Ops ci siamo sbagliati. Al Fondo monetario internazionale stavolta danno i numeri. E non è la solita litania di numeri che, secondo loro, dimostrerebbe l’importanza dei tagli al bilancio. No, danno proprio i numeri. Per esplicita ammissione del capo-economista e di uno dei maggiori esperti del settore Ricerche dell’organismo, nelle sue proiezioni economiche, il Fondo Monetario Internazionale ha sottovalutato l'impatto su Pil e occupazione delle misure di austerita' che alcuni paesi hanno dovuto varare per poter accedere ai prestiti internazionali. E' quanto ammette lo stesso istituto Olivier Blanchard e Daniel Leigh, sostengono, in un documento, che gli autori delle previsioni firmate dal Fmi “hanno sottostimato in modo significativo l'aumento della disoccupazione e la flessione dei consumi privati e degli investimenti associati al consolidamento fiscale". Il testo analizza l'effetto dei "moltiplicatori fiscali", i quali stimano la capacita' di un'economia in recessione di ridurre la spesa e aumentare le tasse nel breve periodo
Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Francobolllo
Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Europa, SVEGLIA !!
sabato 5 gennaio 2013
La sinistra mancata tra antimafia e lavoro
di Mattia Nesti su il Becco
Pochi passi separano, nel pieno centro di Roma, il Teatro Capranica da Montecitorio.
Pochi passi dal luogo scelto per l’assemblea di lancio della propria candidatura, al ritorno dal Guatemala, che adesso l’ormai ex pm Antonio Ingroia dovrà percorrere, attraverso le elezioni del prossimo 24-25 febbraio, per concretizzare l’intento di portare in Parlamento una rappresentanza credibile delle istanze delle battaglie politiche per i diritti del lavoro e contro le cricche e le mafie, oggi assenti dal “palazzo” e impossibilitate a riconoscersi anche in una coalizione di centrosinistra dal profilo programmatico ancora assai incerto.
La decisione di Ingroia di sciogliere le riserve e impegnarsi in prima persona nell’impresa politica della “Rivoluzione Civile”, esplicitata in occasione della conferenza stampa dello scorso 29 dicembre, rappresenta in questo senso l’occasione di far percorrere un tratto di strada insieme a esperienze politiche (di partito e di movimento) e a istanze programmatiche che, fino ad oggi, si sono volute distinte e spesso incapaci di legarsi reciprocamente.
Il giorno della presentazione del simbolo della lista che raccoglierà esponenti di primo piano dell’associazionismo, il Movimento Arancione di De Magistris, Federazione della Sinistra (PRC e Pdci), Italia dei Valori e Verdi, dai social network si sono levate critiche – anche dai toni particolarmente accesi – rispetto alla scelta di inserire nel segno grafico, per altro in assoluto primo piano, il nome dello stesso Ingroia. E’ evidente, come si è detto in questi giorni anche in autorevoli articoli di giornali della sinistra, che nella personalizzazione dei partiti, nella mediatizzazione estrema e nella logica “dell’uomo solo al comando”, che ha caratterizzato il nostro Paese dal Berlusconi del 1994 al Renzi del 2012, si palesa il tumore che mette, ancora, a rischio la tenuta stessa della democrazia italiana.
Eppure, è bene ricordarlo, la discesa in campo del pm antimafia non esplicita l’intenzione di anteporre un volto ai programmi o di sostituire il singolo personaggio all’impresa politica collettiva; quella di Ingroia, viceversa, si potrebbe definire una candidatura “di servizio”. Solo Ingroia, con questo gesto di coraggio e certo non interessato (anzi), poteva infatti rappresentare il salto in avanti necessario a far riuscire la mediazione fra partiti e realtà assai eterogenee e profondamente diverse fra loro per cultura politica ma, come testimoniato dai fatti degli ultimi mesi, accomunate dall’essersi opposte senza tentennamenti alle politiche del governo Monti e dall’aver sostenuto la battaglia per la verità sulle stragi del ’92-’93 e sulla trattativa Stato-mafia. Prospettare un’uscita dalla crisi pensata a partire dalla ricerca, dall’innovazione, dagli investimenti pubblici, da politica espansive e non di taglio di diritti e salari; far luce sulle pagine buie della storia della Repubblica che hanno avvolto, da Piazza Fontana a Via dei Georgofili, i passaggi decisivi dell’evoluzione (e involuzione) della nostra democrazia.
Questione sociale e questione democratica; questi sono, quindi, i punti essenziali da cui partire per poter ricostruire il Paese dalle macerie del ventennio berlusconiano. Certo, tanto c’è ancora da fare e il tempo a disposizione è assai poco. Ingroia ha dimostrato, però, di saper far tesoro del contributo positivo che ogni soggetto della “Rivoluzione Civile” può esprimere. Gli stessi limiti, evidenti fin dall’inizio, dei dieci punti dell’appello che aveva lanciato l’assemblea del 21 dicembre “Io ci sto”, sono stati superati in positivo: grazie a proposte di modifica avanzate da più parti, nei successivi interventi programmatici ha assunto centralità il tema dell’opposizione alla costruzione europea neoliberista (rifiuto del Fiscal Compact e dell’austerità che aggrava la recessione) e si è rafforzato l’accento sull’urgenza di investimenti strutturali per la scuola, l’università e la ricerca pubblica (eliminando, per altro, un fraintendibile riferimento al “merito”, utilizzato negli ultimi anni in modo propagandistico per giustificare i tagli strutturali al sistema scolastico).
Ancora, il riferimento alla centralità dell’articolo 1 della Costituzione (la Repubblica “fondata sul lavoro”) e ai referendum per il ripristino dell’articolo 18 e del valore della contrattazione nazionale, il sostegno politico alle vertenze della FIOM, la proposta di una legge sulla rappresentanza, qualificano “Rivoluzione Civile” come unica coalizione elettorale capace di dare risposte ai problemi del mondo del lavoro. Perché non basta la legalità e serve la sinistra; e perché, al tempo stesso, sarebbe stata esiziale la scelta di una parte del mondo della sinistra di imboccare la strada del purismo a tutti i costi – che avrebbe portato ad un suicida splendido isolamento – e che, invece, in particolare nell’esperienza di “Cambiare si può”, il voto di migliaia di iscritti ha saputo intelligentemente evitare.
Può nascere allora in questi giorni un processo politico, un cartello elettorale (da non confondersi con un nuovo partito), dove soggetti diversi accettano – tutti – di fare un passo indietro, con reciproco rispetto, per farne due avanti insieme. La sinistra in questo processo può e deve stare, perché nella prossima legislatura – in Italia come nel resto d’Europa – sarà fondamentale la presenza in Parlamento di chi può dire con chiarezza e senza ipocrisie che “la mafia è una montagna di merda” e che la crisi deve pagarla chi l’ha causata. Certo, trascorso l’appuntamento elettorale – il cui risultato avrà un’importanza storica per la possibilità di riaprire o meno lo spazio per una sinistra che abbia l’orizzonte di “abolire” e non di gestire lo “stato di cose presente” – rimane irrisolto, e non poteva essere altrimenti in questo scenario e con queste tempistiche, il nodo della costruzione di un soggetto politico unitario della sinistra, capace di pensare sul medio e lungo periodo e di costruirsi come forza di massa nel mondo del lavoro.
Per quanto “Rivoluzione Civile” sia quanto di più simile a questo, non si vedrà in queste elezioni, per capirsi, quello che il segretario generale della FIOM Maurizio Landini chiamò a fine della scorsa estate con una efficace provocazione un “partito del lavoro”; i partiti della sinistra e del centrosinistra non sono riusciti, e qui sta il loro limite più drammatico, a dare una risposta positiva e credibile ai temi posti dai metalmeccanici in occasione dell’assemblea del 9 giugno scorso quando la FIOM chiamò a raccolta a Roma PD, SEL, IDV, PRC e Pdci. Inoltre vi è un partito – Sinistra Ecologia Libertà – che in questi anni si è posto in netta opposizione al berlusconismo prima e al montismo poi, che può riconoscersi a pieno nelle battaglia per il lavoro e contro la mafia e che, tuttavia, – a differenza della Federazione della Sinistra – non farà parte a questa tornata elettorale del cartello per la “Rivoluzione Civile”. Di più: anche rilevanti parti del Partito Democratico, nella base dei votanti e degli iscritti e finanche nei gruppi dirigenti, senza l’abbraccio mortale di Monti e dei “moderati”, potrebbero e dovrebbero dare un contributo positivo per imprimere un cambio di rotta radicale alle politiche economiche, del lavoro, dei diritti civili dell’Italia. Vi è, insomma, la necessità di non dimenticare che, negli ultimi vent’anni, i momenti di cristallizzazione delle divergenze fra le “due sinistre” hanno prodotto per il Paese, per i lavoratori, le fasi politiche più negative. “Rivoluzione Civile” risponde alla necessità immediata – “viviamo una fase di emergenza” ha detto Ingroia nel suo ultimo intervento – di costruire un punto di riferimento alle elezioni prima e in Parlamento poi per tutti coloro che non accettano di dover scegliere fra tre coalizioni che, tutte, hanno sostenuto il massacro sociale di Monti e il populismo sovversivo di Grillo; per questa ragione è essenziale che tutte le parti migliori del Paese, a partire dal riconoscersi nei dimenticati valori della nostra Costituzione, convergano e lavorino per la riuscita di questo progetto. A noi, ai comunisti e ai partiti della sinistra, il compito di far sì che la riuscita dell’impresa di Ingroia rappresenti solo un primo passo per il riaffermarsi delle ragioni del Lavoro, per la costruzione di un’impresa politica collettiva di lungo respiro, di uno spazio unitario, con un profilo e una cultura politica di sinistra e progressista in Italia e in Europa, capace di incarnare l’alternativa alla barbarie della crisi e di essere autonomo nell’elaborazione teorica e nell’azione dalle socialdemocrazie pur sapendo interloquire con esse. Compito arduo ma, si sarebbe detto un tempo, dobbiamo essere convinti che “la storia è dalla nostra parte”.
Immagine tratta da lapresse.it
Pochi passi separano, nel pieno centro di Roma, il Teatro Capranica da Montecitorio.
Pochi passi dal luogo scelto per l’assemblea di lancio della propria candidatura, al ritorno dal Guatemala, che adesso l’ormai ex pm Antonio Ingroia dovrà percorrere, attraverso le elezioni del prossimo 24-25 febbraio, per concretizzare l’intento di portare in Parlamento una rappresentanza credibile delle istanze delle battaglie politiche per i diritti del lavoro e contro le cricche e le mafie, oggi assenti dal “palazzo” e impossibilitate a riconoscersi anche in una coalizione di centrosinistra dal profilo programmatico ancora assai incerto.
La decisione di Ingroia di sciogliere le riserve e impegnarsi in prima persona nell’impresa politica della “Rivoluzione Civile”, esplicitata in occasione della conferenza stampa dello scorso 29 dicembre, rappresenta in questo senso l’occasione di far percorrere un tratto di strada insieme a esperienze politiche (di partito e di movimento) e a istanze programmatiche che, fino ad oggi, si sono volute distinte e spesso incapaci di legarsi reciprocamente.
Il giorno della presentazione del simbolo della lista che raccoglierà esponenti di primo piano dell’associazionismo, il Movimento Arancione di De Magistris, Federazione della Sinistra (PRC e Pdci), Italia dei Valori e Verdi, dai social network si sono levate critiche – anche dai toni particolarmente accesi – rispetto alla scelta di inserire nel segno grafico, per altro in assoluto primo piano, il nome dello stesso Ingroia. E’ evidente, come si è detto in questi giorni anche in autorevoli articoli di giornali della sinistra, che nella personalizzazione dei partiti, nella mediatizzazione estrema e nella logica “dell’uomo solo al comando”, che ha caratterizzato il nostro Paese dal Berlusconi del 1994 al Renzi del 2012, si palesa il tumore che mette, ancora, a rischio la tenuta stessa della democrazia italiana.
Eppure, è bene ricordarlo, la discesa in campo del pm antimafia non esplicita l’intenzione di anteporre un volto ai programmi o di sostituire il singolo personaggio all’impresa politica collettiva; quella di Ingroia, viceversa, si potrebbe definire una candidatura “di servizio”. Solo Ingroia, con questo gesto di coraggio e certo non interessato (anzi), poteva infatti rappresentare il salto in avanti necessario a far riuscire la mediazione fra partiti e realtà assai eterogenee e profondamente diverse fra loro per cultura politica ma, come testimoniato dai fatti degli ultimi mesi, accomunate dall’essersi opposte senza tentennamenti alle politiche del governo Monti e dall’aver sostenuto la battaglia per la verità sulle stragi del ’92-’93 e sulla trattativa Stato-mafia. Prospettare un’uscita dalla crisi pensata a partire dalla ricerca, dall’innovazione, dagli investimenti pubblici, da politica espansive e non di taglio di diritti e salari; far luce sulle pagine buie della storia della Repubblica che hanno avvolto, da Piazza Fontana a Via dei Georgofili, i passaggi decisivi dell’evoluzione (e involuzione) della nostra democrazia.
Questione sociale e questione democratica; questi sono, quindi, i punti essenziali da cui partire per poter ricostruire il Paese dalle macerie del ventennio berlusconiano. Certo, tanto c’è ancora da fare e il tempo a disposizione è assai poco. Ingroia ha dimostrato, però, di saper far tesoro del contributo positivo che ogni soggetto della “Rivoluzione Civile” può esprimere. Gli stessi limiti, evidenti fin dall’inizio, dei dieci punti dell’appello che aveva lanciato l’assemblea del 21 dicembre “Io ci sto”, sono stati superati in positivo: grazie a proposte di modifica avanzate da più parti, nei successivi interventi programmatici ha assunto centralità il tema dell’opposizione alla costruzione europea neoliberista (rifiuto del Fiscal Compact e dell’austerità che aggrava la recessione) e si è rafforzato l’accento sull’urgenza di investimenti strutturali per la scuola, l’università e la ricerca pubblica (eliminando, per altro, un fraintendibile riferimento al “merito”, utilizzato negli ultimi anni in modo propagandistico per giustificare i tagli strutturali al sistema scolastico).
Ancora, il riferimento alla centralità dell’articolo 1 della Costituzione (la Repubblica “fondata sul lavoro”) e ai referendum per il ripristino dell’articolo 18 e del valore della contrattazione nazionale, il sostegno politico alle vertenze della FIOM, la proposta di una legge sulla rappresentanza, qualificano “Rivoluzione Civile” come unica coalizione elettorale capace di dare risposte ai problemi del mondo del lavoro. Perché non basta la legalità e serve la sinistra; e perché, al tempo stesso, sarebbe stata esiziale la scelta di una parte del mondo della sinistra di imboccare la strada del purismo a tutti i costi – che avrebbe portato ad un suicida splendido isolamento – e che, invece, in particolare nell’esperienza di “Cambiare si può”, il voto di migliaia di iscritti ha saputo intelligentemente evitare.
Può nascere allora in questi giorni un processo politico, un cartello elettorale (da non confondersi con un nuovo partito), dove soggetti diversi accettano – tutti – di fare un passo indietro, con reciproco rispetto, per farne due avanti insieme. La sinistra in questo processo può e deve stare, perché nella prossima legislatura – in Italia come nel resto d’Europa – sarà fondamentale la presenza in Parlamento di chi può dire con chiarezza e senza ipocrisie che “la mafia è una montagna di merda” e che la crisi deve pagarla chi l’ha causata. Certo, trascorso l’appuntamento elettorale – il cui risultato avrà un’importanza storica per la possibilità di riaprire o meno lo spazio per una sinistra che abbia l’orizzonte di “abolire” e non di gestire lo “stato di cose presente” – rimane irrisolto, e non poteva essere altrimenti in questo scenario e con queste tempistiche, il nodo della costruzione di un soggetto politico unitario della sinistra, capace di pensare sul medio e lungo periodo e di costruirsi come forza di massa nel mondo del lavoro.
Per quanto “Rivoluzione Civile” sia quanto di più simile a questo, non si vedrà in queste elezioni, per capirsi, quello che il segretario generale della FIOM Maurizio Landini chiamò a fine della scorsa estate con una efficace provocazione un “partito del lavoro”; i partiti della sinistra e del centrosinistra non sono riusciti, e qui sta il loro limite più drammatico, a dare una risposta positiva e credibile ai temi posti dai metalmeccanici in occasione dell’assemblea del 9 giugno scorso quando la FIOM chiamò a raccolta a Roma PD, SEL, IDV, PRC e Pdci. Inoltre vi è un partito – Sinistra Ecologia Libertà – che in questi anni si è posto in netta opposizione al berlusconismo prima e al montismo poi, che può riconoscersi a pieno nelle battaglia per il lavoro e contro la mafia e che, tuttavia, – a differenza della Federazione della Sinistra – non farà parte a questa tornata elettorale del cartello per la “Rivoluzione Civile”. Di più: anche rilevanti parti del Partito Democratico, nella base dei votanti e degli iscritti e finanche nei gruppi dirigenti, senza l’abbraccio mortale di Monti e dei “moderati”, potrebbero e dovrebbero dare un contributo positivo per imprimere un cambio di rotta radicale alle politiche economiche, del lavoro, dei diritti civili dell’Italia. Vi è, insomma, la necessità di non dimenticare che, negli ultimi vent’anni, i momenti di cristallizzazione delle divergenze fra le “due sinistre” hanno prodotto per il Paese, per i lavoratori, le fasi politiche più negative. “Rivoluzione Civile” risponde alla necessità immediata – “viviamo una fase di emergenza” ha detto Ingroia nel suo ultimo intervento – di costruire un punto di riferimento alle elezioni prima e in Parlamento poi per tutti coloro che non accettano di dover scegliere fra tre coalizioni che, tutte, hanno sostenuto il massacro sociale di Monti e il populismo sovversivo di Grillo; per questa ragione è essenziale che tutte le parti migliori del Paese, a partire dal riconoscersi nei dimenticati valori della nostra Costituzione, convergano e lavorino per la riuscita di questo progetto. A noi, ai comunisti e ai partiti della sinistra, il compito di far sì che la riuscita dell’impresa di Ingroia rappresenti solo un primo passo per il riaffermarsi delle ragioni del Lavoro, per la costruzione di un’impresa politica collettiva di lungo respiro, di uno spazio unitario, con un profilo e una cultura politica di sinistra e progressista in Italia e in Europa, capace di incarnare l’alternativa alla barbarie della crisi e di essere autonomo nell’elaborazione teorica e nell’azione dalle socialdemocrazie pur sapendo interloquire con esse. Compito arduo ma, si sarebbe detto un tempo, dobbiamo essere convinti che “la storia è dalla nostra parte”.
Immagine tratta da lapresse.it
La lista Ingroia è un punto di inizio
- lavorincorsoasinistra -
di Alberto Lucarelli su il manifesto
La consultazione interna al movimento «Cambiare si può», che ha visto la maggioranza esprimersi per la realizzazione di un vasto fronte con candidato premier Antonio Ingroia, indica la necessità di compattare a sinistra un solido e plurale punto di riferimento che nasca dalle lotte dei movimenti e da quei partiti che da subito si sono contrapposti al neoliberismo del- l’Agenda Monti, sostenuta da Bersani, Casini e Alfano. Chi l’avrebbe detto fino a qualche settimana fa che sarebbe nato uno spazio politico a sinistra della coalizione Pd-Sel?
Tuttavia, è necessario rafforza- re questo polo, soprattutto con il peso e l’energia dei movimenti che, con le loro lotte per la democrazia dal basso, in questi anni hanno dato linfa a una nuova passione politica e hanno posto la questione della crisi del- la rappresentanza, dei suoi sistemi di se- lezione e dell’urgenza di nuove forme della politica.
E’ evidente che il processo politico, pur con successi anche simbolici ragguardevoli, avrebbe dovuto caratterizzarsi attraverso atti più coraggiosi, espressione di una netta discontinuità rispetto ai modelli del passato, e soprattutto rispetto alle modalità di investitura, alla degenerazione del sistema dei partiti, al tradimento dello spirito del- l’art. 49 della Costituzione, alla loro ingerenza e autoreferenzialità.
Il processo costituente di “Rivoluzione civile” non nasce dunque perfetto, ma perfettibile, ed in questo senso dovrà caratterizzarsi per divenire una rea- le area di confronto e di dialettica tra le diverse anime.
Le imperfezioni e le criticità non possono tuttavia far perdere di vista prospettive, scenari e nuovi orizzonti che possono aprirsi.
Con la nascita di questo nuovo spa- zio pubblico della sinistra, si dovrà lavo- rare per costruire un programma politi- co anticonformista, altermondialista che, partendo dall’affermazione dei principi costituzionali, sappia dar luogo ad un intreccio virtuoso tra diritti civili, politici e sociali.
Occorre lavorare dall’interno per costruire un soggetto politico che, dalla par- te dei più deboli e degli esclusi, sappia rinnovare profondamente gli istituti classici della rappresentanza, ormai logori, attraverso un continuo collegamento con i movimenti, con i territori, le pratiche loca- li e le forme più evolute della democrazia diretta e partecipativa; attraverso la capacità di connettersi ed intercettare conflitti e dissensi, destrutturando sovranità e proprietà a vantaggio delle nuove categorie della partecipazione e dei beni comuni. Insomma, occorre guardare con coraggioso entusiasmo ai nuovi modelli di rappresentanza che si stanno sviluppando nel neo-costituzionalismo sudamericano, soprattutto quelli che hanno posto il problema del diritto all’insolvenza per i debiti sovrani incautamente assunti.
E’ dunque soltanto il punto di partenza di un processo che vede la costruzione di un polo che si contrappone alle politiche liberiste che hanno visto coinvolto da protagonista anche il Pd.
Ripartire dalla centralità del lavoro e soprattutto dare al lavoro una rappresentanza che, anche attraverso i referendum, sappia fronteggiare in maniera decisa e diretta le politiche insensate di Berlusconi prima, poi di Monti e della Fornero, che hanno svuotato di ogni valore fondativo l’art. 1 della nostra Costituzione.
Ripartire dall’affermazione dello sta- to sociale, spiegando che le sue radici, oltre che nella Costituzione, possono e devono essere ricercate anche in un’Eu- ropa libera dai vincoli imposti dalle mul- tinazionali e dalle banche.
Ripartire dai punti programmatici di “Cambiare si può” che hanno ben indicato la strada da seguire.
Per questi motivi, il primo atto da por- re in essere da parte della nuova compagine elettorale dovrà essere la proposta di abrogazione dell’attuale articolo 81 della Costituzione, che introducendo il pareggio di bilancio ha negato di fatto l’esistenza del welfare statale e locale e quindi la tutela e la garanzia dei diritti fondamentali dei cittadini.
la consultazione telematica tra coloro che hanno aderito a “Cambiare si può”
Esito votazione telematica
- fonte -
CHIARA SASSO – LIVIO PEPINO – MARCO REVELLI
SULL’ESITO DELLA VOTAZIONE TELEMATICA
la consultazione telematica tra coloro che hanno aderito a “Cambiare si può” circa l’opportunità di proseguire nell’iter di formazione di una lista comune (oggi, dopo la presentazione del simbolo, “lista Ingroia”) si è conclusa alle 24.00 del 31 dicembre. Hanno votato 6.908 su circa 13.200 aventi diritto al voto: i SI sono stati 4.468 (64,7%%), i NO 2.088 (30,2%%) gli astenuti 352 (5,1%%).
Il risultato è dunque chiaro, e richiede una pronta attuazione. Tenendo conto di tre elementi di fatto:
1. “Cambiare si può” non è, non è mai stato, non ha mai voluto essere un soggetto politico. Le 70 persone che hanno sottoscritto il documento iniziale proponevano una “cornice” comune per la formazione di una lista elettorale di “cittadinanza politica attiva”. Quel progetto non si è realizzato e resta quindi nel suo stato originario di proposta politica e organizzativa da approfondire in futuro.
2. Parallelamente a quel progetto si è sviluppata una iniziativa che ha portato alla presentazione della “lista Rivoluzione civile” o “lista Ingroia”. La consultazione telematica tra gli aderenti a “Cambiare si può” ha dato una indicazione nettamente maggioritaria nel senso della opportunità di continuare a interloquire con tale lista al fine di vedere in essa rappresentate, almeno parzialmente, le istanza sottese al progetto di “Cambiare si può”. A ciò occorre procedere al più presto.
3. Il nostro mandato si è concluso e per quanto ci riguarda non è rinnovabile. Era stato deciso in assemblea il 22 dicembre e comprendeva la presa di contatto e la “trattativa” fino al 28 dello stesso mese, nonché la verifica telematica delle “regole” (cosa che appunto si è appena conclusa). Non abbiamo d’altra parte mai nascosto la nostra opzione negativa rispetto alla questione sottoposta al voto, e non crediamo che esistano uomini e donne “per tutte le stagioni”. Pur prendendo doverosamente atto della volontà della maggioranza riteniamo che ad avviare i nuovi colloqui debba essere un diverso “gruppo di contatto” che abbia condiviso la posizione prevalente. Esso avrà il difficile compito di presidiare i punti già acquisiti nei precedenti colloqui, e in particolare gli elementi di programma sottolineati nella prima mozione del 22 (rimessa in discussione del fiscal compact e delle politiche di austerità imposte dall’Europa; rifiuto della logica delle grandi opere a cominciare dal TAV; politiche del lavoro e dei relativi diritti; difesa e rilancio del welfare e della laicità e pubblicità della Scuola e dell’Università; taglio della spesa militare, cancellazione delle missioni militari all’estero e politica della pace; politiche di accoglienza e dei diritti dei migranti) e di limitare al massimo i danni sul versante delle pratiche di formazione delle liste, sostenendo il metodo della piena pubblicità e territorialità dei processi e delle scelte.
SULL’ESITO DELLA VOTAZIONE TELEMATICA
la consultazione telematica tra coloro che hanno aderito a “Cambiare si può” circa l’opportunità di proseguire nell’iter di formazione di una lista comune (oggi, dopo la presentazione del simbolo, “lista Ingroia”) si è conclusa alle 24.00 del 31 dicembre. Hanno votato 6.908 su circa 13.200 aventi diritto al voto: i SI sono stati 4.468 (64,7%%), i NO 2.088 (30,2%%) gli astenuti 352 (5,1%%).
Il risultato è dunque chiaro, e richiede una pronta attuazione. Tenendo conto di tre elementi di fatto:
1. “Cambiare si può” non è, non è mai stato, non ha mai voluto essere un soggetto politico. Le 70 persone che hanno sottoscritto il documento iniziale proponevano una “cornice” comune per la formazione di una lista elettorale di “cittadinanza politica attiva”. Quel progetto non si è realizzato e resta quindi nel suo stato originario di proposta politica e organizzativa da approfondire in futuro.
2. Parallelamente a quel progetto si è sviluppata una iniziativa che ha portato alla presentazione della “lista Rivoluzione civile” o “lista Ingroia”. La consultazione telematica tra gli aderenti a “Cambiare si può” ha dato una indicazione nettamente maggioritaria nel senso della opportunità di continuare a interloquire con tale lista al fine di vedere in essa rappresentate, almeno parzialmente, le istanza sottese al progetto di “Cambiare si può”. A ciò occorre procedere al più presto.
3. Il nostro mandato si è concluso e per quanto ci riguarda non è rinnovabile. Era stato deciso in assemblea il 22 dicembre e comprendeva la presa di contatto e la “trattativa” fino al 28 dello stesso mese, nonché la verifica telematica delle “regole” (cosa che appunto si è appena conclusa). Non abbiamo d’altra parte mai nascosto la nostra opzione negativa rispetto alla questione sottoposta al voto, e non crediamo che esistano uomini e donne “per tutte le stagioni”. Pur prendendo doverosamente atto della volontà della maggioranza riteniamo che ad avviare i nuovi colloqui debba essere un diverso “gruppo di contatto” che abbia condiviso la posizione prevalente. Esso avrà il difficile compito di presidiare i punti già acquisiti nei precedenti colloqui, e in particolare gli elementi di programma sottolineati nella prima mozione del 22 (rimessa in discussione del fiscal compact e delle politiche di austerità imposte dall’Europa; rifiuto della logica delle grandi opere a cominciare dal TAV; politiche del lavoro e dei relativi diritti; difesa e rilancio del welfare e della laicità e pubblicità della Scuola e dell’Università; taglio della spesa militare, cancellazione delle missioni militari all’estero e politica della pace; politiche di accoglienza e dei diritti dei migranti) e di limitare al massimo i danni sul versante delle pratiche di formazione delle liste, sostenendo il metodo della piena pubblicità e territorialità dei processi e delle scelte.
Prima di salire sull'aereo un saluto all'India che ho conosciuto per un mese
L'altro giorno ho
chiamato un elettricista che mi era stato consigliato. Ha attraversato la
citta' e ci ha messo piu' di due ore in autobus. E' arrivato armato solo di un
cacciavite e di un rotolo di nastro isolante. Gli ho messo a disposizione il
mio trapano e un martello. Ha dato un'occhiata a quello che avrebbe dovuto
fare: si trattava di montare un UPS (Uninterruptible Power Supply) un
invertitore elettrico che consente di caricare delle batterie (cinque da 150)
che quando manca la corrente elettrica (e succede spesso) immettono nella rete
domestica l'elettricita' accumulata quando la rete lavora regolarmente. Unico
sistema per garantirsi alcune ore di funzionamento di monitors e computers. A
meno che uno non decida di mettere un generatore di corrente il cui costo e' di
molto superiore allo UPS.
Bene: torniamo all'elettricista. A gesti ha detto che si doveva andare nel villaggio vicino a comprare del materiale. Cosi' abbiamo fatto. Rotoli di cavo, coprifilo di plastica, interrutori da 15 amperes, etc. Siamo tornati a casa e ha cominciato a lavorare. Anziche' stendere un nuovo cablaggio per collegare il sistema UPS alla scatola generale dei fusibili, ha preferito utilizzare le canalizzazioni esistenti. Dopo sei ore aveva terminato il suo lavoro. L'ho seguito da vicino illuminando con una torcia il lavoro che stava facendo e mi sono sorpreso per la perizia con la quale eseguiva ogni operazione, senza fare 'piaccicotti', ma curando che i vari collegamenti trovassero una corretta sistemazione. Ha chiesto 7mila rupie pari a circa 150 dollari, ed ha sgranato gli occhi quando la somma gli e' stata data senza alcun tentativo di richiesta di ribasso che sicuramente si aspettava secondo la tradizione indiana.
Dopo due giorni lo UPS ha emesso strani rumori in assenza della corrente primaria. Telefonata alla societa' che produce questo inverter. Hanno detto che avrebbero mandato il giorno dopo un tecnico. Arriva dopo qualche ora una telefonata: il tecnico sarebbe arrivato il giorno stesso. Dopo qualche ora e' comparso: ha fatto vari controlli, ha verificato che tutto funzionava, ha raccomandato di tenere un interruttore in una certa posizione e se n'e' andato senza chiedere una rupia.
Per molti Lettori queste due ministorie hanno sicuramente scarso significato. Ma per chi scrive sono il bilanciamento di tanti aspetti deteriori della vita indiana. Dalla spazzatura nelle strade (vedo pero' che anche in Italia a Lecce, Foggia, Palermo, Napoli e presto Roma non si scherza), al traffico orribile.
Ma dopo un mese di Bangalore (la Milano dell'India) si percepisce quasi epidermicamente perche' questo immenso paese, popolato da un miliardo e duecentoquaranta milioni di persone, stia rapidamente scalando le classifiche mondiali dello sviluppo. Una nazione in continuo movimento, dove ognuno ha qualcosa da fare. Ogni formica porta il suo contributo al mantenimento e ampliamento della casa comune. Da chi deve curare le vacche sacre, ai medici e infermieri di alta professionalita', da chi gestisce uno shop nell'electronic market (ed e' in grado di darti in quindici minuti un computer assemblato con tutte le caratteristiche che gli richiedi pagando l'equivalente di 300 dollari), al capitano d'industria che gestisce un impero, a Moton, allievo di uno chef italiano che ha messo su un locale a Cinepolis, uno dei vari Malls di Bangalore, dove serve delle ottime pizze. Il loocale si chiama "In talia" e Moton ne sta aprendo un altro visto che i finanziatori non gli mancano e visto il successo di questa pizzeria inaugurata da pochi mesi.
Questa e' l'india per me, una pentola in continua ebollizione e mutamento, un contrasto quotidiano di tradizioni culturali e religiose, una nazione che non e' seduta sui talloni secondo l'iconografia, ma che si muove facendo ogni cosa che possa rendere qualcosa a chi ci mette fatica e volonta'. Un esempio per quei paesi occidentali che per decenni si sono avvitati al basso, crogiolandosi in un consumismo esasperato (istigato dai padroni delle ferriere) che intorpidiva la volonta' e riduceva la spinta al fare.
Oscar Bartoli
Bene: torniamo all'elettricista. A gesti ha detto che si doveva andare nel villaggio vicino a comprare del materiale. Cosi' abbiamo fatto. Rotoli di cavo, coprifilo di plastica, interrutori da 15 amperes, etc. Siamo tornati a casa e ha cominciato a lavorare. Anziche' stendere un nuovo cablaggio per collegare il sistema UPS alla scatola generale dei fusibili, ha preferito utilizzare le canalizzazioni esistenti. Dopo sei ore aveva terminato il suo lavoro. L'ho seguito da vicino illuminando con una torcia il lavoro che stava facendo e mi sono sorpreso per la perizia con la quale eseguiva ogni operazione, senza fare 'piaccicotti', ma curando che i vari collegamenti trovassero una corretta sistemazione. Ha chiesto 7mila rupie pari a circa 150 dollari, ed ha sgranato gli occhi quando la somma gli e' stata data senza alcun tentativo di richiesta di ribasso che sicuramente si aspettava secondo la tradizione indiana.
Dopo due giorni lo UPS ha emesso strani rumori in assenza della corrente primaria. Telefonata alla societa' che produce questo inverter. Hanno detto che avrebbero mandato il giorno dopo un tecnico. Arriva dopo qualche ora una telefonata: il tecnico sarebbe arrivato il giorno stesso. Dopo qualche ora e' comparso: ha fatto vari controlli, ha verificato che tutto funzionava, ha raccomandato di tenere un interruttore in una certa posizione e se n'e' andato senza chiedere una rupia.
Per molti Lettori queste due ministorie hanno sicuramente scarso significato. Ma per chi scrive sono il bilanciamento di tanti aspetti deteriori della vita indiana. Dalla spazzatura nelle strade (vedo pero' che anche in Italia a Lecce, Foggia, Palermo, Napoli e presto Roma non si scherza), al traffico orribile.
Ma dopo un mese di Bangalore (la Milano dell'India) si percepisce quasi epidermicamente perche' questo immenso paese, popolato da un miliardo e duecentoquaranta milioni di persone, stia rapidamente scalando le classifiche mondiali dello sviluppo. Una nazione in continuo movimento, dove ognuno ha qualcosa da fare. Ogni formica porta il suo contributo al mantenimento e ampliamento della casa comune. Da chi deve curare le vacche sacre, ai medici e infermieri di alta professionalita', da chi gestisce uno shop nell'electronic market (ed e' in grado di darti in quindici minuti un computer assemblato con tutte le caratteristiche che gli richiedi pagando l'equivalente di 300 dollari), al capitano d'industria che gestisce un impero, a Moton, allievo di uno chef italiano che ha messo su un locale a Cinepolis, uno dei vari Malls di Bangalore, dove serve delle ottime pizze. Il loocale si chiama "In talia" e Moton ne sta aprendo un altro visto che i finanziatori non gli mancano e visto il successo di questa pizzeria inaugurata da pochi mesi.
Questa e' l'india per me, una pentola in continua ebollizione e mutamento, un contrasto quotidiano di tradizioni culturali e religiose, una nazione che non e' seduta sui talloni secondo l'iconografia, ma che si muove facendo ogni cosa che possa rendere qualcosa a chi ci mette fatica e volonta'. Un esempio per quei paesi occidentali che per decenni si sono avvitati al basso, crogiolandosi in un consumismo esasperato (istigato dai padroni delle ferriere) che intorpidiva la volonta' e riduceva la spinta al fare.
Oscar Bartoli
venerdì 4 gennaio 2013
Silvano Agosti su Monti
Autore: Silvano Agosti - controlacrisi -
Non di giudizio perisce l'empio, ma dall'esser ciò che è...
Mi hanno pregato in molti di esprimere il mio parere sul presidente del consiglio signor Monti. Mi riesce difficile impiegare questo straordinario meccanismo di analisi , il cervello, per descrivere o ancor meno giudicare una persona già così terribilmente afflitta dal trovarsi al vertice di un paese che nella sostanza è da anni una sub colonia degli Stati Uniti e che da sempre offre ai suoi cittadini un prodotto sul quale c’è scritto “questo prodotto ti uccide”.
Mi limito ad esprimere il mio inconsolabile stupore di fronte al un cumulo di menzogne che gli uomini di potere devono raccontare per rimanere in sella e non essere disarcionati da feroci repressioni giudiziarie. La menzogna più clamorosa in corso d’uso è l’affermazione che “non c’è lavoro”, che “bisogna trovare nuovi posti di lavoro”, senza mai spiegare dove sono spariti i vecchi posti di lavoro. La spiegazione, qualsiasi spiegazione infatti porterebbe a rivelare che il processo di automazione delle industrie si è sviluppato a un punto tale da rendere inutile una qualsiasi partecipazione umana al processo produttivo.
Se fosse di fronte a me il vostro presidente del consiglio gli chiederei “Mi scusi ma vuole spiegare per quali prodotti verrebbero creati nuovi posti di lavoro? Forse peraltre 40 marche di detersivo o altre 26 marche di dentifricio? Non sarà forse il caso di avviare il salario sociale prelevandolo dagli immensi profitti delle multinazionali ormai automatizzate in tutti i settori della produzione?
O forse questo esasperante balletto di spred, pill o nasdak, esultanza e depressione delle borse, propositi di “crescita”, senza spiegare né come ne quando serve a distrarre i più dal chiedersi cosa realmente sta accadendo?.
Dev’essere terribilmente triste la solitudine di qualcuno che sa di dover mentire ogni giorno dalla mattina alla sera, assediato dalle lodi di ogni genere di servi istituzionali che ad ogni menzogna esultano in coro a favore del presunto salvatore dell'Italia. Il volto del vostro premier, infatti, è tragicamente tumefatto da dosi massicce di angoscia.
Mi limiterò quindi a dare liberta a un infinito senso di pena nei confronti di chiunque si renda consapevolmente complice dell’attuale catastrofica modalità di gestione del mondo, pensando con tenerezza e compassione al detto orientale “ognuno è premiato o punito per ciò che è”.
dalla pagina fb del regista Silvano Agosti
nella foto Silvano Agosti con il compagno Mario Monicelli
Mi hanno pregato in molti di esprimere il mio parere sul presidente del consiglio signor Monti. Mi riesce difficile impiegare questo straordinario meccanismo di analisi , il cervello, per descrivere o ancor meno giudicare una persona già così terribilmente afflitta dal trovarsi al vertice di un paese che nella sostanza è da anni una sub colonia degli Stati Uniti e che da sempre offre ai suoi cittadini un prodotto sul quale c’è scritto “questo prodotto ti uccide”.
Mi limito ad esprimere il mio inconsolabile stupore di fronte al un cumulo di menzogne che gli uomini di potere devono raccontare per rimanere in sella e non essere disarcionati da feroci repressioni giudiziarie. La menzogna più clamorosa in corso d’uso è l’affermazione che “non c’è lavoro”, che “bisogna trovare nuovi posti di lavoro”, senza mai spiegare dove sono spariti i vecchi posti di lavoro. La spiegazione, qualsiasi spiegazione infatti porterebbe a rivelare che il processo di automazione delle industrie si è sviluppato a un punto tale da rendere inutile una qualsiasi partecipazione umana al processo produttivo.
Se fosse di fronte a me il vostro presidente del consiglio gli chiederei “Mi scusi ma vuole spiegare per quali prodotti verrebbero creati nuovi posti di lavoro? Forse peraltre 40 marche di detersivo o altre 26 marche di dentifricio? Non sarà forse il caso di avviare il salario sociale prelevandolo dagli immensi profitti delle multinazionali ormai automatizzate in tutti i settori della produzione?
O forse questo esasperante balletto di spred, pill o nasdak, esultanza e depressione delle borse, propositi di “crescita”, senza spiegare né come ne quando serve a distrarre i più dal chiedersi cosa realmente sta accadendo?.
Dev’essere terribilmente triste la solitudine di qualcuno che sa di dover mentire ogni giorno dalla mattina alla sera, assediato dalle lodi di ogni genere di servi istituzionali che ad ogni menzogna esultano in coro a favore del presunto salvatore dell'Italia. Il volto del vostro premier, infatti, è tragicamente tumefatto da dosi massicce di angoscia.
Mi limiterò quindi a dare liberta a un infinito senso di pena nei confronti di chiunque si renda consapevolmente complice dell’attuale catastrofica modalità di gestione del mondo, pensando con tenerezza e compassione al detto orientale “ognuno è premiato o punito per ciò che è”.
dalla pagina fb del regista Silvano Agosti
nella foto Silvano Agosti con il compagno Mario Monicelli
M5S Sicilia
I soldi in più dello stipendio al microcredito
La porzione di stipendio eccedente i 5.000 euro lordi, che percepiranno i deputati regionali siciliani, viene restituita direttamente all'ARS e destinata a un fondo, gestito dalla Regione Siciliana, per il microcredito. I media di regime se ne accorgeranno?
"Pmisicilia, associazione delle microimprese siciliane, esprime soddisfazione per la decisione presa dal MoVimento 5 Stelle, annunciata dal capogruppo Giancarlo Cancelleri, di destinare parte dello stipendio dei propri deputati regionali siciliani (quello eccedente i 5.000 euro lordi che percepiranno come promesso in campagna elettorale e messo ripetutamente in dubbio dai media, ndr) per creare un fondo destinato alle microimprese. Umberto Terenghi, vicepresidente di Pmisicilia afferma: "Si tratta di un gesto importante perché riconosce che la microimpresa è praticamente l’unica realtà del tessuto produttivo siciliano e solo con il rilancio di essa, si può creare sviluppo e nuova occupazione. Il MoVimento 5 Stelle così in un sol colpo dà un segnale a tutta la politica siciliana e dall’altro offre un aiuto concreto alle microimprese dell’Isola". Pmisicilia
Aristotele, lezione di economia
di Federica Martiny - sbilanciamoci -
La BCE scopre Aristotele come padre dell’economia, ma per il filosofo le ricchezze non possono essere accumulate senza fine e l’obiettivo è la “vita buona”
Lo scorso 15 novembre a Budapest, Benoît Cœuré, uno dei membri dell'Executive Board della Banca Centrale Europea, ha iniziato la sua introduzione al convegno su costi ed efficienza nei sistemi di pagamento al dettaglio citando Aristotele, in quanto è stato colui che per primo ha teorizzato le tre funzioni della moneta: riserva di valore, unità di conto e mezzo di scambio. La citazione era funzionale a concettualizzare il mandato e l’opera della BCE nell’attuale situazione di crisi. In un momento come questo, tuttavia, sarebbe stato più utile ricordare cosa scrisse Aristotele sull’economia.
Aristotele è stato il primo a essersi chiesto a che cosa serve l’economia: «Che l’oiconomia, (l’amministrazione della casa e delle proprietà) e la crematistica (l'arte di accumulare ricchezze) non siano identiche è chiaro: infatti all’una spetta procurare i beni, all’altra usarli», scrive il filosofo nel I libro della Politica e più avanti specifica: «Una sola specie di acquisto è una parte naturale dell’economia: quella che si deve praticare per raccogliere i mezzi necessari alla vita e utili alla comunità politica e familiare. Ed è ragionevole affermare che la vera ricchezza consista in questi mezzi. La quantità di simili mezzi per una “vita buona” non è infinita».
Per Aristotele l’obiettivo non può essere una crescita illimitata dei beni materiali – del Pil, diremmo oggi – anzi, l’ossessione per l’accumulo di denaro e ricchezze ci distrae inevitabilmente dalla ricerca di una “vita buona” e ci fa vivere in modo innaturale. E la “vita buona” non è una ricerca individuale, funzione delle preferenze soggettive, che ciascuno può decidere. È un progetto collettivo, che è compito del politico perseguire, per arrivare a un’economia “naturale”, che amministra le ricchezze con lo scopo di garantire la possibilità di realizzare la “vita buona” per i membri della comunità politica.
Per Aristotele è la politica, che avendo come proprio fine ciò che è meglio, «si prende grandissima cura di rendere i cittadini persone di un certo tipo, e buone, e capaci di compiere belle azioni». Del resto anche «l’economia si cura più degli uomini che della proprietà inanimata e delle virtù dei primi più che di quella della proprietà che chiamiamo ricchezza». L’economia, cioè l’amministrazione della casa e della città, dovrebbe occuparsi delle virtù degli uomini (e delle donne), oltre a far tornare i conti delle finanze familiari e delle casse dello Stato.
Aristotele era dunque un teorico anticapitalista ante-litteram del IV secolo a.C.? Ovviamente no, era un insegnante di filosofia molto benestante – il suo allievo più illustre è stato Alessandro il Grande – che possedeva proprietà e schiavi. Il pensiero di una redistribuzione della ricchezza non lo ha mai sfiorato. Ma per lui la ricchezza è solo “l’insieme degli strumenti che hanno a disposizione la famiglia e la città” e per ciò stesso essa deve avere un limite.
Non sono cose da banchieri centrali, queste, specialmente di una Banca centrale come la BCE che nel suo statuto non solo non ha l’obiettivo della “vita” buona” di Aristotele, ma non ha neanche la piena occupazione che si trova nello statuto della Federal Reserve americana. Per la BCE quello che conta è solo la stabilità dei prezzi, in base a quanto stabilito dal trattato di Maastricht, che ha dato vita a più di un rovesciamento. L'Euro è la prima moneta della storia senza Stato, l’amministrazione della moneta è affidata a una banca centrale, la BCE, che è sottratta alla responsabilità della politica: i compiti che Aristotele assegnava alla Politica sono stati cancellati dal dogma liberista dell’indipendenza della banca centrale. Nell’Europa che abbiamo costruito l’economia si sottrare al controllo della politica, la lotta all’inflazione viene prima della disoccupazione, l’accumulazione di ricchezza fine a se stessa distrugge la possibilità di “vita buona”. Lo sanno bene quei 608 mila giovani sotto i 25 anni che in Italia che sono disoccupati e in cerca di lavoro e i quasi 900 mila disoccupati che nel 2012 hanno presentato domanda di disoccupazione.
Aristotele è stato il primo a essersi chiesto a che cosa serve l’economia: «Che l’oiconomia, (l’amministrazione della casa e delle proprietà) e la crematistica (l'arte di accumulare ricchezze) non siano identiche è chiaro: infatti all’una spetta procurare i beni, all’altra usarli», scrive il filosofo nel I libro della Politica e più avanti specifica: «Una sola specie di acquisto è una parte naturale dell’economia: quella che si deve praticare per raccogliere i mezzi necessari alla vita e utili alla comunità politica e familiare. Ed è ragionevole affermare che la vera ricchezza consista in questi mezzi. La quantità di simili mezzi per una “vita buona” non è infinita».
Per Aristotele l’obiettivo non può essere una crescita illimitata dei beni materiali – del Pil, diremmo oggi – anzi, l’ossessione per l’accumulo di denaro e ricchezze ci distrae inevitabilmente dalla ricerca di una “vita buona” e ci fa vivere in modo innaturale. E la “vita buona” non è una ricerca individuale, funzione delle preferenze soggettive, che ciascuno può decidere. È un progetto collettivo, che è compito del politico perseguire, per arrivare a un’economia “naturale”, che amministra le ricchezze con lo scopo di garantire la possibilità di realizzare la “vita buona” per i membri della comunità politica.
Per Aristotele è la politica, che avendo come proprio fine ciò che è meglio, «si prende grandissima cura di rendere i cittadini persone di un certo tipo, e buone, e capaci di compiere belle azioni». Del resto anche «l’economia si cura più degli uomini che della proprietà inanimata e delle virtù dei primi più che di quella della proprietà che chiamiamo ricchezza». L’economia, cioè l’amministrazione della casa e della città, dovrebbe occuparsi delle virtù degli uomini (e delle donne), oltre a far tornare i conti delle finanze familiari e delle casse dello Stato.
Aristotele era dunque un teorico anticapitalista ante-litteram del IV secolo a.C.? Ovviamente no, era un insegnante di filosofia molto benestante – il suo allievo più illustre è stato Alessandro il Grande – che possedeva proprietà e schiavi. Il pensiero di una redistribuzione della ricchezza non lo ha mai sfiorato. Ma per lui la ricchezza è solo “l’insieme degli strumenti che hanno a disposizione la famiglia e la città” e per ciò stesso essa deve avere un limite.
Non sono cose da banchieri centrali, queste, specialmente di una Banca centrale come la BCE che nel suo statuto non solo non ha l’obiettivo della “vita” buona” di Aristotele, ma non ha neanche la piena occupazione che si trova nello statuto della Federal Reserve americana. Per la BCE quello che conta è solo la stabilità dei prezzi, in base a quanto stabilito dal trattato di Maastricht, che ha dato vita a più di un rovesciamento. L'Euro è la prima moneta della storia senza Stato, l’amministrazione della moneta è affidata a una banca centrale, la BCE, che è sottratta alla responsabilità della politica: i compiti che Aristotele assegnava alla Politica sono stati cancellati dal dogma liberista dell’indipendenza della banca centrale. Nell’Europa che abbiamo costruito l’economia si sottrare al controllo della politica, la lotta all’inflazione viene prima della disoccupazione, l’accumulazione di ricchezza fine a se stessa distrugge la possibilità di “vita buona”. Lo sanno bene quei 608 mila giovani sotto i 25 anni che in Italia che sono disoccupati e in cerca di lavoro e i quasi 900 mila disoccupati che nel 2012 hanno presentato domanda di disoccupazione.
La mappa del debito mondiale
di Giacomo Gabbuti
Un ebook del Cadtm esamina la geografia del debito nei paesi del mondo, presenta i numeri del macigno finanziario che pesa sulle economie del Nord e del Sud, tra tutela delle banche e politiche del Fmi. E propone le possibilità di liberarsene
Per facilitare la comprensione dei risvolti globali della crisi, il CADTM (http://cadtm.org/) – Comitato per la cancellazione del debito del Terzo Mondo – ha pubblicato un breve e-book (http://cadtm.org/2012-World-debt-figures), intitolato World Debt Figures 2012. In una trentina di pagine sono raccolti i dati sull’evoluzione dei debiti sovrani, pubblici e privati, dagli anni ’80 ad oggi: una sorta di bollettino statistico, che aiuta a dare uno “sguardo critico all’economia globale e ai meccanismi di dominio” in atto e ad inquadrare meglio le diverse crisi regionali. Nell’introduzione gli autori – Damien Millet (http://fr.wikipedia.org/wiki/Damien_Millet), Eric Toussaint (http://en.wikipedia.org/wiki/Eric_Toussaint), e Daniel Munevar – sostengono che “le disuguaglianze sono lampanti, e continuano a svilupparsi”: proprio dalle diseguaglianze prende avvio il volume, illustrando non solo il divario nord-sud, ma anche quello interno ai paesi occidentali, dove negli ultimi trent’anni la quota di ricchezza detenuta dal 10% più ricco della popolazione è aumentata, come testimoniato dai dati raccolti nel World Top Incomes Database (http://topincomes.g-mond.parisschoolofeconomics.eu/). Paragonando i dati sui redditi più elevati a quelli sulla fame e sulla povertà, gli autori mostrano come un prelievo dello 0,2% sui patrimoni “milionari” permetterebbe di far fronte ai bisogni essenziali della popolazione mondiale.
Una sezione a parte è dedicata ai “debiti odiosi” (http://unctad.org/en/docs/osgdp20074_en.pdf), categoria entrata nel dibattito italiano grazie al saggio di François Chesnais su “Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza” (www.deriveapprodi.org/2011/11/diritto-allinsolvenza/) e nella quale non è difficile includere i quasi 150 miliardi di euro (su un debito pubblico di 340) dovuti alla Troika dalla Grecia.
I debiti odiosi hanno spesso segnato l’avvio di un’esplosione che dal 1980 a oggi ha portato l’indebitamento estero dei paesi in via di sviluppo a moltiplicarsi otto volte. Nel 2010 la Banca Mondiale misurava in 4.076 miliardi di dollari lo stock di debito estero accumulato da questi paesi – per un costo annuo di 583 miliardi di spesa per interessi. Di questo debito, 1647 miliardi (il 40% circa) costituiscono debito pubblico, e sono dovuti per il 46% a compagnie private, per il 33% ad Istituzioni Internazionali, e per il restante 21% a singoli stati. Guardando alla ripartizione geografica, quasi il 30% del debito pubblico estero è detenuto dai paesi dell’America Latina.
Se si osservano i flussi finanziari complessivi, si vede come abbiano comportato un trasferimento netto dai paesi debitori a quelli creditori pari a cinque volte il Piano Marshall: se gli ODA (www.oecd.org/dac/aidstatistics/officialdevelopmentassistancedefinitionandcoverage.htm) (130 miliardi di dollari nel 2010) vengono “bilanciati” dai servizi sul debito pubblico detenuti all’estero (180 miliardi), le rimesse dei migranti (325 miliardi) non compensano i 647 miliardi che “escono” ogni anno sotto forma di profitti “rimpatriati” dalle multinazionali.
Una sezione a parte è dedicata ai “debiti odiosi” (http://unctad.org/en/docs/osgdp20074_en.pdf), categoria entrata nel dibattito italiano grazie al saggio di François Chesnais su “Debiti illegittimi e diritto all’insolvenza” (www.deriveapprodi.org/2011/11/diritto-allinsolvenza/) e nella quale non è difficile includere i quasi 150 miliardi di euro (su un debito pubblico di 340) dovuti alla Troika dalla Grecia.
I debiti odiosi hanno spesso segnato l’avvio di un’esplosione che dal 1980 a oggi ha portato l’indebitamento estero dei paesi in via di sviluppo a moltiplicarsi otto volte. Nel 2010 la Banca Mondiale misurava in 4.076 miliardi di dollari lo stock di debito estero accumulato da questi paesi – per un costo annuo di 583 miliardi di spesa per interessi. Di questo debito, 1647 miliardi (il 40% circa) costituiscono debito pubblico, e sono dovuti per il 46% a compagnie private, per il 33% ad Istituzioni Internazionali, e per il restante 21% a singoli stati. Guardando alla ripartizione geografica, quasi il 30% del debito pubblico estero è detenuto dai paesi dell’America Latina.
Se si osservano i flussi finanziari complessivi, si vede come abbiano comportato un trasferimento netto dai paesi debitori a quelli creditori pari a cinque volte il Piano Marshall: se gli ODA (www.oecd.org/dac/aidstatistics/officialdevelopmentassistancedefinitionandcoverage.htm) (130 miliardi di dollari nel 2010) vengono “bilanciati” dai servizi sul debito pubblico detenuti all’estero (180 miliardi), le rimesse dei migranti (325 miliardi) non compensano i 647 miliardi che “escono” ogni anno sotto forma di profitti “rimpatriati” dalle multinazionali.
giovedì 3 gennaio 2013
Sull'orlo dell'Abisso Ecologico
Fonte: il manifesto | Autore: Leonardo Boff
- controlacrisi -
Se consideriamo il modo in cui i padroni del Potere stanno affrontando la crisi sistemica del nostro tipo di civilizzazione, organizzata nello sfruttamento illimitato della natura, nell'accumulazione anch'essa illimitata e in una conseguente creazione di una doppia ingiustizia (quella sociale, con le perverse disuguaglianze a livello mondiale, e quella ecologica, con la destrutturazione della rete della vita che garantisce la nostra sopravvivenza), e se prendiamo anche come punto di riferimento la Cop 18 sul riscaldamento globale, realizzata alla fine di questo anno a Doha in Qatar, possiamo dire, senza esagezione: stiamo andando di male in peggio.
Proseguendo su questa strada, ci troveremo di fronte, e non manca molto, a un "abisso ecologico".
Finora non si sono prese le misure necessarie per cambiare il corso delle cose. L'economia speculativa continua a proliferare, i mercati sono sempre più competitivi, che equivale a dire sempre meno regolati, e l'allarme ecologico, rappresentato nel riscaldamento globale, viene posto praticamente di lato. A Doha è mancato solo che si desse l'estrema unzione al Trattato di Kyoto. E per ironia nella prima pagina del documento finale, che nulla ha risolto, rimandando tutto al 2015, è scritto: «Il cambiamento climatico rappresenta una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta e questo problema deve essere affrontato urgentemente da tutti i paesi». E non lo si sta affrontando. Come ai tempi di Noè, continuiamo a mangiare, bere e apparecchiare le tavole del Titanic che sta affondando, ascoltando musica per di più. La Casa sta prendendo fuoco e mentiamo agli altri dicendo che non è niente.
Ho due motivi per arrivare a questa conclusione realista che sembra pessimista. Voglio dire con José Saramago: «Non sono pessimista; è la realtà che è pessima; io sono realista». Il primo motivo è la falsa premessa che sostiene e alimenta la crisi: l'obiettivo è la crescita materiale illimitata (l'aumento del Pil), realizzato sulla base dell'energia fossile e con il flusso totalmente libero dei capitali, specialmente quelli speculativi. Questa premessa è presente nei programmi di tutti i paesi, compreso quello del Brasile.
La falsità di questa premessa sta nel fatto che non tiene per nulla in considerazione i limiti del sistema-Terra. Un Pianeta limitato non sopporta progetti illimitati, che non possiedono sostenibilità.
Ovvero, si evita la parola sostenibilità che proviene dalla scienze della vita; la vita è non-lineare, è organizzata in reti di interdipendenza di tutti con tutti, reti che mantengono attivi i fattori che garantiscono il perpetuarsi della vita e della nostra civilizzazione.
Si preferisce parlare di sviluppo sostenibile, senza tener conto che si tratta di un concetto contradditorio perché è lineare, sempre crescente, che suppone il dominio della natura e la rottura dell'equilibrio ecosistemico.
Non si arriva ad alcun accordo sul clima perché le potenti multinazionali del petrolio influenzano politicamente i governi e boicottano qualsiasi misura che faccia diminuire i loro lucri e per questo non appoggiano le energie alternative. Cercano soltanto di aumentare ogni anno il Pil. Questo modello è rifiutato dai fatti: non funziona più né nei paesi centrali, come dimostra la crisi attuale, né in quelli periferici. O si trova un altro tipo di crescita che sia essenziale per il sistema-vita, ma che per noi deve rispettare la capacità della Terra e i ritmi della natura, o incontreremo l'innominabile.
Il secondo motivo, per il quale mi sto battendo da oltre 30 anni, è più di ordine filiosofico. Esso implica conseguenze paradigmatiche: il riscatto dell'intelligenza cordiale o emozionale per equilibrare il potere distruttore della ragione strumentale, sequestrata da secoli dal processo produttivo accumulatore. Come ci dice il filosofo francese Patrick Viveret in Por uma sobriedade feliz (Quarteto 2012), «la ragione strumentale senza l'intelligenza emozionale ci può portare perfettamente alle peggiori barbarie»; basta considerare il ridisegno dell'umanità progettato da Himmler, che culminò nella shoah, nella eliminzione di zingari e deficienti.
Se non incorporiamo l'intelligenzia emozionale alla ragione strumentale-analitica, non sentiremo mai il grido degli affamati, il gemito della Madre Terra, il dolore delle foreste abbattute e la devastazione attuale della biodiversità, nell'ordine di quasi centomila specie all'anno (E.Wilson).
Con la sostenibilità deve venire la cura, il rispetto e l'amore per tutto quello che esiste e che vive. Senza questa rivoluzione della mente e del cuore andremo, si, di male in
peggio.
* scrittore e teologo della liberazione brasiliano (traduzione di Antonio Lupo)
Proseguendo su questa strada, ci troveremo di fronte, e non manca molto, a un "abisso ecologico".
Finora non si sono prese le misure necessarie per cambiare il corso delle cose. L'economia speculativa continua a proliferare, i mercati sono sempre più competitivi, che equivale a dire sempre meno regolati, e l'allarme ecologico, rappresentato nel riscaldamento globale, viene posto praticamente di lato. A Doha è mancato solo che si desse l'estrema unzione al Trattato di Kyoto. E per ironia nella prima pagina del documento finale, che nulla ha risolto, rimandando tutto al 2015, è scritto: «Il cambiamento climatico rappresenta una minaccia urgente e potenzialmente irreversibile per le società umane e per il pianeta e questo problema deve essere affrontato urgentemente da tutti i paesi». E non lo si sta affrontando. Come ai tempi di Noè, continuiamo a mangiare, bere e apparecchiare le tavole del Titanic che sta affondando, ascoltando musica per di più. La Casa sta prendendo fuoco e mentiamo agli altri dicendo che non è niente.
Ho due motivi per arrivare a questa conclusione realista che sembra pessimista. Voglio dire con José Saramago: «Non sono pessimista; è la realtà che è pessima; io sono realista». Il primo motivo è la falsa premessa che sostiene e alimenta la crisi: l'obiettivo è la crescita materiale illimitata (l'aumento del Pil), realizzato sulla base dell'energia fossile e con il flusso totalmente libero dei capitali, specialmente quelli speculativi. Questa premessa è presente nei programmi di tutti i paesi, compreso quello del Brasile.
La falsità di questa premessa sta nel fatto che non tiene per nulla in considerazione i limiti del sistema-Terra. Un Pianeta limitato non sopporta progetti illimitati, che non possiedono sostenibilità.
Ovvero, si evita la parola sostenibilità che proviene dalla scienze della vita; la vita è non-lineare, è organizzata in reti di interdipendenza di tutti con tutti, reti che mantengono attivi i fattori che garantiscono il perpetuarsi della vita e della nostra civilizzazione.
Si preferisce parlare di sviluppo sostenibile, senza tener conto che si tratta di un concetto contradditorio perché è lineare, sempre crescente, che suppone il dominio della natura e la rottura dell'equilibrio ecosistemico.
Non si arriva ad alcun accordo sul clima perché le potenti multinazionali del petrolio influenzano politicamente i governi e boicottano qualsiasi misura che faccia diminuire i loro lucri e per questo non appoggiano le energie alternative. Cercano soltanto di aumentare ogni anno il Pil. Questo modello è rifiutato dai fatti: non funziona più né nei paesi centrali, come dimostra la crisi attuale, né in quelli periferici. O si trova un altro tipo di crescita che sia essenziale per il sistema-vita, ma che per noi deve rispettare la capacità della Terra e i ritmi della natura, o incontreremo l'innominabile.
Il secondo motivo, per il quale mi sto battendo da oltre 30 anni, è più di ordine filiosofico. Esso implica conseguenze paradigmatiche: il riscatto dell'intelligenza cordiale o emozionale per equilibrare il potere distruttore della ragione strumentale, sequestrata da secoli dal processo produttivo accumulatore. Come ci dice il filosofo francese Patrick Viveret in Por uma sobriedade feliz (Quarteto 2012), «la ragione strumentale senza l'intelligenza emozionale ci può portare perfettamente alle peggiori barbarie»; basta considerare il ridisegno dell'umanità progettato da Himmler, che culminò nella shoah, nella eliminzione di zingari e deficienti.
Se non incorporiamo l'intelligenzia emozionale alla ragione strumentale-analitica, non sentiremo mai il grido degli affamati, il gemito della Madre Terra, il dolore delle foreste abbattute e la devastazione attuale della biodiversità, nell'ordine di quasi centomila specie all'anno (E.Wilson).
Con la sostenibilità deve venire la cura, il rispetto e l'amore per tutto quello che esiste e che vive. Senza questa rivoluzione della mente e del cuore andremo, si, di male in
peggio.
* scrittore e teologo della liberazione brasiliano (traduzione di Antonio Lupo)
Il Canada rinuncia ai cacciabombardieri F-35
«Troppo cari e non all’altezza delle attese»
2 gennaio 2013
di Gianandrea Gaiani da il Sole 24 oreTroppo cari e con performance non all’altezza delle previsioni. Con queste motivazioni il Governo canadese guidato da Stephen Harper ha annunciato di rinunciare ad acquisire 65 cacciabombardieri F-35 prodotti dalla statunitense Lockheed Martin.
La decisione di Ottawa è giunta dopo un lungo dibattito che ha coinvolto le istituzioni e l’opinione pubblica canadese. La commessa, necessaria a rimpiazzare i 77 CF-18 attualmente in servizio con l’aeronautica, è stata a lungo sostenuta dal ministro della Difesa Peter MacKay, che ne annunciò il varo nel luglio 2010 definendo l’aereo «l’unico tipo di cacciabombardiere che risponde alla perfezione ai bisogni delle Forze armate canadesi».
I costi annunciati da McKay per 65 velivoli nella versione convenzionale A, 9 miliardi di dollari, vennero aggiornati l’anno scorso dal Governo a 16 miliardi da spalmare sui bilanci di 20 anni. Cifre contestate da un rapporto del General Account Office (la Corte dei conti canadese) e del tutto smentite dal rapporto commissionato dal Governo alla società di ricerche Kpmg che ha evidenziato anche i costi di gestione degli F-35 Lightning 2 giungendo a una cifra complessiva per 45,8 miliardi di dollari nei prossimi 42 anni.
Il costo di ogni singolo velivolo “nudo” (cioè esclusi ricambi ed armamenti) è valutato oggi 88 milioni di dollari contro i 65 previsti inizialmente ma nuovi rincari sono in arrivo considerati i ritardi del programma e i tagli agli ordinativi annuali anche da parte del Pentagono che stanno facendo lievitare ulteriormente i costi. I jet della versione A costeranno infatti 90 milioni di dollari ma solo nel 2017 mentre quelli prodotti nei prossimi tre anni avranno un costo progressivamente in calo da 127 a 95 milioni di dollari. Abissale inoltre la differenza tra i costi di manutenzione della flotta di F-35 annunciati dal Governo (8,9 miliardi) e rilevati da Kpmg (15,2) che ha valutato costi operativi in 19 miliardi contro i 9 stimati dal ministero della Difesa. Le valutazioni di Kpmg sono state confermate dal colonnello Melinda F. Morgan, portavoce del Pentagono, che le ha definite «in linea con le previsioni del Pentagono circa i cisti del velivolo».
Oltre ai costi il velivolo non è ancora stato messo a punto ma mostra già carenze sotto il profilo dell’autonomia e delle prestazioni “stealth” , cioè della capacità di risultare invisibile ai radar nemici, che doveva costituire l’asso nella manca del caccia americano. L’ex comandante dell’aeronautica canadese, generale Steve Lucas, ha ammesso che nel raccomandare l’adozione dell’F 35, nel 2006, i vertici militari non fornirono alcune «informazioni chiave» sul velivolo. La rinuncia al jet di Lockheed Martin riapre quindi la gara per il nuovo cacciabombardiere della Royal Canadian Air Force facendo tornare in pista la nuova generazione di F-18 di Boeing (Super Hornet) il francese Dassault Rafale (impostosi nella recente gara in India) e il Typhoon prodotto dal consorzio europeo Eurofighter di cui fa parte anche Alenia Aeronautica del gruppo Finmeccanica. Il Typhoon è già in servizio in Italia, Gran Bretagna, Austria, Germania e Arabia Saudita ma potrebbe venire acquisito presto anche da Oman, Kuwait ed Emirati Arabi Uniti. L’analisi dei costi effettuata dai canadesi può essere utile anche per valutare quanto costeranno complessivamente gli F-35 italiani, considerato che noi ne acquisiremo 90 e che di questi ben 30 sono nella versione B a decollo corto e atterraggio verticale, molto più costosa della versione A, 127 milioni contro 164 per i velivoli in acquisizione nel 2013.
Il programma F-35 è il più costoso mai realizzato in ambito militare e (è stato ribattezzato «l’aereo da un trilione di dollari» dal Wall Street Journal) e coinvolge una dozzina di Paesi inclusa l’Italia, che dovrebbe acquistarne 90. In totale gli Stati Uniti prevedono di acquistare 2.443 velivoli e almeno altri 700 dovrebbero essere acquisiti dagli alleati, ma i tagli al Pentagono e soprattutto il ripensamento del Canada potrebbero influire sul futuro del velivolo determinando un “effetto domino” su altri Paesi che hanno mostrato perplessità nei confronti dell’F-35, soprattutto sul fronte dei costi in crescita costante, come Australia e Olanda, mentre la Gran Bretagna prende tempo e non effettuerà ordini fino al 2015.
Washington non ha velivoli alternativi all’F 35 per rimpiazzare la sua flotta di F-16, A-10, Harrier ed F-18 di Aeronautica, Marines e Marina mentre l’uscita di altri Paesi dal programma potrebbe aprire nuovi mercati ai cacciabombardieri europei Typhooon, Rafale e Gripern
Con la Rivoluzione civile di Antonio Ingroia
- lavorincorsoasinistra -
Abbiamo perplessità di merito e di metodo sulla costruzione del “Quarto
Polo”. Ma se non vogliamo che il futuro politico del paese sia
tutto nelle mani di Bersani e Monti, probabili alleati di domani,
adesso è indispensabile sostenere la Rivoluzione civile di Ingroia,
sottolineando ciò che ci unisce e tralasciando ciò che ci può
dividere.
di Angelo d’Orsi Sto
seguendo, come tanti, le vicende relative alla costruzione di un
possibile “Quarto Polo”, desideroso, per una volta, di uscire dal
ruolo dell’osservatore, sia pure partecipe e simpatetico, e
impegnarmi direttamente: “metterci la faccia”, come si dice da
qualche tempo. In particolare sono stato stimolato dall’iniziativa
di Luigi De Magistris. Ho provato a seguire anche, in certa misura,
“Cambiare si può”, partecipando a qualche assemblea. L’ultima delle
quali, domenica 29 dicembre, a Torino, mi ha gettato nello
sconforto. I “garanti” reduci da incontri con Antonio Ingroia,
hanno annunciato l’intenzione di chiudere la trattativa, a causa
della insistenza di tre segretari di partiti (Diliberto, Bonelli,
Di Pietro) disposti ad appoggiare la Lista Ingroia senza simboli,
di entrarvi. Il segretario del quarto partito (Ferrero, di
Rifondazione comunista), si è dichiarato pronto a entrambe le
opzioni ossia non ha posto una pregiudiziale. Capisco che la
“pretesa” non sia piaciuta, ma è anche vero che questi partiti
(PDCI, IDV, Verdi e PRC), sono i soli in grado di fornire una trama
organizzativa, di raccogliere le firme in tempo utile e (per IDV)
di dare un sostegno finanziario. La linea di “Cambiare si può”
voleva essere quella di un totale rinnovamento : insomma via i
vecchi modi e le vecchie facce. E su questo scoglio si è incagliata
la nave unitaria. Addirittura nell’assemblea torinese, dopo un
ultimo colloquio telefonico tra uno dei promotori (Livio Pepino,
che poi ha spiegato il suo punto di vista sul Manifesto del 30
dicembre), si è mostrato un frammento – poco felice – della diretta
streaming della Conferenza stampa di Ingroia, commentata dal palco
e dalla platea, opportunamente sollecitata, con lazzi e frizzi.
Alcuni degli interventi degli oratori (tutti o quasi esponenti
della “società civile”, ossia di gruppi movimenti associazioni, e
qualcuno del PRC) a partire da quel momento sono andati molto sopra
le righe. Ho sentito parlare della necessità della “purezza” (a cui
strada, forse lo si dimentica, conduce diretta al gulag), e
addirittura in riferimento ad Ingroia (fino a due ore prima “il
nostro candidato premier”), “con gente così non dobbiamo avere
alcun rapporto”. Non so come saranno gli esiti delle votazioni
telematiche in relazione alla decisione dei tre garanti (una delle
quali, Chiara Sasso, si è esibita in una performance “letteraria”,
assai discutibile nella forma e nella sostanza, tutta contro
Ingroia e De Magistris e Di Pietro), ma l’esito politico appare
scontato: nessuna intesa con il Movimento Arancione. E voto libero.
Il che, stando agli umori registrati nell’assemblea significherà,
per la maggioranza dei casi, astensione, rinuncia al voto, scheda
bianca, nelle prossime elezioni. Un bel risultato, per chi voleva
rifondare, lodevolmente, la politica. E per chi voleva
rivitalizzare la sinistra. So che sul piano della teoria, il gruppo
promotore di “Cambiare si può” ha ragione. Ma la politica deve
saper combinare il principio di piacere con il principio di realtà.
Abbiamo perplessità di merito e di metodo sulla costruzione del “Quarto
Polo”. Ma se non vogliamo che il futuro politico del paese sia
tutto nelle mani di Bersani e Monti, probabili alleati di domani,
adesso è indispensabile sostenere la Rivoluzione civile di Ingroia,
sottolineando ciò che ci unisce e tralasciando ciò che ci può
dividere.
di Angelo d’Orsi Sto
seguendo, come tanti, le vicende relative alla costruzione di un
possibile “Quarto Polo”, desideroso, per una volta, di uscire dal
ruolo dell’osservatore, sia pure partecipe e simpatetico, e
impegnarmi direttamente: “metterci la faccia”, come si dice da
qualche tempo. In particolare sono stato stimolato dall’iniziativa
di Luigi De Magistris. Ho provato a seguire anche, in certa misura,
“Cambiare si può”, partecipando a qualche assemblea. L’ultima delle
quali, domenica 29 dicembre, a Torino, mi ha gettato nello
sconforto. I “garanti” reduci da incontri con Antonio Ingroia,
hanno annunciato l’intenzione di chiudere la trattativa, a causa
della insistenza di tre segretari di partiti (Diliberto, Bonelli,
Di Pietro) disposti ad appoggiare la Lista Ingroia senza simboli,
di entrarvi. Il segretario del quarto partito (Ferrero, di
Rifondazione comunista), si è dichiarato pronto a entrambe le
opzioni ossia non ha posto una pregiudiziale. Capisco che la
“pretesa” non sia piaciuta, ma è anche vero che questi partiti
(PDCI, IDV, Verdi e PRC), sono i soli in grado di fornire una trama
organizzativa, di raccogliere le firme in tempo utile e (per IDV)
di dare un sostegno finanziario. La linea di “Cambiare si può”
voleva essere quella di un totale rinnovamento : insomma via i
vecchi modi e le vecchie facce. E su questo scoglio si è incagliata
la nave unitaria. Addirittura nell’assemblea torinese, dopo un
ultimo colloquio telefonico tra uno dei promotori (Livio Pepino,
che poi ha spiegato il suo punto di vista sul Manifesto del 30
dicembre), si è mostrato un frammento – poco felice – della diretta
streaming della Conferenza stampa di Ingroia, commentata dal palco
e dalla platea, opportunamente sollecitata, con lazzi e frizzi.
Alcuni degli interventi degli oratori (tutti o quasi esponenti
della “società civile”, ossia di gruppi movimenti associazioni, e
qualcuno del PRC) a partire da quel momento sono andati molto sopra
le righe. Ho sentito parlare della necessità della “purezza” (a cui
strada, forse lo si dimentica, conduce diretta al gulag), e
addirittura in riferimento ad Ingroia (fino a due ore prima “il
nostro candidato premier”), “con gente così non dobbiamo avere
alcun rapporto”. Non so come saranno gli esiti delle votazioni
telematiche in relazione alla decisione dei tre garanti (una delle
quali, Chiara Sasso, si è esibita in una performance “letteraria”,
assai discutibile nella forma e nella sostanza, tutta contro
Ingroia e De Magistris e Di Pietro), ma l’esito politico appare
scontato: nessuna intesa con il Movimento Arancione. E voto libero.
Il che, stando agli umori registrati nell’assemblea significherà,
per la maggioranza dei casi, astensione, rinuncia al voto, scheda
bianca, nelle prossime elezioni. Un bel risultato, per chi voleva
rifondare, lodevolmente, la politica. E per chi voleva
rivitalizzare la sinistra. So che sul piano della teoria, il gruppo
promotore di “Cambiare si può” ha ragione. Ma la politica deve
saper combinare il principio di piacere con il principio di realtà.
Il deleterio modello tedesco e i luoghi comuni sul welfare
Posted by keynesblog on 3 gennaio 2013
di Guido Iodice e Daniela Palma – Keynes Blog, da MicroMega on line
Un articolo di Giovanni Perazzoli su MicroMega online [1] indica Keynes blog tra quelle fonti che diffonderebbero false informazioni sulla situazione sociale in Germania. Addirittura, veniamo accusati di essere parte di una “controinformazione italiana” la quale mirerebbe a “smentire che in Germania i salari siano più alti che in Italia”.
In primo luogo è bene chiarire che l’articolo a cui si riferisce implicitamente il nostro critico [2] è stato tratto da Voci dalla Germania [3], che a sua volta riprendeva i contenuti da due siti tedeschi. La “controinformazione” di cui saremmo un pericoloso tentacolo avrebbe perciò radici nella stessa Germania. Ma questo è evidentemente un argomento minore.
Ciò di cui Perazzoli sembra proprio non rendersi conto è che la sua argomentazione integra e conferma la tesi che abbiamo esposto, ossia che il “reddito minimo di cittadinanza”, di cui egli è un sostenitore, è esattamente ciò che ha permesso alla Germania di rendere socialmente sopportabili i mini-jobs, cioè il lavoro sottopagato. Come lo stesso Perazzoli spiega, infatti:
i Mini-Job sono lavori part-time da 400 euro al mese netti rivolti per principio agli studenti, e che – attenzione – si possono sommare a Hartz IV, il reddito minimo garantito tedesco. Nella formula base del reddito minimo garantito questo significa aggiungere altri 360 euro al mese e in più c’è l’affitto pagato per l’alloggio (!), le cure mediche, i soldi per il riscaldamento (!) e una riduzione per i trasporti. Il netto percepito dalla somma arriva a 560 euro al mese. Ognuno comprende il significato del fatto che l’affitto dell’alloggio non pesi sul reddito. E parliamo comunque della base del sussidio: poi per ogni eventuale figlio debbono essere calcolati altri 250 euro circa.
L’entusiasmo che traspare da queste righe per il modello tedesco si riflette anche nel resto dell’articolo, quando, dopo aver rilevato che i “mini-jobs” sono criticati dai sindacati perché destrutturano il mercato del lavoro, si chiede “Ma è sempre un male? Bisognerebbe aprire un discorso (serio) sul lavoro che cambia, e sul ruolo che deve avere il welfare in questo contesto.”
Questo “discorso sul lavoro che cambia e sul ruolo che deve avere il welfare in questo contesto” è ciò che ha attraversato i progressisti europei (compresi quelli italiani) dalla metà degli anni ’90 in poi. La tesi è (era) che il lavoro stabile – quello a tempo indeterminato e ben retribuito – è ormai un miraggio per una serie di motivi (cambiamenti tecnologici, globalizzazione della produzione, ecc.) e che contro questi cambiamenti non è possibile – o sarebbe comunque inutile – porre argini. Si deve quindi abbandonare ogni velleità circa la difesa del “posto fisso” (che, come sostiene il premier italiano Mario Monti è “noioso”) e acconciarsi a “proteggere il lavoratore, non il posto di lavoro”, per usare un’espressione tornata in voga grazie al ministro Elsa Fornero. Via quindi alla flexsecurity: si cancellino pure le garanzie nel mercato del lavoro in cambio di maggiori emolumenti dal welfare state. Vale a dire quel che ha fatto la Germania con le riforme Hartz.
mercoledì 2 gennaio 2013
L’FMI ammette: l’Islanda aveva ragione, avevamo torto noi
- informarexresistere -
Per circa tre anni, i nostri governi, la cricca dei banchieri e i media industriali ci hanno garantito che loro conoscevano l’approccio corretto per aggiustare le economie che loro avevano in precedenza paralizzato con la loro mala gestione. Ci è stato detto che la chiave stava nel balzare sul Popolo Bue imponendo “l’austerità” al fine di continuare a pagare gli interessi ai Parassiti delle Obbligazioni, a qualsiasi costo.
Dopo tre anni di questo continuo, ininterrotto fallimento, la Grecia è già insolvente per il 75% dei suoi debiti
e la sua economia è totalmente distrutta. La Gran Bretagna, la Spagna e l’Italia stanno tutte precipitando in una spirale suicida, in cui quanta più austerità quei governi sadici infliggono ai loro stessi popoli tanto peggiore diventa il problema del loro debito/deficit. L’Irlanda e il Portogallo sono quasi nella stessa condizione.
Ora, in quello che potrebbe essere il più grande “mea culpa” economico della storia, i media ammettono che questa macchina governativa-bancaria-propagandistica della Troika ha avuto torto per tutto il tempo. Sono stati costretti a riconoscere che l’approccio dell’Islanda al pronto intervento economico è stato quello corretto sin dall’inizio.
Quale è stato l’approccio dell’Islanda? Fare l’esatto contrario di tutto ciò che i banchieri che gestivano le nostre economie ci dicevano di fare. I banchieri (naturalmente) ci dicevano che dovevamo salvare le Grandi Banche criminali a spese dei contribuenti (erano Troppo Grandi Per Fallire). L’Islanda non ha dato nulla ai banchieri criminali.
I banchieri ci dicevano che nessuna sofferenza (del Popolo Bue) sarebbe stata troppo grande pur di garantire che i Parassiti delle Obbligazioni fossero rimborsati al cento per cento di ogni dollaro. L’Islanda ha detto ai Parassiti delle Obbligazioni che avrebbero ricevuto quel che sarebbe rimasto dopo che il governo si fosse preso cura del popolo.
I banchieri ci dicevano che i nostri governi non potevano più permettersi la stessa istruzione, lo stesso sistema pensionistico e di assistenza sanitaria che i nostri genitori avevano dato per scontato. L’Islanda ha detto ai banchieri che quello che il paese non poteva più permettersi era di continuare a vedersi succhiare il sangue dai peggiori criminali finanziari della storia della nostra specie. Ora, dopo tre anni abbondanti di questa assoluta dicotomia nelle scelte politiche, è emerso un quadro chiaro (nonostante gli sforzi migliori della macchina della propaganda per celare la verità).
Nel loro stile tipico, nel momento in cui i media dell’industria sono costretti ad ammettere di averci gravemente disinformati per molti degli ultimi anni, vengono immediatamente schierati i revisionisti per riscrivere la storia, come dimostrato da questo estratto da Bloomsberg Businessweek: … l’approccio dell’isola al proprio salvataggio ha portato a una ripresa “sorprendentemente” forte, ha affermato il capo della missione del Fondo Monetario Internazionale nel paese.
In realtà, dal momento in cui è stato orchestrato il Crollo del 2008 e i nostri governi moralmente in bancarotta hanno cominciato ad attuare i piani dei banchieri, io ho scritto che l’unica strategia razionale era di mettere il Popolo prima dei Parassiti. Anche se non mi aspettavo che i decisori della politica nazionale traessero la loro ispirazione dai miei scritti, quando stilavo le ricette economiche per le nostre economie non ho basato le mie idee sulla compassione o semplicemente sul “fare la cosa giusta”.
Ho, invece, costantemente sostenuto che il fatto che “l’approccio islandese” fosse l’unica strategia che aveva una possibilità di riuscita era una questione di semplice aritmetica e dei più elementari principi dell’economia. Quando Plutarco, 2.000 anni fa, scriveva che “uno squilibrio tra i ricchi e i poveri è il male più fatale di tutte le repubbliche” non stava ripetendo a pappagallo un dogma socialista (1.500 anni prima della nascita del socialismo).
Plutarco stava semplicemente esprimendo il Primo Principio dell’economia; qualcosa su cui tutti gli economisti capitalisti moderni che ne hanno seguito le orme hanno basato le loro stesse teorie. Quando gli economisti moderni esibiscono il loro gergo, come nel caso della Propensione Marginale al Consumo, esso è francamente basato sulla saggezza di Plutarco: che un’economia sarà sempre più sana con la sua ricchezza nelle mani dei poveri e della Classe Media invece che essere accumulata ricchi pidocchiosi (e giocatori d’azzardo).
Così quando i Revisionisti di Bloomberg tentano di convincerci che la forte (e reale) ripresa economica dell’Islanda è stata una “sorpresa” ciò potrebbe essere vero se nessuno dei nostri governi, nessuno dei banchieri e nessuno dei preziosi “esperti” dei media comprendesse i più elementari principi dell’aritmetica e dell’economia. E’ questo il messaggio che i media vogliono comunicare?
Quello che qui è ancor più insincero è il tono congratulatorio di questo esercizio di Revisionismo, poiché nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Come ho detto in dettaglio in una serie di quattro articoli un anno fa, la campagna di “stupro” economico perpetrata contro i governi d’Europa negli ultimi due anni e mezzo (in particolare) è stata espressamente mirata a cancellare “l’opzione islandese” per gli altri governi dell’Europa.
Uno dei motivi per cui l’Islanda è stata in grado di sfuggire alla garrota della cricca bancaria occidentale è che la sua economia (e il suo popolo) conservavano ancora una prosperità residua sufficiente a resistere, mentre la cricca bancaria cercava di strangolare l’economia dell’Islanda come punizione per aver respinto la loro Schiavitù del Debito.
Così, l’austerità non è stata niente di meno di una campagna deliberata per distruggere queste economie europee in modo tale che gli Schiavi fossero troppo economicamente deboli per essere in grado di recidere il loro collare. Missione compiuta!
Si può solo ritenere che né i media dell’industria né i Banchieri Padroni avrebbero consentito che questo chiaro riconoscimento che l’Islanda aveva ragione e noi avevamo torto comparisse sulle loro pagine, a meno che si sentissero sicuri di sapere che tutti gli altri Schiavi del Debito erano stati paralizzati oltre la loro capacità di sfuggire mai a questa oppressione economica.
In effetti, quale prova di questo, non dobbiamo che guardare alla Grecia, l’unica altra nazione europea in cui c’erano state “avvisaglie” (cioè rivolte) mirate a rovesciare il Governo Traditore che aveva servito la cricca dei banchieri. Dopo due elezioni, la combinazione di paura e propaganda ha intimidito il popolo greco da lungo tempo sofferente al punto da fargli scegliere un altro Governo Traditore, che si era espressamente impegnato a rafforzare i vincoli della schiavitù economica. Quando gli Schiavi votano per la schiavitù, i Padroni degli Schiavi possono permettersi di gongolare.
Qui, lo scopo di questa propaganda di Bloomberg non è stato di elogiare il governo islandese (quando sia i banchieri sia i media dell’industria disprezzano l’Islanda con tutta la loro considerevole malignità). Piuttosto, l’obiettivo di questa disinformazione è stato di costruire una nuova Grande Bugia.
Invece della Verità, che dal primo giorno l’approccio islandese era l’unica strategia possibile che avrebbe potuto avere successo, mentre i nostri governi hanno scelto una strategia destinata a fallire, otteniamo la Grande Bugia. I nostri Governi Traditori avevano agito onestamente e onorevolmente e il successo dell’Islanda e il nostro fallimento sono stati ancora un’altra “sorpresa che nessuno avrebbe potuto prevedere”.
Abbiamo assistito esattamente allo stesso Revisionismo dopo lo stesso Crollo del 2008, quando i media convenzionali hanno tirato in ballo tutti i loro esperti nell’imbonimento per dirci che erano rimasti “sorpresi” da quell’evento economico, mentre quelli del settore dei metalli preziosi erano andati profetizzando un tal cataclisma, in termini ancora più energici, per molti anni.
Il vero messaggio, cui, per i lettori, è che quando una strategia economica del Popolo prima dei Parassiti ha successo non c’è nulla di minimamente “sorprendente” al riguardo. Così come non è sorprendente che il fatto che tutto il resto del mondo intorno a noi promuova il benessere dei Parassiti, sia un bene soltanto per i Parassiti stessi.
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
Fonte: http://www.zcommunications.org/iceland-was-right-we-were-wrong-the-imf-by-jeff-neilson
Originale: thestreet.com
traduzione di Giuseppe Volpe -
Tratto da: senzasoste.it – Scritto da: Jeff Neilson
www.znetitaly.org
Fonte: http://www.zcommunications.org/iceland-was-right-we-were-wrong-the-imf-by-jeff-neilson
Originale: thestreet.com
traduzione di Giuseppe Volpe -
Tratto da: senzasoste.it – Scritto da: Jeff Neilson
Fonte: tempi-finali.blogspot.it – Tratto da: frontediliberazionedaibanchieri.it
Tratto da: L’FMI ammette: l’Islanda aveva ragione, avevamo torto noi | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2013/01/01/lfmi-ammette-lislanda-aveva-ragione-avevamo-torto-noi/#ixzz2Gr05R9mt
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!
Rita Levi Montalcini e il cervello da australopiteco dei maschilisti
Fonte: micromega | Autore: Maria Mantello
Rita Levi Montalcini. Una vita di impegno intellettuale, scientifico, sociale, soprattutto dalla parte delle donne, per la loro emancipazione e autodeterminazione. A cominciare dalla propria, quando fin dalla fanciullezza caparbiamente si oppose alle rigide regole che l’avrebbero voluta nel ruolo prefissato (“stia in casa e piaccia”, come ricorda nel suo Tempi di mutamenti).Senz’olio e controvento (è il titolo di un altro suo libro) ha dimostrato che è possibile avventurarsi con le proprie forze sulla strada libertaria dell’autodeterminazione.
Ci ha insegnato con l’esempio della sua vita che bisogna essere i creatori della nostra vita. Per questo amava ripetere: «non mi sento una scienziata, ma piuttosto un’artista della vita».
Femminista di fatto aveva dato ascolto all’illuministica forza della ragione per contrastare la “naturale” predestinazione a quel ruolo di femmina predicato dal millenarismo dominante: «un ruolo del tutto secondario… e di sottomissione al maschio … Non faceva per me».
Ed è stato l’inizio per la sua vita da donna libera e autonoma, non conforme agli stereotipi bacati ed ipocriti che ancora oggi allignano nel piccolo cervello dei reazionari nostalgici del bel tempo andato, in cui predomina l’area cerebrale pulsionale-gregaria-identitaria (estesissima nel cervello del nostro antenato australopiteco) e che ottunde quella analitico-cognitiva che pur caratterizza l’homo sapiens.
Rita Levi Montalcini che di cervello si intendeva, ha dedicato ampio spazio alla dicotomia celebrale: australopiteco-homo sapiens. Questa tematica è centrale in ogni suo scritto (da La galassia mente fino al recente La clessidra della vita) e ricorre in ogni suo pubblico intervento.
La illustrava sempre col suo dire pacato e fermo per mettere in guardia dai guasti che l’insidiosa mente-clan può provocare.
«Quello che in molti ignorano – ripeteva – è che il nostro cervello è fatto di due cervelli. Un cervello arcaico, limbico, localizzato nell’ippocampo, che non si è praticamente evoluto da tre milioni di anni fa a oggi. L’ altro cervello è quello cognitivo, molto più giovane. È nato con il linguaggio e in 150.000 anni ha vissuto uno sviluppo straordinario, specialmente grazie alla cultura. Si trova nella neo-corteccia. … Tutte le grandi tragedie – la Shoah, le guerre, il nazismo, il razzismo.. sono dovute alla prevalenza della componente emotiva su quella cognitiva» (la Repubblica, 19 febbraio 2009).
Allo studio del cervello aveva dedicato una vita di studio, questa piccola grande semplice donna che continua a vivere tra noi…
Ne era scientemente consapevole e per questo a chi le chiedeva se avesse paura della morte rispondeva: «non mi importa, perché l’eternità è nel messaggio che lasciamo».
Ha coniugato ricerca scientifica e impegno civile. Si pensi al suo apporto nelle battaglie per il divorzio, l’aborto, gli anticoncezionali. E ancora per contrastare leggi confessionali come la 40. Agli aiuti alle donne di tutto il mondo.
La scienza è cieca senza umanità. La vita è inutile se non si nutre del riconoscimento del diritto per ciascuno alla propria dignità. Non è solo amore dell’altro, sottolineava, ma molto, molto di più. È un dovere esistenziale per ciascuno!
Esempio grandioso essa stessa di come il cervello non invecchi (per la scoperta della proteina che stimola la crescita delle fibre nervose aveva ricevuto il Nobel nel 1986) se lo si impegna nello sviluppo della cognitività, negli ultimi anni si era divisa tra il suo infaticabile lavoro di ricercatrice e quello di aiuto in particolare alle donne africane.
Ancora l’emancipazione delle donne, per la dignità delle donne!
Cosa del tutto incomprensibile agli australopitechi maschilisti che non sanno uscire dalla tautologia del non senso “sono superiore perché sono maschio”.
Incapaci di conquistare al cervello analitico-critico sempre maggiori spazi di cognitività, non comprendono che Lucy ne ha fatto di cammino.
Allora aprano la botola del loro recinto mentale e camminino. Perché, per usare ancora le parole di Rita Levi Montalcini «la mente dell’uomo diretta dalla cognitività arriva all’autocoscienza, ovvero alla consapevolezza di essere proprietari della propria mente, che è la più bella esperienza per la quale vale la pena di vivere».
Ci ha insegnato con l’esempio della sua vita che bisogna essere i creatori della nostra vita. Per questo amava ripetere: «non mi sento una scienziata, ma piuttosto un’artista della vita».
Femminista di fatto aveva dato ascolto all’illuministica forza della ragione per contrastare la “naturale” predestinazione a quel ruolo di femmina predicato dal millenarismo dominante: «un ruolo del tutto secondario… e di sottomissione al maschio … Non faceva per me».
Ed è stato l’inizio per la sua vita da donna libera e autonoma, non conforme agli stereotipi bacati ed ipocriti che ancora oggi allignano nel piccolo cervello dei reazionari nostalgici del bel tempo andato, in cui predomina l’area cerebrale pulsionale-gregaria-identitaria (estesissima nel cervello del nostro antenato australopiteco) e che ottunde quella analitico-cognitiva che pur caratterizza l’homo sapiens.
Rita Levi Montalcini che di cervello si intendeva, ha dedicato ampio spazio alla dicotomia celebrale: australopiteco-homo sapiens. Questa tematica è centrale in ogni suo scritto (da La galassia mente fino al recente La clessidra della vita) e ricorre in ogni suo pubblico intervento.
La illustrava sempre col suo dire pacato e fermo per mettere in guardia dai guasti che l’insidiosa mente-clan può provocare.
«Quello che in molti ignorano – ripeteva – è che il nostro cervello è fatto di due cervelli. Un cervello arcaico, limbico, localizzato nell’ippocampo, che non si è praticamente evoluto da tre milioni di anni fa a oggi. L’ altro cervello è quello cognitivo, molto più giovane. È nato con il linguaggio e in 150.000 anni ha vissuto uno sviluppo straordinario, specialmente grazie alla cultura. Si trova nella neo-corteccia. … Tutte le grandi tragedie – la Shoah, le guerre, il nazismo, il razzismo.. sono dovute alla prevalenza della componente emotiva su quella cognitiva» (la Repubblica, 19 febbraio 2009).
Allo studio del cervello aveva dedicato una vita di studio, questa piccola grande semplice donna che continua a vivere tra noi…
Ne era scientemente consapevole e per questo a chi le chiedeva se avesse paura della morte rispondeva: «non mi importa, perché l’eternità è nel messaggio che lasciamo».
Ha coniugato ricerca scientifica e impegno civile. Si pensi al suo apporto nelle battaglie per il divorzio, l’aborto, gli anticoncezionali. E ancora per contrastare leggi confessionali come la 40. Agli aiuti alle donne di tutto il mondo.
La scienza è cieca senza umanità. La vita è inutile se non si nutre del riconoscimento del diritto per ciascuno alla propria dignità. Non è solo amore dell’altro, sottolineava, ma molto, molto di più. È un dovere esistenziale per ciascuno!
Esempio grandioso essa stessa di come il cervello non invecchi (per la scoperta della proteina che stimola la crescita delle fibre nervose aveva ricevuto il Nobel nel 1986) se lo si impegna nello sviluppo della cognitività, negli ultimi anni si era divisa tra il suo infaticabile lavoro di ricercatrice e quello di aiuto in particolare alle donne africane.
Ancora l’emancipazione delle donne, per la dignità delle donne!
Cosa del tutto incomprensibile agli australopitechi maschilisti che non sanno uscire dalla tautologia del non senso “sono superiore perché sono maschio”.
Incapaci di conquistare al cervello analitico-critico sempre maggiori spazi di cognitività, non comprendono che Lucy ne ha fatto di cammino.
Allora aprano la botola del loro recinto mentale e camminino. Perché, per usare ancora le parole di Rita Levi Montalcini «la mente dell’uomo diretta dalla cognitività arriva all’autocoscienza, ovvero alla consapevolezza di essere proprietari della propria mente, che è la più bella esperienza per la quale vale la pena di vivere».
"Caro Beppe, i partiti hanno radici nella società e servono"
Fonte: Il Fatto Quotidiano
Caro Beppe Grillo, ti scrivo questa lettera da qui, dal Guatemala, mentre mi preparo a rientrare definitivamente in Italia per partecipare anch’io come te alla campagna elettorale. Ci conosciamo da anni, da quando facevamo mestieri diversi, spesso sullo stesso fronte nella critica radicale di un certo ceto politico e classe dirigente. Venivo a tutti i tuoi spettacoli, e tu più di una volta mi hai citato a Palermo per manifestarmi il tuo sostegno nell’azione giudiziaria contro potentati criminali e politico-economici. Poi hai fatto una scelta di impegno politico che ho capito solo strada facendo, e che ha l’indubbio merito di avere sottratto all’astensionismo tanti italiani, delusi e arrabbiati, recuperandoli ad una politica di partecipazione dal basso, colpevolmente liquidata dall’establishment come ‘antipolitica’, una demonizzazione che ha finito per favorire l’espansione del tuo movimento.
Cosa, peraltro, positiva, visto che certe battaglie politiche sarebbero altrimenti rimaste ‘orfane’, dalle battaglie per la moralizzazione della politica e la drastica riduzione dei suoi costi a quelle per uno sviluppo sostenibile, sostanziatosi nel sostenere il movimento NO TAV e tante altre iniziative. È una situazione di emergenza democratica quella che abbiamo davanti. Un’emergenza di fronte al rischio di tracollo. Ed è quindi arrivato il momento della responsabilità, in cui ciascuno deve impegnarsi anche rischiando in proprio.
È con questo spirito che ho accettato di affrontare l’impresa della lista civica ‘Rivoluzione Civile’. Con tutti i rischi che ne conseguono. A me non interessano seggi parlamentari e neppure prebende politiche. Ne avrei potute avere quante ne volevo, ma ho rifiutato perché non mi interessano. La mia impresa ha delle similitudini con le tue originarie motivazioni. Mettersi in gioco per ideali in cui si crede nella convinzione che non si debba delegare e ci si debba impegnare in prima persona da “non professionisti della politica”.
Ma i partiti, caro Beppe, servono, e soprattutto i partiti che hanno ancora radici nella società e che hanno combattuto battaglie dentro e fuori dal parlamento per contrastare berlusconismo e montismo pagando prezzi non indifferenti. Vanno valorizzati con la società civile e per la società civile. A questi partiti ho chiesto tangibili passi indietro e già ne sono stati fatti ed altri ne faranno perché credono nel nostro progetto. Quindi, nessuna foglia di fico per nessuno, figuriamoci! Questo Paese vogliamo cambiarlo in modo pacifico ma radicale? Vogliamo esprimere una politica di governo nuova e rivoluzionaria? Allora, bisogna confrontarsi. Senza diffidenze e pregiudizi. Per uscire dalla contestazione fine a se stessa. Ci sono cose che io non condivido in alcune tue posizioni e non ho condiviso alcune tue ‘esternazioni’. Nello stesso modo, potrai non condividere alcune mie scelte. Ma siamo due ‘non professionisti della politica’ che si sono messi a disposizione degli italiani, ed abbiamo quindi il dovere di praticare sempre il confronto e l’ascolto. Molte battaglie tue sono le nostre, molti punti programmatici nostri sono i tuoi. La gente capisce poco certe divisioni fra movimenti politici che perseguono obiettivi in parte comuni. La capacità di ascolto è dote rara in politica. Dimostriamo di voler cambiare il Paese anche in questo.
Cosa, peraltro, positiva, visto che certe battaglie politiche sarebbero altrimenti rimaste ‘orfane’, dalle battaglie per la moralizzazione della politica e la drastica riduzione dei suoi costi a quelle per uno sviluppo sostenibile, sostanziatosi nel sostenere il movimento NO TAV e tante altre iniziative. È una situazione di emergenza democratica quella che abbiamo davanti. Un’emergenza di fronte al rischio di tracollo. Ed è quindi arrivato il momento della responsabilità, in cui ciascuno deve impegnarsi anche rischiando in proprio.
È con questo spirito che ho accettato di affrontare l’impresa della lista civica ‘Rivoluzione Civile’. Con tutti i rischi che ne conseguono. A me non interessano seggi parlamentari e neppure prebende politiche. Ne avrei potute avere quante ne volevo, ma ho rifiutato perché non mi interessano. La mia impresa ha delle similitudini con le tue originarie motivazioni. Mettersi in gioco per ideali in cui si crede nella convinzione che non si debba delegare e ci si debba impegnare in prima persona da “non professionisti della politica”.
Ma i partiti, caro Beppe, servono, e soprattutto i partiti che hanno ancora radici nella società e che hanno combattuto battaglie dentro e fuori dal parlamento per contrastare berlusconismo e montismo pagando prezzi non indifferenti. Vanno valorizzati con la società civile e per la società civile. A questi partiti ho chiesto tangibili passi indietro e già ne sono stati fatti ed altri ne faranno perché credono nel nostro progetto. Quindi, nessuna foglia di fico per nessuno, figuriamoci! Questo Paese vogliamo cambiarlo in modo pacifico ma radicale? Vogliamo esprimere una politica di governo nuova e rivoluzionaria? Allora, bisogna confrontarsi. Senza diffidenze e pregiudizi. Per uscire dalla contestazione fine a se stessa. Ci sono cose che io non condivido in alcune tue posizioni e non ho condiviso alcune tue ‘esternazioni’. Nello stesso modo, potrai non condividere alcune mie scelte. Ma siamo due ‘non professionisti della politica’ che si sono messi a disposizione degli italiani, ed abbiamo quindi il dovere di praticare sempre il confronto e l’ascolto. Molte battaglie tue sono le nostre, molti punti programmatici nostri sono i tuoi. La gente capisce poco certe divisioni fra movimenti politici che perseguono obiettivi in parte comuni. La capacità di ascolto è dote rara in politica. Dimostriamo di voler cambiare il Paese anche in questo.
Crisi, i ricchi sono sempre più ricchi. In un anno accumulati 241 mld in più
Autore: fabrizio salvatori - controlacrisi -
Sempre piu' ricchi nel mondo. Nonostante la crisi, l'aumento delle tasse e l'incertezza per il futuro, nell'anno appena passato i cento uomini piu' facoltosi del pianeta hanno aumentato il loro patrimonio complessivo. Secondo il Bloomberg Billionaires Index il capitale aggregato dei piu' benestanti del mondo e' salito di 241 miliardi di dollari all'impressionante cifra di 1.900 miliardi. Su cento patrimoni 'censiti', si legge sul sito Bloomberg.com, solo sedici hanno subito perdite rispetto al 2011. Il primo della classifica e' Amancio Ortega, patron (tra l'altro) del marchio Zara. In 12 mesi le sue disponibilita' sono quasi raddoppiate: sono aumentate di 22 miliardi di dollari a 57,5 miliardi. Carlos Slim, il magnate delle telecomunicazioni che la messicana America Movil, ha mantenuto il titolo di uomo piu' ricco del mondo. Secondo la tabella stilata da di Bloomberg il suo patrimonio netto e' aumentato del 21,6%: 13,4 miliardi in piu' dell'anno precedente. Anno meraviglioso anche per Bill Gates. Il co-fondatore della Microsoft ha aggiunto 7 miliardi ai suoi averi. Per il segretario del Prc Paolo Ferrero, che ha commentato a caldo la stima di Bloomberg, "l’aumento di 241 miliardi di dollari nel corso del 2012 dei patrimoni dei 100 più ricchi del mondo è semplicemente vergognoso". "La cosa è tanto più vergognosa per una semplice verità che tutti tacciono: l’aumento delle grandi ricchezze è legato direttamente all’impoverimento di milioni di persone. Per questo serve una tassa sulle grandi ricchezze e per questo serve una rivoluzione civile: per redistribuire la ricchezza", ha aggiunto Ferrero.
Margherita Hack conferma sostegno a Ingroia
Fonte: oltremedianews.com
La rivoluzione civile di Antonio Ingroia raccoglie giorno per giorno nuove adesioni. Tra le personalità che garantiranno il loro sostegno al soggetto politico ci sarà anche Margherita Hack così come ha ribadito in una dichiarazione rilasciata oggi al nostro giornale.
“Sono perfettamente d’accordo con le proposte di Antonio Ingroia, le condivido e mi sento in piena sintonia con lui e con il movimento che sta crescendo al suo fianco. Credo che in questa fase particolare della vita politica italiana ci sia un gran bisogno di persone come lui che hanno un passato di vita, anche rischiosa, interamente dedicata al Paese. Ingroia è uno di quelli che fanno i fatti e non le chiacchiere. Mi auguro che riesca con il suo movimento a cambiare realmente l’Italia, perché c’è un gran bisogno di cambiamento.” – con queste parole la nota astrofisica Margherita Hack ribadisce a OltremediaNews il suo apprezzamento e il suo sostegno alla candidatura di Ingroia.
“Sono perfettamente d’accordo con le proposte di Antonio Ingroia, le condivido e mi sento in piena sintonia con lui e con il movimento che sta crescendo al suo fianco. Credo che in questa fase particolare della vita politica italiana ci sia un gran bisogno di persone come lui che hanno un passato di vita, anche rischiosa, interamente dedicata al Paese. Ingroia è uno di quelli che fanno i fatti e non le chiacchiere. Mi auguro che riesca con il suo movimento a cambiare realmente l’Italia, perché c’è un gran bisogno di cambiamento.” – con queste parole la nota astrofisica Margherita Hack ribadisce a OltremediaNews il suo apprezzamento e il suo sostegno alla candidatura di Ingroia.
“Non è un’impresa facile. – aggiunge - Questo nostro Paese è regredito a livelli vergognosi con il ventennio di Berlusconi. Mi auguro che, con Ingroia, si ritrovi il senso dell’onestà, del rispetto delle leggi, del rispetto del bene comune e della cosa pubblica, insomma una rivoluzione civile come dice il suo slogan. L’Italia è composta in gran parte di gente onesta e operosa e vi è una enorme indignazione per tutte queste ruberie che si sono avute anche nel mondo della politica. Serve quindi una nuova moralità pubblica che è completamente sparita e servono persone che guardino agli interessi della collettività e che portino avanti una lotta efficace all’economia criminale che ormai è molto ramificata da nord a sud.”
Margherita Hack, che è stata sempre presente del dibattitto politico, ritiene molto utile la battaglia del magistrato palermitano anche alla luce della crisi economica. “Sono d’accordo con Ingroia – prosegue - anche quando dice che i lavoratori e il ceto medio hanno pagato la gran parte del costo della crisi. Il professor Mario Monti è persona onesta e rispettabile, ma è un economista di destra e le sue ricette economiche sono di destra. Con la crisi è cresciuto il divario fra i ricchi e i poveri nel nostro Paese.”
Da una scienziata non può mancare una valutazione sulle politiche della ricerca e dell’istruzione che sono state anch’esse oggetto dei pesanti tagli di spesa: “La Ricerca scientifica e quella finalizzata all’innovazione è fondamentale per lo sviluppo di un paese. E’ una voce – afferma la Hack - che non va assolutamente tagliata, al contrario bisogna investire nella ricerca perché è quel settore che fa crescere e aiuta ad uscire dalla crisi. I tagli si sono abbattuti anche sulle università, ma è un errore. Le nostre università sono buone nonostante i casi di nepotismo e clientelismo che si sono verificati. La dimostrazione sulla buona qualità dei nostri atenei l’abbiamo quando vediamo i nostri ricercatori che vanno all’estero. Si trovano tutti bene perché sono ben preparati. Non si può tagliare sul sapere e sulla conoscenza. Lo stesso discorso vale per la scuola. Gli insegnanti hanno il compito delicatissimo di preparare e formare i ragazzi e si ritrovano umiliati da stipendi bassi e scarsa considerazione del loro lavoro. Questo crea frustrazione. E invece bisogna ritrovare la fiducia in noi stessi e nel futuro del nostro Paese. L’impegno di Antonio Ingroia va nella giusta direzione”.
Margherita Hack, che è stata sempre presente del dibattitto politico, ritiene molto utile la battaglia del magistrato palermitano anche alla luce della crisi economica. “Sono d’accordo con Ingroia – prosegue - anche quando dice che i lavoratori e il ceto medio hanno pagato la gran parte del costo della crisi. Il professor Mario Monti è persona onesta e rispettabile, ma è un economista di destra e le sue ricette economiche sono di destra. Con la crisi è cresciuto il divario fra i ricchi e i poveri nel nostro Paese.”
Da una scienziata non può mancare una valutazione sulle politiche della ricerca e dell’istruzione che sono state anch’esse oggetto dei pesanti tagli di spesa: “La Ricerca scientifica e quella finalizzata all’innovazione è fondamentale per lo sviluppo di un paese. E’ una voce – afferma la Hack - che non va assolutamente tagliata, al contrario bisogna investire nella ricerca perché è quel settore che fa crescere e aiuta ad uscire dalla crisi. I tagli si sono abbattuti anche sulle università, ma è un errore. Le nostre università sono buone nonostante i casi di nepotismo e clientelismo che si sono verificati. La dimostrazione sulla buona qualità dei nostri atenei l’abbiamo quando vediamo i nostri ricercatori che vanno all’estero. Si trovano tutti bene perché sono ben preparati. Non si può tagliare sul sapere e sulla conoscenza. Lo stesso discorso vale per la scuola. Gli insegnanti hanno il compito delicatissimo di preparare e formare i ragazzi e si ritrovano umiliati da stipendi bassi e scarsa considerazione del loro lavoro. Questo crea frustrazione. E invece bisogna ritrovare la fiducia in noi stessi e nel futuro del nostro Paese. L’impegno di Antonio Ingroia va nella giusta direzione”.
martedì 1 gennaio 2013
Un programma per il nuovo governo
- lavorincorsoasinistra -
1 gennaio 2013 Fonte:
da ScienzainreteIl prossimo febbraio, probabilmente il 24, andremo a votare. In queste ore si stanno formando le liste e gli schieramenti. Ma, al di là del problema finanziario e del rapporto con il resto dell’Europa, ancora non si intravede tra le varie liste e i vari schieramenti che si vanno formando un’idea davvero forte per il programma economico e sociale. Partecipare alle elezioni, ma per fare cosa? Ogni idea dovrebbe partire da un’analisi dei fatti. Fondata sulle grandi tendenze economiche e sociali. Ma anche su quello che “sentono” i cittadini. Sulla percezione pubblica dell’economia e del vivere sociale. Questi vari elementi sembrano, una volta tanto, suggerirci la medesima, univoca interpretazione. Il paese è in declino. Si tratta di una crisi grave – strutturale, si diceva un tempo – che nasce dalla finanza (i conti pubblici da mettere a posto) e dalla cosiddetta economia reale (la recessione). Ma la crisi non è solo economica: è anche culturale e sociale. I cittadini italiani “sentono” il declino.
Qual è la causa di questo declino? L’analisi che propongono coloro che hanno firmato l’appello “Rilanciamo il dibattito per rafforzare la ricerca in Italia” è piuttosto netta. La causa profonda del declino italiano consiste nel fatto che la specializzazione produttiva del sistema paese non è più competitiva. Abbiamo scelto, in un periodo preciso (l’inizio degli anni ’60 del secolo scorso), con persone precise (di cui alcuni storici, come a esempio, Gianni Paoloni sono in grado di fare, documenti alla mano, nomi e cognomi), di seguire una strada di sviluppo diversa da ogni altro paese industriale. Per alcuni questa strada ha costituito un vero e proprio modello alternativo a quella degli altri paesi industriali: un «modello di sviluppo senza ricerca». In pratica, l’Italia è diventata un grande paese industriale (secondo, in Europa, solo alla Germania), ritagliandosi una nicchia isolata nell’ambito dei prodotti a bassa innovazione tecnologica. Nella scelta di questo peculiare modello l’Italia ha puntato essenzialmente su due fattori: il basso costo del lavoro rispetto a quello degli altri paesi industriali e la periodica svalutazione, cosiddetta competitiva, della sua moneta, la lira.
Per due o tre decenni – quando eravamo “i più poveri tra i ricchi” – il modello ha funzionato. L’Italia poteva vantare la maggiore crescita economica al mondo, dopo quella del Giappone. Ma negli anni ’80 il modello ha iniziato a mostrare i suoi limiti. Ma dagli anni ’90 l’Italia non può più possibile utilizzare nessuno delle due antiche leve. Paesi poveri, che una volta si chiamavano “in via di sviluppo”, perché sostanzialmente fuori dal sistema industriale e commerciale mondiale, hanno fatto irruzione sulla scena (la cosiddetta nuova globalizzazione), con un costo del lavoro decisamente inferiore italiano. Nel medesimo tempo l’Italia è entrata prima nel sistema di cambi fissi dell’Unione Europea e poi nel sistema monetario fondato su una moneta forte e non svalutabile a piacere, l’euro. Da venti anni almeno, dunque, abbiamo perso le due antiche leve: il costo del lavoro italiano è di gran lunga più elevato rispetto a quello dei nuovi paesi competitori a economia emergente (inclusi Cina, India, molti altri paesi del Sud-est asiatico, ma anche Brasile, Sud Africa e altri paesi sia latino-americani che africani); non abbiamo più la “liretta” da svalutare, ma al contrario un moneta, l’euro, forte e (tutto sommato) solida. In questi venti anni non abbiamo preso atto che il “mondo è cambiato”. Che le due antiche leve che garantivano il successo al «modello di sviluppo senza ricerca» non potevano essere più utilizzate. Che la nuova situazione lasciava aperta la porta a due sole possibilità: o un declino sempre più profondo o un’impresa titanica, al limite della velleità: il rapido cambiamento della specializzazione produttiva. Il sistema Italia deve iniziare a produrre altri beni, diversi da quelli prodotti nell’ultimo mezzo secolo.
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