Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 20 agosto 2011

Settembre nero.

da Fenosofia - Fonte: orgogliooperaio
Per parlare del problema scuola, che si presenterà inevitabilmente dopo la pausa estiva (sinceramente mi sarei aspettato ben altro di una pausa estiva visto il momento, ma si sa che pretendo troppo) con il suo carico di riti compulsivi di carattere infantile, bisogna partire dall'articolo allucinante di Franco Berardi detto Bifo.

L'articolo naturalmente è uscito su Il Manifesto e voleva essere un'apologia dei fatti di Londra. Per spiegare “la grande rivolta”dei protagonisti delle giornate londinesi, Bifo parla di una “generazione cognitiva precaria [che] comincia la sua rivolta afferrando quel che occorre senza chiedere permesso”. L'imbecillità per Bifo è scambiata per “cognizione”. Infatti la “generazione cognitiva” ha ignorato le librerie si è impadronita degli oggetti simbolo di una generazione rimbecillita per anni da intellettuali privi delle più elementari cognizioni. Per avere un quadro completo dei desideri, questa massa ha glissato pure sui generi alimentari oltre che le librerie, troppo cognitive per i loro gusti. Questa è la lettura che Bifo fa di una moltitudine gettata all'ammasso, tipico di una folla desiderante che “non deve chiedere il permesso per avere quel gli occorre”.

Saltare la fase iniziale, lo sforzo della comprensione dei testi, del sacrificio che comporta qualsiasi costruzione di una realtà possibile per abbattere il consumo di una realtà imposta, è questo il sentimento che accomuna un intellettuale uscito dalla fase desiderante del '68 e una masnada di cervelli vuoti che pretendono senza dover chiedere niente a nessuno.

Il danno che atteggiamenti del genere provocano su chi veramente si sacrifica alla costruzione del futuro, e non al semplice accaparramento dei beni, è la morsa poliziesca e la criminalizzazione di qualsiasi azione in forma politica. Perché coloro che finiranno nelle patrie galere non saranno questi scalmanati che non fanno paura agli stati criminali, ma coloro che studiano e agiscono per una politica al di fuori del sistema e sanno che non si improvvisa con il cervello vuoto desiderante di play station e locali cool.
Sono anni che assistiamo sgomenti a sinistre desideranti e destre cialtrone, entrambe forme di una politica delirante.

Il sapere e le armi sono le forme con cui si realizza il potere. Entrambe, come dovrebbe essere logico, sono racchiuse in poche mani. Le forme con cui si calano all'interno delle società sono le più diverse, ma sempre attraverso la rassicurazione di concetti e persone: democrazia, diritti umani, ordini religiosi, Ong, associazionismo caritatevole e via di questo passo.

AAA-doremus: il verbo del mercato (libero?) e la (mala) pratica della speculazione.

Un altro fantasma si aggira ormai da tempo per l'Europa: il rating di aziende e Stati. Il declassamento (downgrade) è la sciagura a cui abbiamo assistito negli ultimi giorni e che ha fatto temere il fallimento della più grande potenza al mondo, gli Stati Uniti. Ma ormai il "voto" dato alle realtà economiche, private o pubbliche che siano, sembra un verbo a cui guardare in barba a qualsiasi approccio umano (e umanitario) della società. Misteri del Pil, il prodotto interno lordo, a cui tutti sembrano doversi sottomettere

di Marco Lombardi - Fonte: arcoiris
Una spaventosa monolitica immagine turba da tempo – e di più lo ha fatto nei giorni scorsi – il sonno dei capi di Stato: “AAA”. Tre lettere che sono il traguardo della “pursuit of happyness” di una nazione, per ottenere le quali non si sta esitando a compiere un pericoloso triplo salto mortale all’indietro, carpiato, nel definire ciò che è benessere. Intanto solo utili un paio di premesse.

Da un certo punto di vista, puramente tecnico, era ora che si comprassero o vendessero azioni quando si detengono pacchetti azionari per scopi diversi dal puro complemento d’arredo. Nob promesse di carta e soldi che volano senza un minimo di responsabilità. Da adesso bisogna “davvero” avere in mano ciò che si vende e si compra. Ma dovevamo precipitare per arrivarci? Inoltre, non va dimenticato lo scandalo delle agenzie di rating nelle mani di banche che curano gli investimenti di un certo tipo di titoli. Proprietà genericamente conservatrici: tifano per i repubblicani e hanno aspettato a colpire Obama appena Obama ha firmato il compromesso in modo da renderne impossibile l’attuazione.

Ma, stando a quanto è avvenuto di recentissimo sui mercati, in pochi mesi è stato spazzato via un secolo di teorie (e catastrofi reali), che hanno condotto lo Stato moderno attraverso tre stadi evolutivi della propria funzione pubblica.
•Primo, l’adozione del concetto di Prodotto Interno Lordo quale indicatore mercantilista di un benessere cui lo Stato partecipa in modo secondario, limitandosi a garantire regole e servizi minimi, ordine interno e difesa dei confini.
•Secondo, il passaggio dal concetto di “servizio pubblico minimo” a quello di “servizio pubblico essenziale”, laddove lo Stato non si limiti a sorreggere il quanto si produce, ma favorisca pari chance di affermazione sociale a tutti gli individui, a prescindere dalle loro condizioni di origine. Un’evoluzione simboleggiata dall’Indice dello Sviluppo Umano, adottato dall’ONU al posto del PIL.
•Infine, siamo al terzo stadio, unire al quanto ed al chi, il come si produce. Si afferma così la teoria dello sviluppo sostenibile, nei relativi modelli algebrici che coniugano economia, ecologia, società.

I DUE CAPITALISMI

Galapagos - il manifesto 19 Agosto 2011 - Fonte: dirittiglobali
La crisi non trova il capitale unito. Lo dimostra la discussione di questi giorni aperta dalla provocazione del miliardario Warren Buffet sui ricchi che dovrebbero pagare più tasse. Sulla stessa posizione in Italia si è collocato Rossi di Montelera, mentre sul versante opposto c'è Murdoch e, in Italia, Berlusconi che non vuol sentir parlare di patrimoniale o tassa sulla ricchezza, ma accetta unicamente il "contributo di solidarietà". Nello spirito di Berlusconi la parola solidarietà evoca l'elemosina che i ricchi devolvono ai poveri; qualcosa di volontario e revocabile.
C'è uno scontro, all'interno, del capitalismo, non solo ideologico: tutti sono convinti della sua superiorità, ma la vivono in maniera differente e le diversità sono anche parzialmente influenzate dai settori nei quali operano i contendenti. Per Berlusconi e Murdoch il sistema produttivo è la comunicazione dove, tra l'altro, non esistono grossi problemi retributivi, ma cervelli all'ammasso. Diverso il caso per chi si confronta con il mercato, con merci che incorporano un prodotto sociale che si tende a sottrarre al lavoro. Chi riesce a farlo meglio e di più è un ottimo capitalista, ma quando tutti i capitalisti tendono a espropriare il lavoro è inevitabile che esploda la crisi per la sproporzione tra eccesso di capacità produttiva e scarsa capacità di consumo.
E' accaduto nel 2008, anche se il detonatore fu la bolla finanziaria; sta accadendo oggi perché tutte o quasi le risorse degli Stati sono state dirottate al salvataggio della finanza stessa. Ovvero alla conservazione dei rapporti di classe e non al sostegno del lavoro e dei redditi di chi è stato estromesso dal sistema produttivo. La cifra dei senza lavoro, negli Usa come in Italia, è superiore alla disoccupazione ufficiale.

l'Europa è unione di popoli o unione degli Interessi delle Caste?

Fonte: progettoalternativo
Con la stessa velocità con cui in due giorni il popolo italiano ha dovuto subire una manovra che lo stesso direttore di Repubblica definisce di "classe" noi ci aspettiamo che il Presidente Giorgio Napolitano, "telefonasse" alla Angela Merkel e le dicesse che l'Europa dell'euro deve decidere velocemente di finanziare e non con tassi d'interessi usurai, il popolo greco, il quale non merita di essere tenuto in sospeso pagando i ritardi interessati dei tedeschi e delle caste europee.
Aiuto finanziario volta non alla riduzione e quindi al pareggio del debito pubblico, impossibile nella situazione data, ma alla stabilizzazione finanziaria dei conti economici dello Stato greco e in prospettiva di tutti i paesi europei, tra cui l'Italia.
Contemporaneamente formazione di Eurobonds in cui far confluire tra il 40 e il 60% dei debiti della zona euro, tutto finanziato da una tassa sulle transazioni finanziarie.
Martelun
SOUVENIR DE MADRID

venerdì 19 agosto 2011

Appello contro una manovra incostituzionale.

La lettura della manovra di ferragosto e del dibattito politico che ne ha accompagnato la presentazione produce una sensazione di profonda preoccupazione in chi ha a cuore la democrazia ed i beni comuni. Impressiona in particolare la disinvoltura con cui si maneggia una materia tanto delicata e fondativa di un ordine giuridico legittimo quanto quella della gerarchia delle fonti del diritto. La manovra mette in moto una sorta di processo costituente de facto che di per sé denuncia la natura profondamente incostituzionale, a diritto vigente, della filosofia ispiratrice dell’intero provvedimento.

Al primo articolo si legge infatti che il Decreto legge è emanato “In anticipazione della riforma volta ad introdurre nella Costituzione la regola del pareggio di bilancio”. All’art. 3 si aggiunge che: “In attesa della revisione dell’art.41 della Costituzione, Comuni, Provincie, Regioni e Stato, entro un anno dalla data di entrata in vigore della Legge di conversione del presente Decreto, adeguano i rispettivi ordinamenti al principio secondo cui l’iniziativa e l’attività economica privata sono libere ed è permesso tutto quello che non è espressamente vietato dalla legge”.

L’art. 41 è uno dei perni della Costituzione economica italiana vigente. Esso sancisce che : “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.

In Italia il processo di revisione costituzionale può svolgersi soltanto ai sensi dell’art. 138 Cost. che prevede doppia votazione in ciascuna Camera ed eventuale referendum confermativo. Fino a che questa revisione costituzionale non è avvenuta, la vigente Costituzione economica italiana è quella mista, che prevede un sistema di libera iniziativa privata sottoposto tuttavia a controlli anche preventivi volti a salvaguardare l’interesse sociale e la dignità della persona e l’ambiente . Cancellare per decreto ogni potere di controllo politico sull’attività economica costituisce una violazione palese e profonda del nostro tessuto costituzionale vigente che lo sbilancia in modo ancora più evidente a favore dell’interesse privato (spesso multinazionale) ai danni di quello delle persone comuni.

Salari local, prezzi global

di Francesco Piccioni - il manifesto. Fonte: dirittiglobali
POTERE D'ACQUISTO Le dinamiche mondiali nell'analisi dell'Ubs
Retribuzioni italiane ferme, mentre i prezzi volano. Pechino rimonta in classifica, gli Usa perdono punti

C'è una banca che fa almeno una cosa buona. È la svizzera Ubs - spesso al centro dei paggiori intrallazzi della finanza odierna - che produce a scadenza regolare un pregevole studio (Price and earnings) che consente di capire qualcosa dell'andamento di prezzi e salari a livello globale, gettando luce sui misteri del potere d'acquisto nei cinque continenti. Una serie di fotografie scattate anno dopo anno che, messe insieme, fanno il film della globalizzazione.
I pigri media italiani ne hanno parlato solo per dire che Oslo è la città più cara del mondo, omettendo però di dire che i salari norgesi sono secondi solo a quelli svizzeri e danesi. E quindi, per chi a Oslo ci vive e lavora (tutt'altro discorso per i turisti con in tasca monete dal tasso di cambio sfavorevole) le cose - neonazisti stragiti a parte - non vanno poi troppo male.
Tutte le variabili sono state ridotte a una percentuale, in cui - per convenzione - New York è sempre punto di riferimento (100). Un retaggio di quando gli Usa erano il paese che pagava i migliori stipendi e i prezzi gli andavano dietro. Non è più così da un pezzo. Oggi ci sono sei città con salari migliori (erano 4 nel 2006), ma anche 13 con prezzi più alti (solo sei, allora), tra cui Singapore. E quindi ha perso solo un posto nella classifica del «potere d'acquisto».
L'Europa si presenta col ventaglio forse più estremo di situazioni e questo dovrebbe far riflettere sui problemi dell'«integrazione» molto più di quanto non siano capaci di fare i burocrati di Bruxelles e Francoforte o i nanerottoli della politica. A parte i pochi ricchissimi fuori dell'euro, nella classifica degli stipendi primeggia la Germania, con Monaco e Francoforte poco sopra l'80% di un salario Usa e Berlino 5 punti più sotto. A favore della capitale c'è però un livello di prezzi meraviglioso (il 64% di new York), tale da garantire un purchasing power quasi statunitense e migliore di quello londinese (dove a prezzi più alti corrispondono salari inferiori). Soprattutto, i berlinesi negli ultimi 5 anni hanno mantenuto le posizioni, mentre Londra ha smarrito e Parigi guadagnato il 2%.
E l'Italia? Segna scarti feroci tra corsa dei prezzi e stasi salariale. La retribuzione media di un romano è oggi il 49,8% di un newyorkese (quella di un milanese al 63,6), mentre i prezzi sono al 74,4 (68,9 a Milano). Nel 2006 i salari erano allo stesso livello, ma i prezzi erano più bassi del 7%. Ma di questo, direte, noi ce n'eravamo accorti prima.
Vero. Ma i paragoni sono illuminanti. Sempre. E quindi vediamo che uno stipendio di Mosca vale il 36%, mentre nel 2006 raggiungeva a fatica il 20 e i prezzi sono cresciuti «solo» del 10%. Che le retribuzioni baltiche sono salite dal 15 al 20%, mentre anche lì i prezzi sono volati dal 50 al 65%. Che la derelitta Bucarest ha visto i salari passare dal 13 al 18,4%, come i prezzi dal 51 al 56. Si comprende bene che quel che fa «mergere» certi paesi è proprio lo squilibrio affamatorio tra salari inesistenti (inchiodati a «specificità nazionali») e prezzi quasi europei («determinati dal mercato»).
La conferma viene da Pechino, che mostra con orgoglio stipendi in vorticosa crescita (dal 8 al 14,7%; quasi il 50% in termini locali), ma anche prezzi dalla dinamica paradossalmente più contenuta (dal 50 al 62,3%; poco più del 20% sul piano interno). Risultato: il potere d'acquisto nel Celeste Impero cresce, mentre nel declinante Occidente cala. Sarà nascosto qui qualche segreto del presente «modo di produzione»?
O.N.U. building (in Italy called "Glass Palace)
September
Palestinian State

giovedì 18 agosto 2011

SASKIA SASSEN: « CON I RIOTS LA STORIA VOLTA PAGINA»

SASKIA SASSEN: « CON I RIOTS LA STORIA VOLTA PAGINA»
DI BENEDETTO VECCHI - Fonte: comedonchisciotte

Il nuovo ruolo dei conflitti di strada e di piazza nel processo di trasferimento della ricchezza dai poveri ai ricchi, peculiare della fase attuale del capitalismo. Il manifesto, 17 agosto 2011

Causati anche dall'esproprio di ricchezza verso banche e enti sovranazionali, i riots inglesi segnano il limite delle democrazie liberali, qualcosa di simile al passaggio storico dal Medioevo alla modernità: che cosa resterà in piedi?

Non si sottrae alle domande. Precisa più volte il suo pensiero. Anche se vive divisa tra New York e Londra, legge attentamente i giornali per capire cosa sta accadendo nella vecchia Europa, dove ha avuto la sua educazione sentimentale alle scienze sociali, prima di spostarsi in America Latina e successivamente negli Stati Uniti. Saskia Sassen è nota per il suo libro sulle Città globali (Utet), anche se i suoi ultimi libri su Territori, autorità, diritti (Bruno Mondatori) e Sociologia della globalizzazione (Einaudi) ne hanno fatto una delle più acute studiose su come stia cambiando i rapporti tra potere esecutivo, legislativo e giuridico sotto l'incalzare di una globalizzazione economica che sta mettendo in discussione anche la sovranità nazionale. Per Saskia Sassen, il capitalismo non può che essere globale. E per questo ha bisogno di istituzioni politiche e organismi internazionali che garantiscono la libera circolazione dei capitali e le condizioni del suo regime di accumulazione della ricchezza. Per questo ha sempre guardato con sospetto le posizioni di chi considerava finito lo stato-nazione. Come ha più volte sottolineato, lo stato-nazione non scompare, ma cambia le sue forme istituzionali affinché la globalizzazione prosegua, industriata, il suo corso. E allo stesso tempo ha sempre sottolineato come le disuguaglianze sociali siano immanenti al capitalismo contemporaneo. Ma l'intervista prende avvio dalle rivolte inglesi, a cui ha dedicato un articolo, scritto con Richard Sennet, e apparso sul New York Times. Articolo nel quale, fatto abbastanza inusuale per gli Stati Uniti, i due studiosi pongono la centralità della «questione sociale» per comprendere cosa stia accadendo nel Regno Unito, ma anche negli Stati Uniti e nel resto d'Europa.

La rivolta come reazione violenta alla disoccupazione; oppure come effetto del perverso fascino che esercitano le merci. Sono le due spiegazioni dominanti sulle sommosse che hanno investito Londra e altre città inglese. Qual è, invece, il suo punto di vista?

In ogni sommossa c'è uno specifico insieme di elementi che consentono allo scontento generale di convergere e prendere forma nelle azioni di strada. In Gran Bretagna ci sono tre grandi componenti che hanno provocato la rivolta a Londra, Birmingham, Liverpool, Manchester e altra città del Regno unito.
La prima componente è la strada, cioè lo spazio privilegiato da chi non ha accesso ai consolidati e codificati strumenti politici per la propria azione politica. Nelle rivolte inglesi è emersa una forte ostilità verso la polizia, incendi, distruzione della proprietà privata. Ad essere colpiti sono stati negozi o edifici gestiti, abitati da persone che vivono la stessa condizione sociale dei rivoltosi.
Il secondo elemento che ha funzionato come detonatore è la situazione economica, che vede la perdita del lavoro, di reddito, la riduzione dei servizi sociali per una parte rilevante della popolazione. Per me questo aspetto ha influito molto di più nello scatenare la rivolta più che l'uccisione di un giovane uomo di colore da parte della polizia. La disoccupazione giovanile è, nel Regno Unito, al 19 per cento. Una percentuale che raddoppia in alcune aree urbane, come quella del quartiere dove viveva il giovane ucciso..

"Noi super-ricchi troppo coccolati ora dobbiamo pagare più tasse"

WARREN BUFFETT - la Repubblica 17 Agosto 2011 Fonte: dirittiglobali
Il finanziere Warren Buffett: i governi ci risparmiano. Verso 7 milioni di dollari: solo il 17,4% del mio imponibile I miei dipendenti fino al 41 per cento I legislatori si sentono obbligati a salvaguardarci quasi fossimo gufi maculati. Non ho mai visto nessuno astenersi dall´investire a causa di aliquote più alte I politici chiedono sacrifici condivisi ma mentre la middle-class stenta ad arrivare a fine mese noi continuiamo a goderci i nostri sgravi fiscali straordinari. Chi fa soldi con i soldi alla fine versa meno al fisco di chi guadagna lavorando

I nostri leader hanno chiesto "sacrifici condivisi". Quando però hanno avanzato le loro richieste, mi hanno risparmiato. Ho chiesto ad alcuni amici straricchi a quali sacrifici si stessero preparando, ma anche loro non hanno accusato colpo.
Mentre i poveri e la middle class combattono per noi in Afghanistan; mentre la maggior parte degli americani stenta ad arrivare a fine mese, noi mega-ricchi continuiamo a goderci i nostri sgravi fiscali straordinari. Alcuni di noi sono investment manager che guadagnano miliardi lavorando tutti i santi giorni, ma sono autorizzati a definire il proprio reddito "incentivo riconosciuto ai gestori di un fondo" e quindi a ottenere un´eccezionale aliquota di imposizione fiscale pari al 15 per cento. Altri tra noi possiedono per soli dieci minuti futures del listino azionario e si vedono tassare il 60 per cento del loro rendimento al 15 per cento, come se fossero investitori a lungo termine.
Questi e altri vantaggi ci piovono letteralmente addosso grazie ai legislatori di Washington, che si sentono obbligati a salvaguardarci, quasi fossimo gufi maculati o altre specie in via di estinzione. È piacevole avere amicizie altolocate. L´anno scorso le mie imposte federali - le imposte sul reddito che devo pagare, come pure i contributi che verso o sono versati a mio nome - ammontavano a 6.938.744 dollari. Detta così, questa cifra fa pensare a un bel mucchio di soldi; di fatto, però, ho pagato soltanto il 17,4 per cento del mio imponibile, e tale importo è stato considerevolmente inferiore a quello versato da chiunque altro tra le venti persone che lavorano nel mio ufficio. Il loro carico fiscale varia dal 33 al 41 per cento e si assesta su una media del 36 per cento. Se si fanno soldi con i soldi - come fanno alcuni dei miei amichi super-ricchi - la percentuale di imponibile potrebbe essere addirittura un po´ inferiore alla mia. Se invece si guadagnano soldi lavorando, la percentuale di sicuro supererebbe la mia, in linea di massima anche di molto.
Per comprendere il perché di questo meccanismo, si devono esaminare le fonti di entrate del governo. L´anno scorso circa l´80 per cento di tali entrate è arrivato dalle tasse sul reddito delle persone fisiche e dai contributi. I ricconi pagano imposte sul reddito a un tasso del 15 per cento sulla maggior parte dei loro guadagni, ma non pagano pressoché nulla in imposte sul monte salari. Diverso è il discorso per la middle class: di norma i contribuenti della classe media rientrano nelle aliquote del 15 e del 25 per cento, e in aggiunta a ciò sono pesantemente colpiti anche nel pagamento dei contributi.

Cari economisti spiegateci la crisi. Chi l'ha creata e chi ci guadagna?

di Massimo Ragnedda. Fonte: tiscali
Non sono un economista e faccio fatica a districarmi in questa marea di informazioni e dati che tutto dicono e nulla spiegano. Quando gli economisti e i mass media parlano della crisi sembrano parlare in codice per non farci capire. I mass media hanno il dovere di informarci, ma non lo fanno. So tutto dell’omicidio di Avetrana, della casa di Cogne, del delitto di via Poma, della strage di Erba, eccetera, e non so i nomi degli speculatori, chi comanda il Fondo Monetario Internazionale, cosa sono le agenzie di rating e soprattutto cosa guadagnano le banche centrali e da chi sono governate. Voglio i nomi e voglio conoscere i meccanismi, e voglio che siate voi economisti a spiegarcelo.

Per esempio mi piacerebbe che spiegaste questo ai cittadini. La crisi finanziaria non è un fatto inevitabile e in balia delle forze irrazionali della natura; non è un terremoto o un’eruzione vulcanica: non è, insomma, un evento geologico, ma un evento previsto e prevedibile. Mi chiedo e vi chiedo: qualcuno ci guadagna da questa crisi? E se sì, chi? E poi: se qualcuno ci guadagna, non potrebbe essere lui il responsabile creando ad hoc la crisi per specularci?

Cari economisti dovete dirci chi ci guadagna. Chi? Sappiamo chi ci perde, ovvero le classi sociali povere che sono costrette a pagare il debito in due modi: direttamente con l'aumento delle imposte e indirettamente con il taglio del welfare state e dei servizi che lo stato eroga ai cittadini. I giornali e i telegiornali parlano di crisi finanziaria, di attacco degli speculatori, di spread, di Bot e Cct, di Nasdaq, ma non spiegano niente. Sappiamo solo che la crisi la pagano i poveri. Questa è l'unica certezza.

L’Irish Independent lo scorso 6 luglio titolava: “IMF and EU to make €9bn profit on bailout”, ovvero “L'Fmi e l'Ue guadagneranno 9 miliardi di euro dal bailout”. Quindi qualcuno ci guadagna dalla crisi. Mi piacerebbe che i principali media di informazione e gli economisti ci spiegassero questo: questi 9 miliardi di euro, per dirla bruscamente, a chi finiscono in tasca? A me, da profano, pare che questo "aiuto internazionale" all'Irlanda in realtà sia una forma di guadagno per le banche centrali e si traduce in: ulteriori tagli per 4 miliardi di euro dal bilancio del governo, che ricadranno sui servizi offerti ai ceti più poveri. Ma non solo: mi sembra un modo per trasferire ricchezza dal ceto basso a quello alto, un Robin Hood al contrario.

Ad essere malizioso e a farla semplice si potrebbe dire: quando lo stato sta “fallendo” (chi lo fa fallire? Perché?) intervengono gli organismi internazionali che gli “prestano” i soldi ad un tasso di interesse altissimo, e chiedono in cambio, oltre alla restituzione dell’aiuto maggiorato da un tasso di interesse altissimo, “riforme”, un eufemismo per dire: riduzione dei servizi pubblici che lo stato offre ai cittadini (scuole e ospedali ad esempio); taglio dei diritti dei lavoratori, per permettere alle aziende di essere più competitive; e privatizzazione, ovvero vendita ai privati delle aziende “produttive” dello stato (quelle in debito ovviamente non interessano).

Non sono un economista dicevo: allora cari economisti spiegatecelo voi come funziona. E parlateci anche del caso islandese. La faccio breve per ragioni di spazio: nel 2008, con la crisi dei mercati finanziari, falliscono le principali banche islandesi e la corona islandese perse l’85% nei confronti dell’Euro. L’Islanda stava fallendo. A questo punto arriva la soluzione (come quella proposta alla Grecia e all’Irlanda e che può essere proposta al Portogallo, alla Spagna e chissà forse anche all’Italia). L’unione Europea e il Fondo Monetario Internazionale pensano bene che il debito creato dagli speculatori e dai banchieri dovesse essere pagato dai cittadini e il governo islandese accetta. Il governo, che dovrebbe rappresentare e tutelare i cittadini, ha proposto a loro il pagamento di 3 miliardi e mezzo di euro in 15 anni con un tasso di interesse del 5,5 %. Detto in soldini (mi scusino gli economisti per i termini non tecnici, ma questo mi pare il modo migliore di spiegare la cosa): ogni famiglia islandese avrebbe dovuto pagare 100 euro al mese per 15 anni.

Gli scontri in Grecia, per intenderci, si sono verificati per questi motivi: hanno obbligato i cittadini greci a pagare il debito, tagliando i loro stipendi (in alcuni casi anche del 25%), tagliando i servizi, privatizzando le aziende dello stato, licenziando i lavoratori, eccetera. Ovvero hanno preso dai poveri per dare ai ricchi. E l’Islanda invece come ha reagito? O meglio, il popolo islandese come ha reagito? Il diffuso malcontento popolare si è tradotto in manifestazioni pacifiche con slogan come “salviamo il paese, non le banche” e “no al capitalismo strozzino” che hanno portato alle dimissioni dell’allora governo in carica e a indire un referendum consultivo popolare. A marzo del 2011 il 93% dei cittadini islandesi ha detto no al pagamento del debito. Ma non solo: sono stati emessi i primi mandati di arresto per diversi banchieri e membri dell’esecutivo.

Certo il caso islandese è unico e forse non ripetibile, ma perché non ne parlate mai? Quando provate a spiegare la crisi, mai un accenno a quanto successo in Islanda. Perché? Se loro non si fossero ribellati, anche pacificamente, il debito l'avrebbero pagato i cittadini, mentre i banchieri sarebbero stati liberi e più ricchi. Invece è andata diversamente: la crisi non la pagano i poveri cittadini e i responsabili sono stati puniti. E in Italia e nel resto del mondo che succede? Cari economisti spiegateci che succede: chi sono i responsabili della crisi? Chi ci guadagna? È inutile dirmi che la borsa perde il 2,35% o che il Nasdaq scende del 2% e che lo spread si allarga, perché così non mi state spiegando un bel niente. Vogliamo i nomi dei responsabili della crisi e perché la crisi dovremmo pagarla noi. E poi spiegateci: possiamo fare come l’Islanda?
09 agosto 2011

Nel cuore nero dell' Ungheria - Viaggio nel paese col bavaglio.

Fonte: larepubblica - 17 agosto 2011 —
BUDAPEST Igiornalisti della radio pubblica l' hanno appreso come in un campo di concentramento: improvviso appello del mattino per tutti nel grande cortile della sede centrale, poi l' ordine di dividersi in scaglioni di 50e presentarsi un gruppo dopo l' altro a commissioni speciali: quelle hanno detto loro chi restava e chi veniva licenziato. Gli epurati, in radio e tv di Stato, sono stati finora 525, molti tra i migliori, fior di giornalisti, premi Pulitzer. Altri 450 licenziamenti arriveranno prima di fine anno: la grande purga eliminerà così mille su tremila persone, un terzo del totale. Una sola newsroom centrale, in mano alle penne della destra, distribuisce notizie ai media pubblici. Nella pubblica amministrazione, è ancora peggio, e il governo ha facile gioco a difendersi: niente statistiche pubbliche sul totale dei posti soppressi e delle persone sostituite. Nei teatri e nelle Università, nella magistratura e alla Corte dei Conti, ai posti di comando sono solo uomini fedeli alla Fidesz del premier Viktor Orban, il partito al potere. In provincia, si comincia con metodi di segno ancor più chiaro. Come a Gyoengyoespata, governata dai neonazisti di Jobbik: ogni mattino alle sette i disoccupati, tutti Rom, devono presentarsi con una maglietta arancione che ricorda le uniformi dei detenuti di Guantanamo: chilometri a piedi sotto il sole, con zappe, rastrelli e pesanti secchi d' acqua per dissetarsi, e poi ore di duro lavoro manuale. "K (segue dalla copertina) o e z m u n k a " , lavoro socialmente utile, si chiama la misura che evoca un po' lo Arbeitsfront nazista e altre misure del Terzo Reich, e presto potrebbe coinvolgere fino a 300mila persone. Ungheria, estate 2011: ecco quasi una cronaca dal fascismo in diretta, ecco il resoconto del nuovo autoritarismo liberamente eletto che cresce, emargina, censura indisturbato in un paese membro dell' Unione europea. «È troppo facile, e sbagliato, paragonare Orban a Berlusconi, in confronto al premier ungherese Berlusconi è un democratico», mi dice Karoly Voeroes, ex direttore del quotidiano Népszabadsàg, uno dei più autorevoli giornalisti magiari, protagonista della protesta contro la legge-bavaglio. Aggiunge: «La situazione è peggiorata. Mesi fa ritenevamo impossibili nuove strette, e invece eccole. Governano usando l' odio, l' invidia, la paura». Non sono bastati i limiti draconiani alla libertà mediatica, né l' istituzione della Nmhh, l' autorità-Grande fratello fedelissima al potere, che veglia su ogni testata e punisce con multe che portano sul lastrico. Adesso i media pubblici hanno un' unica newsroom, «è la fine del giornalismo come ricerca critica», nota Voeroes. «La nazione ora è unita», gridano in strada manifesti governativi esaltando la maggioranza più che assoluta, oltre due terzi dei legislatori. Foto: una bionda famiglia sorridente. Il capo esecutivo della newsroom unica è Daniel Papp, 32 anni, cofondatore di Jobbik, il partito della Guardia magiara che sfila con le uniformi nere degli alleati di Hitler e correi dell' Olocausto. Ha fatto carriera manipolando un' intervista a Daniel Cohn-Bendit: in onda la domanda sulle vecchie, assurde accuse di passata pedofilia al leader dei verdi europei, ma non la risposta di smentita. Capo supremo della newsroom è Csaba Belenyesi, promosso nell' agenzia di stampa nazionale per volere della Fidesz. Con un gioco di parole amaro, il settimanale tedesco Der Spiegel parla di "Arcipelago Gulash": dal tollerante, morbido "socialismo del gulash" della guerra fredda la cara, bella, vivace Ungheria diventa un paese che, da destra, evoca l' Arcipelago Gulag narrato da Solgenitsyn. L' epurazione continua, e fa paura a tutti, giornalisti, dipendenti pubblici e semplici cittadini. Non risparmia nemmeno i più illustri. L' Arcipelago Gulash ha licenziato premi Pulitzer, da Laszlo Benda all' intera redazione del programma giornalistico critico La sera, con cui Antonia Mészaros e il suo team facevano reportage d' alto livello.

mercoledì 17 agosto 2011

La chimera di una crescita che non ci sarà, mentre i liberisti rifilano ricette senza idee.

di Guido Viale - il manifesto 17 Agosto 2011 -
Fonte: dirittiglobali
L'ECONOMIA DEL MONDO VERSO IL DEFAULT
Gli alti e bassi, ma sostanzialmente bassi, dei cosiddetti mercati, ci fanno capire che nei prossimi anni, e per molto tempo ancora, non ci sarà alcune «crescita»: né in Italia (dove la manovra ha messo una pietra tombale su qualsiasi velleità di rilancio economico), né in Europa, Germania compresa: che sconterà presto il disastro a cui sta condannando metà dei suoi partner commerciali.
Meno che mai negli Stati Uniti; di conseguenza soffrirà anche l'economia cinese, dove sostituire la domanda estera con quella interna non è così facile. Nemmeno il Brasile se la passerà più molto bene, mentre l'economia giapponese è scomparsa dai radar.
In Italia, e in molti altri paesi senza «crescita», il pareggio di bilancio diventerà irraggiungibile: anche ridurre la spesa pubblica non basta per colmare i deficit.
Così gli interessi si accumulano, anno dopo anno, e il debito cresce, facendo aumentare a sua volta i tassi, e con essi il deficit. Anche se prescritto dalla Costituzione (con una norma che seppellisce tutto il pensiero economico originale del Novecento) il pareggio di bilancio diventa una chimera.
Per anni i titoli di Stato avevano offerto ai cosiddetti risparmiatori - cittadini che avevano un avanzo di reddito a disposizione - una specie di cassaforte dove mettere al sicuro il loro denaro. Ma da tempo, e soprattutto con la liberalizzazione dei mercati finanziari, quei titoli, ormai nelle mani di grandi operatori internazionali (compresi quelli che oggi gestiscono i fondi dei risparmiatori), sono stati trasformati in assets su cui lucrare, giorno per giorno, in base a variazioni dei rendimenti che chi quei titoli li ha emessi non può più controllare. Non è vero, come ci raccontano, che la spesa pubblica supera le entrate fiscali: in Italia non lo fa da tempo. Sono gli interessi accumulati ad aver portato il bilancio fuori controllo: è il meccanismo tipico dell'usura (quello dei famigerati cravattari); a cui gli Stati di quasi tutto il mondo si sono sottomessi: non per salvare se stessi, ma le banche e i fondi che detengono i loro titoli.
Tuttavia la crisi finanziaria non è che un risvolto di un meccanismo economico, quello dello sviluppo - che è poi l'accumulazione del capitale - che si è inceppato; perché è anch'esso a sua volta un risvolto della crisi ambientale: il pianeta Terra non è più in grado di sostenere con le sue risorse gli attuali flussi della produzione; e meno che mai i flussi di scarti e residui - a partire dalle emissioni che alterano il clima - che accompagnano inevitabilmente uno sviluppo guidato dal profitto. «L'età della pietra - diceva lo sceicco Yamani, già ministro del petrolio dell'Arabia Saudita - non è terminata per mancanza di pietre. Nemmeno l'era del petrolio terminerà per l'esaurimento del petrolio». Non lo farà, anche se le riserve tradizionali di petrolio sono agli sgoccioli: finirà perché il petrolio, e gli altri idrocarburi, saranno sostituiti da fonti rinnovabili ed efficienza energetica; oppure perché le loro emissioni avranno provocato disastri tali da rendere il pianeta inagibile e ogni ulteriore estrazione di idrocarburi impossibile o superflua.
Con il procedere della crisi, l'esito ineluttabile di uno Stato preso nella spirale di un debito insanabile come quello italiano è ciò che tutti dicono di voler evitare, ma che nessuno vuole prepararsi ad affrontare: il fallimento (default). Il problema non è il se, ma è solo il quando; e chi sarà a subirlo e chi a imporlo; e in che modo gestirlo.
CHEAP EUROMANCE

martedì 16 agosto 2011

Vendetta di classe

La vendetta è un piatto che va servito ai poveri
da Londra - Federico Campagna per Infoaut

Una volta che gli incappucciati sono tornati nelle loro tane, che gli incendi si sono spenti e la minaccia è finita, la polizia ha preso pieno possesso delle città inglesi. Per giorni interi, i sedicimila armati mandati dal governo hanno fatto sentire il loro monologo assordante, con colonne di blindati lanciati a sirene spiegate per le strade deserte e pattugliamenti in ogni quartiere.

Cameron aveva annunciato che non ci sarebbe stata pietà, e la pietà obbedientemente ha deciso di sprofondare nel ventre della terra, mentre i tribunali sono rimasti aperti tutta la notte per processare i 2.300 arrestati negli scontri. Le sentenza sono state pesanti. ‘Esemplari’, secondo la definizione dei giornali. Per il furto di due bottiglie d’acqua, del valore di tre sterline, Nicholas Robinson, 23 anni, è stato condannato a sei mesi di carcere. Per il furto di due maglioni, Eoin Flanagan, diciottenne di Manchester, è stato condannato a otto mesi di reclusione. Per aver detto a un poliziotto ‘se non avessi addosso la divisa ti spaccherei la faccia’, Ricky Gemmel, 18 anni, è stato condannato a sei settimane di carcere. E così via, almeno per i più fortunati. Per tutti gli altri, con buona grazia, i giudici hanno ritenuto opportune pene più severe e li hanno rimandati al giudizio delle ‘crown courts’, tribunali regali che hanno potere di infliggere sentenze a oltranza.

Nel frattempo i poliziotti si sono organizzati in squadre e sono andati casa per casa a arrestare le centinaia di sospetti ancora in libertà. Insieme a loro, come i cani da riporto con i cacciatori, si sono mosse anche le torme di giornalisti. Il quotidiano Telegraph, per esempio, trasmette orgogliosamente sul proprio sito il video dell’arresto di Shereka Leigh, single mother di 22 di Tottenham, rea del furto di un paio di scarpe. Il video mostra gli agenti sfondare la porta, entrare in casa urlando, calpestare i giocattoli del figlio di 4 anni e portare fuori la ragazza in manette.

Ma gli agenti non devono fare tutto da soli. A volte anche i genitori danno una mano. Con una dedizione che avrebbe fatto lacrimare Stalin, dopo aver riconosciuto la figlia diciottenne Chelsea nei video trasmessi in TV l’eroica signora Adrienne Ives non ha avuto esitazione nel chiamare la polizia locale. Manco a dirlo, i giornali non hanno saputo trattenere gli elogi per questa straordinaria madre coraggio. Peccato che ai tempi di Saturno non ci fossero i giornali britannici, che avrebbero potuto dare il giusto lustro a chi divora i propri figli.

‘Vi troveremo’, avevano detto giorni fa alcuni agenti sulle loro pagine facebook, ‘e vi faremo sentire tutto il peso della legge’. E così è stato. C’è da augurarsi che non sia un peso così schiacciante da togliere il respiro, come è avvenuto invece qualche mese fa con Jimmy Mubega, il quarantaseienne angolano morto per soffocamento mentre veniva ‘messo in sicurezza’ dagli agenti che lo stavano deportando dall'aeroporto di Heathrow.

Ma il peso della legge, si sa, spesso cade come grandine dal cielo, e a volte capita che distrugga la vita di intere famiglie. Del resto, le colpe dei padri ricadono sui figli e dunque, per proprietà transitiva, quelle dei figli devono ricadere sui genitori. Con determinazione salomonica, David Cameron ha dichiarato che le famiglie degli arrestati che usufruiscono dei benefit statali per i meno abbienti perderanno tutto. Niente più casa popolare, niente più contributi di disoccupazione, niente più ‘house in benefit’, niente più welfare. Intervistato dalla BBC, il segretario di stato per le comunità locali Mr Eric Pickles ha ribadito il concetto. I riottosi e le loro famiglie verranno sfrattati, e le circoscrizioni di Wandsworth, Westminster, Greenwich, Hammersmith, Nottingham e Salford hanno già reso esecutivi gli sfratti.

IL PROSSIMO PASSO, UN PO' PIÙ IN SU

16 agosto 2011
IL PROSSIMO PASSO, UN PO' PIÙ IN SU
Ne parleremo a Modica, al “Clandestino”
di Riccardo Orioles. Fonte: ucuntu
Stavolta non c'è nulla di complicato. Infuria la lotta di classe, col Capitale (direbbe quel tale) che picchia senza scrupoli i Lavoratori. In realtà le cose non stanno esattamente così: il “capitalismo” come l'abbiamo conosciuto non esiste praticamente più da una ventina d'anni (è diventato automatico, e incontrollabilmente non-umano), e sarebbe anche ora di trovargli un altro nome.
Quanto ai lavoratori (di qualunque lavoro si tratti, alcuni assai strani), si sfruttano in buona parte da sé medesimi, anch'essi in automatico, senza saperlo. Marchionne non è un “padrone” (né lo è il compagno Chin-chi-lao della Commissione Industria del Partito comunista cinese, che sempre più gli somiglia), ed entrambi non comandano in quanto proprietari di qualcosa.
Il computer su cui scrivo, infine, in parte è ancora una “merce” e in parte no; è merce l'hard-disk faticosamente e marxisticamente costruito dai bambini cinesi, ma non lo è affatto il bel design, che invece è un prodotto culturale, che però pesa - nel mercato moderno - per più della metà.
Siamo insomma contemporaneamente nel 1810 e nel Tremila, e questo crea qualche problema nel capire le cose, abituati come siamo a ragionare seriamente solo ogni cent'anni (Marx, Keynes, Gandhi...) e per il resto a fare o resistenza o nostalgia.
Sarebbe ora di rimetterci a lavorare di buzzo buono su queste cose, perciò se fra i nostri l'ettori c'è qualche piccolo Marx o Keynes potenziale (cosa niente affatto improbabile, con la cultura di massa e dell'internet che la spamma in giro dappertutto) lo prego di mettersi subito all'opera senza perder più tempo con la “politica” corrente, il Nintendo e gli altri giochi.
* * *
Fine della parentesi. In Italia, distrutte le garenzie democratiche (e keynesiane, che erano inseparabili da esse) si va al muro contro muro, e prima ce ne rendiamo conto meglio è. Il fulcro non è Berlusconi ma Fiat. Quest'ultima è il prodotto più apertamente esplicito di un sistema che ormai comprende tranquillamente anche la mafia, in senso lato, ed ecco perché è così importante (a parte legalità ed etica, che pure sono i nostro software di fondo) la lotta antimafia, su cui si decide quasi tutto. Siamo all'altezza? No. Non parlo dell'antimafia mediatica (che pure qualche rara volta ha una sua funzione) ma proprio di noi, l'antimafia di base, quella che lavora ogni giorno, quella reale.
Non riusciamo a “far politica” e a fare rete, non quanto occorre, e anzi in questi mesi, nel nostro piccolo mondo (che poi tanto piccino non è) i passi indietro sono stati più dei passi avanti. Non solo sul piano concreto, delle cose prodotte, dei “risultati”, ma proprio nello stato d'animo, nel nostro modo di essere, sempre più individualista e tribale e sempre meno modernamente e coscientemente coordinato.
Non faccio esempi (per ora) per carità di tribù, ma credo che ci capiamo. Nella rete informale di Ucuntu, che è un buon esempio per capire tutto il resto, non c'è un solo nodo che funzioni veramente in rete; ciascuno fa quel che deve fare per sé, e rimanda al domani (o rimuove) le cose altrettanto importanti che dovremmo e potremmo fare insieme.
Così non ce la facciamo, o meglio ci illuderemo di farcela ma resteremo in sostanza – per difetto di massa critica – sempre subalterni. Quando non avremo più un Berlusconi a tenerci insieme e dovremo affrontare, al posto suo, i gattopardi, verremo assorbiti da questi ultimi senza nemmeno accorgercene. Perché nel mondo moderno o si è rete o si è spettatori. Non c'è via di mezzo.
"THE BROKEN SOCIETY"
Cameron: national service for all 16yr-old.
"...the lootings as well?"

lunedì 15 agosto 2011

Islanda. Nessuno ne parla, percio' noi continuiamo a farlo.

Islanda, quando il popolo sconfigge l'economia globale.
Fonte: senzasoste
L'hanno definita una 'rivoluzione silenziosa' quella che ha portato l'Islanda alla riappropriazione dei propri diritti. Sconfitti gli interessi economici di Inghilterra ed Olanda e le pressioni dell'intero sistema finanziario internazionale, gli islandesi hanno nazionalizzato le banche e avviato un processo di democrazia diretta e partecipata che ha portato a stilare una nuova Costituzione.

Oggi vogliamo raccontarvi una storia, il perché lo si capirà dopo. Di quelle storie che nessuno racconta a gran voce, che vengono piuttosto sussurrate di bocca in orecchio, al massimo narrate davanti ad una tavola imbandita o inviate per e-mail ai propri amici. È la storia di una delle nazioni più ricche al mondo, che ha affrontato la crisi peggiore mai piombata addosso ad un paese industrializzato e ne è uscita nel migliore dei modi. L'Islanda.

Già, proprio quel paese che in pochi sanno dove stia esattamente, noto alla cronaca per vulcani dai nomi impronunciabili che con i loro sbuffi bianchi sono in grado di congelare il traffico aereo di un intero emisfero, ha dato il via ad un'eruzione ben più significativa, seppur molto meno conosciuta. Un'esplosione democratica che terrorizza i poteri economici e le banche di tutto il mondo, che porta con se messaggi rivoluzionari: di democrazia diretta, autodeterminazione finanziaria, annullamento del sistema del debito. Ma procediamo con ordine. L'Islanda è un'isola di sole di 320mila anime -il paese europeo meno popolato se si escludono i micro-stati- privo di esercito. Una città come Bari spalmata su un territorio vasto 100mila chilometri quadrati, un terzo dell'intera Italia, situato un poco a sud dell'immensa Groenlandia. 15 anni di crescita economica avevano fatto dell'Islanda uno dei paesi più ricchi del mondo. Ma su quali basi poggiava questa ricchezza? Il modello di 'neoliberismo puro' applicato nel paese che ne aveva consentito il rapido sviluppo avrebbe ben presto presentato il conto.

Nel 2003 tutte le banche del paese erano state privatizzate completamente. Da allora esse avevano fatto di tutto per attirare gli investimenti stranieri, adottando la tecnica dei conti online, che riducevano al minimo i costi di gestione e permettevano di applicare tassi di interesse piuttosto alti. IceSave, si chiamava il conto, una sorta del nostrano Conto Arancio. Moltissimi stranieri, soprattutto inglesi e olandesi vi avevano depositato i propri risparmi. Così, se da un lato crescevano gli investimenti, dall'altro aumentava il debito estero delle stesse banche. Nel 2003 era pari al 200 per cento del prodotto interno lordo islandese, quattro anni dopo, nel 2007, era arrivato al 900 per cento. A dare il colpo definitivo ci pensò la crisi dei mercati finanziari del 2008.

Le tre principali banche del paese, la Landsbanki, la Kaupthing e la Glitnir, caddero in fallimento e vennero nazionalizzate; il crollo della corona sull'euro -che perse in breve l'85 per cento- non fece altro che decuplicare l'entità del loro debito insoluto. Alla fine dell'anno il paese venne dichiarato in bancarotta. Il Primo Ministro conservatore Geir Haarde, alla guida della coalizione Social-Democratica che governava il paese, chiese l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, che accordò all'Islanda un prestito di 2 miliardi e 100 milioni di dollari, cui si aggiunsero altri 2 miliardi e mezzo da parte di alcuni Paesi nordici. Intanto, le proteste ed il malcontento della popolazione aumentavano. A gennaio, un presidio prolungato davanti al parlamento portò alle dimissioni del governo. Nel frattempo i potentati finanziari internazionali spingevano perché fossero adottate misure drastiche. Il Fondo Monetario Internazionale e l'Unione Europea proponevano allo stato islandese di di farsi carico del debito insoluto delle banche, socializzandolo. Vale a dire spalmandolo sulla popolazione. Era l'unico modo, a detta loro, per riuscire a rimborsare il debito ai creditori, in particolar modo a Olanda ed Inghilterra, che già si erano fatti carico di rimborsare i propri cittadini. Il nuovo governo, eletto con elezioni anticipate ad aprile 2009, era una coalizione di sinistra che, pur condannando il modello neoliberista fin lì prevalente, cedette da subito alle richieste della comunità economica internazionale: con una apposita manovra di salvataggio venne proposta la restituzione dei debiti attraverso il pagamento di 3 miliardi e mezzo di euro complessivi, suddivisi fra tutte le famiglie islandesi lungo un periodo di 15 anni e con un interesse del 5,5 per cento. Si trattava di circa 100 euro al mese a persona, che ogni cittadino della nazione avrebbe dovuto pagare per 15 anni; un totale di 18mila euro a testa per risarcire un debito contratto da un privato nei confronti di altri privati. Einars Már Gudmundsson, un romanziere islandese, ha recentemente affermato che quando avvenne il crack, “gli utili [delle banche, ndr] sonostati privatizzati ma le perdite sono state nazionalizzate”. Per i cittadini d'Islanda era decisamente troppo.

London jacquerie: cronache dalle rivolte.

Fonte: senzasoste
Pubblichiamo una interessante analisi apparsa su infoaut.org direttamente da Londra. Una testimonianza diretta che spiega la composizione sociale dei rivoltosi in strada, la geografia del saccheggio e le motivazioni che vanno oltre l'uccisione del giovane da parte della polizia. Polizia che tra l'altro ha già ammesso che lo scontro a fuoco fu unilaterale perchè il ragazzo ucciso non sparò al poliziotto. Ci immaginamo se ciò fosse successo in Italia durante le rivolte e per mesi ed anni successivi la verità sarebbe stata prima nascosta e poi insabbiata. Ma a parte questo, l'approccio ad una prima analisi della jacquerie londinese deve innanzitutto, come ha scritto Nique la police nel suo ultimo editoriale, liberare il campo da preconcetti o categorie ormai indatte a spiegare questi fenomeni: i riot londinesi non sono un fenomeno totalmente asociale e impolitico, semplice pretesto per esprimere aggressività, esibizionismo e appropriazione di merci secondo una logica consumista ma nemmeno devono essere letti come il "sol dell'avvenire" o la resa dei conti delle masse verso il capitalismo. Questi riot sono fenomeni innanzitutto metropolitani anche se, come accaduto in Francia nelle banlieue, si espandono poi nelle maggiori città del paese. E' la rabbia cova sotto la cenere per anni, spesso decenni, per poi esplodere improvvisamente in occasione di un fatto che fa da detonatore. Ma, come spiega l'articolo che riportiamo qui sotto, non è nemmeno un caso che questi episodi accadano ciclicamente quando c'è un attacco significativo al welfare e ai sistemi redistributivi che chiude ancora di più ogni prospettiva a masse di poveri.

Siamo convinti che nei prossimi giorni il primo pensiero del ministero degli Interni inglese non sarà tanto quello di mantenere l'ordine e rassicurare la popolazione, questo si può fare in modo automatico aumentando la presenza di polizia nelle strade e con un buon marketing televisivo. Il pensiero dell'intelligence si concentrerà sull'impedire una qualsiasi saldatura tra questo tipo di proteste e una prospettiva politica. Faranno di tutto per impedire che la rabbia esca dal ghetto, che dopo la rabbia ci siano bagliori di consapevolezza o emancipazione, che dopo i quartieri il fuoco non arrivi nella City, cuore finanziario e criminale britannico. red. 11 agosto 2011

Ecco l'articolo che Federico Campagna ha scritto per Infoaut da Londra

Sono quasi quattrocento anni che una rivolta di queste dimensioni non si verifica a Londra. Quest’inverno, durante le manifestazioni degli studenti inglesi, la stampa internazionale aveva parlato di ‘riots’, di subbugli, di insurrezione. Un tipico caso di esagerazione giornalistica. Stavolta no.

Ma stavolta è diverso.
GREEN

domenica 14 agosto 2011

Il comune in rivolta

di JUDITH REVEL e TONI NEGRI. Fonte: indymedia
Non ci voleva molta immaginazione per « strologare » rivolte urbane nella forma delle jacqueries, una volta che l’analisi della crisi economica attuale fosse stata ricondotta alle sue cause ed ai suoi effetti sociali. In Commonwealth, fin dal 2009, era stato infatti previsto. Quello che non ci saremmo mai attesi, all’incontrario, è che in Italia, nel movimento, questa previsione fosse rifiutata. Sembrava infatti, ci fu detto, antica; si disse invece: ora è il momento di ricostruire fronti larghi contro la crisi, di stabilire nei movimenti forme di organizzazione-comunicazione-riconoscimento che tocchino la rappresentanza politica.

Bene, adesso ci si trova tuttavia di fronte a movimenti che si esprimono in forme insurrezionali più o meno classiche, ma che si danno ovunque, sradicando così la vecchia grammatica geopolitica nella quale alcuni continuavano ostinatamente a voler pensare. Si danno cioè:

1) laddove un proletariato nuovo – fatto di precari et di disoccupati – si congiunge a classi medie in crisi: soggetti diversi che si unificano in modo inedito nella lotta, come nei paesi del sud-mediterraneo, per chiedere nuove forme di governo, più democratiche. La dittatura politica dei vari Ben Ali e quella politico-economica delle nostre democrazie di facciata non saranno certo equivalenti – anche se le seconde hanno per decenni accuratamente costruito, appoggiato e protetto le prime – ma ormai la voglia di democrazia radicale è ovunque e traccia un comune di lotta a partire da fronti diversi, permette intrecci e mescolanze, ibrida le rivendicazioni dagli uni con quelle degli altri;
2) dove le medesime forze sociali, che soffrono della crisi in società con rapporti di classe ormai decisamente controllati da regimi finanziari in economie miste, manifatturiere e/o cognitive, si muovono su terreni diversi con pari determinazione (i movimenti degli operai, degli studenti, e dei precari in genere, prima; ed ora movimento sociali complessi del tipo “acampados”);
3) dove la ripresa di movimenti di puro rifiuto, attraversati da composizioni sociali quanto mai complesse, stratificate sia verticalmente (classi medie che precipitano verso il proletariato dell’esclusione), sia orizzontalmente (nelle diverse sezioni della metropoli, fra gentrificazione e zone ormai “brasilianizzate” – come ricorda la Sassen –, dove cioè i rapporti fra gang cominciano a lasciare segni di kalashnikov sulle pareti dei quartieri, perché l’unica – drammatica, entropica – alternativa all’organizzazione delle lotte è quella della criminalità organizzata).

Le attuali rivolte inglesi appartengono a questa terza specie ed assomigliano molto a quelle che hanno attraversato qualche tempo fa le banlieues francesi: misto di rabbia e di disperazione, di frammenti di auto-organizzazione e di spezzoni di sedimentazione di altro tipo (gruppi di quartiere, solidarietà di rete, tifoserie ecc.), esprimono ormai l’insopportabilità di una vita ridotta a macerie. Le macerie che le rivolte lasciano dietro a se stesse, senz’altro inquietanti, non sono alla fine così diverse da quelle che costituiscono il quotidiano di molti uomini e donne oggi: brandelli di vita ad ogni modo.

Una crisi senza classe

Piero Bevilacqua - il manifesto 14 Agosto Fonte: dirittiglobali
Almeno due fenomeni, distinti fra loro, ma fortemente correlati, sgomentano oggi chiunque osservi la turbolenta scena dell'economia e della finanza. Una scena che ormai fa del presente disordine mondiale il nostro pasto mediatico quotidiano. Il primo riguarda lo stolido e pervicace conformismo con cui banche centrali, governi, partiti, economisti, continuano a trovare «soluzioni alla crisi» riproponendo le usurate ricette che hanno l'hanno generato, e ora resa potenzialmente catastrofica.
La seconda riguarda la rapidità con cui la violenza di alcuni potentati finanziari internazionali si trasforma in uno stato di necessità, accettato dai gruppi dirigenti dei vari Paesi come una inaggirabile calamità naturale. La minaccia di declassamento del debito viene vissuta come l'arrivo di un ciclone a cui si può rispondere solo chiedendo ai cittadini di rinserrarsi nelle proprie case. La cultura che non vede altra strada alle difficoltà presenti se non il vecchio e battuto sentiero, è la medesima che, in poco tempo, ha trasformato in senso comune l'impensabile. Uno Stato oggi può perdere la propria sovranità, come ad esempio accade alla Grecia (e accade in parte anche a noi) non per l'invasione di un esercito straniero, ma per il proprio debito pubblico. La ricchezza, il patrimonio artistico, la cultura, il territorio, il frutto di millenni di storia di un popolo può essere saccheggiato e spartito da predoni in giacca e cravatta che siedono dietro una scrivania a migliaia di km di distanza. È una novità storica di devastante violenza, eppure la stampa e gli esperti, con tono impassibile, fanno già l'elenco dei beni da privatizzare, dalle isole al Partenone. Quel che pochi considerano è che quel debito è frutto della medesima politica (e della medesima etica truffaldina) che oggi si erge a inflessibile rigore di razionalità economica. Il debito greco ha ricevuto - come ha ricordato Paolo Berdini su questo giornale - una potente spinta con le grandi opere delle Olimpiadi di Atene del 2004, con 20 miliardi di euro rimasti sul groppone dello Stato. Tutto questo secondo meccanismi ben collaudati, quelli appunto delle grandi opere - tavola imbandita per banche e grandi imprese di costruzione - che lasciano poi alla mano pubblica l'obbligo di accollarsi l'onere delle perdite private. La Tav in Val di Susa e il Ponte di Messina sono perfetti archetipi di queste strategie, che dopo i banchetti di banche e imprese sono destinate a lasciare stremate le finanze pubbliche.
La riproposizione delle ricette neoliberiste, tuttavia, non è solo espressione di un conformismo dottrinario ormai senza più vie d'uscite. È anche una pervicace rivendicazione di interessi di classe. Lo "stato di necessità" è una ghiotta occasione per il capitalismo industriale, che preme per mettere più strettamente al proprio servizio il mercato della forza-lavoro. Esso torna ora utile per nascondere il grande saccheggio dei redditi operai e popolari che è a l'origine del tracollo finanziario. Basti pensare che tra il 1979 e il 2007 la quota della ricchezza prodotta nell'Europa a 15 andata ai salari è passata dal 68% al 57%.

E i topi fingono di abbandonare la nave.

di Alessandro Robecchi. In Il Manifesto
Abilmente travestiti da Gianni e Pinotto, i due più pericolosi rapinatori del paese hanno messo a segno il loro colpo migliore. Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, quelli che hanno aumentato di 250 miliardi il debito pubblico in tre anni (chapeau!), hanno compiuto il più grande furto della loro epoca. Sacconi faceva il palo, e anche per questo è strano che non li abbiano presi. Vittime della rapina: ceti medi e bassi penalizzati dal taglio dei servizi e dell’assistenza (che i rapinatori astutamente chiamano tagli ai costi della politica), e quella parte minoritaria di ceti medi e medio-alti che paga le tasse. Beneficiari della rapina, le categorie protette dal governo Berlusconi: i super-ricchi che vivono di rendite e gli evasori fiscali. Mentre si valutano gli effetti della rapina, i rapinatori si mostrano dispiaciuti. E’ un vecchio trucco: il povero Silvio si duole di aver derubato gente per bene e aiutato i soliti delinquenti a cavarsela ancora una volta, è contrito di aver messo le mani nelle tasche degli italiani, invece che, come tradizione e vanto, sul culo delle italiane. Si registrano, in più, alcuni testacoda assai divertenti. Quello del vicedirettore di Libero, per esempio, un certo Bechis che annuncia: “mi autosospendo da elettore del centrodestra”. Uh, che ridere! Sarà lo stesso Bechis che in decine di occasioni abbiamo visto in tivù strologare sul genio di Silvio? Non sarà un po’ comodo autosospendersi adesso? Dove ha vissuto negli ultimi anni, su Saturno? Resti lì, Bechis, andiamo, un po’ di dignità! Sorprendente anche un certo Feltri Vittorio, che sbraita e strepita sulla manovra iniqua, e che avrebbe preferito, bontà sua, una patrimoniale e una riforma delle pensioni. Niente male per uno che è andato in pensione a 53 anni (nel ’97) e che negli ultimi decenni è stato il primo tifoso del padrone di Arcore, e da lui sontuosamente stipendiato. E’ proprio vero: quello dei topi che fingono di abbandonare la nave è uno spettacolo unico, straordinario, impagabile. Peccato davvero che invece ce lo facciano pagare. E carissimo, anche.

Manovra di Ferragosto, ecco le misure (in pillole) che il Governo si appresta a varare

Fonte: ilSole24ore.it
La manovra aggiuntiva che il consiglio dei ministri si appresta a varare pesa 45,5 miliardi di euro, 20 nel 2012 e 25,5 miliardi nel 2013, quasi tutti aggiuntivi rispetto a quanto preventivato nella manovra abbozzata prima dell'accelerazione imposta dal crollo dei mercati finanziari. Più tasse per gli autonomi sopra i 55mila euro di reddito; stop ai ponti con le festività laiche accorpate alla domenica; slitta di due anni il Tfr per gli statali, stop alla tredicesima per i deipendenti delle amministrazioni pubbliche non virtuose. Sono alcune delle misure entrate nel provvedimento nell'ultim'ora.

Ecco in sintesi le misure del testo del decreto entrato nel consiglio dei ministri.

AUTONOMI
Aumento della quota Irpef per gli autonomi, a partire dall'attuale 41% per i redditi oltre i 55mila euro.

TREDICESIME
I dipendenti delle amministrazioni pubbliche che non rispettano gli obiettivi di riduzione della spesa potrebbero perdere il pagamento della tredicesima mensilità.

TFR
Pagamento con due anni di ritardo dell'indennità di buonuscita dei lavoratori pubblici.

PENSIONI DONNE
Viene anticipato dal 2020 al 2015 il progressivo innalzamento a 65 anni (entro il 2027) dell'età pensionabile delle donne nel settore privato.

PROVINCE
Dalle prossime elezioni è prevista la soppressione delle Provincie sotto i 300mila abitanti, fusione dei Comuni sotto i mille abitanti, con sindaco anche assessore, e la riduzione dei componenti i Consigli regionali.

PONTI
Le festività infrasettimanali «non concordatarie» saranno accorpate alla domenica, ha spiegato in conferenza stampa il ministro Tremonti.

SCONTRINI
Tracciabilità di tutte le transazioni superiori ai 2.500 euro con comunicazione all'Agenzia delle entrate delle operazioni per le quali è prevista l'applicazione dell'Iva. È inoltre previsto l'inasprimento delle sanzioni, fino alla sospensione dell'attività, per la mancata emissione di fatture o scontrini fiscali.

PENSIONI ANZIANITÀ
Sono previsti interventi disincentivanti per le pensioni di anzianità, con anticipo al 2012 del requisito di 97 anni tra età anagrafica e anni di contribuzione.

CONTRIBUTO SOLIDARIETÀ
Viene esteso ai dipendenti privati la misura già in vigore per i dipendenti pubblici e per i pensionati: prelievo del 5% della parte di reddito eccedente i 90mila euro e del 10% della parte eccedente i 150mila.

MINISTERI
Previsto un taglio di 6 miliardi di euro nel 2012 e 2,5 nel 2013.

ENTI LOCALI
Verranno ridotti 6 miliardi di trasferimenti nel 2012 e 3,5 nel 2013. Per le regioni il peso della riduzione dei fondi è pari a 1 miliardo di euro. La sanità non verrà toccata.

PERDITE
Riduzione per le società al 62,5% della possibilità di abbattimento delle perdite.

RINNOVABILI
Torna l'ipotesi del taglio del 30% degli incentivi. Non potranno essere superiori alla media di quelli erogati negli altri Paesi d'Europa.

MERCATO ELETTRICO
Verso la divisione in tre macrozone (Nord, Centro, Sud).

SERVIZI PUBBLICI LOCALI
Si punta alla liberalizzazione e verranno incentivate le privatizzazioni.

RENDITE AL 20%
La misura vale circa 2 miliardi di euro. Esclusi i titoli di Stato che restano tassati al 12,5%.


L'austerity necessaria, ma al contrario

Autore: Burgio, Alberto. Fonte: eddyburg
«La cosiddetta crisi non è che un dispositivo economico, politico e mediatico funzionale allo spostamento di ricchezza a vantaggio delle oligarchie possidenti». Il manifesto, 12 agosto 2011

Dalla guerra del capitale contro il lavoro si può uscire soltanto restituendo ai lavoratori reddito, risorse e diritti. Tutto il resto non fa che rafforzare la crisi, semplicemente perché è la crisi. Ma c'è qualcuno, tra i politici, che intenda davvero combatterla? Probabilmente no

Bisogna resistere alla tentazione di risolvere tutto con la comoda spiegazione della follia. Dio acceca chi vuol perdere, si dice. Così si pretende di spiegare quanto sta accadendo in questi giorni, a cominciare dai principali snodi della crisi finanziaria mondiale. Ma ci si inganna.

Indubbiamente lo scenario è a dir poco paradossale. La ricchezza reale aumenta di anno in anno a dismisura. Mai come oggi il mondo è stato un «gigantesco ammasso di merci». La produttività dei mezzi di produzione è alle stelle. Mai la tecnologia è stata altrettanto sviluppata. Ma, invece di godere i frutti di questo progresso, il mondo «avanzato» si dibatte nella crisi. Registra il dilagare della disoccupazione e il drammatico impoverimento di masse crescenti. E sperimenta il panico, la rivolta, la depressione economica e psichica. Questo film corre sullo schermo globale da tre anni a questa parte, per limitarci a quest'ultima Grande crisi, esplosa negli Stati Uniti a seguito dell'insolvenza dei titolari di mutui e dei crediti facili al consumo. Ma nemmeno l'esperienza di questi tre anni pare avere aperto gli occhi alle classi dirigenti. Il nuovo picco della crisi è la diretta conseguenza delle risposte «sbagliate» opposte all'esplosione della bolla speculativa nel 2008. Da allora e sino all'anno scorso gli Stati si sono incaricati di sanare con soldi pubblici (cioè nostri) le voragini dei bilanci privati, di banche, assicurazioni, finanziarie e grandi gruppi industriali a rischio di bancarotta per gli azzardi speculativi. Oggi - naturalmente - a rischiare il fallimento sono gli Stati stessi, dissanguati da quel generoso soccorso. Ci si aspetterebbe finalmente una risposta conseguente, visto che sbagliare una volta (si fa per dire) è umano, ma perseverare è diabolico. Invece che si fa?

Si ripete l'«errore». Non si pretende dai privati la restituzione dei prestiti, con tanto di interessi, né, tanto meno, la cessione degli enormi profitti accumulati in tre decenni di baldoria neoliberista. Al contrario: per ridurre l'indebitamento degli Stati si tornano a chiedere soldi alla collettività, cioè al lavoro. Sotto forma di tagli alle retribuzioni, alle pensioni, al welfare, ai posti di lavoro e alla spesa pubblica. E a mezzo della mercificazione di beni e servizi vitali e della svendita di quanto resta del patrimonio pubblico. La grande bouffe continua. Anzi, per timore che domani possa saltare in mente a qualcuno di cambiare rotta, nel nome della cosiddetta «stabilità» si progetta di costituzionalizzare il pareggio di bilancio, cioè l'autoimposizione di politiche recessive, assoluta garanzia di crisi croniche. E si immagina (ultima trovata del governo tedesco, principale responsabile della spirale in cui tutta l'Europa - Germania compresa - si sta avvitando) di commissariare i Paesi ad alto debito, al preciso scopo di impedire tassativamente il varo di eventuali politiche espansive.
THE AFTERMATH
Another world is possible

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