Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 11 agosto 2012

Risposta alla “Lettera Aperta” sulla Siria

11 agosto 2012 - Patrick Boylan (NoWar – Roma; U.S. Citizens for Peace & Justice - Rome)

Foto © 2012 Stefano Montesi Nel suo “Altro Editoriale” su peacelink.it del 25 luglio scorso, Enrico De Angelis ipotizza, con un'angoscia che si legge tra le righe, l'esito più probabile di una caduta, in questi giorni, del regime siriano di Bashar al-Assad qualora, nonostante i massicci aiuti militari russi, egli fosse inaspettatamente sconfitto sul campo. Questo esito sarebbe la presa del potere – non da parte dei giovani “rivoluzionari” siriani che lottano da 15 mesi contro il regime – ma da parte di quelle forze militari, molte delle quali armate e stipendiate dall'estero, che operano in Siria palesemente da ben 13 mesi (dunque quasi sin dall'inizio della rivolta) e clandestinamente da anni. Se vincono loro, addio rivoluzione.

Tra queste forze militari d'opposizione, la principale è il cosiddetto Esercito Siriano Libero, l'ESL, il cui scopo, secondo Wikipedia, sarebbe quello di “proteggere i civili”. In realtà, come dimostrano in questi giorni gli assalti a Damasco e ad Aleppo, dove i civili non hanno nessun bisogno di protezione, il vero scopo dell'ESL è un altro: rovesciare Assad e conquistare il potere in Siria.

Per conto di chi?

Per capirne qualcosa, basta esaminare l'organizzazione di questo esercito. Oltre ai disertori dalle forze militari governative, l'ESL conta un gran numero di reclute libiche, pakistane, ecc. fatte venire in Siria... dalla CIA. L'ESL è diretto – ufficialmente – da un colonnello siriano disertore, ma, in pratica, da un centro Command and Control turco-saudita in Turchia che risponde... alla CIA. Negli scontri importanti sul terreno gli ordini ai guerriglieri dell'ESL vengono dati dai commandos britannici e francesi infiltrati in Siria d'intesa con... la CIA. (Non ci sono commandos USA perché in un anno elettorale, Obama ha preferito l'outsourcing al rischio di perdere vite americane). Ovviamente le dinamiche nell'ESL sono molto più complesse di quanto esposto qui – basta pensare alla frammentazione dei gruppi armati o alle lotte per il potere da parte dei Fratelli Musulmani. Ma è scontato che, durante le eventuali trattative per un governo transitorio “dopo Assad”, l'ESL parlerà per Washington. Ecco perché se vince l'ESL, addio rivoluzione.

In pratica, dunque, si annuncia per la rivolta in Siria lo stesso esito delle rivolte in Libia, in Egitto e in parte in Tunisia. In questi tre Paesi, i giovani “rivoluzionari”, dopo aver sacrificato le loro vite (1000 i morti in piazza Tahrir), sono stati subito emarginati dal potere. Ad esempio, in Egitto e in Libia a contendersi le elezioni presidenziali sono stati, non un rappresentante della “rivoluzione”, ma un esponente del vecchio regime, appoggiato da Washington, ed un esponente dei Fratelli Musulmani, appoggiato da Washington anche lui (i Fratelli sono, infatti, il nuovo gendarme occidentale nel medio oriente). “Quale che sia l'esito, abbiamo vinto noi!”, ha esultato Hillary Clinton prima del voto. E difatti, subito dopo le elezioni, sia la Libia (vittoria del vecchio regime) che l'Egitto (vittoria del Fratello Musulmano) hanno confermato la loro lealtà occidentale. I veri perdenti sono stati i “rivoluzionari”, ma per loro neanche una lacrima da parte dei mass media occidentali che tanto li avevano osannati quando servivano come carne da macello per giustificare il regime change che l'Occidente stava comunque meditando da tempo.

Ora si profila lo stesso esito in Siria.

Ecco perché PeaceLink ha ribadito, sin dall'inizio, che è stato un errore anche politico, da parte dei “rivoluzionari” siriani, trasformare le proteste pacifiche iniziali in lotta armata. Se parlano le armi, vince non chi ha più ragione, ma chi ha più forza (e chi gli ha fornito il suo armamento superiore).

“Ma – si obietterà – il ricorso alle armi era necessario per proteggere i manifestanti!”

Non è vero.

Infatti, per “proteggere i manifestanti” bastava non manifestare, ricorrendo invece alla lotta clandestina, come hanno fatto i giovani antifascisti italiani quando si sono trovati sotto il tallone nazista. Nell'Italia del dopo 1943 non si protestava in piazza per mandar via le truppe naziste, sparandogli addosso “per proteggere i manifestanti”: farlo sarebbe stato innescare una strage e basta! Come si è visto in Siria.

Ma questo errore i giovani siriani l'hanno commesso, anche perché incitato a commetterlo dalla quinta colonna americana operante in Siria dal 2006, dalla TV siriana della CIA, e dall'ambasciatore americano Ford che si è recato personalmente a Homs per incoraggiare i rivoltosi. E dai mass media occidentali. E dai blog di tanti giovani occidentali, entusiasti della “rivoluzione”. E in particolare dagli arabisti occidentali che, attraverso chat, Twitter e Skype, hanno espresso solidarietà ai loro amici siriani che inneggiavano alla lotta armata.

C'è dunque chi ha incitato alla lotta armata di proposito: 1. per provocare dei massacri da dare in pasto ai mass media, così da giustificare un intervento esterno stile Libia, oppure, fallendo questo tentativo per via dei ripetuti veti russi e cinesi all'ONU, 2. per trasformare le proteste iniziali in guerra civile così da far vincere un ESL piglia tutto. Ma c'è anche chi vi si è prestato ingenuamente perché imbevuto del mito romantico della “rivoluzione popolare armata”. Questi ultimi soggetti dovrebbero ora farsi un bell'esame di coscienza.

Infatti basta uno studio storico spassionato, anche sommario, per sfatare il mito romantico della “rivoluzione popolare armata” tanto caro agli adolescenti di tutte le età. I regimi dittatoriali possono solo raramente, in determinate congiunture storiche che bisogna saper analizzare a fondo, essere abbattuti con le armi per lasciare poi posto alla democrazia. In tutti gli altri casi, invece, le rivoluzioni armate portano solo a nuove forme di repressione: o da parte dello Stato autoritario, per difendersi, o, se cade, da parte degli stessi “liberatori”.

Infatti, la Rivoluzione (armata) francese ha portato non alla democrazia oltralpe bensì a due dittature (Robespierre e poi Napoleone) e infine al ritorno del re (Luigi XVIII): è stato quindi un fallimento totale. I francesi si sono liberati definitivamente dai re per instaurare la democrazia solo un secolo dopo, nella seconda metà dell'800, attraverso lotte pacifiche e quasi senza sparare un colpo. La rivoluzione (armata) russa ha portato anch'essa ad un capovolgimento del sistema politico (dal feudalesimo proto-capitalista al socialismo) e, finché rimaneva in vita Lenin, la dittatura del proletariato era davvero del proletariato, quindi sostanzialmente (se non formalmente) democratica; ma con Stalin lo Stato è ridiventato zarista: non si cambia la cultura di un popolo con un semplice assalto al Palazzo d'Inverno. Due rivoluzioni, dunque, che sono servite a risvegliare sì le coscienze, ma, solo in parte, a rovesciare i reali rapporti di forza tra classi sociali.

Antonio Gramsci, studiando come i francesi e i russi hanno spodestato i loro regimi monarchici-dittatoriali e con quali esiti, ha teorizzato un metodo più lento ma più sicuro di presa del potere sotto una dittatura. Invece di fare una “guerra di movimento” (con l'uso delle armi e assalti al Palazzo), gli oppressi, scrive Gramsci, dovrebbero fare una “guerra di posizione” (niente assalti, devono ergere una controcultura egemonica che mini il regime autoritario e vaccini contro i ritorni di autoritarismo).

Molti Paesi latino americani hanno seguito gli insegnamenti di Gramsci – l'autore italiano più tradotto e più letto in questi Paesi – per instaurare società democratiche e (in parte) socialiste: la Bolivia, l'Ecuador, l'Argentina ed altri. Tutti questi Paesi avevano dittature più o meno mascherate: quella argentina era così spietata che ha dato al mondo la parola “desaparecidos”. Ma i boliviani, gli ecuadoregni, gli argentini e gli altri hanno saputo rovesciare i loro dittatori senza ricorrere alle armi. E oggi hanno economie fiorenti e società progressiste. Certo, la storia cubana e quella statunitense delle origini dimostrano che una società con aspirazioni progressiste può nascere anche da una rivoluzione fatta con le armi: ma solo in congiunture storiche molto particolari e quindi estremamente rare.

Dunque il ricorso alle armi da parte dei giovani siriani “rivoluzionari” non era né necessario né avveduto ed è stato senz'altro “un fatto negativo”. Ovviamente il regime “non sarebbe mai caduto solo attraverso le manifestazioni”, ma sollevare una simile obiezione è pretestuoso: nessuno sostiene che bastino le manifestazioni! Anzi! Occorre, come si è appena detto, fare una “guerra di posizione” gramsciana, un lavoro meticoloso di costruzione di nuovi blocchi sociali e di nuove egemonie culturali – di cui i giovani siriani, impazienti, evidentemente non hanno voluto sapere. Con i risultati che vediamo.

Cosa possiamo fare ora, noi osservatori occidentali della crisi siriana, per essere di aiuto ai siriani impegnati a promuovere la pace e la giustizia nel loro paese?

Anzitutto possiamo assecondare, pubblicizzandole, quelle iniziative in Siria che puntano sulla ricomposizione sociale anziché sulla guerra civile, come il movimento Mussalaha. In Italia possiamo promuovere incontri tra i protagonisti siriani non violenti, come quello indetto dalla Comunità di sant'Egidio a Roma il 26 luglio scorso (ma più allargati).

Infine, possiamo denunciare le carenze dei reportage in TV sulla Siria, tutti faziosi ed interventisti. Come? Fornendo articoli di controinformazione a siti come peacelink.it e, tramite i blog, documentando le bufale nei reportage e, soprattutto, le colpevoli omissioni.

Infatti, per anni i mass media istituzionali hanno taciuto quanto stava succedendo in Siria, lasciando agire nell'ombra la CIA e lo State Department americani. Oggi i mass media parlano sì della Siria, ma focalizzano la nostra attenzione sulla superficie del conflitto attuale (“un popolo oppresso che lotta contro un dittatore spietato”), oscurando la guerra per procura tra gli Stati Uniti e la Russia che cova sotto (quanti sanno del duello virtuale tra le portaerei dei due paesi avvenuto sulle coste siriane lo scorso dicembre?) e, soprattutto, oscurando la guerra al popolo Siriano che l'allora Presidente americano Bush ha dichiarato nel 2005, finanziando una quinta colonna insurrezionale in Siria e inviando, nel paese levantino, degli squadroni della morte sauditi. Guerra che il suo successore Obama prosegue oggi, smistando armi pesanti tra le forze ESL e, per consentire loro di conquistare il potere, sabotando i tentativi di Kofi Annan di negoziare una tregua.

Quindi bisogna denunciare la faziosità dei mass media istituzionali e in particolare la loro copertura compiacente degli attori occulti del conflitto siriano. Il cast di attori è sterminato: russi, iraniani, cinesi, israeliani, qatariani, italiani (Finmeccanica), ecc. Ma spiccano sopra tutti gli USA, che fomentano l'insurrezione in Siria da ben sette anni (prima solo per tenere Assad in scacco, ora per impossessarsi del paese). Per questo motivo la Rete NoWar ha svolto martedì, 31 agosto 2012, una manifestazione davanti all'ambasciata degli Stati Uniti a Roma per dire allo Zio Sam: “Ti abbiamo scovato! Basta acuire la guerra civile! Basta armi dall'estero! Basta silurare i negoziati! Sì al piano di pace di Kofi Annan!”

VECCHI E NUOVI TEOREMI

Postato il Sabato, 11 agosto - comedonchisciotte -
FONTE: FASCINAZIONE.INFO
"...Noi ragioniamo come se vivessimo ancora nella prima metà del XX secolo e non ci rendiamo conto che la realtà è molto diversa. Il 1945 non segnò solo la nascita del bipolarismo mondiale con il tramonto delle ere nazionali e la contemporanea istituzionalizzazione del crimine organizzato su scala internazionale, ma anche l'avvio del processo di cessazione di sovranità e la costituzione di strutture supernazionali incaricate di gestire e di ammortizzare progetti e conflitti.
Oggi in Europa assistiamo ad una sin troppo evidente cessazione di sovranità progressiva in cui le singole potenze regionali cercano di portare comunque a casa il miglior risultato raggiungibile e di cedere il meno possibile di potere.
E questo ora lo vediamo e lo capiamo tutti. In forma più involuta e primitiva, ma anche più agguerrita e pretenziosa, è quanto accadde nei decenni trascorsi con codazzo di attentati e stragi. Gli “alleati” si combattevano per terrorismi interposti.
Se intorno ad Hypérion agivano indisturbati gruppi terroristici e servizi segreti dell'est e dell'ovest, è in quest'ottica che ciò avvenne e se ci fu tregua e cooperazione anche tra “nemici” giurati è perché esisteva e operava un consiglio direttivo sovranazionale fornito, con tanto di ideologia e strategia, dalla Commissione Trilaterale che, per inciso, partorì per intero l'amministrazione presidenziale di Giscard d'Estaing in Francia e quella di Carter in Usa.
...Prendiamo il teorema del nuovo antagonismo sud-nord e del pericolo islamico. E’ evidente come lo schema del passato venga replicato ed è anche più evidente che, a prescindere dalla propaganda, le relazioni tra componenti che dovrebbero odiarsi sono invece molto distese.
Le “primavere arabe” hanno registrato una santa alleanza tra Usa, Inghilterra, Francia e monarchie wahabite, fino al punto di armare e sostenere pubblicamente Al Qaeda dimenticandosi che, fino a qualche anno fa, dicevano che questa avesse abbattuto le Twin Towers.
Lo scenario insomma è quello di trenta e quarant’anni fa ma un tantino più orwelliano. In quanto alle metastrutture, oggi queste appaiono evidenti: l’uniformità dei media internazionali (Cnn, Bbc, Al Jazeera ecc) e la globalizzazione dei mercati nonché della comunicazione informatica hanno fatto fare un salto in avanti ai nostri cervelli ossidati e così riusciamo un po’ meglio a intravedere le strutture dell’epoca in cui viviamo.
Potremmo fare un salto ulteriore e capire, tramite ciò, anche quel che lo precedette. E dovremmo infine pensare a quel che seguirà. Si parla di una governance europea che la Commissione Trilaterale (toh guarda…) intende varare e istituzionalizzare in novembre.
Non parlo da reazionario in quanto sono europeista e sostenitore dell’Euro. Ho l’impressione però che si assista ancora una volta ad uno strappo strategico che, partito con le “primavere arabe” e con la neutralizzazione di Strauss-Kahn e della sua soluzione monetaria, avrà effetti deleteri e scompaginanti su quanto poteva ancora esserci di positivo.
Stavolta non ci sono state stragi significative, ma c’è sufficiente massacro quotidiano di genti, di società, di economie e di culture e si tratta, ancora e sempre, di una “rivoluzione dall’alto” mediante un dirigismo cinico e spietato.
I giovanotti che agirono a Bologna e altrove ora sono uomini maturi. E ancor di più lo è il mostro che hanno generato." Tratto da: “La strage alla stazione non fu un incidente di trasporto ma un complotto” - Intervista a Gabriele Adinolfi 8.08.2012

Sequestro dei beni ai politici

"E' davvero la crisi all'origine della maggioranza dei suicidi": i risultati di uno studio accademico

Autore: fabrizio salvatori - controlacrisi
       
La recessione che interessa l'Italia e il resto del mondo dal 2008 sembra sia davvero responsabile dell'aumento dei suicidi registrato in questo periodo. In tutto, fra il 2008 e il 2010, ben 290 suicidi e tentati suicidi sono attribuibili alla crisi. Roberto De Vogli, professore associato di salute globale all'Universita' del Michigan e all'Univesity College di Londra, arriva a questa conclusione assieme ai colleghi Michael Marmot (Department of Epidemiology and Public Health, University College di Londra) e David Stuckler (Department of Sociology, Universit… di Cambridge). Gli studiosi confermano che i suicidi a causa economica sono effettivamente aumentati in Italia dal 2008 a oggi e potrebbero essere riconducibili in parte alla crisi economica.
La ricerca (pubblicata in questi giorni sul Journal of Epidemiology and Community Health) ha analizzato le tendenze temporali dei dati sui suicidi e tentati suicidi per motivi economici tra il 2000 e il 2010. Sono stati utilizzati, spiega lo studioso italiano su ''La scienza in rete'' i dati provenienti dall'Istituto Nazionale di Statistica. Nonostante sia i suicidi che i tentati suicidi per motivi economici fossero in aumento già prima dell'inizio della crisi finanziaria, dal 2008 in poi sono cresciuti a un ritmo sicuramente più rapido. ''Poiché‚ i suicidi sono un evento raro, per aumentare la precisione delle stime - precisa De Vogli - abbiamo considerato insieme suicidi e tentati suicidi (che seguivano un andamento simile) e, con le dovute elaborazioni statistiche, abbiamo osservato che i suicidi e tentati suicidi sono cresciuti ad un tasso di 10,2 suicidi l'anno prima della crisi finanziaria, ma dopo questo periodo la percentuale Š salita a 53,9 suicidi l'anno. Abbiamo così stimato un numero di 290 suicidi e tentati suicidi in eccesso imputabili alla Grande Recessione''. Analogamente ad altri paesi europei, in Italia i suicidi complessivi sono diminuiti prima del 2008, per poi invertire rapidamente la loro tendenza all'insorgenza della crisi finanziaria. Ovviamente, spiega ancora De Vogli, sono necessarie ulteriori ricerche a livello regionale per valutare in modo più preciso l'effetto della Grande Recessione sui problemi di salute mentale in Italia. ''Ciò detto, questi risultati preliminari forniscono una nota di cautela e lanciano un segnale: la recessione e l'austerità economica radicale possono effettivamente comportare costi umani inaccettabili''.

‘Cittadini e operai liberi e pensanti’


di Alessandro Marescotti - wordpress -
Di seguito l’intervento che solo in parte Cataldo Ranieri del ‘Cittadini e operai liberi e pensanti’ è
riuscito a leggere durante la manifestazione dei sindacati dello scorso 2
agosto.

“Oggi, 2 agosto 2012, ricorre l’anniversario della strage di Bologna,
strage di Stato: oggi io qui voglio ricordare un’altra strage di Stato che
ha fatto in cinquant’anni centinaia di vittime sul lavoro, all’interno
dello stabilimento siderurgico, e migliaia fuori dallo stabilimento,
vittime dell’inquinamento. Su questo palco parlo a nome del Comitato
lavoratori e cittadini liberi e pensanti. Siamo operai Ilva, lavoratori
precari, disoccupati, studenti, uomini, donne e bambini. Liberi perchè
abbiamo scelto di sfilare in questo corteo non per appoggiare le posizioni
dei sindacati, nè per difendere la proprietà, e neanche per opporci alle
decisioni della magistratura. Siamo liberi perché abbiamo scelto di
spezzare le catene del ricatto occupazionale che da cinquant’anni tiene
sotto scacco questa città. Non siamo più disposti a rinunciare alla nostra
dignità di cittadini e lavoratori, costretti a dover scegliere tra il
diritto alla salute e il diritto al lavoro. Nessun Paese civile
permetterebbe mai quello che a Taranto è stato possibile per 50 anni: che
nella busta paga ci mettesero anche il tumore. Nessun Paese civile
dovrebbe essere messo con le spalle al muro. Oggi lo Stato italiano si
ritrova con le spalle al muro perché per 50 anni è stato complice di un
delitto. Il delitto è aver permesso che diritti fondamentali, come il
lavoro e la salute, fossero frutto di negoziazione. Avete negoziato sulla
nostra pelle per il profitto di pochi. Per mezzo secolo il nostro sudore
ha prodotto l’acciaio che ha sorretto l’economia e l’industria italiana ed
europea, senza che nessuno si preoccupasse dei veleni che da quelle
ciminiere ci venivano sputavano addosso. Per il vostro acciaio avete
distrutto vite, aziende, attività imprenditoriali e turistiche. Avete
distrutto il futuro e i sogni di una città intera, che era ricca di
cultura, storia e risorse. Nessuno si è mai preoccupato del prezzo
altissimo che questo territorio sta pagando. Ai sindacati di Taranto
vorrei ricordare che mai, negli ultmi 15 anni, avete convocato di vostra
iniziativa uno sciopero per difendere i diritti dei lavoratori. Ai miei
colleghi chiedo: “Vi ricordate che i segretari territoriali, la Fim, la
Fiom e la Uilm di Taranto abbiano negli ultimi anni convocato giornate di
sciopero per le vertenze locali? Per il rispetto delle norme di sicurezza,
per la tutela dell’ambiente?” Mai. Lo hanno fatto oggi, per difendere i
loro interessi e quelli della famiglia Riva. Allo stesso modo lo Stato
italiano, che prima di Riva, ha sfruttato e avvelenato questo territorio,
si è ricordato di Taranto quando ha visto in pericolo il suo profitto.
Fino ad oggi i lavoratori dell’Ilva sono stati carne da macello per lo
Stato italiano, e i cittadini di Taranto effetti collaterali di un sistema
industriale malato. Ai sindacati vorrei ricordare che sono nati per
difendere i diritti dei lavoratori e dei cittadini, diritti non
negoziabili su cui invece oggi state negoziando: il diritto al lavoro e il
diritto alla salute. . Che le istituzioni e la politica sappiano che da
oggi noi cittadini e lavoratori di Taranto non permetteremo più che le
decisioni vengano prese senza di noi. È finito il tempo dei protocolli
d’intesa e dei patti fatti sulla nostra pelle. Da oggi Taranto decide per
sè. È arrivato il momento di dire basta. Io lavoro in quella fabbrica da
15 anni, io so quello che succede là dentro. Noi lavoratori conosciamo i
veleni che escono da quella fabbrica e quando parliamo da uomini liberi, a
mensa, da uomo a uomo, non possiamo nasconderci la verità. Oggi maledico
l’ignoranza di mio padre che ha permesso che si costruisse questo
stabilimento ma lui non sapeva. Nè io nè voi possiamo permettere che i
nostri figli un giorno maledicano la nostra indifferenza per non aver
agito pur sapendo. Con o senza fabbrica abbiamo bisogno di tornare ad
essere lavoratori che hanno una dignità. La dignità di poter lavorare
senza che nessuno, dentro e fuori lo satbilimento, si ammali per colpa
dell’Ilva. E questa dignità non sarà il sindacato a ridarcela ma spetta a
noi riprendercela. Cittadini e lavoratori insieme, perchè questa battaglia
è di tutti. Per concludere chiedo a questa piazza di osservare un minuto
di silenzio per la strage di Stato che a Taranto dura da cinquant’anni”.

SAN LORENZO
THE NIGHT OF SHOOTING PRICKS

venerdì 10 agosto 2012

L'Europa mal-trattata

di Economistes atterrés - sbilanciamoci -

Dopo il “Manifesto degli economisti sgomenti” che in Francia ha venduto 80 mila copie – in Italia tradotto da Sbilanciamoci! come e-book Finanza da legare e stampato da Miminum fax – il gruppo di economisti francesi ha pubblicato L'Europe mal-traité (a cura di Benjamin Coriat, Thomas Coutrot, Dany Lang e Henri Sterdyniak, Les liens qui libèrent, 2012)

Il testo analizza i cambiamenti nelle regole europee e gli effetti del “Fiscal compact” in via di introduzione in questi mesi. Presentiamo qui le conclusioni del volume, che chiede di rifiutare il “Fiscal compact” – che sarà votato nelle prossime settimane dal parlamento francese – e propone alternative. È in preparazione l'edizione italiana del volume a cura di Sbilanciamoci! Per informazioni
Col “Fiscal compact” siamo arrivati all'”Europa post-democratica”, come afferma il filosofo tedesco Jurgen Habermas? La nostra analisi lo conferma. Il nuovo trattato europeo marginalizza ancora di più parlamenti e popoli. Radicalizzando la logica istituzionale liberista che ha condotto l'Europa in un vicolo cieco, porterà a una disarticolazione della zona euro rispetto all'insieme della costruzione europea. Il caos economico e sociale che ne risulterà avrà conseguenze incalcolabili, confrontabili solo con la crisi degli anni trenta. Gli effetti politici saranno senza dubbio una crescita irreversibile dell'estrema destra (…).
Il “Fiscal compact” avrà effetti depressivi così massicci che non potranno essere compensati da semplici “misure correttive” a scala europea. Tali misure saranno per forza insufficienti, viste le ridottissime dimensioni del bilancio europeo, fermo all'1,2% del Pil dell'Unione (…). Non c'è alternativa alla ricerca di una vera alternativa.
L'eurozona non uscirà dalla crisi attraverso una successione di piani di austerità che puntino a “rassicurare” i mercati finanziari. Una strategia di uscita dalla crisi, per essere efficace e sostenibile, richiede politiche diverse. Gli interventi che proponiamo qui non pretendono di essere una panacea; vogliono mostrare che alternative sono possibili e possono concretizzarsi in misure concrete.
1. Disarmare i mercati finanziari vietando le transazioni speculative (in particolare sui prodotti derivati detenuti senza contropartite reali, in modo che non sia più possibile scommettere sul fallimento degli stati).
2. Far garantire il debito pubblico dalla Banca centrale europea (Bce), in modo che tutti i paesi euro possano finanziarsi con titoli a dieci anni al 2%, il tasso senza rischi. Se necessario, far intervenire la Bce per l'acquisto di titoli di stato in modo da mantenere bassi i tassi d'interesse, come fanno ora le banche centrali di Usa e Regno Unito.
3. Rinegoziare i tassi eccessivi a cui alcuni paesi hanno dovuto indebitarsi a partire dal 2009 e ristrutturare il debito pubblico manifestamente insostenibile. Rimettere in discussione l'assunzione dei debiti delle banche da parte degli stati; in questa logica, non rimborsare i crediti accumulati attraverso l'evasione fiscale.
4. Mettere fine alla concorrenza fiscale tra paesi e avviare una vasta riforma fiscale per far pagare il costo della crisi tassando la finanza, le transazioni finanziarie, i redditi più alti, le imprese multinazionali e i patrimoni gonfiati dalle bolle finanziarie e immobiliari.
5. Vietare alle banche e alle imprese europee di avere attività e filiali nei paradisi fiscali.
6. Riformare profondamente il sistema bancario, concentrando le banche sulla distribuzione del credito, vietando loro le attività speculative, separando le banche di deposito dalle banche d'affari e costituendo un forte polo finanziario pubblico europeo, con un controllo sociale e democratico.
7. Creare Banche pubbliche per lo sviluppo sostenibile che raccolgano il risparmio delle famiglie.
8. Mettere fine alle politiche di austerità, rilanciare l'attività economica e avviare la transizione ecologica anche attraverso fondi raccolti dalle Banche pubbliche per lo sviluppo sostenibile.
9. Costruire un vero bilancio europeo, finanziato in particolare dalla tassazione delle transazioni finanziarie e da una fiscalità ecologica, in modo da assicurare i trasferimenti di risorse necessari alla convergenza delle economie reali.
10. Avviare una strategia di crescita sociale ed ecologica in quattro direzioni: una rivalorizzazione della Politica agricola comune, una forte regolamentazione della finanza, una politica industriale che organizzi l'indispensabile transizione ecologica, la costruzione di un'Europa sociale solida e condivisa.
11. Assicurare un vero coordinamento delle politiche macroeconomiche e una riduzione concertata degli squilibri commerciali tra i paesi europei. In questo quadro, i paesi con forti surplus commerciali dovranno finanziare i paesi in deficit con investimenti diretti o prestiti a lungo termine.
12. Elaborare in modo democratico un vero trattato per il coordinamento delle politiche economiche dei paesi Ue. Questo richiederà obiettivi in termini di convergenza reale delle economie, occupazione, sostenibilità ecologica. Dovrà avviare una strategia economica che utilizzi le politiche monetarie, fiscali, di bilancio, sociali e salariali, oltre alla politica del cambio della zona euro, per avvicinare i paesi alla piena occupazione.
Va da sé che queste dodici proposte non sono l'ultima parola e dovranno essere integrate. Sono però sufficientemente chiare e coerenti per aprire un indispensabile dibattito pubblico sul futuro dell'Europa e della zona euro. Noi, Economisti sgomenti, non possiamo che constatare la ripetuta, esasperante cecità delle élite europee, chiuse nell'autismo neoliberista, che concepiscono la politica economica solo come continua soppressione dei compromessi sociali e delle scelte democratiche. La nostra speranza è in un sussulto collettivo dei popoli europei. L'euro, nonostante la sua architettura distorta e insostenibile nel lungo termine, dà oggi ai popoli europei un interesse comune ad agire: un interesse comune a riappropriarsi delle istituzioni – in particolare della Banca centrale europea – che hanno in mano il loro destino. Il crollo – assai possibile – dell'euro negli anni a venire rischia di portare a un caos economico e politico dalle conseguenze incalcolabili.
È in un percorso comune di rifondazione dell'euro su basi di solidarietà e democrazia che sarà possibile evitare il peggio in Europa. Questo percorso dovrà fondarsi sulle mobilitazioni sociali europee, in quanto i responsabili che sono oggi ai vertici delle istituzioni europee appaiono immobili nei loro dogmi, lontanissimi dalle esigenze attuali. Con questo libro, mettendo queste analisi a disposizione dei cittadini, in collegamento con i nostri colleghi economisti critici di altri paesi europei, vogliamo contribuire, da parte nostra, a illuminare le strade possibili per l'urgente e indispensabile rifondazione di cui l'Europa ha oggi bisogno.

La lezione olandese

di Mario Pianta - sbilanciamoci -

Nell'Olanda dell'ortodossia liberista, il Partito socialista (di sinistra) potrebbe vincere le elezioni del 12 settembre con una campagna anti-austerità. Se c'è una politica alternativa, la democrazia può funzionare e le elezioni si possono vincere

Nessuno in Italia ha mai sentito nominare Emile Roemer. È oggi il politico più popolare d'Olanda, capo del Partito socialista (di sinistra) che secondo i sondaggi potrebbe diventare il primo partito del paese nelle elezioni del 12 settembre prossimo. Secondo i sondaggi di Maurice de Hond, i socialisti potrebbero passare da 15 a 34 seggi, i liberali del primo ministro Mark Rutte scenderebbero a 32, la destra sarebbe in calo. Per governare, serve una maggioranza di 76 seggi; i socialisti potrebbero allearsi con il più moderato partito laburista e con la GreenLeft; i liberali hanno un alleato storico nei democristiani, ma tutti questi partiti sono a terra nei sondaggi. Una parte importante dell'elettorato laburista e verde è deciso a scegliere i socialisti, ma i sondaggi suggeriscono che potrebbero raccogliere voti anche a destra. Il perché di questo possibile successo? La politica anti-austerità proposta dai socialisti, con una ferma opposizione ai 13 miliardi di euro di tagli al bilancio imposti dal governo per portare il deficit sotto il 3% del Pil, come chiesto dal “Fiscal compact” deciso dall'Unione europea.
Al ritorno dalle vacanze potremmo avere una nuova lezione sul valore della democrazia e sulla forza elettorale che può avere un'alternativa alla crisi e alle politiche neoliberiste. Non verrebbe più, come nel giugno scorso, dal paese più in difficoltà d'Europa, la Grecia, dove la sinistra radicale di Syriza, guidata dal giovane Alexis Tsipras, è arrivata a un passo dalla maggioranza. Questa volta verrebbe da uno dei pilastri dell'ortodossia neoliberista, l'Olanda, il più fedele alleato di Berlino, il paese che per primo era andato alle elezioni dopo lo scoppio della crisi e – incredibilmente – aveva scelto la destra, il liberismo di Mark Rutte e l'alleanza con la destra xenofoba e populista, il Partito della libertà di Geert Wilders, proprio quando il crollo della finanza e la recessione del 2009 mostravano a tutti i disastri del liberismo. Oggi in Olanda tutto sembra cambiare. Il voto a sinistra, il possibile consolidamento di un blocco sociale post-liberista vengono dalla semplice necessità di difendere i propri interessi. Ben diverso dalla spinta al cambiamento esplosa ad Atene, nata dalla disperazione per la tragedia greca. A rompere con il passato sarebbero i cittadini di un paese appena scalfito dalla crisi, con un basso debito pubblico (ma con un altissimo debito privato), che ha lungamente praticato politiche liberiste di ogni tipo (mercato del lavoro flessibile, part time diffusissimo, finanziarizzazione dell'economia), ma che continua ad affidarsi al welfare state.
In comune, Atene e l'Aia hanno la presenza di forze politiche emergenti che sanno andare oltre gli steccati della sinistra (e le sue divisioni), sanno parlare a tutti i cittadini, sanno presentare un'alternativa proprio quando i poteri forti – nazionali ed europei – insistono sul “non c'è alternativa”. Mantengono l'Europa come orizzonte, non si perdono in improbabili discussioni sull'uscita dall'euro (alimentate in questi giorni da un nuovo affondo dell'Economist), ma non si piegano ai ricatti del “Memorandum” greco o all'austerità imposta a tutti dal “Fiscal compact” che porterebbe l'Europa a una grande depressione. Riaprono una pratica della democrazia – a scala nazionale ed europea – proprio quando i nuovi trattati europei, come ha documentato l'articolo di Agenor pubblicato anche sul manifesto dell'8 agosto, tendono a soffocarla.
È un percorso non facile da realizzare. In Germania, Spd e verdi (con molte divisioni) hanno accettato un compromesso con il governo di Angela Merkel su “Fiscal compact” e politiche di austerità, mentre la Linke appare isolata e divisa. In Francia il “Fiscal compact” è stato accettato dal governo socialista di François Hollande, e andrà presto in Parlamento, dove non sarà votato da alcuni parlamentari verdi che fanno parte della maggioranza, oltre che dalla sinistra radicale (all'opposizione), che chiede un referendum sulla sua approvazione, e voci critiche si levano anche dall'interno del Partito socialista. A Parigi il dibattito è particolarmente acceso e le ragioni del rifiuto del “Fiscal compact” sono state efficacemente presentate nel volumetto degli Economisti sgomenti francesi “L'Europe mal-traité” (una sintesi è stata pubblicata anche dal manifesto del 10 agosto). Su altri fronti, tuttavia, François Hollande sta sperimentando la possibilità di cambiare segno alle politiche di austerità e nei primi mesi di governo ha ridotto gli stipendi ai ministri, aumentato (di assai poco) il salario minimo, limitato i tagli alle pensioni imposti da Sarkozy, assunto 8.000 persone nella scuola, riducendo di altrettanti i dipendenti della Difesa e delle forze armate, portato al 75% l'aliquota fiscale su chi guadagna più di un milione di euro, spinto le imprese a limitare i licenziamenti causati dalla crisi, messo sotto controllo gli affitti delle abitazioni. Piccoli passi, ma che mostrano come politiche redistributive, contro le disuguaglianze e a difesa del lavoro siano possibili anche in un quadro di “ortodossia” economica.
E l'Italia? Non può non colpire la distanza della politica italiana da tutti questi sviluppi. Delle misure già introdotte da François Hollande in Francia potrebbe non esserci nulla nel programma del centro-sinistra italiano. Il “Fiscal compact” e il pareggio di bilancio in Costituzione sono stati votati senza alcun dibattito, il governo Monti presenta la sua politica liberista come l'“ultima spiaggia” del paese e una parte del Partito democratico propone di farne il programma elettorale del centro-sinistra. Ma quella politica non riesce a ridurre la speculazione contro l'Italia, moltiplica gli interessi che dobbiamo pagare sul debito, fa cadere il Pil del 2,5%, lascia l'industria con una produzione di un quarto inferiore all'inizio della crisi, porta la disoccupazione al 9% e quella dei giovani (sotto i 25 anni) al 35%. Eppure, la continuità del “Montismo” sembra la via obbligata per centro-destra e centro-sinistra anche dopo le prossime elezioni, come ha efficacemente spiegato Marco Revelli sul manifesto del 7 agosto.
La politica italiana sembra incapace di discutere di chi paga il conto, di difendere gli interessi di nove italiani su dieci – i “perdenti” in questa lunga crisi –, di aggregare un blocco sociale che vada oltre confuse reazioni populiste, di ricostruire una politica fondata sulla democrazia (e su questi aspetti la risposta di Paolo Ferrero sul manifesto del 10 agosto è ancora troppo legata a logiche di schieramento). Si potrebbe cominciare dalle lezioni che ci vengono dall'Europa – Francia, Grecia e Olanda – e costruire un'altra politica a partire dalle alternative che sono possibili: limitare la finanza, tassare la ricchezza, rilanciare produzioni sostenibili, tutelare il lavoro. Dopo le proposte di “Un'altra strada per l'Europa” al Parlamento europeo a giugno e a Roma lo scorso luglio, la “Contro-Cernobbio” di Sbilanciamoci!, che si terrà dal 7 al 9 settembre alla Comunità di Capodarco (vicino a Fermo, info su www.sbilanciamoci.org), potrebbe essere l'occasione per una discussione sulle elezioni italiane degna dell'Europa.

Ferrero (prc) a Revelli (alba): costruiamo insieme la sinistra

- controlacrisi -
Ho molto apprezzato l’articolo di Marco Revelli apparso alcuni giorni fa sul manifesto. Condivido l’esigenza di dare corpo ad uno spazio pubblico di sinistra, che dia una risposta in avanti alle domande di cambiamento che non trovano soluzione nelle ipotesi politiche ad oggi presenti. Ritengo urgente fare un passo in avanti e scrivo queste note per aprire un dialogo esplicito, al di fuori di inutili diplomatismi.
1) Il governo Monti non è una parentesi ma un vero e proprio governo costituente. Se, come ci insegna Carl Schmitt, “sovrano è colui che decreta lo stato di emergenza”, Monti oggi incarna un potere sovrano che attraverso la produzione di paura e rassicurazioni sta realizzando in Italia una rivoluzione iperliberista e la contemporanea passivizzazione di massa. L’obiettivo perseguito è la sistematica distruzione dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, del welfare e la privatizzazione del complesso del patrimonio pubblico. La stessa recessione provocata dalle misure assunte dal governo e dalle forze politiche che lo sostengono, diventa parte integrante di questa azione, basata sull’annichilimento della popolazione, sullo shock per dirla con Naomi Klein.
2) Il carattere costituente dell’azione del governo proietta i suoi effetti ben al di la della sua durata temporale. Le misure assunte ristrutturano i rapporti sociali così come definiscono i confini delle politiche economiche. Il combinato disposto tra inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione e approvazione del Fiscal Compact non esauriscono la loro efficacia nei prossimi mesi. Rappresentano un vero e proprio binario obbligato, destinato a fissare per i prossimi anni la politica economica di ogni governo in carica. Il taglio del debito pubblico di 45 miliardi ogni anno per vent’anni è una camicia di forza che inchioda l’Italia a politiche iperliberiste, ben al di la della durata del governo Monti. Una volta messo il binario, dal treno in corsa ci si può affacciare dai finestrini di destra o di sinistra, si ha l’impressione di vedere un paesaggio diverso, ma la direzione è predeterminata.
3) Questo processo è intrecciato con una ristrutturazione dell’Europa che vede il proprio perno nell’uso politico della speculazione e nel ruolo di dominus della BCE. Le ultime scelte dei vertici di capo di stato e della BCE puntano infatti ad un doppio obiettivo: da un lato governare l’euro evitandone la deflagrazione. Dall’altro aumentare la capacità di pressione sui singoli paesi attraverso un commissariamento di fatto della politica economica e di bilancio. In questo contesto non è per nulla da escludere che il governo Monti arrivi a firmare un memorandum con l’Europa che determini un ulteriore vincolo per i futuri governi italiani.
4) In questo contesto è del tutto evidente che la proposta politica del PD, di unire moderati e progressisti nel governo del paese, non potrà che muoversi sui binari fissati da Monti, producendo minime variazioni sul tema. La valutazione negativa della proposta politica del PD non ha quindi un carattere astratto o pregiudiziale ma è data dal merito concreto della stessa. Le politiche insite nell’accettazione del Fiscal Compact sono destinate ad impoverire il paese, a stravolgere il quadro politico, sociale ed istituzionale costruito dopo la seconda guerra mondiale e basato sinteticamente sulla democrazia parlamentare, sullo sviluppo del welfare e sulla presenza decisiva del movimento operaio e sindacale. A scanso di equivoci non penso assolutamente che centro destra e centro sinistra siano la stessa cosa o avviano la stessa politica. Penso che il sostegno al governo Monti e la proposta politica avanzata dal PD – sia sul piano dei contenuti che sul piano delle alleanze - non ha nulla a che vedere con la soluzione dei problemi del paese e con l’uscita a sinistra dalla crisi.
Il punto oggi non consiste nell’interpretazione progressista del montismo ma nella radicale messa in discussione della strada imboccata dal governo Monti. Occorre mettere in discussione il Fiscal Compact e le politiche di stabilizzazione europee come fanno le sinistre in Europa, da Syriza al Front de Gauche, da Izquierda Unida alla Linke, per non citare che le più conosciute.
5) Per questo ritengo necessario costruire oggi in Italia uno spazio pubblico di sinistra che abbia un progetto radicalmente alternativo di costruzione dell’Europa. Non si tratta di costruire una piattaforma estremista ma di prospettare una uscita a sinistra dalla crisi che sappia intrecciare una politica alternativa sia sul piano europeo come su quello nazionale, come ha saputo fare Syriza in Grecia. I temi dei diritti del lavoro, dei beni comuni, dello sviluppo del welfare, dei diritti civili, della democrazia partecipata e della riconversione ambientale e sociale dell’economia rappresentano nodi centrali da affrontare. Questo progetto può realizzarsi solo se è capace di aggregare e di attivare il complesso delle soggettività che oggi in Italia si pongono sul terreno dell’alternativa di sinistra. Questa è la condizione per poter avanzare al paese una proposta politica chiara e credibile, che sia percepita come una opportunità e non come una residualità.
6) Io penso che oggi non esista alcuna forza politica organizzata – a partire da quella di cui faccio parte - che possa candidarsi a rappresentare da sola questo progetto. Per aggregare il complesso delle forze di sinistra e di alternativa che vi sono nel paese – e non sono poche – occorre dar vita ad un processo consapevolmente plurale in cui convergano esperienze diverse. Occorre costruire uno spazio pubblico in cui chi opera in un partito, una associazione come Alba, in un comitato, in un sindacato, in un movimento o semplicemente chi vuole impegnarsi per costruire l’alternativa, possa trovare il luogo ove costruire collettivamente. Non voglio fare elenchi perché ogni lista rischia di escludere piuttosto che includere. Occorre essere consapevoli del carattere plurale e pluralista di questa costruzione: non esiste oggi una cultura politica, una forma organizzata, una visione generale, che possa racchiudere il tema dell’alternativa o possa pensare di imporre agli altri e alle altre il proprio punto di vista o la propria prassi politica. Il rispetto della differenza e il riconoscimento della pari dignità dei diversi percorsi può e deve essere il punto fondante questa possibilità così necessaria. Propongo quindi di agire consapevolmente per la costruzione di una lista unitaria di sinistra che abbia nella democrazia, nella partecipazione e nel pluralismo politico- culturale il tratto distintivo e costituente. Non possiamo ripetere le tragiche esperienze della sinistra arcobaleno. Il carattere democratico e partecipato, basato sul principio di “una testa un voto” e non sulla contrattazione tra stati maggiori deve caratterizzare questo processo al fine di decidere programmi, modalità di presentazione alle elezioni, candidati. Federare, confederare, operare una tessitura politica decidendo democraticamente mi pare il percorso che dobbiamo intraprendere.
7) Dobbiamo quindi costruire un percorso democratico di formazione di una soggettività plurale della sinistra che abbia l’obiettivo esplicito di dar vita ad una lista per le prossime elezioni politiche. Questo percorso ha difficoltà a partire se non vi è un segnale politico chiaro. Questa esigenza è oggi largamente sentita nel paese ma non riesce a darsi forma finché non vi è la chiara apertura del processo. Siamo come in una situazione di sospensione: occorre che vi sia un atto costituente per far si che la soluzione “precipiti”. L’atto di partenza però non può contraddire le caratteristiche del processo: nessuno può convocare qualcun altro. E’ necessario che il segnale di partenza sia visibilmente plurale e unitario. Per questo mi fermo qui. Propongo a Marco come a tutti e tutte coloro che possono pensare di contribuire a dare questo segnale di ragionare insieme su come farlo, nel più breve tempo possibile. Io penso che a settembre dobbiamo dare questo segnale e dobbiamo essere in grado di far partire il processo di aggregazione: per costruire l’opposizione a Monti, per costruire una lista per le prossime elezioni, per ricostruire una sinistra degna di questo nome nel regno del montismo.
Paolo Ferrero - segretario del Partito della Rifondazione Comunista

MONTI ODIA LA DEMOCRAZIA

FRANCESCO PIOBBICHI  - controlacrisi -  
  
        MONTI: "Posso comprendere che devono tenere conto dei propri parlamenti. Ma un parlamento ed una Corte Costituzionale in fondo ci sono in ogni paese dell’Unione europea. E naturalmente ogni governo deve attenersi alle decisioni del proprio parlamento. Ma ogni governo ha anche il dovere di educare il parlamento. Se mi fossi attenuto meccanicamente alle direttive del mio parlamento, non avrei potuto approvare le decisioni dell’ultimo vertice di Bruxelles". Questa frase che Monti ha rilasciato recentemente è di una gravità senza precedenti. Per comprendere la portata di quanto detto provate ad immaginare cosa sarebbe successo se queste parole le avesse pronunciate Berlusconi quando era al Governo. In quel caso avremmo gridato al Golpe, saremmo scesi in piazza e fatto un gran casino. Invece nulla di tutto questo, anzi, le parole pronunciate da Monti sono state difese pubblicamente da Bersani con una naturalezza che lascia basiti. Sostenere che i parlamenti vanno "educati" dagli esecutivi come ha detto Monti ci porta nella fase matura dell'autoritarismo del capitalismo oligarchico, nella strada a vicolo chiuso dello svuotamento della democrazia parlamentare. Sì, è vero, direte che i parlamenti sono già oggi di fatto espropriati dalle loro funzioni: essi ratificano trattati che sono decisi altrove e subiscono ripetute procedure legislative di carattere d'urgenza che ne restringono pesantemente le funzioni; ma le parole di Monti hanno un qualcosa in più, hanno un indirizzo profondamente autoritario che segna un salto di qualità.
Per Monti i parlamenti vanno educati, cioè devono essere in gran parte disciplinati alle esigenze che impone nella crisi la ristrutturazione capitalista. Per uno come Monti insomma la sede legislativa è una sorta di panopticom in cui i deputati eletti sono osservati dal potere tecnico finanziario di cui lui è la massima espressione. La politica insomma deve essere educata e piegata all'ideologia liberista, ed i maleducati vanno messi fuori. Penso che le parole di Monti nascondono un odio profondo per la democrazia e la mediazione sociale, del resto è stato proprio lui ad appendere al muro -da destra- la concertazione.
Il fatto che Bersani abbia difeso queste parole indecenti segna una metamorfosi definitiva anche deel PD, disposto oramai a difendere gli oltraggi alla nostra democrazia dopo aver manomesso la nostra Costituzione con l'inserimento del vincolo di bilancio e la ratifica del Fiscal compact.

Da “Der Spiegel” del 6.8.2012
Un fronte tra Nord e Sud
Il presidente del Consiglio dei ministri italiano Mario Monti, 69 anni, si lamenta che coloro che
guidano gli stati del continente fanno troppo poco per fermare l’erosione dell’Europa. Chiede
maggiore condivisone (colloquio condotto dai redattori Fiona Ehlers e Hans Hoyng)
SPIEGEL: Signor presidente, ancora una volta l’euro è in grande difficoltà, le voci che parlano di
una frattura si fanno più forti. Ha già rinunciato alle sue vacanze?
MONTI: Ho solo sei giorni e spero che non saltino. Tuttavia guardo all’estate in modo
relativamente tranquillo. Per quanto riguarda la Grecia ovviamente c’è ancora un rischio…
SPIEGEL:… perché l’insolvibilità sembra inevitabile…
MONTI:… ma dopo una lunga preparazione, nell’ultimo vertice di Bruxelles alla fine di giugno
abbiamo raggiunto risultati complessivamente buoni che devono consentire ai mercati una migliore
valutazione su quanto in effetti sia solida l’area-euro.


TOP ITALIAN MAGISTRATE RESEARCHING STATE-MAFIA COLLUSION IS TRANSFERRED TO GUATEMALA

giovedì 9 agosto 2012

Sondaggi ...

Il peggior presidente della Repubblica


In Italia ci sono stati 11 presidenti della Repubblica eletti dai partiti riuniti in Parlamento. Il primo fu Enrico De Nicola nel luglio 1946 e l'ultimo Giorgio Napolitano il 15 maggio del 2006. Per diventare presidente della Repubblica è necessario disporre di alcuni requisiti: avere una certa età, meglio se alle soglie della senescenza, essere di sesso maschile, disporre di una laurea (obbligatorio!), aver fatto militanza politica in un partito (Ciampi è l'eccezione che conferma la regola) e aver vissuto di stipendi pubblici per quasi tutta la vita (Pertini muratore in Francia non fa testo). La laurea in giurisprudenza è la più ricorrente, gli ultimi cinque presidenti si sono laureati in questa disciplina. Ingegneri, fisici, matematici e, in genere chiunque abbia conseguito un titolo scientifico, sono esclusi dalla competizione presidenziale. Un quarto di lombo nobiliare o lontane ascendenze aristocratiche, aiutano chi, alla soglia della quarta età, voglia trasferirsi al Quirinale. Un normale lavoratore non ha alcuna speranza di accedere al soglio.
Chi diventa presidente di solito acquisisce una salute di ferro nonostante gli anni (Segni fu l'unico a lasciare per trombosi cerebrale). Il Presidente più invecchia, più diventa arzillo. La presidenza è meglio del Viagra. I suoi compagni di liceo sono normalmente ricoverati in un ospizio o interdetti dalla famiglia, mentre lui monita giorno dopo giorno. Mettereste un timoniere ottuagenario alla guida di una nave in tempesta? In Italia è la norma. Di solito il presidente assume, insieme alla massima carica dello Stato, il ruolo ufficioso di segretario del partito di appartenenza, salvando però le forme e il bon ton. Non si tratta di conflitto di interessi, ma di consuetudine dovuta a una decennale militanza. Se il Papa è infallibile, il Presidente è quasi infallibile, ma, al contrario del Papa, non si può criticare.
Cercasi ottantenne, maschio, laureato in giurisprudenza, pluridecennale esperienza partitica, per la prossima presidenza della Repubblica. Astenersi lavoratori.

Il sondaggio di oggi è sul peggior presidente della Repubblica tra De Nicola, Einaudi, Gronchi, Segni, Saragat, Leone, Pertini, Cossiga, Scalfaro, Ciampi, Napolitano. Votate, votate, votate!
Ps. Il sondaggio verrà chiuso il 10 agosto alle ore 14. Guarda i risultati.

Fermare il “delirio”. Analisi di un manifesto liberista

Posted by keynesblog

“Fermare il declino” è il titolo del manifesto di quello che si candida ad essere un nuovo partito liberale-liberista-libertarian, promosso da alcuni liberisti noti al grande pubblico come Oscar Giannino e Michele Boldrin. Al manifesto hanno aderito anche diversi esponenti del partito di Fini e della fondazione di Luca Cordero di Montezemolo.
Analizzeremo qui, punto per punto, le proposte avanzate nel documento.

1) Ridurre l’ammontare del debito pubblico: è possibile scendere rapidamente sotto la soglia simbolica del 100% del PIL anche attraverso alienazioni del patrimonio pubblico, composto sia da immobili non vincolati sia da imprese o quote di esse.
E’ stato già fatto negli ultimi 20 anni. Dopo la cessione a Fiat dell’Alfa Romeo (anni 80), nel decennio seguente l’Italia ha realizzato un’enorme dismissione di partecipazioni statali, tra cui:
  1. Alimentari: Sme, Gs, Autogrill, Cirio Bertolli De Rica, Pavesi
  2. Siderurgia, alluminio, vetro: Italsider, Acciarieri di Terni, Dalmine, Acciaierie e Ferriere di Piombino, Csc, Alumix, Cementir, Siv
  3. Chimica: Montefibre, Enichem Augusta, Inca International, Alcantara
  4. Meccanica ed elettromeccanica: Nuovo Pignone, Italimpianti, Elsag Bailey Process Automation, Savio Macchine Tessili, Esaote Biomedica, VitroselEnia, Dea, Alenia Marconi Communication
  5. Costruzioni: Società Italiana per Condotte d’Acqua
  6. TLC: Telecom Italia
  7. Editoria e pubblicità: Seat Pagine Gialle, Editrice Il Giorno, Nuova Same
  8. Banche e assicurazioni: BNL, INA, IMI, ecc.
  9. Trasporti: Società Autostrade
Negli anni 2000, inoltre, il governo ha messo sul mercato ingenti quantità di immobili di proprietà dello stato.
Questo non ha fatto “scendere rapidamente” il debito pubblico, visto anche che molte di queste società sono state vendute a prezzi bassi a causa della crisi degli inizi degli anni ’90.
Il risultato netto di queste privatizzazioni è che oggi le imprese italiane che hanno una qualche rilevanza internazionale sono solo le due principali aziende ancora controllate dallo stato: Eni ed Enel. L’esatto opposto di quello che i promotori dell’appello sostengono riguardo la presunta efficienza del privato e la irriformabile inefficienza del pubblico.

2) Ridurre la spesa pubblica di almeno 6 punti percentuali del PIL nell’arco di 5 anni. La spending review deve costituire il primo passo di un ripensamento complessivo della spesa, a partire dai costi della casta politico-burocratica e dai sussidi alle imprese (inclusi gli organi di informazione). Ripensare in modo organico le grandi voci di spesa, quali sanità e istruzione, introducendo meccanismi competitivi all’interno di quei settori. Riformare il sistema pensionistico per garantire vera equità inter—e intra—generazionale.
Al di là degli ammiccamenti populisti (“i costi della casta politico-burocratica”; chissà perché non i costi della casta degli economisti che sbagliano le previsioni) il punto centrale è “Ripensare in modo organico le grandi voci di spesa, quali sanità e istruzione”. Ma la nostra spesa sanitaria non è affatto eccessiva, anzi è sotto la media OCSE. Addirittura è minore della sola spesa pubblica pro-capite negli Stati Uniti, assicurando però una copertura maggiore, ed è inferiore a quella di paesi come il Regno Unito, il Canada, la Francia, la Germania.
Spesa sanitaria procapite (pubblica e privata); fonte OCSE 2007, elaborazione Sole24Ore
Gli estensori dell’appello forse dovrebbero essere più chiari: quanti infermieri e medici occorre licenziare? Quanti insegnanti perderanno il loro posto di lavoro? E che dire della spesa per gli altissimi interessi che paghiamo sul debito pubblico? Perché non se ne fa alcun cenno?
Riguardo i sussidi alle imprese, rimandiamo a quanto già detto in un precedente articolo.
3) Ridurre la pressione fiscale complessiva di almeno 5 punti in 5 anni, dando la priorità alla riduzione delle imposte sul reddito da lavoro e d’impresa. Semplificare il sistema tributario e combattere l’evasione fiscale destinando il gettito alla riduzione delle imposte.
Tutti vogliamo meno tasse. Il problema è fare in modo che il maggiore reddito disponibile non finisca in risparmio. Per ora quel che succede è che lo Stato preleva dalle tasche degli italiani troppo e lo destina in quantità sempre crescenti a pagare gli interessi ai rentier (sia italiani che stranieri) detentori di titoli di stato. Forse sarebbe il caso di analizzare come risolvere questo problema, dopodiché abbassare le tasse sarà facile senza compromettere i servizi.
4) Liberalizzare rapidamente i settori ancora non pienamente concorrenziali quali, a titolo di esempio: trasporti, energia, poste, telecomunicazioni, servizi professionali e banche (inclusi gli assetti proprietari). Privatizzare le imprese pubbliche con modalità e obiettivi pro-concorrenziali nei rispettivi settori. Inserire nella Costituzione il principio della concorrenza come metodo di funzionamento del sistema economico, contro privilegi e monopoli d’ogni sorta. Privatizzare la RAI, abolire canone e tetto pubblicitario, eliminare il duopolio imperfetto su cui il settore si regge favorendo la concorrenza. Affidare i servizi pubblici, incluso quello radiotelevisivo, tramite gara fra imprese concorrenti.
La concorrenza nei trasporti ferroviari c’è da alcuni mesi: il risultato è che le tariffe standard sono sostanzialmente le stesse tra operatore pubblico e privato, mentre le FS, pressate dalla concorrenza, sono indotte a ridurre i servizi meno remunerativi (treni notte, trasporto locale).
L’energia è già liberalizzata. Per la verità, se si guarda questo grafico, si nota come le tariffe di mercati liberalizzati da più tempo siano cresciute più delle nostre e soprattutto più di quelle francesi, dove la liberalizzazione è molto indietro e il principale operatore è una società controllata dallo stato (ma è largamente indipendente dal petrolio).
Variazioni dei prezzi dell’elettricità nei principali paesi europei
(percentuali sull’anno precedente) – Autority energia ed Eurostat
Quanto alle privatizzazioni, di cui si è già detto, aggiungiamo che questo è senz’altro il momento meno indicato a causa della svalutazione delle nostre imprese, che già sta favorendo importanti acquisizioni estere.
5) Sostenere i livelli di reddito di chi momentaneamente perde il lavoro anziché tutelare il posto di lavoro esistente o le imprese inefficienti. Tutti i lavoratori, indipendentemente dalla dimensione dell’impresa in cui lavoravano, devono godere di un sussidio di disoccupazione e di strumenti di formazione che permettano e incentivino la ricerca di un nuovo posto di lavoro quando necessario, scoraggiando altresì la cultura della dipendenza dallo Stato. Il pubblico impiego deve essere governato dalle stesse norme che sovrintendono al lavoro privato introducendo maggiore flessibilità sia del rapporto di lavoro che in costanza del rapporto di lavoro.
Dal 2003 l’Italia ha diminuito le protezioni dai licenziamenti (cioè ha aumentato la flessibilità) più di ogni altro paese OCSE. Il risultato è che l’occupazione non è aumentata, l’incertezza è diventata la condizione standard del lavoratore, i figli guadagnano meno dei padri. Ovviamente non si è proceduto ad alcuna compensazione in termini di welfare: difficile sostenere contemporaneamente che occorre diminuire la spesa pubblica mentre si propongono misure che la farebbero aumentare a dismisura. A meno che tali costi non siano a carico di imprese e lavoratori, ovvero si trasformino in un aumento dei contributi (quindi dell’imposizione). Ma non si era detto al punto 3) di diminuire la tassazione su lavoro e imprese?
Da questo punto in poi procederemo più velocemente perché si tratta di ovvietà o di ripetizioni dei punti precedenti.
6) Adottare immediatamente una legislazione organica sui conflitti d’interesse.
Nulla da dire.
7) Far funzionare la giustizia. Riformare il codice di procedura e la carriera dei magistrati, con netta distinzione dei percorsi e avanzamento basato sulla performance; no agli avanzamenti di carriera dovuti alla sola anzianità. Introdurre e sviluppare forme di specializzazione che siano in grado di far crescere l’efficienza e la prevedibilità delle decisioni. Difendere l’indipendenza di tutta la magistratura, sia inquirente che giudicante. Assicurare la terzietà dei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati. Gestione professionale dei tribunali generalizzando i modelli adottati in alcuni di essi. Assicurare la certezza della pena da scontare in un sistema carcerario umanizzato.
Un sistema carcerario umanizzato richiede più spesa, ma non possiamo farla perché il punto 2) dice che dobbiamo ridurla. Stranamente però, il manifesto “liberale” non dice nulla circa la depenalizzazione dei reati “fascistissimi” che non sono percepiti più come tali: consumo di droghe, violazioni del copyright, ingiuria, ecc. Questo farebbe risparmiare tempo e denaro e farebbe funzionare più speditamente la giustizia, molto più che la “netta distinzione dei percorsi”.
8) Liberare le potenzialità di crescita, lavoro e creatività dei giovani e delle donne, oggi in gran parte esclusi dal mercato del lavoro e dagli ambiti più rilevanti del potere economico e politico. Non esiste una singola misura in grado di farci raggiungere questo obiettivo; occorre agire per eliminare il dualismo occupazionale, scoraggiare la discriminazione di età e sesso nel mondo del lavoro, offrire strumenti di assicurazione contro la disoccupazione, facilitare la creazione di nuove imprese, permettere effettiva mobilità meritocratica in ogni settore dell’economia e della società e, finalmente, rifondare il sistema educativo.
“Eliminare il dualismo occupazionale” richiederebbe dare ai giovani le stesse garanzie dei padri. Ma questo è l’opposto di quanto affermato in precedenza. L’alternativa è fare il contrario, ovvero togliere garanzie ai lavoratori a tempo indeterminato, come si è iniziato a fare con la riforma dell’art.18. Ma come questo aiuterebbe i giovani è difficile immaginarlo. Riguardo gli “strumenti di assicurazione contro la disoccupazione” si è già detto.
“Facilitare la creazione di nuove imprese”: è stato già fatto. Ora si può aprire un’impresa con un solo euro. Trovare un cliente che si fidi di una società senza capitali è altro discorso. Peraltro il problema del nostro paese è l’esatto opposto: ci sono troppe aziende e troppo piccole per realizzare quelle necessarie economie di scala che permettano l’aumento della produttività.
9) Ridare alla scuola e all’università il ruolo, perso da tempo, di volani dell’emancipazione socio-economica delle nuove generazioni. Non si tratta di spendere di meno, occorre anzi trovare le risorse per spendere di più in educazione e ricerca. Però, prima di aggiungere benzina nel motore di una macchina che non funziona, occorre farla funzionare bene. Questo significa spendere meglio e più efficacemente le risorse già disponibili. Vanno pertanto introdotti cambiamenti sistemici: la concorrenza fra istituzioni scolastiche e la selezione meritocratica di docenti e studenti devono trasformarsi nelle linee guida di un rinnovato sistema educativo. Va abolito il valore legale del titolo di studio.
Ma come, non si era detto al punto 2) che bisogna intervenire anche sull’istruzione per ridurre le spese? Riguardo all’abolizione del valore legale del titolo di studio, gli unici che se ne avvantaggerebbero sono le scuole e le università private, come accade negli Stati Uniti.
10) Introdurre il vero federalismo con l’attribuzione di ruoli chiari e coerenti ai diversi livelli di governo. Un federalismo che assicuri ampia autonomia sia di spesa che di entrata agli enti locali rilevanti ma che, al tempo stesso, punisca in modo severo gli amministratori di quegli enti che non mantengono il pareggio di bilancio rendendoli responsabili, di fronte ai propri elettori, delle scelte compiute. Totale trasparenza dei bilanci delle pubbliche amministrazioni e delle società partecipate da enti pubblici con l’obbligo della loro pubblicazione sui rispettivi siti Internet. La stessa “questione meridionale” va affrontata in questo contesto, abbandonando la dannosa e fallimentare politica di sussidi seguita nell’ultimo mezzo secolo.
Il federalismo porta ad aumentare l’inefficienza moltiplicando i centri di spesa e di decisione. Non a caso infatti nella spending review si è puntato molto sugli acquisti centralizzati. Si guardi alle Regioni che già oggi sono più autonome, come la Val d’Aosta e la Sicilia: non esattamente un modello in termini di efficienza. Certo, il manifesto parla di “pareggio di bilancio”, ma dare alle Regioni una più ampia autonomia in termini di entrate significa una cosa semplice: più tasse. Darla in termini di spesa significa più spesa, magari in prebende agli amici degli amici, come ci ricordano sempre gli stessi firmatari del manifesto. Il pareggio di bilancio si fa anche tassando al 100% i redditi privati e spendendo il 100% degli introiti: gli estensori dell’appello vogliono una repubblica federale socialista?
La strada è semmai opposta, a partire dall’abolizione delle province (tutte).
In conclusione, il manifesto “Fermare il declino” potrebbe tradursi in “accelerare la caduta” o “ripetere gli stessi errori”. I suoi estensori appaiono in definitiva animati da una sorta di visione “delirante” della crisi, in quanto staccata dalla realtà dei fatti e spesso autocontraddittoria. Ma, al di là della buona fede di costoro, il ridimensionamento del settore pubblico ha ben altri e più smaliziati sponsor.

Non e' solo un bluff?

di Zag - ListaSinistra -
Quando si parla di inquinamento a Taranto forse non ci si rende conto di cosa si sta parlano. Troppo generico, troppo aleatorio. Forse viene in mente lo smog delle nostre città. Lo smog di Roma, di Milano. No! A Taranto l'inquinamento è diverso.
Alzi gli occhi al cielo e vedi in controluce brillantini.
E' polvere di ferro!
Ti soffi il naso e il muco è color rosso.
E' minerale di ferro.
Sotto la doccia l'acqua che scorre scende di color nero.
Non è solo sporcizia è polvere di carbone!
E puoi metterci chili di sapone e shampoo. Addosso ti sentirai sempre un che di vischioso , scivoloso.
E' l'oleosità della povere di carbone.
E tutto questo non solo per chi dentro il "Siderurgico" ci lavora , non solo per chi abita nelle immediate vicinanze dei parchi minerali , nel rione Tamburi o a Statte, ma in tutta la città.
E questo è solo per quel che si vede e che si tocca.
Poi c'è anche quello che si respira , ma che non si vede e non si sente.
E' diossina.

Do alcuni...numeri Sono tratti dalle conclusioni dei periti della Procura della Repubblica presi dal riassunto Peacelink.

1) Nel 2010 Ilva ha emesso dai propri camini oltre
4 mila tonnellate di polveri,
11 mila tonnellate di diossido di azoto e
11 mila e 300 tonnellate di anidride solforosa
(oltre a: 7 tonnellate di acido cloridrico;
1 tonnellata e 300 chili di benzene;
338,5 chili di IPA;
52,5 grammi di benzo(a)pirene;
14,9 grammi di composti organici dibenzo-p-diossine e policlorodibenzofurani (PCDD/F). Vedere pag. 517 della perizia dei chimici.

2) I livelli di diossina e PCB rinvenuti negli animali abbattuti e accertati nei terreni circostanti l’area industriale di Taranto sono riconducibili alle emissioni di fumi e polveri dello stabilimento Ilva di Taranto. Vedere pag. 521 della perizia dei chimici.

3) La stessa Ilva stima che le sostanze non convogliate emesse dai suoi stabilimenti sono quantificate in 2148 tonnellate di polveri; 8800 chili di IPA; 15 tonnellate e 400 chili di benzene; 130 tonnellate di acido solfidrico; 64 tonnellate di anidride solforosa e 467 tonnellate e 700 chili di Composti Organici Volatili. Vedere pag. 528 della perizia dei chimici.

4) La fuoriuscita di gas e nubi rossastre dal siderurgico (slopping), fenomeno documentato dai periti chimici e dai carabinieri del NOE di Lecce, ammonta a 544 tonnellate all’anno di polveri? Vedere pag. 528 della perizia dei chimici.

5) Sarebbero 386 i morti (30 morti per anno) attribuibili alle emissioni industriali. Vedere pag. 219 della perizia degli epidemiologi.

6) Sono 237 i casi di tumore maligno con diagnosi da ricovero ospedaliero (18 casi per anno) attribuibili alle emissioni industriali. Vedere pag. 219 della perizia degli epidemiologi.

7) Sono 247 gli eventi coronarici con ricorso al ricovero (19 per anno) attribuiti alle emissioni industriali. Vedere pag. 219 della perizia degli epidemiologi.

8 ) Sono 937 i casi di ricovero ospedaliero per malattie respiratorie (74 per anno) (in gran parte tra i bambini) attribuiti alle emissioni industriali. Vedere pag. 219 della perizia degli epidemiologi.

9) Sono 17 i casi di tumore maligno tra i bambini con diagnosi da ricovero ospedaliero attribuibili alle emissioni industriali. Vedere pag. 220 della perizia degli epidemiologi.

10) I periti hanno concluso che l’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dall’impianto siderurgico ha causato e causa nella popolazione “fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”.

Allora di fronte a questi dati, di fronte alla vetustà degli impianti del ciclo a caldo, di fronte alla vicinanza dei parchi minerali alla cità è credibile che 336 milioni possano portare ad intaccare questi dati? o non è solo un bluff?
--
Zag(c)
Grave è la situazione sotto il cielo. Però la situazione non è eccellente!


SICKLE AND HAMMER THROW
Nichi Vendola former extreme

radical left looking for new alliances. gold

mercoledì 8 agosto 2012

Se la crisi fa rinascere il nazionalismo tedesco

Fonte: il manifesto | Autore: Marco Bascetta
Non è una novità che dal dopoguerra ad oggi serpeggino in Europa sentimenti antitedeschi, segnatamente in Francia e in Italia, ma non solo. Altrettanto evidente è che si è trattato e si tratta prevalentemente di un brontolio, accompagnato da una profonda deferenza e certamente dalla radicata convinzione che la Germania sia stata vaccinata per sempre da ogni aggressività politico-militare nei confronti dei suoi vicini e del mondo intero.
A rispecchiare l’«antigermanesimo» popolare valevano più le sconclusionate Sturmtruppen di Bonvi con il loro buffo linguaggio che non una reale ostilità. I governi tedeschi ne sono sempre stati ben consapevoli e non se ne sono mai seriamente preoccupati, sempre meno con il passare degli anni. Molto di più hanno sofferto gli americani, che, da sempre e senza interruzioni, si sono sentiti di incarnare «l’impero del bene», dell’ostilità incontrata a più riprese in varie contrade del pianeta e nell’opinione pubblica mondiale. Cosicché l’allarme lanciato da Mario Monti in una intervista al settimanale Der Spiegel sul rischio di un acuirsi del sentimento antitedesco in Italia, nell’opinione pubblica e nel parlamento, non spaventerà di certo il governo di Berlino inducendolo a «concedere più flessibilità» e a contrastare la «dissoluzione psicologica dell’Europa».
Ai tedeschi andrebbe posta invece un’altra serissima domanda. Ha continuato a esistere nel dopoguerra ed esiste ancora oggi un nazionalismo germanico? E in quale forma? Senza, beninteso, cadere nei ridicoli richiami al terzo Reich con cui si diletta la stampa-spazzatura della destra nostrana. La risposta, a mio parere, è affermativa, anche se l’inclinazione nazionalista non riguarda l’intera società tedesca, è bandita come ideologia conclamata dalle principali forze politiche e tenuta a freno (ma niente affatto annientata) dai governi che si sono succeduti a Bonn e poi a Berlino.

I padroni del mercato: ecco chi comanda sui listini

Marianna Tramontano - ilsole24ore -

I mercati possono essere rappresentati come una grande ragnatela . A tesserla sono quelli che vengono definiti i “giganti della finanza”: banche, i grandi fondi e le agenzie di rating. I big non solo muovono da soli e per conto di terzi masse enormi di denaro, ma con i loro report influenzano gli altri.

Secondo le stime di qualche anno fa di Mc Kinsey, i giganti della finanza hanno in gestione nel mondo qualcosa come 25mila miliardi di dollari. 18mila miliardi i fondi comuni, 16mila miliardi in assicurazioni, 5mila miliardi i fondi sovrani. Denari non equamente distribuiti ma concentrati nelle mani di pochi che ne controllano la quota maggiore. Ci sono poi le grandi banche che fanno girare la fetta maggiore dei mercati finanziari: i primi 5 istituti americani detengono per esempio 310mila miliardi di dollari derivati.
L’infografica mostra la ragnatela dei mercati e i maggiori investitori che la tessono:
 
I padroni del mercato:ecco chi comanda sui listini
Le banche
Le banche, le cosiddette “too big to fail”, non solo hanno attivi totali giganteschi ma svolgono anche attività intrecciate facendo girare somme enormi di denaro. Mckinsey posiziona Barclays e JP Morgan tra i primi 10 più grandi investitori del mondo. Contemporaneamente le stesse banche gestiscono i soldi propri, investendoli sul mercato. Inoltre, svolgono anche il servizio di broker, intermediando per conto di clienti le compravendite di azioni, bond o derivati. Questo non permette loro di determinare i prezzi direttamente, ma di influire sullo spread.
Infine, svolgono attività di prestito di titoli.
I grandi fondi
Tra i grandi fondi BlackRock è il maggiore: oltre ad avere in gestione 3.513 miliardi di dollari, il colosso vende a 200 investitori in tutto il mondo il suo software di gestione dei rischi. Indirettamente questo software potrebbe influenzare 9.500 miliardi di dollari.
I grandi fondi e le banche pubblicano studi sugli Stati, report che essendo prodotti dai big della finanza producono effetti tangibili.
Le agenzie di rating
Le agenzie di rating, o i signori delle pagelle, non investono e non muovono denaro ma con i loro giudizi influenzano le decisioni di milioni di investitori. Perché avviene: tanti fondi sono vincolati, nei loro investimenti, dai rating. Annachiara Marcandilli, managing director di Cambridge Associates, racconta:”Molti fondi hanno nei documenti costitutivi l’imperativo di tenere titoli valutati Tripla A. Qunado Standard & Poor’s ha declassato gli Stati Uniti, tanti hanno dovuto adeguare gli statuti per non essere costretti a vendere T-Bond”.
Tutti questi soggetti sono in gran parte intrecciati da legami azionari l’uno all’altro.
Da Il Sole 24 Ore – In manovra i 40 “re” dei mercati

DADDY,WHY ARE ALWAYS THE BLACKS WINNING?
Because we are a superior race…they play and we look at them on our armchairs

martedì 7 agosto 2012

La Siria e gli interessi dell’Occidente - Walter Lenzi

 
siria_free.jpg

 - Fonte -

"Quello che sta succedendo ad Aleppo e a Damasco è evidente. Qual è il ruolo che giocano in questo scenario le varie forze? C’è da tenere presente innanzitutto che siamo di fronte a una coalizione conflittuale composta da Unione Europea, Stati Uniti, Turchia e dai sei regimi più reazionari della penisola arabica, riuniti nel Gulf Cooperation Council: Arabia Saudita, Bahrain, Qatar, Oman, Emirati Arabi Uniti e Kuwait, che sta lavorando per arginare e mettere sotto tutela le primavere arabe utilizzando come forze di “cambiamento compatibile” l’Islam politico sunnita diviso in due principali filoni: quello dei fratelli musulmani, che ha come sponsor il Qatar dove opera Al Jaziira che è stato il megafono di quella che viene chiamata rivolta siriana, ma che è semplicemente una proiezione militare di questo Islam sunnita e, dall’altra parte, quello salafita legato all’Arabia Saudita. Le forze in campo sono queste: Unione Europea, Stati Uniti, Turchia e sei regimi della penisola arabica." Walter Lenzi

Intervista a Walter Lenzi di Disarmiamoli.org
La primavera araba 
Io ringrazio il blog di Beppe Grillo che ci dà la possibilità di esprimere un punto di vista inusuale su quello che sta succedendo in Siria in questo momento. Parlo a nome della rete nazionale "Disarmiamoli", una rete antimilitarista e contro la guerra che si è costituita nel 2006 e che continua a affermare la sua attività, pur in una situazione di difficoltà del movimento contro la guerra del nostro paese che ha fatto dei passi indietro per una situazione politica generale. Per affrontare quello che sta succedendo in Siria dovremmo innanzitutto porci una domanda: “Quali sono i motivi che hanno scatenato le primavere arabe?”. L’analisi ci porta direttamente a alla crisi economica che sta attraversando tutto il mondo, una crisi che ha messo a nudo i limiti di strutture politiche, dei rapporti sociali imposti in quei Paesi. Parlo dei Paesi investiti dalla cosiddetta primavera araba: Tunisia, Egitto, Bahrain e, in forme diverse, la Libia e la Siria. Una crisi economica che si è trasformata in crisi politica quando queste società, modificate sia dalla crescita demografica che dall’emigrazione e dallo sviluppo industriale e impoverite dalle politiche economiche imposte dal FMI, hanno visto scendere in piazza questo movimento di protesta popolare, perlopiù composto da giovani lavoratori, che rivendicava lavoro, dignità e democrazia.

All’ombra di Hiroshima

Autore: Noam Chomsky - controlacrisi 
Il 6 agosto, anniversario di Hiroshima, dovrebbe essere un giorno di sobria riflessione, non solo sugli eventi terribili di quel giorno del 1945, ma anche su ciò che essi hanno rivelato: che gli esseri umani, nella loro appassionata ricerca di ampliare le proprie capacità di distruzione, avevano alla fine trovato un modo per avvicinarsi al limite estremo.
Quest’anno le commemorazioni del 6 agosto hanno un significato speciale. Hanno luogo poco prima del cinquantesimo anniversario del “momento più pericoloso della storia umana”, nelle parole dello storico e consigliere di John F. Kennedy, Arthur M. Schlesinger Jr., con riferimento alla crisi dei missili cubani.
Graham Allison scrive sull’ultimo numero di Foreign Affairs che Kennedy “ordinò azioni che sapeva avrebbero aumentato il rischio non solo di una guerra convenzionale ma anche di una guerra nucleare”, con una probabilità forse del 50%, riteneva, una stima che Allison considera realistica.
Kennedy dichiarò uno stato di allerta nucleare di alto livello che autorizzava “velivoli della NATO con piloti turchi … (o altri) … a decollare, volare fino a Mosca e sganciare una bomba.”
Nessuno fu più sconvolto dalla scoperta dei missili a Cuba degli uomini che avevano la responsabilità di missili simili che gli Stati Uniti avevano segretamente dislocato a Okinawa sei mesi prima, certamente puntati sulla Cina, in un momento di elevate tensioni regionali.
Kennedy portò il presidente Nikita Krusciov “proprio sull’orlo di una guerra nucleare, guardò oltre il ciglio del baratro e gli mancò il coraggio,” secondo il generale David Burchinal, allora ufficiale di alto rango del personale di pianificazione del Pentagono. E’ arduo poter contare in eterno su una simile ragionevolezza.
Krusciov accettò una formula ideata da Kennedy ponendo fine alla crisi evitando la guerra. L’elemento più sfacciato della formula, scrive Allison, fu “un contentino segreto consistente nella promessa di ritiro dei missili statunitensi dalla Turchia entro sei mesi dalla soluzione della crisi.” Si trattava di missili obsoleti che erano già in corso di sostituzione con i molto più letali, e invulnerabili, sottomarini Polaris.
In breve, anche se correndo un elevato rischio di una guerra di devastazioni inimmaginabili, fu ritenuto necessario rafforzare il principio che gli Stati Uniti avevano il diritto unilaterale di dispiegare missili nucleari dovunque, alcuni puntati sulla Cina o ai confini della Russia, che in precedenza non aveva dislocato missili al di fuori dell’URSS. Naturalmente sono state offerte delle giustificazioni, ma non penso che esse resistano all’analisi.
Un principio accompagnatorio è che Cuba non aveva diritto di avere missili di difesa contro quella che sembrava un’invasione statunitense imminente. I piani di Kennedy, piani terroristici, l’Operazione Mongoose [Mangusta], prevedano “la rivolta aperta e il rovesciamento del regime comunista,” nell’ottobre 1962, il mese della crisi dei missili, riconoscendo che “il successo finale richiederà il deciso intervento militare statunitense.”
Le operazioni terroristiche contro Cuba sono comunemente scartate dai commentatori come insignificanti bravate della CIA. Le vittime, non sorprendentemente, vedono le cose in modo piuttosto diverso. Possiamo finalmente udirne le voci nel libro di Keith Bolender “Voices from the Other Side: An Oral History of Terrorism Against Cuba” [Voci dall’altra parte: storia orale del terrorismo contro Cuba].
Gli eventi dell’ottobre 1962 sono diffusamente celebrati come il momento più alto di Kennedy. Allison li presenta come “una guida su come disinnescare conflitti, gestire rapporti tra grandi potenze e prendere decisioni valide in politica estera in generale.” In particolare, oggi, nei conflitti con l’Iran e la Cina.
Il disastro fu pericolosamente vicino nel 1962 e non c’è stata mancanza di momenti pericolosi da allora. Nel 1973, negli ultimi giorni della guerra arabo-israeliana, Henry Kissinger decise un allerta nucleare di alto livello. L’India e il Pakistan sono arrivati vicini alla guerra nucleare. Ci sono stati innumerevoli casi in cui l’intervento umano ha bloccato un attacco nucleare solo pochi momenti prima del lancio dopo informazioni errate dei sistemi automatici. C’è molto da riflettere il 6 agosto.
Allison si unisce a molti altri nel considerare i programmi nucleari iraniani come la più grave crisi attuale, “una sfida anche più complessa, per i decisori della politica statunitense, della crisi dei missili cubani” a causa della minaccia dei bombardamenti israeliani.
La guerra contro l’Iran è già bene in corso, compresi gli assassinii di scienziati e le pressioni economiche che hanno raggiunto il livello di una “guerra non dichiarata”, a giudizio dello specialista dell’Iran, Gary Sick.
Si ricava grande orgoglio dai sofisticati attacchi informatici diretti contro l’Iran. Il Pentagono considera gli attacchi informatici come “un atto di guerra” che autorizza il bersaglio “a reagire utilizzando la forza militare tradizionale”, riferisce il Wall Street Journal. Con la solita eccezione: non quando i perpetratori sono gli Stati Uniti o i loro alleati.
La minaccia iraniana è stata recentemente delineata dal generale Giora Eiland, uno dei pianificatori militari israeliani di vertice, descritto come “uno dei più geniali e prolifici pensatori che [l’esercito israeliano] abbia mai prodotto.”
Delle minacce che egli descrive la più credibile è che “qualsiasi scontro ai nostri confini avrà luogo sotto l’ombrello nucleare iraniano”. Israele potrebbe perciò essere costretto a ricorrere alla forza. Eiland concorda con il Pentagono e i servizi segreti statunitensi, che considerano anch’essi la deterrenza come la maggiore minaccia posta dall’Iran.
L’attuale intensificazione della “guerra non dichiarata” contro l’Iran accresce la minaccia di una guerra accidentale su larga scala. Alcuni di pericolo sono stati illustrati nel mese scorso quando una nave statunitense, parte dell’enorme spiegamento nel Golfo, ha sparato contro una piccola imbarcazione da pesca, uccidendo un membro indiano dell’equipaggio e ferendone almeno altri tre. Non ci vorrebbe molto per scatenare una grande guerra.
Un modo sensato per evitare tali conseguenze orribili consiste nel perseguire “l’obiettivo di creare in Medio Oriente una zona libera da armi di distruzione di massa e da tutti i missili per il loro trasporto e l’obiettivo di un bando globale alle armi chimiche”, secondo la formulazione della risoluzione 687 del 6 aprile 1991 del Consiglio di Sicurezza, che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna hanno invocato nel loro tentativo di dare una tenue copertura legale alla loro invasione dell’Iraq dodici anni dopo.
L’obiettivo è un obiettivo arabo-iraniano dal 1974, regolarmente riconfermato e a questo punto ha un sostegno globale quasi unanime, almeno formalmente. A dicembre potrà aver luogo una conferenza internazionale per prendere in considerazione modi per attuare un simile trattato.
Un progresso è improbabile salvo che ci sia un forte sostegno in occidente. Non cogliere l’opportunità allungherà, una volta di più, l’ombra sinistra che ha oscurato il mondo da quel 6 agosto fatale.
© 2011 Noam Chomsky
Distribuito dal The New York Times Syndicate.
Da Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
www.znetitaly.org
traduzione di Giuseppe Volpe

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