Non è una novità che dal dopoguerra ad oggi serpeggino in Europa sentimenti antitedeschi, segnatamente in Francia e in Italia, ma non solo. Altrettanto evidente è che si è trattato e si tratta prevalentemente di un brontolio, accompagnato da una profonda deferenza e certamente dalla radicata convinzione che la Germania sia stata vaccinata per sempre da ogni aggressività politico-militare nei confronti dei suoi vicini e del mondo intero.
A rispecchiare l’«antigermanesimo» popolare valevano più le sconclusionate Sturmtruppen di Bonvi con il loro buffo linguaggio che non una reale ostilità. I governi tedeschi ne sono sempre stati ben consapevoli e non se ne sono mai seriamente preoccupati, sempre meno con il passare degli anni. Molto di più hanno sofferto gli americani, che, da sempre e senza interruzioni, si sono sentiti di incarnare «l’impero del bene», dell’ostilità incontrata a più riprese in varie contrade del pianeta e nell’opinione pubblica mondiale. Cosicché l’allarme lanciato da Mario Monti in una intervista al settimanale Der Spiegel sul rischio di un acuirsi del sentimento antitedesco in Italia, nell’opinione pubblica e nel parlamento, non spaventerà di certo il governo di Berlino inducendolo a «concedere più flessibilità» e a contrastare la «dissoluzione psicologica dell’Europa».
Ai tedeschi andrebbe posta invece un’altra serissima domanda. Ha continuato a esistere nel dopoguerra ed esiste ancora oggi un nazionalismo germanico? E in quale forma? Senza, beninteso, cadere nei ridicoli richiami al terzo Reich con cui si diletta la stampa-spazzatura della destra nostrana. La risposta, a mio parere, è affermativa, anche se l’inclinazione nazionalista non riguarda l’intera società tedesca, è bandita come ideologia conclamata dalle principali forze politiche e tenuta a freno (ma niente affatto annientata) dai governi che si sono succeduti a Bonn e poi a Berlino. Fino al 1989 il nazionalismo tedesco era incanalato verso quella tensione alla riunificazione che tuttavia comprendeva anche componenti democratiche e progressiste. La sua cifra essenziale era un anticomunismo gonfio di risentimento antisovietico. Tuttavia, l’esito della seconda guerra mondiale e il fatto che la Bundesrepublik si trovasse in prima linea sul fronte della guerra fredda mascherava nello zelantissimo atlantismo e nell’occidentalismo a tutto tondo di Bonn le pulsioni nazionaliste tedesche. Gli alleati, per parte loro, avevano chiuso più di un occhio sul marcio che dopo il ’45 era transitato nella classe politica tedesca e che fu uno dei principali bersagli della rivolta del ’68. Una benevolenza che avrebbe accelerato la pretesa tedesca di liberarsi del fardello prodotto tra il ’33 e il ’45. Una volta riunificata la Germania e trasformato l’«impero del male» in un appetibile mercato, la destra tedesca si trovò orfana dei suoi stendardi più amati: l’anticomunismo e il recupero delle terre perdute. È a questo punto che il nazionalismo tedesco, ossia il pensiero e l’azione politica della destra, comincia a rivendicare più peso di chiunque altro in Europa. Il «noi e gli altri» cominciava a farsi spazio. Nell’unico modo possibile. Visto che l’unione politica dell’Europa stentava a procedere e intaccava assai poco le sovranità nazionali gelosamente difese dagli uni e dagli altri, si trattava di riuscire a imporre le regole economiche dell’Unione secondo i propri principi, i propri interessi e le proprie ossessioni. Giocando in Europa non sulla base di quel progetto di integrazione su cui tutti giurano e spergiurano, ma sulla base dei rapporti di forza esistenti. Ragion per cui la Bundesbank può dichiarare, priva di qualsiasi tatto, che, essendo più potente della altre banche centrali, deve contare e decidere di più, mettendo in imbarazzo lo stesso governo di Berlino, che pure, come tutti gli altri, deve simulare una relativa indipendenza della politica dai rapporti di potere finanziari. La crisi dei debiti sovrani mette infine nelle mani della destra nazionalista tedesca la bandiera in grado di sostituire quella perduta dell’anticomunismo e cioè l’antimeridionalismo, con argomenti eurofobi e uno stile di propaganda del tutto simile a quello della nostra Lega. Non a caso la crociata contro le cicale mediterranee ha il suo cuore nella regione più ammirata e invidiata dal Carroccio: la ricca, cattolica e reazionaria Baviera. Da qui partono gli strali del segretario del partito cristiano-sociale (Csu) Alexander Dobrindt e del ministro delle finanze bavarese Markus Soeder, che invocano la cacciata della Grecia dall’euro e accusano addirittura Monti di attentare non solo alle tasche dei contribuenti tedeschi, ma alla stessa democrazia nella Repubblica federale, essendo quella nel nostro paese data, con un certo sollievo, per perduta. I toni nazionalisti vengono ormai completamente allo scoperto, amplificati dalla tradizionale stampa anticomunista che fu l’impero di Axel Springer. Gonfi di rozzo populismo e indifferenti agli effetti che i diktat tedeschi avranno a lungo termine sulla stessa economia della Germania. Dobrindt sembra ricalcare le orme del più carismatico e reazionario esponente della Csu, quel Franz Josef Strauss che quando Willy Brandt avviò la Ostpolitik, la prudente politica di distensione con l’Est, strepitava che ormai i bolscevichi siedevano a Bonn. La Germania sopra a tutto. Sopra la distensione allora, sopra l’Europa oggi.
Questa destra nazionalista, bigotta e tradizionalista, trova oggi una solida sponda negli interessi della rendita e del capitale finanziario che specula allegramente nel bordello europeo e guarda con la massima soddisfazione allo smantellamento del welfare e dei diritti nei paesi-cicala dell’Europa meridionale. Ma non è detto che poi non tocchi anche alle formiche. Il problema allora non è agitare lo spaventapasseri dei sentimenti antitedeschi in Italia, ma mettere in guardia i tedeschi, e la sinistra tedesca, se è ancora capace di uscire dalla subalternità e pensare una Europolitik di segno diverso, dalla ripresa di un nazionalismo che finirà, quantomeno, con l’affossare il processo di integrazione europea. Non si tratta di «falchi» e «colombe», come pure la stampa di sinistra italiana vorrebbe far intendere. E cioè di maggiore o minore rigidità entro una dottrina da tutti condivisa, ma di ottiche e punti di vista alternativi e opposti. Nel mondo del liberismo e della rendita finanziaria esistono solo i falchi. Una colomba non sopravviverebbe un minuto.
A rispecchiare l’«antigermanesimo» popolare valevano più le sconclusionate Sturmtruppen di Bonvi con il loro buffo linguaggio che non una reale ostilità. I governi tedeschi ne sono sempre stati ben consapevoli e non se ne sono mai seriamente preoccupati, sempre meno con il passare degli anni. Molto di più hanno sofferto gli americani, che, da sempre e senza interruzioni, si sono sentiti di incarnare «l’impero del bene», dell’ostilità incontrata a più riprese in varie contrade del pianeta e nell’opinione pubblica mondiale. Cosicché l’allarme lanciato da Mario Monti in una intervista al settimanale Der Spiegel sul rischio di un acuirsi del sentimento antitedesco in Italia, nell’opinione pubblica e nel parlamento, non spaventerà di certo il governo di Berlino inducendolo a «concedere più flessibilità» e a contrastare la «dissoluzione psicologica dell’Europa».
Ai tedeschi andrebbe posta invece un’altra serissima domanda. Ha continuato a esistere nel dopoguerra ed esiste ancora oggi un nazionalismo germanico? E in quale forma? Senza, beninteso, cadere nei ridicoli richiami al terzo Reich con cui si diletta la stampa-spazzatura della destra nostrana. La risposta, a mio parere, è affermativa, anche se l’inclinazione nazionalista non riguarda l’intera società tedesca, è bandita come ideologia conclamata dalle principali forze politiche e tenuta a freno (ma niente affatto annientata) dai governi che si sono succeduti a Bonn e poi a Berlino. Fino al 1989 il nazionalismo tedesco era incanalato verso quella tensione alla riunificazione che tuttavia comprendeva anche componenti democratiche e progressiste. La sua cifra essenziale era un anticomunismo gonfio di risentimento antisovietico. Tuttavia, l’esito della seconda guerra mondiale e il fatto che la Bundesrepublik si trovasse in prima linea sul fronte della guerra fredda mascherava nello zelantissimo atlantismo e nell’occidentalismo a tutto tondo di Bonn le pulsioni nazionaliste tedesche. Gli alleati, per parte loro, avevano chiuso più di un occhio sul marcio che dopo il ’45 era transitato nella classe politica tedesca e che fu uno dei principali bersagli della rivolta del ’68. Una benevolenza che avrebbe accelerato la pretesa tedesca di liberarsi del fardello prodotto tra il ’33 e il ’45. Una volta riunificata la Germania e trasformato l’«impero del male» in un appetibile mercato, la destra tedesca si trovò orfana dei suoi stendardi più amati: l’anticomunismo e il recupero delle terre perdute. È a questo punto che il nazionalismo tedesco, ossia il pensiero e l’azione politica della destra, comincia a rivendicare più peso di chiunque altro in Europa. Il «noi e gli altri» cominciava a farsi spazio. Nell’unico modo possibile. Visto che l’unione politica dell’Europa stentava a procedere e intaccava assai poco le sovranità nazionali gelosamente difese dagli uni e dagli altri, si trattava di riuscire a imporre le regole economiche dell’Unione secondo i propri principi, i propri interessi e le proprie ossessioni. Giocando in Europa non sulla base di quel progetto di integrazione su cui tutti giurano e spergiurano, ma sulla base dei rapporti di forza esistenti. Ragion per cui la Bundesbank può dichiarare, priva di qualsiasi tatto, che, essendo più potente della altre banche centrali, deve contare e decidere di più, mettendo in imbarazzo lo stesso governo di Berlino, che pure, come tutti gli altri, deve simulare una relativa indipendenza della politica dai rapporti di potere finanziari. La crisi dei debiti sovrani mette infine nelle mani della destra nazionalista tedesca la bandiera in grado di sostituire quella perduta dell’anticomunismo e cioè l’antimeridionalismo, con argomenti eurofobi e uno stile di propaganda del tutto simile a quello della nostra Lega. Non a caso la crociata contro le cicale mediterranee ha il suo cuore nella regione più ammirata e invidiata dal Carroccio: la ricca, cattolica e reazionaria Baviera. Da qui partono gli strali del segretario del partito cristiano-sociale (Csu) Alexander Dobrindt e del ministro delle finanze bavarese Markus Soeder, che invocano la cacciata della Grecia dall’euro e accusano addirittura Monti di attentare non solo alle tasche dei contribuenti tedeschi, ma alla stessa democrazia nella Repubblica federale, essendo quella nel nostro paese data, con un certo sollievo, per perduta. I toni nazionalisti vengono ormai completamente allo scoperto, amplificati dalla tradizionale stampa anticomunista che fu l’impero di Axel Springer. Gonfi di rozzo populismo e indifferenti agli effetti che i diktat tedeschi avranno a lungo termine sulla stessa economia della Germania. Dobrindt sembra ricalcare le orme del più carismatico e reazionario esponente della Csu, quel Franz Josef Strauss che quando Willy Brandt avviò la Ostpolitik, la prudente politica di distensione con l’Est, strepitava che ormai i bolscevichi siedevano a Bonn. La Germania sopra a tutto. Sopra la distensione allora, sopra l’Europa oggi.
Questa destra nazionalista, bigotta e tradizionalista, trova oggi una solida sponda negli interessi della rendita e del capitale finanziario che specula allegramente nel bordello europeo e guarda con la massima soddisfazione allo smantellamento del welfare e dei diritti nei paesi-cicala dell’Europa meridionale. Ma non è detto che poi non tocchi anche alle formiche. Il problema allora non è agitare lo spaventapasseri dei sentimenti antitedeschi in Italia, ma mettere in guardia i tedeschi, e la sinistra tedesca, se è ancora capace di uscire dalla subalternità e pensare una Europolitik di segno diverso, dalla ripresa di un nazionalismo che finirà, quantomeno, con l’affossare il processo di integrazione europea. Non si tratta di «falchi» e «colombe», come pure la stampa di sinistra italiana vorrebbe far intendere. E cioè di maggiore o minore rigidità entro una dottrina da tutti condivisa, ma di ottiche e punti di vista alternativi e opposti. Nel mondo del liberismo e della rendita finanziaria esistono solo i falchi. Una colomba non sopravviverebbe un minuto.
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