l’attenzione del pubblico deviata dai veri problemi sociali, imprigionata da temi senza reale importanza. E tenere le menti continuamente occupate, senza tempo per pensare, «di ritorno alla fattoria come gli altri animali», per citare il testo “Armi silenziose per guerre tranquille”.

Seconda strategia della manipolazione: creare problemi e poi offrire le soluzioni. Lo schema: problema, reazione, soluzione. «Si crea un problema, una “situazione” prevista per causare una certa reazione da parte del pubblico, con lo scopo che sia questo il mandante delle misure che si desidera far accettare». Ad esempio: lasciare che dilaghi o si intensifichi la violenza urbana, o organizzare attentati sanguinosi, con lo scopo che sia lo stesso pubblico a richiedere leggi speciali sulla sicurezza e politiche a discapito della libertà. «O anche: creare una crisi economica per far accettare come un male necessario la retrocessione dei diritti sociali e lo smantellamento dei servizi pubblici».

Terza mossa: la strategia della gradualità. «Per far accettare una misura inaccettabile – osserva Chomsky – basta applicarla gradualmente, col contagocce, per anni consecutivi. E’ in questo modo che condizioni socioeconomiche radicalmente nuove (neoliberismo) furono imposte durante i decenni degli anni ‘80 e ‘90: Stato minimo, privatizzazioni, precarietà, flessibilità, disoccupazione di massa, salari che non garantivano più redditi dignitosi, tanti cambiamenti che avrebbero provocato una rivoluzione se fossero state applicate in una sola volta».

Altro stratagemma, il quarto: la strategia del differire. «Un altro modo per far accettare una decisione impopolare è quella di presentarla come “dolorosa e necessaria”, ottenendo l’accettazione pubblica, nel momento, per un’applicazione futura». E’ più facile accettare un sacrificio futuro che un sacrificio immediato, sostiene Chomsky: perché lo sforzo non è quello impiegato immediatamente, e perché il pubblico, la massa, ha sempre la tendenza a sperare ingenuamente che “tutto andrà meglio domani” e che il sacrificio richiesto potrebbe essere evitato. «Questo dà più tempo al pubblico per abituarsi all’idea del cambiamento e di accettarlo rassegnato quando arriva il momento».

Privatizzare la Libia, ecco il piano Usa affidato a Jibril

Fonte: libreidee
A governare la Libia del post-Gheddafi sarà Mahmoud Jibril, il distinto signore nuovamente ricevuto a Parigi da Sarkozy, dopo una tappa in Italia per incontrare Berlusconi. Questo anonimo tecnocrate sessantenne, finora sconosciuto alle cronache, è stato per anni l’uomo-chiave di Washington e Londra all’interno del regime del Colonnello, scrive “PeaceReporter” mentre le forze Nato e i “ribelli” espugnano l’ultimo bunker del “raiss” nella capitale. In qualità di direttore del Nedb, l’Ufficio nazionale per lo sviluppo economico di Tripoli, Jibril lavorava per facilitare la penetrazione economica e politica angloamericana in Libia promuovendo un radicale processo di privatizzazione e liberalizzazione dell’economia nazionale.

«Dopo aver studiato e insegnato per anni “pianificazione strategica e processi decisionali” nell’università statunitense di Pittsburgh – scrive Enrico Piovesana sul newsmagazine vicino ad Emergency – Jibril ha trascorso la sua vita a predicare il vangelo neoliberista in tutti i paesi arabi, per poi dedicarsi al suo Paese natale alla guida del Nedb», organizzazione governativa creata nel 2007 su impulso di “aziende di consulenza internazionali, prevalentemente americane e britanniche». Dai cablogrammi inviati a Washington dall’ambasciata Usa a Tripoli, continua Piovesana, emerge il lavoro di lobbying che Jibril ha svolto negli ultimi quattro anni nel tentativo di convincere il regime di Tripoli – in particolare il delfino del colonnello, il figlio Saif al-Islam – ad adottare radicali riforme economiche, a potenziare i rapporti economici con Usa e Gran Bretagna congelati da decenni, e a formare una nuova classe dirigente filo-occidentale.

Un lavoro che all’inizio sembrava promettente, ma che alla fine è stato bloccato da Gheddafi in persona, che forse temeva di perdere il controllo sulla Libia se il paese fosse finito, sostanzialmente, nelle mani dell’economia occidentale. Un cablo del novembre 2008, continua “PeaceReporter”, rivela che Jibril avvertiva gli Usa di stare attenti alla «crescente competizione» per le risorse petrolifere libiche da parte di Europa, Russia, Cina e India, osservando che la Libia sarebbe diventata «più preziosa» in ragione delle sue riserve petrolifere ancora non sfruttate. Il capo del Nedb invitò Washington ad approfittare delle future privatizzazioni libiche per investire anche in infrastrutture, sanità e istruzione, e a formare giovani libici nelle università statunitensi. «Non stupisce – conclude Piovesana –che in un successivo cablo di fine 2009, l’ambasciata americana Usa a Tripoli descriva Jibril come “un interlocutore serio che sa cogliere la prospettiva Usa”».

MANOVRA ECONOMICA CONTRO LA DEMOCRAZIA

Fonte: controlacrisi
Forse non si aspettavano lo schiaffo referendario, forse confidavano nella disaffezione al voto che, ancora una volta, avrebbe impedito di disturbare il manovratore. Ma così non è andata e 27 milioni di donne e uomini hanno votato per la ripubblicizzazione dell’acqua e la difesa dei beni comuni. Affermando il diritto a decidere su ciò che a tutti appartiene.
“Che fare?” si devono essere chiesti i poteri forti finanziari e i manager delle multi utilities di fronte al fatto che, dopo oltre due decenni, la favola del “privato è bello” è stata respinta dal plebiscito referendario.
Quale miglior occasione se non l’alibi del precipitare della crisi finanziaria? Quale miglior mandante di astratti mercati che, come divinità dell’antica Grecia, si turbano e chiedono sacrifici agli umani?
Ed ecco allora, nella macelleria sociale vestita da manovra economica allestita dal governo, rientrare dalla finestra ciò che le donne e gli uomini di questo paese avevano cacciato fuori dalla porta.
Avanti tutta con le privatizzazioni e con la svendita dei servizi pubblici locali e per convincere i Comuni basta adottare il bastone e la carota : taglio generalizzato dei trasferimenti per tutti e premi –in finanziamenti e in allentamento del patto di stabilità- per quelli, tra loro, che si dimostreranno docili esecutori dei diktat governativi.
Il tutto –come sottolineato più volte dal Ministro Tremonti- escludendo l’acqua, perché c’è stato il referendum e non si può non tenerne conto.
Decisamente non ci siamo.
Sull’acqua i cittadini hanno votato con chiarezza : fuori il mercato e fuori i profitti.
Il che significa che a livello territoriale tutti gli enti locali devono mettere in campo le procedure per la ripubblicizzazione del servizio idrico, superando finalmente le SpA e coinvolgendo cittadini, lavoratori e comunità locali nella gestione del bene comune. E devono altresì modificare le tariffe che, da fine luglio scorso, non possono più contenere l’adeguata remunerazione del capitale investito, ovvero i profitti garantiti ai gestori.
Ma i referendum del giugno scorso hanno anche detto “no” alla consegna al mercato di tutti i servizi pubblici locali. Se ne facciano una ragione i poteri forti : la favola liberista ha fatto il suo tempo e le donne e gli uomini di questo paese hanno intrapreso la strada della riappropriazione sociale, il linguaggio dei beni comuni, una nuova idea della democrazia.
Riproporre nella manovra la fotocopia del decreto Ronchi –seppur con l’eccezione dell’acqua- sui servizi pubblici locali, è un attacco diretto al voto referendario, al diritto di decidere delle persone e non fa che precipitare in maniera irreversibile il degrado della democrazia rappresentativa.
Se qualcuno pensa di poter tranquillamente proseguire come se i referendum non fossero avvenuti, è bene che sappia che sta solo segando il ramo su cui –da troppo tempo- è seduto.
L’esperienza dei movimenti per l’acqua, come l’insieme di conflittualità sociali e di movimenti in lotta nel paese, ha cambiato la cultura delle persone, producendo un effetto straordinario di rifiuto della delega e di nuova partecipazione sociale.
Anche all’opposizione forse qualcuno dovrebbe cominciare a rendersene conto, invece di competere su chi rassicura meglio la Bce e mitiga con più efficacia la collera dei mercati.
Sarà l’autunno a dimostrare come indietro non si torna : nei territori e a livello nazionale, con la mobilitazione sociale e la disobbedienza diffusa.
Nel cuore l’insopportabilità del presente, negli occhi l’allegria del futuro

Marco Bersani (Attac Italia)
HOAX ON THE ROOF
NO STOP NATO BOMBING ON THE WORLD'S NEWSPAPERS
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martedì 30 agosto 2011

E' DI NUOVO IL MOMENTO DEI SICILIANI

di Riccardo Orioles - Fonte: ucuntu 30 agosto 2011
Disoccupati, imbavagliati, schiacciati da una ragnatela di interressi terrificanti. E nessuno ci aiuta, e non c'è niente da fare? Ma noi stessi dobbiamo aiutarci, volando alto. “Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare...”

Un ragazzo su tre, giù da noi, non ha lavoro. Sarebbe un primato europeo, se fossimo Europa ancora. L'economia della mafia, almeno al Sud, è metà del totale. Il governo è fallito, ma non se ne vede a Palazzo uno nuovo. A Palazzo si pondera: Tremonti, Montezemolo, Badoglio, Solaro della Margherita?

E intanto lo sfascio va avanti. I sindaci democratici – che pure il popolo ha imposto, senza problemi – non hanno, intorno al Palazzo, molti amici. Lo sciopero generale, extrema ratio, che i capi dei lavoratori hanno infine proclamato, dopo molte esitazioni, per dare l'allarme al Paese, non sembra, in tv e sui giornali, un argomento centrale. Contano di più le veline.

* * *

Tv e giornali: quggiù in Sicilia, esemplarmente, son tutti di una stessa persona. Da quasi quarant'anni, ben prima di Berlusconi. Quaggiù, la tirannia è senza sfumature. Nel quartiere il mafioso, a Palazzo il politico “amico”, e nell'informazioneil bavaglio. Noi non ci rassegnamo, noi siciliani. Otto giornalisti uccisi. E tre generazioni di ragazzi, una di seguito all'altra, a fare informazione povera e antimafiosa. Cos'altro dobbiamo fare, noi siciliani?

Che cosa ha il dovere di dire, in questa disperazione e in questo dramma, un antimafioso superstite, un “carusu di Fava” di sessant'anni? Può restarsene zitto? Oppure, standosi zitto, vi tradirebbe?

* * *

Ah, non è che non si muovano, nell'Isola Felice, politici e baroni. Degl'intrighi di corte, delle alleanze, dei tradimenti, delle alleanze rovesciate, s'è perso il conto. Ogni tanto uno di loro s'affaccia al balcone e “Cittadini! - proclama – Ecco la politica nuova! La vera strada! La geniale politica che salverà il Regno!”. Noi villici, col naso all'aria, lo ascoltiamo pazienti. Ma tutte le geniali idee dei baroni, a quanto pare, hanno come preliminare condizione (non per avidità ci mancherebbe, ma solo nell'interesse del regno) la distribuzione fra loro baroni - siano essi borbonici o liberali - di seggiole, consulenze, assessorati e poltrone.

* * *

“Va bene, giù da voi in Sicilia...”. Altro che Sicilia, amici miei. E' di New York che parliamo, quando parliamo di Catania o Palermo. Di New York, di Budapest, per non dire Milano o Ravenna. Esagero? Niente affatto. A New York già nel '96 c'era l'Invision della catanesissima Famiglia Rendo. Che a Budapest, un paio d'anni fa, possedeva ben due quotidiani. Di questo si parla quando si parla di Catania, non solo degli intrallazzi locali.

* * *

E le tv, i giornali, l'informazione? Dopo trent'anni, mi sembra ancora di essere al punto di partenza, noi per la strada (e ora in internet) a fare i nostri fogli poveri e loro barricati là dentro a fare il notiziario di corte.

Le ultime notizie sono le trattative fra De Benedetti e Ardizzone (cioè Ciancio) per acquisire progressivamente al gruppo De Benedetti il Giornale di Sicilia (cioè La Sicilia); e che in ogni caso Ciancio entro la fine dell'anno entrerebbe nella sua orbita abbandonando la vecchia agenzia di pubblicità Etas Kompass (Fiat) per abbracciare la Manzoni & C. (gruppo Repubblica).

Sarà un bene, sarà un male, ma di certo noi villici non c'entriamo. E sappiamo dove va a finire ogni volta il cetriolo nella storia dell'ortolano

* * *

Va bene. E ora? Ci lasciamo così,dopo aver chiacchierato? E no, santiddìo, stavolta no. Stavolta giochiamo grosso, puntiamo tutto quello che abbiamo. Il nome, la storia, la forza dei Siciliani. Amici, rimettiamo in campo i Siciliani. Loro hanno i killer, loro hanno i miliardi – ma noi, noi uomini di questa terra abbiamo i Siciliani.

Scusate, fratelli miei, se tutto è stato così improvviso. Non vi offendete, ve ne prego, non voglio imporvi (io?) essere presuntuoso. Io sono semplicemente il compagno che s'è svegliato più presto degli altri stamattina, che ha visto l'orizzonte in fiamme e le anime che gridano dolore, e senza pensarci un momento (pensare, in questi casi, a che serve?) s'è messo a urlare “Allarme! Svegliamoci! Ci vogliono i Siciliani!”.

Non è merito mio, e neanche mia colpa. Prendetevela con coloro (il vecchio pazzo Scidà, il sovversivo Caselli, quel giacobino ostinato di dalla Chiesa) che hanno svegliato me, per svegliare noi tutti.

E neanche vi dico “Rifacciamo i Siciliani”. No. “Facciamo i Siciliani”. Facciamoli ora, come se uscissimo ora insieme dalla vecchia birreria. E non per nostalgia, ma per rabbia di oggi e per amore.

E sarà dura, per noi vecchi, accettare che questo non sarà il nostro giornale. Sarà il giornale di Norma, di Agata, di Sonia, di Giorgio, di Morgana... Loro i ragazzi di oggi, loro i Siciliani.

Riccardo Orioles

Solo un Leviatano può salvarci.

di Gianni Ferrara. Fonte: ilmanifesto
Un mese fa Rossana Rossanda riflettendo sulla crisi che attraversa l’Europa, poneva “agli amici economisti e ai padri e padrini (di battesimo cattolico) della Ue” una domanda evidentemente retorica. Questa: “Non c’è stato qualche errore nella costituzione della Ue? E come si ripara?”

A rigore, non sarei tenuto a rispondere. Sia perché non sono un economista e, d’altronde, non sulle dottrine economiche dominanti mi sono formato … ma sulla “critica dell’economia politica”. Sia perché nessun rapporto di parentela culturale e politica avrei potuto avere con i “costituenti” dell’Unione europea e con gli sperticati apologeti dell’Ue. Per di più, un certo impegno di studioso lo ho dedicato alle istituzioni europee, da quello di Maastricht in poi, lasciandone su “la rivista del manifesto” alcune tracce, il cui senso, per eleganza, ometto di ricordare (1). Rossana però, riferendosi alla “costituzione” della Ue, quasi mi impone di intervenire.

Inizio con una constatazione che a me pare del tutto evidente. Un fallimento vero e proprio si è avuto, è avanti a noi. È insieme istituzionale, politico, culturale. Può scadere in un catastrofico default finanziario. È il fallimento dell’Unione europea come disegnata dai Trattati. Ne investe il principio politico, quello del neoliberismo cui questi Trattati si ispirano. È quindi il fondamento su cui si erge l’intero e complesso edificio istituzionale denominato Ue che viene travolto dal default. Non lo si dichiara, non lo si vuole ammettere. Anzi, si continua a fingere che siano valide e obbligate le strategie e le tattiche derivanti dal principio fallito, quello di “un’economia di mercato aperta ed in libera concorrenza”. Il Trattato di Maastricht lo pose come primario, fondante, assoluto. I Trattati successivi lo hanno confermato, ma sistemandolo al centro di una corolla espressiva di sentimenti tanto nobili quanto vacui. Per ribadirne il primato, difendendolo dalle eccezioni di qualche giudice costituzionale come il Tribunale costituzionale tedesco di Karlsruhe, il Trattato di Lisbona ha ribattezzato come “sociale” l’economia di mercato cui l’intero ordinamento istituzionale è finalizzato. Le ha imposto però di essere “fortemente competitiva”. Deve trattarsi della stessa competitività che persegue Marchionne. In nome della quale concezione dell’economia, della politica e … del mondo si sta continuando a prescrivere che bisogna privatizzare quanto più si può, strappare i lacci e i laccioli alla libera impresa, adeguare ai mutamenti globali i diritti sociali, perciò limitarli, comprimerli, “riformare” il welfare, svuotandolo.

Fu tale concezione dell’economia che indusse i redattori dei Trattati europei a disegnare, costruire, definire istituzioni, poteri, organi, procedimenti, atti normativi, di indirizzo, amministrativi, giurisdizionali, di controllo senza però che potesse esserci un governo, un governo dell’economia. Si pensava che una Banca garante della sola stabilità dei prezzi bastasse a … non governare. Perchè a governare avrebbe provveduto il mercato. E per attribuirgli questo potere, garantirglielo, perpetuaglielo che si crearono quelle istituzioni, quei poteri, quelle procedure, quelle tipologie normative, quei controlli, l’intero ordinamento fu finalizzato a quel solo obiettivo. Mai una aggregazione umana a forma stato era comparsa nell’esperienza giuspolitica del mondo priva di un organo di governo. La si volle così fatta. Chissà. Si pensò forse di integrare le forme di stato sperimentate nella storia delle istituzioni. Un intento gigantesco, del tutto singolare. Si è rivelato disastroso.

'Come in Iraq: è un'invasione'

Intervista di Fabio Chiusi a Giulietto Chiesa - espresso.repubblica.it.
Fonte: megachip
«Non c'è stata alcuna insurrezione di popolo: è stato tutto studiato a tavolino in Occidente per modificare gli assetti strategici del Nord Africa e contrapporsi all'avanzata della Cina nel continente. Un dualismo che può portare a un nuovo conflitto mondiale». L'analisi controcorrente di Giulietto Chiesa.

Tutto quello che vi dicono sulla guerra in Libia è falso. Parola di Giulietto Chiesa. Ex inviato dell'Unità e della Stampa a Mosca, autore di svariati libri di geopolitica che confutano, tra l'altro, le versioni ufficiali dell'11 settembre e della morte di Osama Bin Laden («ma chi può crederci seriamente?»), Chiesa racconta all'Espresso la sua versione della fine del regime libico.

Che è a suo avviso il risultato di un conflitto lungamente premeditato in cui Silvio Berlusconi «non conta niente» e che apre per il Paese un futuro iracheno. E prelude addirittura a un terzo conflitto mondiale.

Chiesa, come finirà in Libia?
«La conclusione è chiara: c'è una tale disparità di forze sul terreno non tra i ribelli e Gheddafi, ma tra la Nato e Gheddafi, che non ci può essere un altro esito che non una demolizione dell'attuale stato libico. Demolizione che però non finirà la guerra. La guerra continuerà in altre forme. E' evidente che Gheddafi ha delle forze. Con la sparizione di Gheddafi, per uccisione o con l'uscita di scena tecnica non finiranno queste forze, che si dimostrano sul terreno straordinariamente vitali».

Che sarà del Paese?
«Una delle varianti possibili è la sua disgregazione e la prosecuzione di una situazione endemica di combattimento che richiederà molti anni e molti morti di cui non si può vedere la fine in nessun modo. La conclusione militare è certa, la conclusione del conflitto no».

C'è un rischio Iraq?
«Sì, prevedo una cosa del genere. Esperti come Angelo Del Boca hanno la stessa idea. Perché la divisione del Paese è stata artificiale, organizzata, stimolata».

Nessun moto spontanea di ribellione della popolazione, nessun anelito democratico negli insorti?
«Su questo sono risoluto: non c'è assolutamente nulla di tutto ciò. Non c'è nessuna vocazione alla democrazia in nessuna di queste rivolte. Le vocazioni democratiche sono risultate assolutamente minoritarie sia un Tunisia, sia in Egitto sia tanto più in Libia. Questa descrizione dell'anelito dei popoli arabi alla democrazia occidentale è una delle falsificazioni più clamorose che siano state inventate nell'epoca moderna».

E cosa li ha spinti allora?
«Nel caso della Libia il problema è diverso, perché la guerra libica è stata programmata con largo anticipo dalle forze occidentali. Ma per quanto riguarda l'anelito alla libertà negli altri paesi è accaduta una cosa che noi europei non vogliamo vedere, perché siamo eurocentrici. In questa parte del mondo è avvenuta una rivoluzione demografica di proporzioni gigantesche. Negli ultimi 25 anni è nata una nuova generazione di tunisini, algerini, egiziani che vedono la televisione, per esempio. E questo, che i loro padri non potevano fare, consente un confronto tra la loro vita di oggi e la vita, falsificata dagli schermi, dell'Occidente. E' una specie di modello Albania in grande scala. Vedono le tivù dell'Occidente, fanno i confronti, capiscono che i beni ai quali vorrebbero e potrebbero accedere non sono disponibili per loro e si rivoltano».
THE BUDGET
These criminals always manage to finance their dirty wars...
...and this is the why we need the sickle

lunedì 29 agosto 2011

Gheddafi e i suoi ribelli

di Gianni Vattimo - ilfattoquotidiano
La caduta di Gheddafi suscita pochi rimpianti in Italia. Certo, industriali e speculatori di borsa possono vedervi nuove opportunità di guadagno, e alcuni sionisti, più o meno fanatici, la potrebbero considerare anche una vittoria di Israele, quale in effetti è (immagino le critiche, mi vien da aggiungere; ma che dire della politica di potenza di Tel Aviv? Non è forse questa un’ennesima occasione per discuterne?). Ma negli ultimi anni, e sempre più, col passar del tempo, il carattere totalitario del suo governo in Libia aveva allontanato da lui ogni simpatia nata negli anni in cui si presentava come capo di una rivoluzione anti-imperialista. Un destino peraltro condiviso da molti capi di stato di paesi arabi rapidamente divenuti satelliti obbedienti dell’Occidente (anche qui, non sarebbe ora di svecchiare il nostro modo di guardare, e dunque stare, al mondo? Possibile che nemmeno oggi, dopo la fine del colonialismo e della guerra fredda, non sia questa la questione principale da porsi per i cittadini europei nelle relazioni internazionali?). In Italia, poi, era divenuto l’alleato naturale dei fascisti della Lega Nord (immagino ancora critiche; ma davvero esistono altri termini per definire la relativa politica leghista?) che lo utilizzavano, con tutto il governo Berlusconi, per reprimere l’immigrazione clandestina aprendo veri e propri lager sulla sponda meridionale del Mediterraneo.

Quindi, nessun rimpianto per Gheddafi e la sua dittatura. Ma proviamo certamente sdegno, anche vero e proprio disgusto per la politica della Nato e dell’Ue, nonché per le bugie che ci propinano i giornali e le televisioni, quando (sempre) parlano di vittoria dei “ribelli“. Che sono quasi tutti ex collaboratori del regime di Gheddafi, armati e organizzati, molto prima delle “rivoluzioni arabe” dei mesi scorsi, da Francia e Gran Bretagna con l’approvazione degli Usa.

La Libia, del resto, era il paese più ricco dell’Africa mediterranea; l’opposizione al regime, se aveva qualche radice popolare, era ispirata da motivi etnici, per lo più, non era certo una rivolta di proletari affamati o anche di sinceri democratici assetati di libertà. La cosiddetta liberazione della Libia è solo l’ennesimo atto del colonialismo occidentale che usa la Nato come propria polizia privata per difendere gli interessi economici del grande capitale multinazionale. Sono forse gli interessi dei popoli europei frustati dalla crisi della finanza? Non lo sappiamo, ci sarà certo un po’ di lavoro in più per la cosiddetta ricostruzione (affidata poi alle ditte di Cheney, come in Iraq?). Le borse, come si sa, hanno reagito benissimo alla caduta di Gheddafi. Il senso di questa lotta “popolare” è tutto lì, e le tante vittime civili sono alla fine servite a far salire di qualche punto il valore delle azioni di tante compagnie. Alla salute della democrazia!

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