Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
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(di classe) :-))
Francobolllo
Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Europa, SVEGLIA !!
sabato 27 ottobre 2012
L’Europa della piigs revolution
di ADRIÀ RODRÍGUEZ e GIGI ROGGERO
1. Una nuova faseNell’ultimo mese e mezzo, dopo l’estate del 2012, abbiamo visto una serie di avvenimenti che ci obbligano a ripensare la situazione europea e la situazione delle lotte, soprattutto nel sud del continente. In Portogallo, Spagna e Grecia si stanno sviluppando nuovi processi di conflitto che vanno oltre la critica alle istituzioni e le politiche di austerità, e che cominciano a incentrarsi sulla sfida dei processi costituenti. Negli ultimi due anni in Grecia i movimenti hanno assunto una forza destituente, al punto da mettere in crisi e contribuire alla caduta del governo socialista di Papandreou, per quanto sostituito da un esecutivo “tecnico”, cioè direttamente al servizio dei mercati finanziari. Le recenti mobilitazioni moltitudinarie contro la visita di Angela Merkel ad Atene e lo sciopero generale del 18 ottobre (con la polizia che causa la morte di un manifestante di 66 anni) confermano il rifiuto assoluto del “governo della finanza” e dell’austerity. Quello che qui ci interessa sottolineare è che, durante questo ultimo mese e mezzo, un processo dai tratti simili si è sincronicamente sviluppato in Portogallo e in Spagna. Nel primo caso, a partire dalle grandi manifestazioni del 15 settembre in più di quaranta città del paese, unite dalla parola d’ordine: “Basta troika! Vogliamo le nostre vite”, un grido diretto non solo contro i diktat della Bce, ma anche contro il governo nazionale, in quanto ingranaggi della stessa macchina. Al 15-S ha fatto seguito, il 29 settembre, un’altra manifestazione di massa a Lisbona, davanti al parlamento, proprio nello stesso giorno in cui a Madrid decine di migliaia di persone protestavano di fronte al Congresso dei deputati per la stessa ragione. I palazzi della capitale spagnola erano già stati assediati quattro giorno prima: l’iniziativa era stata convocata e si era diffusa attraverso i social network, con lo slogan “Rodear el Congreso” (“Circondare il Congresso”), per esigere le immediate dimissioni del presidente Rajoy e l’apertura di un processo costituente. Le mobilitazioni in Portogallo e in Spagna hanno aperto una nuova fase all’interno dei movimenti: a partire da qui, sono già stati convocati scioperi, blocchi e assedi. Al pari della Grecia, anche in Spagna e Portogallo i movimenti stanno praticando un’iniziativa di destituzione dei governi. In Italia, seppure a fatica, si inizia a fare i conti con i lasciti non solo del berlusconismo ma anche e soprattutto dell’anti-berlusconismo, cioè con un piano di conflitto incentrato sulla presunta “anomalia” nazionale e attestato sulla mera difesa di una costituzione formale definitivamente esaurita. In Europa, a partire dall’area mediterranea, la crisi di legittimità e governabilità apre uno spazio che è, al contempo, destituente e costituente.
2. Il divenire piigs dell’Europa
La politica è sempre una questione di spazio e di tempo. Il punto allora è: quali sono le coordinate in cui questa nuova fase può determinare una trasformazione dei rapporti di forza? La nostra risposta è: l’Europa. Se i movimenti nella crisi degli ultimi due anni hanno le caratteristiche di un ciclo globale di lotte, il nodo riguarda i punti di applicazione della potenza costituente. L’Europa si colloca sul “medio raggio” tra una sovranità nazionale finalmente in via di dissoluzione e un piano globale che rischia di diventare inafferrabile, se non viene incarnato in luoghi che permettano di posizionarsi dentro e contro. E tuttavia, non si tratta di agitare retoricamente un discorso sull’Europa dei movimenti contrapposta all’Europa neoliberale. Oggi dobbiamo partire dall’assunto che lo spazio politico europeo è frammentato, e questo crea problemi anche per il possibile rovesciamento agito dalle lotte. Oggi un discorso radicale sull’Europa va non solo riaffermato, ma riafferrato.
Alla luce della nuova fase cui abbiamo fatto cenno, è forse ipotizzabile oggi riafferrare il discorso a partire dal sud. Attenzione, quindi: non si tratta qui di far proprio e ribaltare dialetticamente l’assunto di un’Europa a due velocità. Creare una sorta di identità meridionale dei movimenti non farebbe altro che rafforzare quei dispositivi di frammentazione che vanno invece rotti. Si tratta, al contrario, di mettere in discussione da una parte qualsiasi rischioso particolarismo delle regioni del sud (sul piano nazionale le lotte hanno il fiato corto e sono strategicamente sconfitte), dall’altra la riproposizione degli schemi della mera solidarietà internazionale, con cui spesso dalla Germania si guarda alle lotte negli altri paesi e che sembrano speculari proprio all’idea di un’Europa a due velocità. Non c’è un fuori dalla crisi, su questo nessuno può avere dubbi. L’allusione a un “divenire piigs dell’Europa” ci permette di comprendere la dimensione direttamente europea della crisi e dello sfruttamento, benché si esprima attraverso spazi e temporalità differenti. Ci permette inoltre di distruggere le immagini che vorrebbero circoscrivere la questione alle peculiarità territoriali, per mostrarne invece la sua natura interamente di classe. “Siamo tutti piigs” significa allora riconoscere la condizione comune, pur nelle asimmetrie dei suoi effetti, e porsi il problema di generalizzare le lotte contro l’austerity. Intendiamo quindi lo spazio del sud Europa come una leva tattica attraverso cui creare processi ricompositivi, un luogo dove la catena delle politiche di austerity può iniziare a spezzarsi. Le lotte nello spazio meridionale stanno già dispiegando una forza destituente, ma per affermarsi in forma pienamente costituente devono conquistare il piano europeo. Non possiamo aspettare, e qui ritorna il problema del tempo: ciò che oggi è possibile, su un periodo più lungo potrebbe diventare troppo tardi.
venerdì 26 ottobre 2012
27 ottobre. No Monti Day
«Un No Monti day politico e sociale per mettere in moto l'opposizione»
Quale opposizione scenderà in piazza sabato?
Il No Monti Day ha unito tante forze politiche, sindacali e sociali. Movimenti territoriali, studenti, sindacati di base, parte dei centri sociali, lavoratori e tutta la politica a sinistra di Vendola. Per dare una definizione, quella parte di sinistra che non si accontenta di «ammorbidire» Monti e non crede si possano mettere le basi per il futuro con formulette prive di qualsiasi significato come «coniugare rigore e equità» o «austerità con la crescita». Ci sarebbe piaciuto che con noi ci fossero le grandi forze della sinistra e la Cgil. Qualcuno ha aderito singolarmente. Sicuramente ci saranno tanti militanti. Significativa la presenza dei disabili gravi, in sciopero della fame in questi giorni; hanno capito che, se non si bloccano queste politiche, un giorno si taglia l'accompagnamento e il giorno dopo l'indennità. E così via. Il collegamento che non riesce a fare il gruppo dirigente della Cgil lo si è fatto dal basso, sul piano sociale. Non possiamo pensare di andare oltre Monti senza andare contro Monti. Per questo bisogna rompere il quadro di compatibilità, il fiscal compact e tutte le politiche di pareggio di bilancio.
Il 14 novembre in Grecia, Spagna e Portogallo ci sarà sciopero generale. In Italia la situazione è meno grave?
L'Italia è messa sindacalmente peggio: le principali organizzazioni di questo paese sono interne ai giochi di palazzo. Noi lavoreremo perché lo sciopero, il primo a livello europeo, ci sia comunque. Rischiamo di diventare i crumiri d'Europa. Chiederemo formalmente alla Cgil di proclamare lo sciopero, perché non si può rispondere a questa situazione con una manifestazione come quella di sabato scorso a San Giovanni. Non è questo il livello di cui abbiamo bisogno.
È possibile che movimenti come quello greco o spagnolo maturino anche in Italia?
Sicuramente le difficoltà ci sono. Una di queste è l'assenza di grandi soggetti politici e sindacali. Personalmente, la necessità di scendere in campo l'ho maturata all'inizio di settembre, quando i lavoratori dell'Alcoa sono venuti a Roma, annunciandolo prima, e si sono trovati al loro fianco poche decine di sostenitori. Ho paragonato quel momento con quanto successo in Spagna, quando i minatori delle Asturie sono andati a protestare a Madrid: decine di migliaia di persone li aspettavano. Se va avanti così, rischiamo di diventare il Paese più regredito d'Europa. L'ambizione è quella di costruire anche in Italia un popolo antimontiano. Sabato sarà solo l'inizio.
Quasi tutti i partiti appoggiano questo governo. Perché un No Monti Day e non un Que se vayan todos? È solo una questione di termini?
Il problema specifico dell'Italia è Monti. Non volevamo usare slogan di altri paesi, con il rischio dell'imitazione. Siamo messi politicamente e culturalmente peggio: abbiamo un governo di banchieri e finanzieri garantito dalla censura di regime. Monti non è il nuovo. Monti è l'ultimo e più rigoroso interprete di una politica economica iniziata con Bettino Craxi. La sinistra che pensa di poterlo sostenere dall'esterno mi ricorda la canzone la Fiera dell'Est: la sinistra più radicale sostiene quella meno radicale, quella meno radicale il Pd, il Pd l'Udc, l'Udc Monti e Monti decide per tutti.
Ritieni possibile «correggere Monti» votandolo?
No, ci vuole una rottura. Finché chi ha gestito la politica economica liberista degli ultimi trent'anni ci governa, non ci sarà nessun cambiamento.
La prossima primavera ci saranno le elezioni. In che modo il movimento No Monti farà sentire la sua voce?
Faremo il punto sui contenuti: lavoro, fiscalità, politiche europee. Anche se le prossime elezioni rischiano di essere le più finte della storia della Repubblica italiana. Metà del Paese non voterà e l'altra metà rischia di dividersi su come continuare le politiche di Monti.
Il Manifesto - 26.10.12
Intervista a Giorgio Cremaschi di Ylenia Sina
«C'è un gap tra movimenti europei di lotta contro le politiche della troika e dinamiche italiane; è ora di colmarlo»
«In Italia manca una vera opposizione politica al governo Monti. La manifestazione di sabato riempie un vuoto». Giorgio Cremaschi, coordinatore della Rete28Aprile nella Cgil, racconta le ragioni del No Monti Day.
Perché una giornata contro il governo Monti?
In questi mesi abbiamo lavorato alla giornata di sabato coperti dalla censura più totale. In Italia si è instaurato intorno al governo Monti un regime dell'informazione senza precedenti. Il 99% dei media è allineato alle politiche del premier. Con questa manifestazione stiamo coprendo il gigantesco vuoto politico dell'Italia rispetto al resto d'Europa. In tutti i paesi colpiti dall'austerity sta crescendo un movimento che la rifiuta. In Italia tutto questo manca sia sul piano politico che su quello sindacale. Non si può manifestare sulle singole questioni senza respingere l'intera politica di governo.
«C'è un gap tra movimenti europei di lotta contro le politiche della troika e dinamiche italiane; è ora di colmarlo»
«In Italia manca una vera opposizione politica al governo Monti. La manifestazione di sabato riempie un vuoto». Giorgio Cremaschi, coordinatore della Rete28Aprile nella Cgil, racconta le ragioni del No Monti Day.
Perché una giornata contro il governo Monti?
In questi mesi abbiamo lavorato alla giornata di sabato coperti dalla censura più totale. In Italia si è instaurato intorno al governo Monti un regime dell'informazione senza precedenti. Il 99% dei media è allineato alle politiche del premier. Con questa manifestazione stiamo coprendo il gigantesco vuoto politico dell'Italia rispetto al resto d'Europa. In tutti i paesi colpiti dall'austerity sta crescendo un movimento che la rifiuta. In Italia tutto questo manca sia sul piano politico che su quello sindacale. Non si può manifestare sulle singole questioni senza respingere l'intera politica di governo.
Quale opposizione scenderà in piazza sabato?
Il No Monti Day ha unito tante forze politiche, sindacali e sociali. Movimenti territoriali, studenti, sindacati di base, parte dei centri sociali, lavoratori e tutta la politica a sinistra di Vendola. Per dare una definizione, quella parte di sinistra che non si accontenta di «ammorbidire» Monti e non crede si possano mettere le basi per il futuro con formulette prive di qualsiasi significato come «coniugare rigore e equità» o «austerità con la crescita». Ci sarebbe piaciuto che con noi ci fossero le grandi forze della sinistra e la Cgil. Qualcuno ha aderito singolarmente. Sicuramente ci saranno tanti militanti. Significativa la presenza dei disabili gravi, in sciopero della fame in questi giorni; hanno capito che, se non si bloccano queste politiche, un giorno si taglia l'accompagnamento e il giorno dopo l'indennità. E così via. Il collegamento che non riesce a fare il gruppo dirigente della Cgil lo si è fatto dal basso, sul piano sociale. Non possiamo pensare di andare oltre Monti senza andare contro Monti. Per questo bisogna rompere il quadro di compatibilità, il fiscal compact e tutte le politiche di pareggio di bilancio.
Il 14 novembre in Grecia, Spagna e Portogallo ci sarà sciopero generale. In Italia la situazione è meno grave?
L'Italia è messa sindacalmente peggio: le principali organizzazioni di questo paese sono interne ai giochi di palazzo. Noi lavoreremo perché lo sciopero, il primo a livello europeo, ci sia comunque. Rischiamo di diventare i crumiri d'Europa. Chiederemo formalmente alla Cgil di proclamare lo sciopero, perché non si può rispondere a questa situazione con una manifestazione come quella di sabato scorso a San Giovanni. Non è questo il livello di cui abbiamo bisogno.
È possibile che movimenti come quello greco o spagnolo maturino anche in Italia?
Sicuramente le difficoltà ci sono. Una di queste è l'assenza di grandi soggetti politici e sindacali. Personalmente, la necessità di scendere in campo l'ho maturata all'inizio di settembre, quando i lavoratori dell'Alcoa sono venuti a Roma, annunciandolo prima, e si sono trovati al loro fianco poche decine di sostenitori. Ho paragonato quel momento con quanto successo in Spagna, quando i minatori delle Asturie sono andati a protestare a Madrid: decine di migliaia di persone li aspettavano. Se va avanti così, rischiamo di diventare il Paese più regredito d'Europa. L'ambizione è quella di costruire anche in Italia un popolo antimontiano. Sabato sarà solo l'inizio.
Quasi tutti i partiti appoggiano questo governo. Perché un No Monti Day e non un Que se vayan todos? È solo una questione di termini?
Il problema specifico dell'Italia è Monti. Non volevamo usare slogan di altri paesi, con il rischio dell'imitazione. Siamo messi politicamente e culturalmente peggio: abbiamo un governo di banchieri e finanzieri garantito dalla censura di regime. Monti non è il nuovo. Monti è l'ultimo e più rigoroso interprete di una politica economica iniziata con Bettino Craxi. La sinistra che pensa di poterlo sostenere dall'esterno mi ricorda la canzone la Fiera dell'Est: la sinistra più radicale sostiene quella meno radicale, quella meno radicale il Pd, il Pd l'Udc, l'Udc Monti e Monti decide per tutti.
Ritieni possibile «correggere Monti» votandolo?
No, ci vuole una rottura. Finché chi ha gestito la politica economica liberista degli ultimi trent'anni ci governa, non ci sarà nessun cambiamento.
La prossima primavera ci saranno le elezioni. In che modo il movimento No Monti farà sentire la sua voce?
Faremo il punto sui contenuti: lavoro, fiscalità, politiche europee. Anche se le prossime elezioni rischiano di essere le più finte della storia della Repubblica italiana. Metà del Paese non voterà e l'altra metà rischia di dividersi su come continuare le politiche di Monti.
Il 10% del Paese ha in mano il 45%. È ora che paghi
di Vladimiro Giacchè - rifondazione -
«Il contributo di solidarietà del 3% sui redditi sopra i 150 mila euro a favore degli esodati è iniquo»: così ha dichiarato ieri il vice presidente di Confindustria Aurelio Regina. Il contributo per finanziare l'ampliamento delle garanzie per gli esodati, a suo avviso, colpirebbe inoltre «una fascia di popolazione che è l'unica che spende, minacciando ulteriormente i consumi».
La prima reazione, nell’apprendere dell’attacco di Confindustria all'emendamento a favore degli esodati approvato dalla commissione Lavoro della Camera, è stata di soddisfazione. In Italia c’è ancora qualche istituzione che funziona: la difesa dei propri associati da parte di Confindustria è stata pronta e decisa. La cosa è ammirevole. E dovrebbe anche suscitare anche un po’di invidia, soprattutto nel mondo dei lavoratori dipendenti: basti pensare che il provvedimento di “riforma ” delle pensioni - proprio quel provvedimento che, elevando bruscamente l’età minima di pensionamento ha creato, tra l’altro, il dramma degli esodati senza stipendio né pensione – è diventato legge nel silenzio del mondo sindacale, e che non una sola ora di sciopero è stata indetta dai principali sindacati per contrastarlo.
«Il contributo di solidarietà del 3% sui redditi sopra i 150 mila euro a favore degli esodati è iniquo»: così ha dichiarato ieri il vice presidente di Confindustria Aurelio Regina. Il contributo per finanziare l'ampliamento delle garanzie per gli esodati, a suo avviso, colpirebbe inoltre «una fascia di popolazione che è l'unica che spende, minacciando ulteriormente i consumi».
La prima reazione, nell’apprendere dell’attacco di Confindustria all'emendamento a favore degli esodati approvato dalla commissione Lavoro della Camera, è stata di soddisfazione. In Italia c’è ancora qualche istituzione che funziona: la difesa dei propri associati da parte di Confindustria è stata pronta e decisa. La cosa è ammirevole. E dovrebbe anche suscitare anche un po’di invidia, soprattutto nel mondo dei lavoratori dipendenti: basti pensare che il provvedimento di “riforma ” delle pensioni - proprio quel provvedimento che, elevando bruscamente l’età minima di pensionamento ha creato, tra l’altro, il dramma degli esodati senza stipendio né pensione – è diventato legge nel silenzio del mondo sindacale, e che non una sola ora di sciopero è stata indetta dai principali sindacati per contrastarlo.
Se però si passa al merito delle argomentazioni di Aurelio Regina, allora la soddisfazione cede il passo alla delusione. Perché dispiace che il vice presidente di Confindustria affermi che la fascia di cittadini con un reddito superiore ai 150 mila euro “è l’unica che spende”. Dispiace perché non è vero. In un certo senso è vero il contrario: infatti, quanto più si sale nella scala del reddito, tanto minore è la quota di reddito destinata ai consumi. Sono i cittadini con i redditi più bassi quelli che spendono di più in proporzione a quanto guadagnano (e quindi, siccome sono molti di più, anche in assoluto). Precisamente per questo motivo ogni aumento delle tasse indirette, quelle sui consumi, è una tassa regressiva (ossia una tassa che colpisce in proporzione i poveri più dei ricchi). E quindi andrebbe evitata. Invece anche questo governo, come già quello Berlusconi- Tremonti, ha tra l’altro aumentato proprio le tasse indirette.
Ma l’affermazione del vicepresidente di Confindustria che lascia più perplessi è quella secondo cui il contributo di solidarietà del 3% sui redditi sopra i 150 mila euro sarebbe “iniquo”. Di equità o meno delle manovre finanziarie dell’ultimo anno si è più volte dibattuto. In genere dimenticando che un criterio oggettivo su cui misurarle ci sarebbe.
E anche semplice. Siccome il 45% della ricchezza in Italia è detenuto dal 10% delle famiglie, una manovra equa avrebbe fatto pagare a quel 10% delle famiglie il 45% del peso dell’aggiustamento, e al restante 90% il resto. Non occorrono calcoli particolarmente sofisticati per capire che la proporzione è stata ben diversa. Sono gli stessi dati del Ministero dell’Economia a dirci come è stato ripartito il gettito nel 2011: su 412 miliardi totali, 193 sono stati costituiti da tasse indirette (vedi sopra), 127 da tasse su lavoratori dipendenti e pensionati, 78 da tasse sulle imprese, 14 miliardi dal gettito proveniente dai lavoratori indipendenti. È evidente la sproporzione a sfavore di lavoratori dipendenti e pensionati. Ed è anche evidente in quali categorie di contribuenti, tra quelle citate, si annidi un’evasione fiscale che nasconde al fisco 276 miliardi di euro di ricchezza all’anno e 120 miliardi di gettito. Ora, tutto questo non è soltanto eticamente inaccettabile. È una patente violazione di quanto previsto dalla nostra Costituzione. Vale infatti la pena di ricordare che secondo la Costituzione della Repubblica Italiana «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”(art. 53). Di fatto, invece, il principio costituzionale della progressività delle imposte in Italia è rovesciato.
Questa è l’iniquità del nostro sistema fiscale: quella vera. Rispetto a questo, un 3% una tantum richiesto a chi percepisce redditi superiori ai 150.000 euro non sembra gran cosa (anche perché oltretutto il contributo di solidarietà riguarderebbe soltanto la parte di reddito che eccede tale cifra). Meglio sarebbe una rimodulazione e aumento degli scaglioni dell’Irpef, abbassando le tasse sui redditi più bassi e aumentandole su quelli più elevati. Meglio ancora, una decisa lotta all’evasione.
E sebbene Bersani dica che «ci sono altre soluzioni», se invece per una volta si chiede qualcosa di più a chi ha di più, davvero non c’è alcun motivo di scandalo.
Pubblico - 26.10.12Ma l’affermazione del vicepresidente di Confindustria che lascia più perplessi è quella secondo cui il contributo di solidarietà del 3% sui redditi sopra i 150 mila euro sarebbe “iniquo”. Di equità o meno delle manovre finanziarie dell’ultimo anno si è più volte dibattuto. In genere dimenticando che un criterio oggettivo su cui misurarle ci sarebbe.
E anche semplice. Siccome il 45% della ricchezza in Italia è detenuto dal 10% delle famiglie, una manovra equa avrebbe fatto pagare a quel 10% delle famiglie il 45% del peso dell’aggiustamento, e al restante 90% il resto. Non occorrono calcoli particolarmente sofisticati per capire che la proporzione è stata ben diversa. Sono gli stessi dati del Ministero dell’Economia a dirci come è stato ripartito il gettito nel 2011: su 412 miliardi totali, 193 sono stati costituiti da tasse indirette (vedi sopra), 127 da tasse su lavoratori dipendenti e pensionati, 78 da tasse sulle imprese, 14 miliardi dal gettito proveniente dai lavoratori indipendenti. È evidente la sproporzione a sfavore di lavoratori dipendenti e pensionati. Ed è anche evidente in quali categorie di contribuenti, tra quelle citate, si annidi un’evasione fiscale che nasconde al fisco 276 miliardi di euro di ricchezza all’anno e 120 miliardi di gettito. Ora, tutto questo non è soltanto eticamente inaccettabile. È una patente violazione di quanto previsto dalla nostra Costituzione. Vale infatti la pena di ricordare che secondo la Costituzione della Repubblica Italiana «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”(art. 53). Di fatto, invece, il principio costituzionale della progressività delle imposte in Italia è rovesciato.
Questa è l’iniquità del nostro sistema fiscale: quella vera. Rispetto a questo, un 3% una tantum richiesto a chi percepisce redditi superiori ai 150.000 euro non sembra gran cosa (anche perché oltretutto il contributo di solidarietà riguarderebbe soltanto la parte di reddito che eccede tale cifra). Meglio sarebbe una rimodulazione e aumento degli scaglioni dell’Irpef, abbassando le tasse sui redditi più bassi e aumentandole su quelli più elevati. Meglio ancora, una decisa lotta all’evasione.
E sebbene Bersani dica che «ci sono altre soluzioni», se invece per una volta si chiede qualcosa di più a chi ha di più, davvero non c’è alcun motivo di scandalo.
Paolo Barnard: "L'euro e la Ue? Un grande inganno per mettere gli Stati nazionali in mano alle Banche"
di Ignazio Dessì - notizietiscali -
Le sue affermazioni sono tassative, taglienti: condizionate dalla necessità di rendere comprensibili ai più, con poche frasi, concetti complessi e spesso mistificati dal mainstream. Ma le sue conferenze richiamano migliaia di persone e le sue partecipazioni ai talk show televisivi colpiscono gli spettatori, lasciano il segno. Paolo Barnard, saggista e giornalista d’inchiesta, co-fondatore di Report ed autore di un saggio (“Il più grande crimine”) assurto ai successi di Internet, è uno di quegli uomini contro corrente, capaci di rischiare di persona per difendere le sue idee e perciò rari nel panorama dell’Italia contemporanea. L’abbiamo raggiunto telefonicamente, anche in previsione della sua tappa di Cagliari del 27 ottobre, e non ha deluso le attese, illustrando con passione le sue tesi sul grande inganno perpetrato dai poteri finanziari ai danni dei cittadini.
Dottor Barnard, nel suo saggio lei parla di un grande crimine compiuto nei confronti delle popolazioni, aggiungendo che la democrazia sotto taluni punti di vista è in pericolo. Può essere più chiaro?“I cittadini devono capire che le élites che guidavano i destini dei popoli fino all’avvento delle democrazie non si sono mai rassegnate a perdere quello che avevano e che dominavano con potere assoluto, cercando nel corso degli ultimi decenni di mantenere o recuperare il controllo della ricchezza mondiale. Questo è stato fatto in particolare in Europa con un disegno venduto all’opinione pubblica e alle classi politiche come unità europea. Esso nascondeva invece solo un programma di dominio della ricchezza del Vecchio Continente. Noi abbiamo identificato tale disegno facendo una ricerca storica, dando nomi e cognomi ai protagonisti e individuando come ultima tranche di questa operazione la creazione dell’unione monetaria europea. Un programma di spoliazione dei beni comuni a favore delle élite con la sottomissione totale degli Stati attraverso la sottrazione della moneta”.
Dunque l’abolizione della moneta nazionale è stato nient’altro che uno stratagemma per favorire gli interessi colossali della finanza e delle banche? “Esattamente, ma il discorso è ancora più semplice. Il cittadino deve capire che in una qualsiasi nazione moderna solo due entità possono creare il bene finanziario, la moneta: lo Stato e le banche. Se attraverso un disegno ideologico-economico tu arrivi a ottenere la cancellazione del potere dello Stato, e ad emettere e gestire il denaro, cosa rimane? Solo le banche. Ed esse diventano, di fatto, lo Stato. Questo è quanto è successo con l’Unione Europea, una cosa totalmente anticostituzionale. Il più grande attentato alle Costituzioni degli Stati mai fatto. Con l’eurozona i proprietari della moneta sono le banche internazionali, con a capo la Banca Centrale Europea (Bce). Esse sono di fatto ‘gli Stati’”.
Ma se la Bce emettesse moneta la situazione sarebbe diversa?“La Bce non ha limiti tecnici nella creazione della moneta Euro, ma non lo vuole fare. E’ una scelta politica per favorire l’operazione di spoliazione e impoverimento di molti Stati europei e banchettare attraverso le speculazioni. Ciò è sotto gli occhi di tutti. Non si tratta di qualche teoria del complotto, basta aprire un giornale per rendersi conto di quanto sta succedendo”.
Una delle cose su cui si basano le teorie neoliberiste imperanti in Europa e in Italia è la necessità di debellare il debito. Ma lei sostiene nel suo saggio che il debito non è un problema, perché se un governo spende a "deficit positivo" i cittadini si arricchiscono e ciò consente ai Paesi di non avere problemi. Le sarei grato se spiegasse meglio questo concetto.
“E’ un concetto molto complesso di macroeconomia degli Stati che si può cercare di riassumere rapidamente in questo modo: se noi abbiamo uno Stato che possiede la propria moneta, quando spende per qualsiasi lavoro pubblico o per pagare stipendi, accredita conti correnti. Questo denaro esce dalle casse come debito e si accredita come positivo nei conti correnti che lo ricevono. Lo stesso accade quando lo Stato emette un titolo di Stato. Allorché il cittadino lo compra, il suo denaro passa dal suo conto al ministero del Tesoro, e il cittadino guadagna attraverso interessi superiori. Anche in questo caso per il cittadino c’è un attivo e non un passivo. Ora, siccome lo Stato spende unicamente in questi due modi, accreditando conti correnti o emettendo titoli di Stato, ecco che la sua spesa, ergo debito pubblico, si traduce automaticamente nell’attivo dei cittadini”.
“E’ un concetto molto complesso di macroeconomia degli Stati che si può cercare di riassumere rapidamente in questo modo: se noi abbiamo uno Stato che possiede la propria moneta, quando spende per qualsiasi lavoro pubblico o per pagare stipendi, accredita conti correnti. Questo denaro esce dalle casse come debito e si accredita come positivo nei conti correnti che lo ricevono. Lo stesso accade quando lo Stato emette un titolo di Stato. Allorché il cittadino lo compra, il suo denaro passa dal suo conto al ministero del Tesoro, e il cittadino guadagna attraverso interessi superiori. Anche in questo caso per il cittadino c’è un attivo e non un passivo. Ora, siccome lo Stato spende unicamente in questi due modi, accreditando conti correnti o emettendo titoli di Stato, ecco che la sua spesa, ergo debito pubblico, si traduce automaticamente nell’attivo dei cittadini”.
Invece?“Nel momento in cui allo Stato viene sottratto il potere di emettere la sua moneta, indebitando semplicemente se stesso con se stesso, deve andare a prenderla nei mercati dei capitali privati, nelle banche private come accade oggi con l’euro. E a questo punto il debito dello Stato diventa anche il debito dei cittadini. E quando lo Stato deve restituire questo debito alle banche private è costretto a prendere i soldi dai cittadini con le tasse”.
Dal punto di vista della tenuta democratica in Europa, qual è il vero rischio di quello che sta succedendo? Lei parla di una Europa della finanza e non dei popoli i cui organismi sono controllati da poteri fortissimi.“E’ stata la costruzione stessa dei trattati europei a decretare ciò. La popolazione spesso non sa, perché queste cose le approfondiscono gli studiosi e i giornalisti onesti, che i trattati sono stati imposti senza referendum, ovvero senza che i cittadini avessero la possibilità di capirli ed approvarli. Tali trattati sanciscono l’esistenza di un potere europeo superiore a quello dei governi nazionali, alle Costituzioni e ai parlamenti nazionali. Trattati come il Fiscal Compact o il Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità) aboliscono del tutto la sovranità dei parlamenti in particolare in materia economica”.
Ma è possibile che la politica non riesca ad arginare certi poteri?“I politici spiccioli sono ignoranti e non sanno nulla anche se firmano quei trattati, mentre altri tecnocrati come Scognamiglio, Amato, Ciampi, Prodi, D’Alema, Monti, Draghi sanno benissimo di cosa si tratta e dovrebbero rispondere per aver avvicinato l’Italia alla perdita della democrazia e della sovranità parlamentare e costituzionale”.
Il rischio è alla fine che gli Stati siano governati da persone non elette da nessuno?“Non solo c’è un rischio: è già così. La commissione europea è composta da tecnocrati che nessun cittadino europeo ha eletto e crea direttive a cui tutti gli Stati devono sottoporsi. Il parlamento europeo che noi eleggiamo invece non può fare leggi”.
Però si fa opera di convincimento con l’opinione pubblica facendogli credere che le misure più pesanti sono necessarie per salvare l'economia arrivata sull'orlo del baratro. Si parla di deficit, di debito da sanare e così via. Ma è proprio vero che il mercato deve dettare le regole della nostra vita in maniera così sfrenata?
“Assolutamente no, la storia è ribaltabile. Ci hanno messo in questa situazione, non eravamo in uno stato talmente grave da giustificare quanto si sta facendo. L’Italia era, con la lira, uno dei sette Paesi più ricchi del mondo. Aveva il maggior risparmio privato del pianeta, oggi invece ci hanno ridotti a pigs d’Europa. Non eravamo in emergenza e ora lo siamo. Ci hanno raccontato la bugia del debito pubblico e il cittadino c’è cascato, e non può controbattere alle argomentazioni dei tecnocrati. Quelli tesi a convincerci che l’Italia è un Paese spendaccione, quando non è vero, che aveva un debito disastroso, quando non è vero perché era l’attivo dei cittadini”.
“Assolutamente no, la storia è ribaltabile. Ci hanno messo in questa situazione, non eravamo in uno stato talmente grave da giustificare quanto si sta facendo. L’Italia era, con la lira, uno dei sette Paesi più ricchi del mondo. Aveva il maggior risparmio privato del pianeta, oggi invece ci hanno ridotti a pigs d’Europa. Non eravamo in emergenza e ora lo siamo. Ci hanno raccontato la bugia del debito pubblico e il cittadino c’è cascato, e non può controbattere alle argomentazioni dei tecnocrati. Quelli tesi a convincerci che l’Italia è un Paese spendaccione, quando non è vero, che aveva un debito disastroso, quando non è vero perché era l’attivo dei cittadini”.
Ma come si può reagire e uscire da questa situazione?“Informandosi e prendendo coscienza della verità. Per questo anche a Cagliari ci sarà una conferenza con due economisti americani e un francese di fama mondiale. Cercheremo di dare ai cittadini gli strumenti per reagire, illustrando un manifesto di Salvezza nazionale economica che ognuno potrà usare per chiedere alla politica di condurre il Paese fuori da questo disastro. La Sardegna, per esempio, è una regione vergognosamente abbandonata dall’Europa, e questa politica economica del governo affosserà sempre più simili territori. Questi hanno bisogno di essere aiutati a svilupparsi, non con politiche sbagliate e corrotte come negli anni passati, ma con teorie nuove come la Modern Money Theory capaci di indirizzare la spesa pubblica positiva e creare lavoro e piena occupazione”.
Ecco, la piena occupazione. Uno dei tasselli delle politiche keynesiane e quindi della sinistra di una volta. Non voglio chiederle qual è la sua simpatia per i partiti attuali, ma non crede che la sinistra oggi sia carente nel far valere suoi capisaldi ideologici come il diritto al lavoro, le garanzie per i più deboli, lo stato sociale?“Il popolo di sinistra oggi è ingannato, anzi straingannato, da burocrati di partito e giornalisti cosiddetti di sinistra. Certa sinistra ha troppi interessi da tutelare e molti suoi rappresentanti sono cooptati nei giochi delle grandi banche”.
I cittadini possono sperare in un segnale di cambiamento in occasione delle elezioni del 2013?“Purtroppo no. Non abbiamo ancora un’idea chiara di quanto dovrebbe fare l’Italia per tornare alla sua prosperità e ricchezza. Non abbiamo soprattutto all’orizzonte nessun politico in grado di portare avanti un piano di salvezza nazionale”.
giovedì 25 ottobre 2012
La mano visibile del mercato. Intervista a Luciano Gallino
micromega
di Pietro Raitano - da altreconomia.it
“Si sente dire spesso che ‘si vede la luce in fondo al tunnel’, che la ripresa non è lontana. Sono dichiarazioni totalmente slegate dalla realtà. E chi le afferma, se ne deve assumere la responsabilità”. Luciano Gallino, classe 1927, sociologo di fama internazionale e autore di innumerevoli manuali e saggi, è lucido nella sua analisi, forte di un incessante lavoro di studio e ricerca che dura da oltre 50 anni.
Professor Gallino, che cosa ci dicono i recenti dati sul lavoro in Italia?“Ci dicono che la situazione dell’economia e del lavoro è gravissima. La disoccupazione tocca livelli altissimi: tra disoccupati ‘dichiarati’ e lavoratori ‘scoraggiati’ siamo arrivati ormai a quasi 4 milioni di persone. Se il tasso di disoccupazione è diminuito quindi è solo perché molte persone hanno semplicemente smesso di cercare lavoro.
Ma non solo. Ancora in questi giorni ho letto che i cosiddetti ‘precari’ sono soprattutto giovani. Ora, è senz’altro vero che l’80% delle nuove ‘assunzioni’ (se così possiamo chiamarle) riguarda persone poco avanti con gli anni. È anche vero, però, che ormai milioni di lavoratori hanno seguito questa trafila: dopo 15, 20 anni di contratti di breve durata di vario genere, non sono più tanto giovani. Si stima che almeno un 30% dei precari oggi abbia passato i 40 anni. Le stime dicono che i precari sono 3 milioni. Io ipotizzo 4 milioni. Quel che conta però è il totale: stiamo parlando di 7, 8 milioni di persone che non hanno lavoro, o lo hanno scadente e mal pagato (ricordiamoci che i precari quando hanno uno stipendio ragionevole lo hanno per 8, 9 mesi). Non vedo proposte adeguate per questa situazione. Eppure si dovrebbe ridurre di almeno 1 milione o 2 i disoccupati. Senza dimenticare un altro dato: per il 2012 è previsto un miliardo di ore di cassa integrazione, pari a mille ore in media per un milione di persone. La Cig vuol dire per un lavoratore ricevere meno di 750 euro netti al mese, per chi ne prendeva 1.200. La nostra situazione è più simile a quella della Spagna che a qualunque altro Paese europeo”.
Quali conseguenze ha la disoccupazione?“La disoccupazione è peggio di non avere reddito, o averlo senza essere occupati. È una ferita profonda del proprio senso di autostima. Soprattuto per i giovani: perché non ho lavoro? Ho studiato, ho esperienza... Senza contare i problemi familiari: anche coi 750 euro della cassa integrazione, il reddito è insufficiente, i rapporti in famiglia si logorano, si inaspriscono.
La disoccupazione è un enorme spreco economico e sociale. L’unica cosa che crea valore reale è il lavoro: 4 milioni di persone che non producono, 4 milioni che producono poco e male. Poi ci sono le professionalità che si perdono: il 50% dei disoccupati ha superato un anno di inattività, un’eternità se comparato con lo sviluppo della produzione e il mutamento delle tecnologie. Per strada si perdono forme di conoscenza. La disoccupazione è il più grande scandalo che la società possa conoscere. Che non se ne parli è uno degli aspetti più gravi”.
Perché colpisce il sistema produttivo italiano?“La finanziarizzazione dell’economia ha stravolto i criteri delle imprese. Il risultato è stato che queste cercano di comprimere i costi del lavoro, spremute dagli azionisti e dagli investitori, per inseguire rendimenti elevati, assurdi dal punto di vista industriale. Rendimenti tipici della speculazione, ovvero 3, 4 volte superiori rispetto a quelli tecnicamente sostenibili nel periodo medio lungo per una normale azienda.
Il risultato sono compressione dei salari, intensificazione dei ritmi, emarginazione dei sindacati. Attenzione, però, vale per tutti i Paesi europei, anche per la Germania, dove milioni di lavoratori hanno pagato questa situazione. Tuttavia la Germania ha una ventina di grandi industrie che vanno abbastanza bene, e parecchi altri elementi che spiegano la differenza con noi.
Uno fra tutti è il tasso di investimento in ricerca e sviluppo. Sui 27 Paesi dell’Unione europea, l’Italia è al quindicesimo posto, dietro all’Estonia, con un tasso di investimento dell’1,25% del Pil. Il tasso tedesco è più del doppio, quasi il triplo. Anche l’Inghilterra, che di per sé ha un prodotto interno lordo molto legato alla finanza, investe molto di più in ricerca. Un altro dato: sono particolarmente carenti gli investimenti in capitale fisso. Gli stabilimenti italiani sono irrimediabilmente invecchiati, con un’età media di 25 anni. In Europa la media è la metà. Neanche a dirlo, l’insufficienza degli investimenti è equamente divisa tra pubblico e privato”.
Draghi si spiega al Bundestag
Fonte: il manifesto | Autore: Anna Maria Merlo
Si aggrava la recessione per i 27 paesi, ed esplode ovunque il debito pubblico. La Grecia ottiene due anni di tempo in più per rientrare nei parametri; ma la pagherà più cara PARIGI. Il Fiscal Compact e la «regola aurea» dovevano servire - ufficialmente - a ridurre il debito pubblico, che «toglie sovranità» agli stati e li mette in mano alla finanza internazionale. Purtroppo, l'obiettivo è stato mancato. I dati di Eurostat confermano un aumento generalizzato (con la sola eccezione della Gran Bretagna) del debito pubblico nella zona euro e nella Ue a 27 nel secondo trimestre di quest'anno. L'area euro ha un debito di 8517 miliardi (salito in tre mesi dall'88,2% del pil al 90%), i 27 sono a 10840 (dall'81,4% all'84,9% in tre mesi).
Il paese più virtuoso è l'Estonia, con un debito del solo 7,3%, seguito da Bulgaria (16,5%) e Lussemburgo (20,9%). La Spagna, che all'inizio della crisi aveva un debito molto basso, ora è al 76% (era al 72,9% da gennaio a marzo). La Germania è il principale debitore in termini assoluti, con 2169 miliardi, l'82,8% del pil (era l'81% all'inizio dell'anno), ma Berlino si finanzia con tassi negativi, che riguardano, anche se in misura inferiore, per il momento anche la Francia, che ha un debito di 1833 miliardi, pari al 91% del pil (è salita dall'89,1%). Unica eccezione è la Gran Bretagna che è riuscita a far calare leggermente l'indebitamento dall'86,1% all'86% nel secondo trimestre.
Questa situazione non scuote Mario Draghi, presidente della Bce, che però ammette «una disoccupazione deplorevolmente alta» e una prospettiva di «economia debole a breve termine» nella zona euro.
In missione a Berlino, per convincere gli scettici del Bundestag attenti ai dubbi della Bundesbank sul programma di acquisto di Bond da parte della banca centrale, Draghi ha assicurato che «l'intervento sui debiti pubblici non porterà a finanziamenti surrettizi», perché sono stati «predisposti interventi per evitarlo». Draghi ha ricordato che il programma, approvato da Merkel, riguarda acquisti di Bond solo sui mercati e non direttamente dai governi. I programmi di aggiustamento, poi, sono la garanzia dell'indipendenza della Bce.
I programmi di aggiustamento stanno soffocando la Grecia, al punto che persino la troika (Bce, Fmi, Commissione Ue) sembra rassegnata a concedere ad Atene due anni di più per ricondurre il deficit di bilancio sotto il 3%. La data-limite sarà il 2016 e non più il 2014. La Grecia ottiene un po' di respiro sui tempi, come già è stato concesso (un anno in più) a Spagna e Portogallo. All'Eurogruppo del 12 novembre, la troika potrebbe così sbloccare la tranche di 31,5 miliardi del programma di aiuti per evitare il default del paese. Ma due anni di più di tempo per Atene significano altri soldi da versare ad Atene da parte dei partner: mancherebbero tra i 15 e i 18 miliardi di euro.
Merkel deve fare approvare al Bundestag questo nuovo intervento. Alla Grecia viene imposto, in contropartita, di proseguire nel programma di aggiustamento: riforma del mercato del lavoro, tagli alle pensioni, privatizzazioni, riforma del mercato dell'energia. I tagli dovranno essere dell'ordine di 13,5 miliardi per il 2013-14.
Intanto, è la Commissione a chiedere soldi. Mancano 9 miliardi per chiudere il bilancio 2012, per finanziare fondi regionali, agricoli, ricerca e anche Erasmus (che ha un buco di 90 milioni). Lo scontro si annuncia feroce per il bilancio 2013: la Commissione ha chiesto un aumento del 6,8% sul bilancio di 219,1 miliardi del 2012. Ma gli stati, soprattutto i contributori netti (tra cui Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna), non vogliono andare al di là del 2,7%. Il parlamento europeo è schierato con la Commissione e ha appena bocciato un taglio di 5 miliardi deciso dal Consiglio la scorsa estate. Londra vuole approfittare della trattativa per ridurre ancora il contributo britannico.
Il paese più virtuoso è l'Estonia, con un debito del solo 7,3%, seguito da Bulgaria (16,5%) e Lussemburgo (20,9%). La Spagna, che all'inizio della crisi aveva un debito molto basso, ora è al 76% (era al 72,9% da gennaio a marzo). La Germania è il principale debitore in termini assoluti, con 2169 miliardi, l'82,8% del pil (era l'81% all'inizio dell'anno), ma Berlino si finanzia con tassi negativi, che riguardano, anche se in misura inferiore, per il momento anche la Francia, che ha un debito di 1833 miliardi, pari al 91% del pil (è salita dall'89,1%). Unica eccezione è la Gran Bretagna che è riuscita a far calare leggermente l'indebitamento dall'86,1% all'86% nel secondo trimestre.
Questa situazione non scuote Mario Draghi, presidente della Bce, che però ammette «una disoccupazione deplorevolmente alta» e una prospettiva di «economia debole a breve termine» nella zona euro.
In missione a Berlino, per convincere gli scettici del Bundestag attenti ai dubbi della Bundesbank sul programma di acquisto di Bond da parte della banca centrale, Draghi ha assicurato che «l'intervento sui debiti pubblici non porterà a finanziamenti surrettizi», perché sono stati «predisposti interventi per evitarlo». Draghi ha ricordato che il programma, approvato da Merkel, riguarda acquisti di Bond solo sui mercati e non direttamente dai governi. I programmi di aggiustamento, poi, sono la garanzia dell'indipendenza della Bce.
I programmi di aggiustamento stanno soffocando la Grecia, al punto che persino la troika (Bce, Fmi, Commissione Ue) sembra rassegnata a concedere ad Atene due anni di più per ricondurre il deficit di bilancio sotto il 3%. La data-limite sarà il 2016 e non più il 2014. La Grecia ottiene un po' di respiro sui tempi, come già è stato concesso (un anno in più) a Spagna e Portogallo. All'Eurogruppo del 12 novembre, la troika potrebbe così sbloccare la tranche di 31,5 miliardi del programma di aiuti per evitare il default del paese. Ma due anni di più di tempo per Atene significano altri soldi da versare ad Atene da parte dei partner: mancherebbero tra i 15 e i 18 miliardi di euro.
Merkel deve fare approvare al Bundestag questo nuovo intervento. Alla Grecia viene imposto, in contropartita, di proseguire nel programma di aggiustamento: riforma del mercato del lavoro, tagli alle pensioni, privatizzazioni, riforma del mercato dell'energia. I tagli dovranno essere dell'ordine di 13,5 miliardi per il 2013-14.
Intanto, è la Commissione a chiedere soldi. Mancano 9 miliardi per chiudere il bilancio 2012, per finanziare fondi regionali, agricoli, ricerca e anche Erasmus (che ha un buco di 90 milioni). Lo scontro si annuncia feroce per il bilancio 2013: la Commissione ha chiesto un aumento del 6,8% sul bilancio di 219,1 miliardi del 2012. Ma gli stati, soprattutto i contributori netti (tra cui Germania, Francia, Italia, Gran Bretagna), non vogliono andare al di là del 2,7%. Il parlamento europeo è schierato con la Commissione e ha appena bocciato un taglio di 5 miliardi deciso dal Consiglio la scorsa estate. Londra vuole approfittare della trattativa per ridurre ancora il contributo britannico.
Il silenzio di regime sul No Monti Day
- megachip -
L’adesione al No Monti Day si sta diffondendo ovunque. Assemblee, riunioni, messaggi per la rete, tutto fa pensare che sabato ci sarà un evento in un paese che finora è stato il più passivo d’Europa. Ma la notizia della manifestazione non esiste per l’informazione ufficiale. Un convegno di 30 persone di qualche organizzazione con agganci nel palazzo ha molto più spazio, per noi nulla perché?
La prima ragione sta nel sostegno pressoché unanime che i mass media danno al governo. Tutti i quotidiani eccetto tre e tutti i telegiornali eccetto nessuno sono portavoce di Monti e del suo doloroso ma inevitabile operare. Non c’è mai stata in Italia una tale informazione di regime, gli anni di Berlusconi al riguardo sembrano libertari.
Questo dimostra quanto sia logorata oggi la nostra democrazia, ove un governo privo di legittimazione popolare è al tempo stesso causa ed effetto di una riduzione delle libertà fondamentali. Il regime montiano, il pensiero unico nell’informazione è al tempo stesso espressione di una regressione cominciata con Craxi e proseguita con tutti i governi della seconda repubblica, ma anche manifestazione di una volontà di dominio dei poteri forti tutti schierati con il governo.
Si può anche constatare come l’efficacia di questa potenza di fuoco a favore di Monti sia relativa. Partito con un consenso del 71% quando fu nominato e acclamato salvatore della patria, il presidente del consiglio è precipitato al 37, anche se il regime dà buona prova di stupidità esaltando il fatto che comunque egli è davanti a qualsiasi politico. È che gara è? Dall’altra parte ci sono gli orrori e il disfacimento della casta, mentre il movimento 5 stelle raccogli consensi che non possono più essere nascosti.
Quello che in realtà si vuole testardamente affermare è ciò che Monti proclama tutte le volte che va all’estero. Ove ha più volte dichiarato che gli italiani ce l’hanno coi politici non con lui, e che accettano i sacrifici a differenza di tutti gli altri popoli europei.
E qui c’è il succo del pensiero unico che ci governa. Nel paese del gattopardo si può cambiare tutto, purché non cambi nulla di ciò che conta davvero. Le politiche di mercato e rigore non hanno alternative, come affermava anni fa la signora Thatcher. Chiunque governi dovrà continuarle. Per questo ogni tentativo di costruire una opposizione a Monti che lo contesti in quanto espressione della politica conservatrice europea, va censurato.
Ci possono essere le singole lotte, più o meno disperate, si può scendere in piazza per il lavoro, con ministri sfacciati che chiedono di partecipare. Ma non si può dire via il governo Monti, basta con le politiche europee che stanno estendendo a tutto il continente il massacro greco. Da noi è questa opposizione che non ha cittadinanza, a differenza che in tutti gli altri paesi sottoposti alle ricette di Draghi, Merkel e Monti.
Qui emerge l’altra faccia del regime. Leggendo la carta d’intenti firmata dai candidati alle primarie del centrosinistra si resta sconcertati per la banalità e la retorica bolsa di un testo che pare fatto apposta per non discutere sul serio.
Francamente non si capisce come una persona acuta come Tabacci possa lamentarsi. Quel testo è pura cultura democristiana, grandi valori e pochi impegni concreti da cui non si sgarra. Che, guarda caso, sono i brutali vincoli di bilancio messi nella Costituzione e negli accordi per il fiscal compact. Si dice che si vuol andare oltre Monti, accettandone però tutti i vincoli e gli impegni assunti. Quante ridicole chiacchiere.
Si capisce così la convergenza di interessi che porta a cancellarci. Da un lato coloro che vogliono affermare l’assenza di alternative alla politica dei tecnici. Dall’altro coloro che vogliono presentarsi come speranza e cambiamento, avendo già sottoscritto di non cambiare davvero niente.
Si capisce allora perché diamo fastidio e vogliono impedirci di esistere. Noi smascheriamo il trucco. Ma noi invece esistiamo e dal 27 ottobre cominceremo a riavvicinare l’Italia a quell’Europa che lotta contro Monti, Merkel e tutti coloro che li sostengono.
Fonte: http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2012/10/22/giorgio-cremaschi-il-silenzio-di-regime-sul-no-monti-day/.
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European-wide general strike November 14
How real? How relevant?
November 14 will – at the very least – see strike action against austerity in four European countries: Spain, Portugal, Greece and Cyprus. (1) There is the potential of much, much more, and people from very diverse backgrounds are working in the direction of en Europe-wide general strike on that day. Does it make sense? How can we contribute in such ways that N14 – as the date is beginning to be called – can become much more than yet another mostly symbolic action such as we have been seeing many times already?
First, the situation itself. Trade union federations have called nationwide one day general strikes for November 14 in the four countries I mentioned. Apparently, union federations in France and Italy are considering the idea as well. Let's be clear on the importance of this. Union federations do not launch these kind of strikes because they want serious resistance to austerity. Rather, they want these strikes as a show of force to strengthen their own positiaon as mediators of the class struggle, as managers of discontent. They want to show governments and bosses: hey, there is a lot of discontent amongst workers. We will try to hold it in check for you; it is our (rather well-paid) job. But you have to give some concessions, you have to soften your stance on austeriry a bit. Only that will enable us to play our role, ony then we can say to our members: trust us, don't rock the boat, we will bring about some improvements. To show governments that the trade union leaders have to be taken into account, trade union leaders call their members to strike, as if to say to govermnent: do you see all these angry workers? Do you feel the disruption they cause, for just one day? Now, do you appreciate our trouble to keep them quiet? Please help us doing so, by giving us concessions to increase our credibility among these workers. Or would you rather have these workers pushing us aside and fighting on their own terms? Would you rather have strtikes without fixed duration, wildcat strikes, all-out class confrontation?
These strikes, then, are entirely bureaucratic in their motivation, as far as trade union functionaries are concerned. Workers, however, tend to see them as opportunities to show their anger, and make their anger felt. Rightly so! For radicals, that makes them relevant. The more a strike call is supported, in as militant a fashion as possible, the stronger workers will feel, the stronger ties of solidarity will be built.. In itself, this does not stop governments or austerity policies. But it builds working class strength and confidence needed for a serious struggle. Trade union leaders use these kind of strikes to parade workers as their stage army. Radical workers, anarchists among them, want to see the soldiers of that army starting to fight on their own account, turning the stage army in an independent force fighting from below. That is whay libertarian communists should, in my view, take these strike calls seriously. Not because we trust the trade unions, but on the contrary, because we doe not trust them, and refuse to leave the struggle in their iron grip.
The general strikes on N14 will not, in themselves, stop austerity or bring down governments. Even a one day European strike will not do that. Greece has seen 20 general strikes of this type. Yet, the government did neither fall nor budge because of that. One can say that, without the discontente expressed through thesee strikes, the Greek goverment and the EU bureaucrats would feel even more arrogantly confident to push on; in that sense, the strikes may have acted as a brake. But it is clear that to beat back austerity, a much more offensive approach – ongoing strikes, occupations, street blockades, confrontation with the state – will be needed (2). But the mobilizations around the strikes can be used as stepping stones in that direction. The same applies to the European wide strike action now being organized and discussed for N14. And yes, when you are striking in Spain in the knowledge that workers in Greece, Portugal and Cyprus (and Italy? And France? And... ?) are out on strike, it probably raises your confidence, making you feel part of an even bigger whole. So yes, by all means, let's support the European-wide general strike – in our own independent fashion. It is not at all the magic trick to end our problems. But we can use it as part of building our fight – and spreading our ideas within the fight.
How? I have not very much to say here about the specifics of struggle in Spain, Portugal, Cyprus and Greece. The general idea is clear: making the strike as forceful as possible, challenging the top-down union bureaucratic grip on events, connecting with ongoing struggles, introducing direct-action dynamics within and around the strike and connected demonstrations. For instance, the anti-austerity protest organized in Londen last Saturday was by trade unions along familiar, bureaucratic, blowing-off-steam-and-then-go-home lines. However, as mentioned in “What October 20 tells us about the state of the movement”, on Libcom (3), Disabled People Against Cuts held a beautiful street blockade with wheelchairs as part of the action which raised the temperture and added to the pressure. Initiatives like these can make mobilizations much more forceful than trade union organizers intend them to be. Radicals in the countries where the strike is on will find their way.
There are, however countries where ther is no general strike call from trade union circles in sight. The Netherlands is one of these countries. Yes, ETUC, the European trade union federation, has made a call for “a day of action and solidarity on 14 November, including strikes, demonstrations, rallies and other actions.” (4) Not quite a call for a general strike, but a step in that direction. The purpose: “mobilising the European trade union movement behind ETUV policies as set down in the Social Compact for Europe”. Whatever is in that document, people will understand this call as a protest against the European-wide austerity policies, at least in their current form. Just like national general strike calls can be used to mobilize around in the direction of a more radical approach, the ETUC call can be used to build in the direction of European-wide strike action and more. This is what people, myself included, are trying to do in the Netherlands.
It is important to do it right, however. There is the temptation to get stuck on trade union territory, to just take the ETUC call, step to the unions and demand that they organize strike action, imploring them, pressurizing them, leaving it up to them. This is the approach that Trotskyists use in Britain: demanding that the TUC organize a general strike. Lenin's Tomb expresses the idea: “there is a basis for mass industrial action to happen if only the trade unions are willing to support it.” (5) Ah, if only! They will solve the problem for us! And what if they don't? Wait for better days and Sell the Paper? I think a much more fruitful approach can and should be tried. The idea of e a general strike on a European scale can be pushed by radical circles, whether anarchists, Occupy-related networks, other formal or informal netwerks of radicals.
For the day itself, street actions can be planned, noisy pots-and-pans protest marches ans assemblies like in Quebec last summer, blockades of buildings where hated, austerity-related institutions are seated, 'ordinary' demonstrations, pickets at embassies of states where general strikes are going forward. People might spontaneously get sick of austerity on that 14th of November as well. Anything to express solidarity with the struggle against austerity. Anyything to raise the anti-austerity temperature. And all exoplicitly connected to the general strike idea for N14. And who knows, there might just be an office department, a factory, a company, where workers are already so fed up and confident that they might come out on strike. There might even be a trade union branch or wing here and there that is sensitive to the mood, and starts supporting the idea. You never know how far you come unless you try. However, our approach should not make itself depend on that unions will or will not do. Independent initiative and organization from the bottom up, are essential. Waiting for the unions would be catastrophic and, more importantly, it is entirely unneccessary.
The idea has been tried before. On May Day this year, calls went out in the US for a general strike. Occupy- and related initiatives spread the call, and organized street protests on that day. No, it was not a general strike. But is spread the idea of such a strike, and it was a step in that direction. No, a combination of the actions that I mentioned for N14 will very likely not amount to a full general strike, it may not even come close. But it would spread the idea that strike action is needed and should be built, it would be a step in the right direction. And maybe it could become a dress rehearsal for something much bigger as well, on the First May 2013...
[1] “Anti-Austerity Allies Coming Together for Cordinated European Strikes”, Common Dreams, 19 oktober 2012,
[2] The insights that Thrasybulus expresses in “General strike: Round 20”, on Libcom.org, are vital here.
[3] Phil, “What October 20 tells us about the state of the movement”, Libcom.org, 21 October.
[4] ETUC, “ETUC day of action and solidarity for a Social Compact for Europe” , October 17
[5] “Mass protests against the cuts”, Lenin's tomb, October 20.
For this article, the forum thread on Libcom, “European general strike? 14 November” , has been very useful.
In
at least four countries, there will be a general strike on November 14. There
are calls to turn it into a European general strike. What to make of the idea,
how to operate most fruitfully in connection to these and similar initiatives,
is the subject of this article.
November 14 will – at the very least – see strike action against austerity in four European countries: Spain, Portugal, Greece and Cyprus. (1) There is the potential of much, much more, and people from very diverse backgrounds are working in the direction of en Europe-wide general strike on that day. Does it make sense? How can we contribute in such ways that N14 – as the date is beginning to be called – can become much more than yet another mostly symbolic action such as we have been seeing many times already?
First, the situation itself. Trade union federations have called nationwide one day general strikes for November 14 in the four countries I mentioned. Apparently, union federations in France and Italy are considering the idea as well. Let's be clear on the importance of this. Union federations do not launch these kind of strikes because they want serious resistance to austerity. Rather, they want these strikes as a show of force to strengthen their own positiaon as mediators of the class struggle, as managers of discontent. They want to show governments and bosses: hey, there is a lot of discontent amongst workers. We will try to hold it in check for you; it is our (rather well-paid) job. But you have to give some concessions, you have to soften your stance on austeriry a bit. Only that will enable us to play our role, ony then we can say to our members: trust us, don't rock the boat, we will bring about some improvements. To show governments that the trade union leaders have to be taken into account, trade union leaders call their members to strike, as if to say to govermnent: do you see all these angry workers? Do you feel the disruption they cause, for just one day? Now, do you appreciate our trouble to keep them quiet? Please help us doing so, by giving us concessions to increase our credibility among these workers. Or would you rather have these workers pushing us aside and fighting on their own terms? Would you rather have strtikes without fixed duration, wildcat strikes, all-out class confrontation?
These strikes, then, are entirely bureaucratic in their motivation, as far as trade union functionaries are concerned. Workers, however, tend to see them as opportunities to show their anger, and make their anger felt. Rightly so! For radicals, that makes them relevant. The more a strike call is supported, in as militant a fashion as possible, the stronger workers will feel, the stronger ties of solidarity will be built.. In itself, this does not stop governments or austerity policies. But it builds working class strength and confidence needed for a serious struggle. Trade union leaders use these kind of strikes to parade workers as their stage army. Radical workers, anarchists among them, want to see the soldiers of that army starting to fight on their own account, turning the stage army in an independent force fighting from below. That is whay libertarian communists should, in my view, take these strike calls seriously. Not because we trust the trade unions, but on the contrary, because we doe not trust them, and refuse to leave the struggle in their iron grip.
The general strikes on N14 will not, in themselves, stop austerity or bring down governments. Even a one day European strike will not do that. Greece has seen 20 general strikes of this type. Yet, the government did neither fall nor budge because of that. One can say that, without the discontente expressed through thesee strikes, the Greek goverment and the EU bureaucrats would feel even more arrogantly confident to push on; in that sense, the strikes may have acted as a brake. But it is clear that to beat back austerity, a much more offensive approach – ongoing strikes, occupations, street blockades, confrontation with the state – will be needed (2). But the mobilizations around the strikes can be used as stepping stones in that direction. The same applies to the European wide strike action now being organized and discussed for N14. And yes, when you are striking in Spain in the knowledge that workers in Greece, Portugal and Cyprus (and Italy? And France? And... ?) are out on strike, it probably raises your confidence, making you feel part of an even bigger whole. So yes, by all means, let's support the European-wide general strike – in our own independent fashion. It is not at all the magic trick to end our problems. But we can use it as part of building our fight – and spreading our ideas within the fight.
How? I have not very much to say here about the specifics of struggle in Spain, Portugal, Cyprus and Greece. The general idea is clear: making the strike as forceful as possible, challenging the top-down union bureaucratic grip on events, connecting with ongoing struggles, introducing direct-action dynamics within and around the strike and connected demonstrations. For instance, the anti-austerity protest organized in Londen last Saturday was by trade unions along familiar, bureaucratic, blowing-off-steam-and-then-go-home lines. However, as mentioned in “What October 20 tells us about the state of the movement”, on Libcom (3), Disabled People Against Cuts held a beautiful street blockade with wheelchairs as part of the action which raised the temperture and added to the pressure. Initiatives like these can make mobilizations much more forceful than trade union organizers intend them to be. Radicals in the countries where the strike is on will find their way.
There are, however countries where ther is no general strike call from trade union circles in sight. The Netherlands is one of these countries. Yes, ETUC, the European trade union federation, has made a call for “a day of action and solidarity on 14 November, including strikes, demonstrations, rallies and other actions.” (4) Not quite a call for a general strike, but a step in that direction. The purpose: “mobilising the European trade union movement behind ETUV policies as set down in the Social Compact for Europe”. Whatever is in that document, people will understand this call as a protest against the European-wide austerity policies, at least in their current form. Just like national general strike calls can be used to mobilize around in the direction of a more radical approach, the ETUC call can be used to build in the direction of European-wide strike action and more. This is what people, myself included, are trying to do in the Netherlands.
It is important to do it right, however. There is the temptation to get stuck on trade union territory, to just take the ETUC call, step to the unions and demand that they organize strike action, imploring them, pressurizing them, leaving it up to them. This is the approach that Trotskyists use in Britain: demanding that the TUC organize a general strike. Lenin's Tomb expresses the idea: “there is a basis for mass industrial action to happen if only the trade unions are willing to support it.” (5) Ah, if only! They will solve the problem for us! And what if they don't? Wait for better days and Sell the Paper? I think a much more fruitful approach can and should be tried. The idea of e a general strike on a European scale can be pushed by radical circles, whether anarchists, Occupy-related networks, other formal or informal netwerks of radicals.
For the day itself, street actions can be planned, noisy pots-and-pans protest marches ans assemblies like in Quebec last summer, blockades of buildings where hated, austerity-related institutions are seated, 'ordinary' demonstrations, pickets at embassies of states where general strikes are going forward. People might spontaneously get sick of austerity on that 14th of November as well. Anything to express solidarity with the struggle against austerity. Anyything to raise the anti-austerity temperature. And all exoplicitly connected to the general strike idea for N14. And who knows, there might just be an office department, a factory, a company, where workers are already so fed up and confident that they might come out on strike. There might even be a trade union branch or wing here and there that is sensitive to the mood, and starts supporting the idea. You never know how far you come unless you try. However, our approach should not make itself depend on that unions will or will not do. Independent initiative and organization from the bottom up, are essential. Waiting for the unions would be catastrophic and, more importantly, it is entirely unneccessary.
The idea has been tried before. On May Day this year, calls went out in the US for a general strike. Occupy- and related initiatives spread the call, and organized street protests on that day. No, it was not a general strike. But is spread the idea of such a strike, and it was a step in that direction. No, a combination of the actions that I mentioned for N14 will very likely not amount to a full general strike, it may not even come close. But it would spread the idea that strike action is needed and should be built, it would be a step in the right direction. And maybe it could become a dress rehearsal for something much bigger as well, on the First May 2013...
[1] “Anti-Austerity Allies Coming Together for Cordinated European Strikes”, Common Dreams, 19 oktober 2012,
[2] The insights that Thrasybulus expresses in “General strike: Round 20”, on Libcom.org, are vital here.
[3] Phil, “What October 20 tells us about the state of the movement”, Libcom.org, 21 October.
[4] ETUC, “ETUC day of action and solidarity for a Social Compact for Europe” , October 17
[5] “Mass protests against the cuts”, Lenin's tomb, October 20.
For this article, the forum thread on Libcom, “European general strike? 14 November” , has been very useful.
mercoledì 24 ottobre 2012
Stereotipi di genere e discriminazione in Tv. L'Italia è fuori legge
di Claudia Moretti - rifondazione -
E' ormai fatto notorio: la televisione italiana rappresenta la società in un modo irreale, macchiettistico quasi, rappresentando uomini e donne di un'Italia che non esiste, o non esiste più.
Uomini attempati vestiti in giacca e cravatta al fianco di giovani seminude, belle e mute. Non solo in programmi quali Veline, Ciao Darwin e Striscia la Notizia al centro di critiche da anni, ma anche in icone della modernità e dell'intellettualismo come Che tempo che fa (si pensi alla bella svedese Felipa Lageback che accanto, a Fazio, non ha altro ruolo se non quello di sorridere) o nella sagra nazional-popolare del festival di Sanremo. La donna rimane ai margini, subordinata, muta o tutt'al più sorridente, oggetto di sketch televisivi dove l'uomo è dipinto come un vecchio bavoso che seduce la giovane. Spesso inquadrata dal basso, deumanizzata.
E' ormai fatto notorio: la televisione italiana rappresenta la società in un modo irreale, macchiettistico quasi, rappresentando uomini e donne di un'Italia che non esiste, o non esiste più.
Uomini attempati vestiti in giacca e cravatta al fianco di giovani seminude, belle e mute. Non solo in programmi quali Veline, Ciao Darwin e Striscia la Notizia al centro di critiche da anni, ma anche in icone della modernità e dell'intellettualismo come Che tempo che fa (si pensi alla bella svedese Felipa Lageback che accanto, a Fazio, non ha altro ruolo se non quello di sorridere) o nella sagra nazional-popolare del festival di Sanremo. La donna rimane ai margini, subordinata, muta o tutt'al più sorridente, oggetto di sketch televisivi dove l'uomo è dipinto come un vecchio bavoso che seduce la giovane. Spesso inquadrata dal basso, deumanizzata.
Non si racconta, invece, la complessità della nostra società, le nuove generazioni che nulla hanno a che vedere con quel modello televisivo proposto.
Nulla di nuovo. Quel che è meno notorio è che tutto ciò è bandito da decenni dal nostro ordinamento internazionale e, dunque, anche in quello nazionale. La lotta agli stereotipi, infatti, rientra a pieno, negli obiettivi d'azione di pari opportunità ed è il corollario dei principi di pari dignità e di non discriminazione.
Ormai da oltre quarant'anni, le Nazioni Unite, hanno preso atto dell'esigenza di intervenire sulla rappresentazione di genere, approvando la Convenzione sui diritti delle donne CEDAW, ossia la Dichiarazione sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, adottata dall'Assemblea Generali nel 1979 e ratificata dall'Italia nel 1985).
Ecco quanto riporta l'articolo 5:
“Gli Stati prendono ogni misura adeguata:
a) al fine di modificare gli schemi ed i modelli di comportamento socioculturale degli uomini e delle donne e di giungere ad una eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che siano basate sulla convinzione dell'inferiorità o della superiorità dell'uno o dell'altro sesso o sull'idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne
b) al fine di far sì che l'educazione familiare contribuisca alla comprensione che la maternità è una
funzione sociale e che uomini e donne hanno responsabilità comuni nella cura di allevare i figli e di
assicurare il loro sviluppo, restando inteso che l'interesse dei figli è in ogni caso la considerazione
principale”
Già negli anni '90 l'obiettivo posto dalla CEDAW viene ribadito e rafforzato nella Piattaforma di Pechino (1995, protocollo emanato in seno alla IV Conferenza Mondiale delle Donne organizzata dalle Nazioni Unite) dove si individuano varie aree critiche di azione e promozione dei diritti delle donne, tra cui anche una, rubricata Donne e Media. La comunità internazionale prede atto della diffusa permanenza di pregiudizi e di discriminazioni nella rappresentazione di genere nei mass media e stila l'elenco delle attività che sono richieste ai governi per superare gli stereotipi di genere.
Eccone alcuni passaggi salienti:
1. promuovere la ricerca e la formazione delle donne nel campo delle comunicazioni affinché possano, con il loro contributo ed intervento professionale rimediare alle scelte editoriali che danneggiano l'immagine femminile;
2. promuovere la formazione di comitati di controllo, formati da donne, dove si osservano i media e si raccolgono proteste e reclami;
3. promuovere il pluralismo culturale e la creatività al fine di dar conto delle numerose realtà che caratterizzano la donna, allontanandosi dai modelli steriotipati;
4. promuovere, a tutti i livelli istituzionali e non, l'innalzamento del livello di consapevolezza delle tematiche di genere e delle tematiche degli stereotipi sessisti.
Nel nostro Paese la Convenzione CEDAW è lettera morta. Ecco cosa emerge dalle raccomandazioni del Comitato Cedaw all'Italia del 26 luglio 2011:
“…[...]il Comitato esprime il proprio disappunto circa il fatto che lo Stato-membro non abbia sviluppato un programma completo e coordinato per combattere l’accettazione generalizzata di ruoli stereotipati tra uomo e donna, come raccomandato nelle precedenti Osservazioni Conclusive del Comitato. Il Comitato rimane profondamente preoccupato per la rappresentazione della donna quale oggetto sessuale e per gli stereotipi circa i ruoli e le responsabilità dell’uomo e della donna nella famiglia e nella società. Tali stereotipi, contenuti anche nelle dichiarazioni pubbliche rese dai politici, minano la condizione sociale della donna, come emerge dalla posizione svantaggiata delle donne in una serie di settori, incluso il mercato del lavoro e l’accesso alla vita politica e alle cariche decisionali, condizionano le scelte delle donne nei loro studi ed in ambito professionale e comportano che le politiche e le strategie adottate generino risultati ed impatti diseguali tra uomini e donne.”
Nulla di nuovo. Quel che è meno notorio è che tutto ciò è bandito da decenni dal nostro ordinamento internazionale e, dunque, anche in quello nazionale. La lotta agli stereotipi, infatti, rientra a pieno, negli obiettivi d'azione di pari opportunità ed è il corollario dei principi di pari dignità e di non discriminazione.
Ormai da oltre quarant'anni, le Nazioni Unite, hanno preso atto dell'esigenza di intervenire sulla rappresentazione di genere, approvando la Convenzione sui diritti delle donne CEDAW, ossia la Dichiarazione sulla eliminazione di tutte le forme di discriminazione contro le donne, adottata dall'Assemblea Generali nel 1979 e ratificata dall'Italia nel 1985).
Ecco quanto riporta l'articolo 5:
“Gli Stati prendono ogni misura adeguata:
a) al fine di modificare gli schemi ed i modelli di comportamento socioculturale degli uomini e delle donne e di giungere ad una eliminazione dei pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere, che siano basate sulla convinzione dell'inferiorità o della superiorità dell'uno o dell'altro sesso o sull'idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne
b) al fine di far sì che l'educazione familiare contribuisca alla comprensione che la maternità è una
funzione sociale e che uomini e donne hanno responsabilità comuni nella cura di allevare i figli e di
assicurare il loro sviluppo, restando inteso che l'interesse dei figli è in ogni caso la considerazione
principale”
Già negli anni '90 l'obiettivo posto dalla CEDAW viene ribadito e rafforzato nella Piattaforma di Pechino (1995, protocollo emanato in seno alla IV Conferenza Mondiale delle Donne organizzata dalle Nazioni Unite) dove si individuano varie aree critiche di azione e promozione dei diritti delle donne, tra cui anche una, rubricata Donne e Media. La comunità internazionale prede atto della diffusa permanenza di pregiudizi e di discriminazioni nella rappresentazione di genere nei mass media e stila l'elenco delle attività che sono richieste ai governi per superare gli stereotipi di genere.
Eccone alcuni passaggi salienti:
1. promuovere la ricerca e la formazione delle donne nel campo delle comunicazioni affinché possano, con il loro contributo ed intervento professionale rimediare alle scelte editoriali che danneggiano l'immagine femminile;
2. promuovere la formazione di comitati di controllo, formati da donne, dove si osservano i media e si raccolgono proteste e reclami;
3. promuovere il pluralismo culturale e la creatività al fine di dar conto delle numerose realtà che caratterizzano la donna, allontanandosi dai modelli steriotipati;
4. promuovere, a tutti i livelli istituzionali e non, l'innalzamento del livello di consapevolezza delle tematiche di genere e delle tematiche degli stereotipi sessisti.
Nel nostro Paese la Convenzione CEDAW è lettera morta. Ecco cosa emerge dalle raccomandazioni del Comitato Cedaw all'Italia del 26 luglio 2011:
“…[...]il Comitato esprime il proprio disappunto circa il fatto che lo Stato-membro non abbia sviluppato un programma completo e coordinato per combattere l’accettazione generalizzata di ruoli stereotipati tra uomo e donna, come raccomandato nelle precedenti Osservazioni Conclusive del Comitato. Il Comitato rimane profondamente preoccupato per la rappresentazione della donna quale oggetto sessuale e per gli stereotipi circa i ruoli e le responsabilità dell’uomo e della donna nella famiglia e nella società. Tali stereotipi, contenuti anche nelle dichiarazioni pubbliche rese dai politici, minano la condizione sociale della donna, come emerge dalla posizione svantaggiata delle donne in una serie di settori, incluso il mercato del lavoro e l’accesso alla vita politica e alle cariche decisionali, condizionano le scelte delle donne nei loro studi ed in ambito professionale e comportano che le politiche e le strategie adottate generino risultati ed impatti diseguali tra uomini e donne.”
Quanto poco è democratico il sistema elettorale americano!
di Valerio Pierantozzi - eastjournal -
“Gli elettori americani voteranno il presidente degli Stati Uniti”. “Il nuovo presidente scelto dalla maggioranza dei cittadini statunitensi”. Quando sentirete frasi come queste nelle prossime settimane, ricordatevi che sono false. O quanto meno non corrette.
Il sistema elettorale americano che porterà all’elezione di Mitt Romney o di Obama II infatti non è così semplice e diretto. Altro che “porcellum”, qui parliamo di un vero e proprio “bufalum”.
La trappola dei Grandi Elettori
Iniziamo col dire che gli elettori non votano direttamente il presidente, ma i cosiddetti “Grandi Elettori”. In pratica, ognuno dei 50 Stati facenti parte della repubblica federale elegge un numero prestabilito di Grandi Elettori che sono associati con un candidato presidente. In tutto sono 535 e sono costoro che poi votano il presidente cui erano associati. Almeno teoricamente. Chi garantisce che qualcuno di questi, per un motivo o un altro, non possa cambiare idea? Obama, per continuare a occupare la Sala Ovale, dovrà avere l’appoggio di almeno 270 Grandi Elettori.
Quanti Elettori ha ogni Stato americano? Si calcolano più o meno in base alla popolazione. “Più o meno” perché in realtà ogni Stato ha diritto a due grandi elettori più un numero pari ai deputati inviati alla Camera. Ne viene che le zone poco popolate sono proporzionalmente più rappresentate. Per esempio: la California ha 37 milioni di abitanti ed elegge 55 Elettori, mentre il Wyoming (meno di 600mila persone) ne prende 3.
Avere più voti non garantisce la vittoria
Altra particolarità è che, tranne in piccoli casi, il candidato che vince in uno Stato, anche fosse di un solo voto, prende tutti i Grandi Elettori associati. Questo sistema può provocare delle situazioni paradossali, in cui il candidato che prende più voti in assoluto potrebbe anche non arrivare alla Casa Bianca. Impossibile? È esattamente quello che è successo nel 2000, quando Al Gore prese oltre mezzo milione di voti in più dell’eletto George W. Bush.
Il motivo per cui negli Stati Uniti si applica questo macchinoso sistema è prettamente storico. La Costituzione americana infatti è stata redatta alla fine del ’700 e a quel tempo c’erano dei problemi piuttosto tecnici per un’elezione di questo tipo.
All’epoca infatti erano solo 13 gli stati federati (non 50) ed era quindi più semplice decidere: “Ok, chi vince in uno Stato manda i suoi rappresentanti a Washington a votare il presidente”, piuttosto che “ogni cittadino vota il presidente che preferisce” oppure “ognuno vota il Grande Elettore che preferisce e poi questo va nella capitale a votare il presidente”. Sembrano differenze di poco conto ora, ma non deve essere sembrato così ai padri costituenti.
C’è inoltre un’altra stranezza in tutto il sistema di voto statunitense. In Italia, così come nella maggior parte d’Europa, possono votare tutti i cittadini maggiorenni. È davvero molto difficile perdere tale diritto. Il certificato elettorale viene spedito direttamente a casa e la persona va poi al seggio. Ma non in America: sarebbe troppo facile!
Le liste elettorali, ostacolo al voto
Intanto iniziamo col dire che possono votare solo coloro che sono iscritti alle liste elettorali. Iscrizione che molti Stati richiedono parecchi mesi prima delle tornata elettorale. Non solo: nel farlo ognuno deve dichiarare preventivamente anche l’appartenenza politica: democratico, repubblicano o indipendente. Altro che voto segreto…
Gli elenchi sono poi controllati da commissioni statali che cancellano le persone non idonee, ovvero coloro con precedenti penali, interdette dai pubblici uffici o ritenute non adatte per una serie di altri motivi.
Le epurazioni ovviamente vanno a toccare la parte più povera della popolazione, cioè soprattutto neri ed ispanici. È noto infatti che negli Stati Uniti c’è un’alta percentuale di pregiudicati di pelle non bianca, e questo per vari motivi tra cui anche il pregiudizio razziale.
Un voto manipolabile
Il risultato è una vera e propria manipolazione del voto. Nel 2000, sempre per fare l’esempio della discussa prima elezione di Bush junior, la Florida ha cancellato dalle liste 57.700 elettori, per la maggior parte neri e ispanici iscritti come elettori democratici. La vittoria andò al candidato repubblicano che sconfisse Al Gore per poco più di 500 (cinquecento) voti.
Quanto scritto finora mostra ciò che avete davanti agli occhi ogni giorno della vostra vita: la più grande democrazia da esportazione del mondo, che ha problemi col suo stesso sistema elettorale.
Un incubo
di Elisabetta Teghil - sinistrainrete -
Secondo una lettura che va per la maggiore, il popolo libico e quello siriano si sarebbero sollevati e, nonostante la repressione poliziesca e quella militare, avrebbero, nel primo caso, rovesciato il dittatore e, nel secondo, starebbero tenendo testa a polizia ed esercito governativi.Allora, forse, è il caso di andare in delegazione, anzi, direi, in pellegrinaggio, in Libia e in Siria, per farci spiegare come sia possibile, per una popolazione, sconfiggere polizia ed esercito o, comunque, tenergli testa.
Le vicende libiche e siriane ci dimostrerebbero, sempre se fosse vera la lettura che va per la maggiore, l’infondatezza della nostra presunta superiorità culturale, tecnica e politica.
Una domanda a margine, ma le donne possono far parte di questa delegazione o no?
Ma, almeno fra noi che ci dilettiamo di grafici, citazioni, parole difficili e scriviamo articoli il più lunghi possibile (versione del detto popolare “altezza è mezza bellezza” e, in questo caso, più lungo è, più dotto è) ma, almeno fra noi, ci possiamo fare il racconto semplice e prosaico che sono i paesi occidentali che hanno rovesciato Gheddafi e stanno tentando questo con Assad?
E’ così difficile dirlo e raccontarlo? E , magari, aggiungere che in prima fila ci sono gli Stati Uniti e l’Inghilterra? E che la Francia socialista (mai ideale più nobile è stato trascinato nel fango come in questo caso), sgomita per rendersi grata al padrone e per ritagliarsi qualche piccolo vantaggio? E che l’Italia si è fatta portare via, in un colpo solo, due protettorati, Tunisia e Libia, grazie all’autogol del presidente della repubblica e del PD?
A proposito di autogol, quello di Bari-Lecce era fraudolento e l’autore è stato condannato dalla magistratura sportiva e ordinaria.
Ma, siccome non siamo in campo sportivo, ma in ambito politico, quelli che lo hanno fatto sono e saranno premiati.
Il primo visita scolaresche e fabbriche con sventolii di bandierine tricolori ( e c’è qualcuna/o che ritiene che l’istituto Luce sia stato abolito), i secondi vinceranno le elezioni.
Ci dicono che, in Libia e in Siria, si può e si deve parlare di regime e che noi saremmo altro.
Non so se questo sia vero, lo lascio ai teorici dei se, dei ma, dei distinguo, ma, certo, i media fanno di tutto per farcelo credere.
So solo che, anche qui da noi, la povertà è molto estesa e fa passi da gigante e, oltre alle fasce tradizionalmente più deboli, oggi morde i polpacci alla piccola e media borghesia e ai liberi professionisti.
Il controllo sociale è talmente diffuso che siamo tutte/i controllati, anche l’irreprensibile, si fa per dire, cittadino famiglia e lavoro.
E’ tutto registrato e catalogato, telefonate e conversazioni, a casa e nei locali pubblici e, magari, anche all’aria aperta, e tutta la rete.
Mancano alcuni piccoli miglioramenti, ma ci stanno lavorando di buona lena, come, per esempio, l’abolizione dei pagamenti cartacei che verranno eliminati dopo un dibattito binario su cavilli di nessuna sostanza ma che, alla fine, presenterà l’utilità di questa scelta per combattere malavita ed evasione fiscale.
I provvedimenti passano sempre attraverso la motivazione nobile, il lancio della notizia, la pratica dell’assuefazione all’idea e qualche piccolo sconto posticcio che non cambia la sostanza delle cose.
Vi spiego i piani di chi vuole più Europa
di Fabrizio Tringali - byoblu -
Fabrizio Tringali, autore insieme a Marino Badiale di "La trappola dell'euro", con la prefazione di Alberto Bagnai, spiega perché è stata perseguita la moneta unica, in Europa, nonostante gli economisti sapessero fin dall'inizio che sarebbe stata una catastrofe
Buongiorno a tutti. Sono Fabrizio Tringali e sono l'autore di un libro uscito da poco sull'euro e sull'Unione Europea; il titolo del libro è “La trappola dell'Euro. Le cause, la crisi, le conseguenze e la via d'uscita”, scritto insieme a Marino Badiale che insegna matematica all'Università di Torino.
Sono molto grato a Claudio Messora per avermi dato la possibilità di raccontarvi qualcosa, rispetto alla crisi che stiamo vivendo, che spero possa esservi utile, affrontando anche qualche aspetto che magari finora non è stato del tutto affrontato. In effetti Marino Badiale ed io iniziamo a parlare della crisi e soprattutto del fatto che le cause della crisi vanno ricercate prevalentemente nell'euro già dai primi mesi del 2011, quando iniziammo a discutere di queste cose pubblicando un breve saggio all'epoca e venivamo abbastanza guardati come matti, ci dicevano che la crisi è dovuta al debito pubblico, la crisi è dovuta a Berlusconi, la crisi è dovuta alla corruzione, alla mafia, la crisi è dovuta a questo paese che non è capace di stare al pari con gli altri paesi dell'Europa migliori di noi. Ecco, tutte queste cose, che possono essere in parte vere, in parte non lo sono affatto e in parte magari sono, per così dire, delle aggravanti rispetto ad una situazione di crisi che però non è assolutamente dovuta a questo ma è dovuta appunto alla moneta unica. E questo, finalmente, devo dire che nel dibattito pubblico sta emergendo ormai, sta emergendo da tutte le parti, anche grazie al lavoro che sta facendo Claudio Messora, ma anche grazie a una persona come Alberto Bagnai, per esempio, che con un bellissimo blog ha spiegato moltissimi degli aspetti, delle criticità dell'euro, tra l'altro Alberto ha scritto anche la prefazione al libro che io e Marino abbiamo scritto. Di conseguenza ormai è abbastanza chiaro all'opinione pubblica che il primo motivo della crisi è proprio il fatto che la moneta unica ha unito delle economie molto diverse tra di loro e in questo modo le economie più forti, come è appunto quella della Germania, hanno finito per schiacciare quelle più deboli.
Una delle cose importanti, però, che non si dice ancora spesso nel dibattito pubblico è che le criticità di un'unione monetaria tra i paesi europei erano assolutamente note già trent'anni fa, non c'era nulla di ignoto. Se rispetto alla crisi, diciamo così, iniziata nel 2007 negli Stati Uniti e nel 2008 proseguita, effettivamente si può dire che era stata ben poco prevista, per quanto riguarda l'unione monetaria e l'euro la crisi era stata ampiamente prevista dagli economisti; così restituiamo anche un po' di dignità alla professione e alla scientificità della scienza economica, appunto, e delle tante persone capaci che di queste cose hanno parlato. Si iniziò a discutere di un sistema a cambi fissi in Europa già verso la fine degli anni '70, perché finito il cosiddetto regime di Breton Woods e quindi la parità dei cambi rispetto al dollaro e la convertibilità del dollaro con l'oro, in Europa si cominciò a discutere appunto di un sistema che irrigidisse i cambi. Questo per un motivo semplice: in un'economia aperta, in un'economia globalizzata, dove vi è la circolazione libera delle merci, dei capitali e dei servizi, chi ha il capitale desidera la rigidità dei cambi proprio per poter investire là dove conviene di più, senza rischiare di perdere proprio a causa della fluttuazione del cambio. Ebbene, si iniziò a discutere, si iniziò ad implementare anche un primo sistema che si chiamò “serpente monetario”, che ebbe poco successo, e poi si iniziò a parlare di un sistema più forte, più rigido: il Sistema Monetario Europeo (SME). Si iniziò a discutere quindi dell'adesione dell'Italia a questo sistema.
Repressione finanziaria, potere monetario e cancellazione del debito
di Stefano D’Andrea - sinistrainrete -
1. Repressione finanziaria come situazione e come regime giuridico.
Repressione finanziaria è espressione sconosciuta ai più.
Nell’uso volgare indica due diversi fenomeni: una situazione, creata da un’azione politica; e l’azione politica che la genera. Con la formula “azione politica” alludo all’emanazione e alla vigenza di un insieme di norme giuridiche volto a reprimere la redditività del capitale finanziario messo a rendita.
Repressione finanziaria è la situazione in cui il risparmio non genera rendite, o meglio genera rendite molto basse, inferiori al tasso d’inflazione. Nella situazione di repressione finanziaria, il tasso d’interesse reale dei titoli del debito pubblico (reale vuol dire che è corretto dall’inflazione) è negativo.
2. Una lunga stagione di repressione finanziaria.
Un recente e approfondito studio, promosso dal FMI, ha constatato che tra il 1946 e il 1980 il tasso medio di interesse reale sui titoli di stato delle economie avanzate è stato negativo (-1,6%); negativo è stato anche il tasso reale di sconto (-1,1%) (1).
I tassi di interesse reali negativi comportano una diminuzione dello stock di debito, senza che, per estinguere il debito, sia necessario utilizzare enormi entrate fiscali o tagliare la spesa pubblica. Mantenendo i tassi nominali al di sotto dell’inflazione si riduce il valore (reale) del debito, spostando ricchezza dai creditori ai debitori.
In Italia, tra il 1945 ed il 1955, il debito pubblico scese dal 66.9% al 38.1% del pil. In Gran Bretagna dal 215.6 al 138.2% (2).
3. Contro la cancellazione del debito pubblico.
Il dato della Gran Bretagna ma anche quello dell’Italia sono di fondamentale importanza. Essi gettano discredito sulle tesi di coloro che troppo semplicisticamente sostengono che il debito pubblico debba essere cancellato. Alla medesima conclusione si giunge se si osserva la condizione attuale del Giappone, che ha un debito pubblico pari al 230% del pil e non pensa minimamente di cancellarlo.
La tesi della cancellazione del debito pubblico, apparentemente estremistica, in realtà finisce per considerare il debito pubblico alla stessa stregua del debito privato e dunque muove da una ipotesi fallace. Se il debito pubblico fosse davvero in tutto e per tutto identico al debito privato, probabilmente si dovrebbe prendere atto che un alto debito pubblico genera interessi insostenibili. Ma la premessa è sbagliata e pertanto le proposte di cancellazione del debito finiscono per costituire un caso macroscopico di introiezione da parte dei dominati dell’ideologia dominante, la quale rivela di esser divenuta tanto egemone da poter penetrare, da ideologia dei dominanti, nella mente dei dominati.
Qual è la differenza tra i due debiti? Risiede in ciò, il titolare del debito pubblico è colui che ha il potere di disciplinarlo, mentre il titolare di un debito privato non ha il potere di disciplinare il proprio debito. Per recare un semplice esempio, in caso di uscita dall’Unione europea (non si può unilateralmente uscire dal solo euro), una modesta inflazione, nella misura del 6-7%, comporterebbe in breve tempo una riduzione del debito, in ragione del fatto che una buona parte del debito pubblico è a tasso fisso (inferiore al 6-7%). Ma vedremo tra breve in quali modi e con quali tecniche uno Stato sovrano può imporre tassi d’interesse reali inferiori all’inflazione e tenere sotto controllo il debito pubblico, il quale cessa così di essere un problema.
Inoltre, la ragion d’essere del regime di repressione finanziaria – che è un severo regime di lotta alla rendita – risiede proprio nel fatto che lo stato paga sicuramente. Lo Stato italiano ha pagato sempre e, salvo forse in un episodio, puntualmente. Dunque che cosa rischia chi investe in titoli del debito pubblico di uno stato che adotta (e può adottarlo perché stato sovrano), un regime giuridico di repressione finanziaria? Niente, perché lo stato pagherà, come ha sempre pagato. Gli stati che rischiano di andare in default sono soltanto gli stati che non adottano il regime di repressione finanziaria, sempre che non decidano di adottare tardivamente quel regime.
Una regola aurea della finanza è che dove non c’è rischio non deve esserci guadagno. In caso di default, verrebbe meno questa certezza di rischio zero e per lungo tempo lo Stato italiano dovrebbe pagare interessi reali positivi per attrarre il risparmio dei cittadini e degli stranieri. Chi vorrebbe dare soldi a un tasso d’interesse reale negativo a uno Stato che ha dimostrato di non pagare i propri debiti?
Quindi esistono validissime ragioni per le quali i ceti popolari e medi dovrebbero essere contrari, fin quando è possibile, alle proposte pseudo-estremistiche che propugnano un default rilevante (una sospensione o postergazione di sei mesi in situazione di crisi drammatica, per esempio al momento dell’uscita dall’Unione europea o, come è più probabile, in occasione della implosione di questa organizzazione internazionale, è invece pienamente accettabile). Non bisogna ulteriormente indebolire lo Stato, la fiducia nel medesimo e la considerazione della quale esso gode presso i cittadini. I ceti popolari e medi hanno bisogno dello Stato. Perciò, pian piano, è necessario muovere in direzione contraria a quella perseguita negli ultimi trenta anni e promuovere il ruolo dello Stato nella vita economica, sociale e politica della nazione.
martedì 23 ottobre 2012
ce lo chiede l’Europa ... che lotta!
Mettiamo in crisi Monti!
L’alternativa c’è. Partecipiamo al NOMONTIDAY per contribuire a costruirla. A chi dice che non ci sono alternative alle politiche di austerity volute dalla Merkel e dalla Troika, rispondiamo che dalla crisi non si esce tagliando i diritti e il futuro, soprattutto delle giovani generazioni. Il Fiscal Compact, che chiede al nostro paese tagli di 45 miliardi l’anno per i prossimi 20 anni, è un trattato contro i popoli d’Europa, contro le conquiste sociali che fanno parte della storia europea. Le politiche di austerity peggiorano la crisi economica e creano una crisi di civiltà, una barbarie in cui si distruggono tutti i diritti sociali e del lavoro e si distrugge assieme la democrazia. In Italia centrodestra e centrosinistra uniti nel montismo hanno approvato il Fiscal Compact, così come il pareggio di bilancio in Costituzione.
Manifestiamo nel NOMONTIDAY perché ci sentiamo parte di quel movimento europeo che ha visto i popoli manifestare contro l’austerity, dalla Spagna alla Grecia, al Portogallo, alla Francia e ad altri paesi. Vogliamo connettere le lotte dei popoli europei e costruire anche qui in Italia un’opposizione sociale e politica forte e unitaria. Dobbiamo irrompere nel vergognoso racconto a reti unificate di un paese senza opposizione.
Manifestiamo nel NOMONTIDAY perché ci sentiamo parte di quel movimento europeo che ha visto i popoli manifestare contro l’austerity, dalla Spagna alla Grecia, al Portogallo, alla Francia e ad altri paesi. Vogliamo connettere le lotte dei popoli europei e costruire anche qui in Italia un’opposizione sociale e politica forte e unitaria. Dobbiamo irrompere nel vergognoso racconto a reti unificate di un paese senza opposizione.
Vogliamo unire il Paese che resiste, le tante realtà di lotta contro le politiche di Monti, Fornero, Profumo, contro i tagli alla sanità, alla conoscenza, al sistema di welfare. Contro politiche che producono solo il peggioramento della disoccupazione, della recessione, della disperazione sociale, della solitudine.
Partecipiamo al NOMONTIDAY perché vogliamo:
più democrazia: le politiche di austerity espropriano la sovranità dei popoli ed instaurano una sorta di tecnocrazia autoritaria, nel solo interesse delle élites del capitalismo finanziario. Noi pensiamo che un’altra Europa sia possibile, fondata sulla democrazia e sulla partecipazione. Noi difendiamo la nostra Costituzione, figlia della Resistenza, da ogni manomissione e proponiamo, nel rispetto dello spirito della Costituzione, una legge elettorale proporzionale: la sola che garantisca il principio per cui tutti i voti hanno pari dignità.
più giustizia sociale: diciamo NO al FISCAL COMPACT. Sono le politiche monetarie e di bilancio a dover essere compatibili con i diritti sociali acquisiti, con il diritto all’esistenza degna di donne e uomini. Il futuro delle giovani generazioni non si costruisce con la precarietà e la cancellazione dei diritti operata dalle riforme delle pensioni e del lavoro a firma Fornero. Consideriamo, dunque, fortemente connesse le campagne referendarie per il ripristino dell’art. 18 e l’abrogazione dell’art. 8, contro la riforma delle pensioni e contro la precarietà, e la legge di iniziativa popolare per un reddito minimo garantito. È sui contenuti e sulla partecipazione che si può unire la sinistra d’alternativa e d’opposizione all’austerity.
un’altra Europa possibile: diversa dalla gerarchizzazione dei Paesi d’Europa voluta dalla Germania, dalla distruzione dello stato sociale imposta dall’austerity, dalla speculazione voluta dalle grandi finanziarie. Vogliamo l’Europa dei diritti e della democrazia.
più democrazia: le politiche di austerity espropriano la sovranità dei popoli ed instaurano una sorta di tecnocrazia autoritaria, nel solo interesse delle élites del capitalismo finanziario. Noi pensiamo che un’altra Europa sia possibile, fondata sulla democrazia e sulla partecipazione. Noi difendiamo la nostra Costituzione, figlia della Resistenza, da ogni manomissione e proponiamo, nel rispetto dello spirito della Costituzione, una legge elettorale proporzionale: la sola che garantisca il principio per cui tutti i voti hanno pari dignità.
più giustizia sociale: diciamo NO al FISCAL COMPACT. Sono le politiche monetarie e di bilancio a dover essere compatibili con i diritti sociali acquisiti, con il diritto all’esistenza degna di donne e uomini. Il futuro delle giovani generazioni non si costruisce con la precarietà e la cancellazione dei diritti operata dalle riforme delle pensioni e del lavoro a firma Fornero. Consideriamo, dunque, fortemente connesse le campagne referendarie per il ripristino dell’art. 18 e l’abrogazione dell’art. 8, contro la riforma delle pensioni e contro la precarietà, e la legge di iniziativa popolare per un reddito minimo garantito. È sui contenuti e sulla partecipazione che si può unire la sinistra d’alternativa e d’opposizione all’austerity.
un’altra Europa possibile: diversa dalla gerarchizzazione dei Paesi d’Europa voluta dalla Germania, dalla distruzione dello stato sociale imposta dall’austerity, dalla speculazione voluta dalle grandi finanziarie. Vogliamo l’Europa dei diritti e della democrazia.
L'orrore si avvicina alla Grecia: la Germania chiede la Zona Economica Speciale, lavoro schiavo. A favore di industrie e manager tedeschi.
Qualcuno ricorderà "No Logo", il libro di Naomi
Klein <http://petrolio.blogosfere.it/2007/12/regalo-istruttivo-per-adulti.html>
che rivelò al
mondo la realtà della globalizzazione ormai 12 anni fa. La Klein scopriva ed
esplorava le "Zone Economiche Speciali <http://it.wikipedia.org/wiki/Zona_Economica_Speciale>
" cinesi, indocinesi, filippine, quelle fabbriche
monstre dove lavoratori schiavizzati producono per pochi cents prodotti di
marca destinati al mercato occidentale. Oggi sono ancora di scandalo, come per
il caso Foxconn <http://crisis.blogosfere.it/2010/09/i-suicidi-delliphone.html>
Cassandre e profeti di sventura hanno per molto tempo
pronosticato un futuro analogo <http://crisis.blogosfere.it/2010/06/pomigliano-darco-verso-la-schiavitu-del-xxi-secolo.html>
anche per i Paesi
occidentali, vedendo un preciso disegno in questo senso sia in una crisi
finanziaria in qualche modo gestita all'uopo, sia nell'avvento dell'euro
strangolatore. Adesso ci siamo: la Germania chiede alla Grecia di diventare una
Zona Economica Speciale all'interno dell'Europa, per essere colonizzata dalle
industrie nordiche e, colmo dell'insulto, impiegare come dirigenti e funzionari
dei lavoratori tedeschi.
Prima le fonti: via Voci dalla Germania
<http://vocidallagermania.blogspot.it/2012/10/fabbriche-cacciavite.html>, fonte originale di Der Spiegel
Gli interessati tedeschi saranno favoriti attraverso la
creazione di zone economiche speciali da parte del governo greco, come da tempo
il mondo economico tedesco sta chiedendo. Secondo i piani attuali le aziende
riceveranno agevolazioni fiscali - dove possibile fino ad una imposizione dello
0% - inoltre, saranno previste anche sovvenzioni.
(...) Non solo alcune zone dell'economia greca, ma
"l'intero paese dovrebbe diventare una sorta di zona economica speciale
nella zona Euro". La gestione della "zona economica speciale
greca" dovrebbe essere realizzata "con personale straniero della
EU".
E i greci? Ma che domande: saranno semplicemente la
manodopera schiava, a mò di cinesi. D'altronde, ora che sono ridotti alla fame,
accoglieranno con gioia la possibilità di lavorare 12 ore al giorno per 3 o 400
euro al mese. Meglio che niente, come sostengono spesso certi perdenti italiani
già pronti alla stessa sorte.
Ora, non so se tutto questo accadrà davvero alla fine. Mi
sembra francamente impossibile, come un incubo in slow motion che muove verso
una conclusione da sempre temuta ma mai davvero creduta. Mi tocca pensare che
Arbeit Macht Frei non sia mai passato di moda, che quell'orrore in bianco e
nero abbia solo fatto finta di sbiadire.
Oppure, più semplicemente, che ci sono Paesi con
l'imperialismo nel DNA, che non riescono a perdere il vizio, è più forte di
loro.
insomma, come lo chiamano altri che se ne intendono.
LINK UTILI
Referendum: schiavi, o disoccupati
<http://crisis.blogosfere.it/2010/06/referendum-schiavi-o-disoccupati.html>
I lavori che gli italiani non vogliono più fare, o la
paga che non vogliono ancora prendere?
<http://crisis.blogosfere.it/2011/04/i-lavori-che-gli-italiani-non-vogliono-piu-fare-o-la-paga-che-non-vogliono-ancora-prendere.html>
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