di Stefano D’Andrea - sinistrainrete -
1. Repressione finanziaria come situazione e come regime giuridico.
Repressione finanziaria è espressione sconosciuta ai più.
Nell’uso volgare indica due diversi fenomeni: una situazione, creata da un’azione politica; e l’azione politica che la genera. Con la formula “azione politica” alludo all’emanazione e alla vigenza di un insieme di norme giuridiche volto a reprimere la redditività del capitale finanziario messo a rendita.
Repressione finanziaria è la situazione in cui il risparmio non genera rendite, o meglio genera rendite molto basse, inferiori al tasso d’inflazione. Nella situazione di repressione finanziaria, il tasso d’interesse reale dei titoli del debito pubblico (reale vuol dire che è corretto dall’inflazione) è negativo.
2. Una lunga stagione di repressione finanziaria.
Un recente e approfondito studio, promosso dal FMI, ha constatato che tra il 1946 e il 1980 il tasso medio di interesse reale sui titoli di stato delle economie avanzate è stato negativo (-1,6%); negativo è stato anche il tasso reale di sconto (-1,1%) (1).
I tassi di interesse reali negativi comportano una diminuzione dello stock di debito, senza che, per estinguere il debito, sia necessario utilizzare enormi entrate fiscali o tagliare la spesa pubblica. Mantenendo i tassi nominali al di sotto dell’inflazione si riduce il valore (reale) del debito, spostando ricchezza dai creditori ai debitori.
In Italia, tra il 1945 ed il 1955, il debito pubblico scese dal 66.9% al 38.1% del pil. In Gran Bretagna dal 215.6 al 138.2% (2).
3. Contro la cancellazione del debito pubblico.
Il dato della Gran Bretagna ma anche quello dell’Italia sono di fondamentale importanza. Essi gettano discredito sulle tesi di coloro che troppo semplicisticamente sostengono che il debito pubblico debba essere cancellato. Alla medesima conclusione si giunge se si osserva la condizione attuale del Giappone, che ha un debito pubblico pari al 230% del pil e non pensa minimamente di cancellarlo.
La tesi della cancellazione del debito pubblico, apparentemente estremistica, in realtà finisce per considerare il debito pubblico alla stessa stregua del debito privato e dunque muove da una ipotesi fallace. Se il debito pubblico fosse davvero in tutto e per tutto identico al debito privato, probabilmente si dovrebbe prendere atto che un alto debito pubblico genera interessi insostenibili. Ma la premessa è sbagliata e pertanto le proposte di cancellazione del debito finiscono per costituire un caso macroscopico di introiezione da parte dei dominati dell’ideologia dominante, la quale rivela di esser divenuta tanto egemone da poter penetrare, da ideologia dei dominanti, nella mente dei dominati.
Qual è la differenza tra i due debiti? Risiede in ciò, il titolare del debito pubblico è colui che ha il potere di disciplinarlo, mentre il titolare di un debito privato non ha il potere di disciplinare il proprio debito. Per recare un semplice esempio, in caso di uscita dall’Unione europea (non si può unilateralmente uscire dal solo euro), una modesta inflazione, nella misura del 6-7%, comporterebbe in breve tempo una riduzione del debito, in ragione del fatto che una buona parte del debito pubblico è a tasso fisso (inferiore al 6-7%). Ma vedremo tra breve in quali modi e con quali tecniche uno Stato sovrano può imporre tassi d’interesse reali inferiori all’inflazione e tenere sotto controllo il debito pubblico, il quale cessa così di essere un problema.
Inoltre, la ragion d’essere del regime di repressione finanziaria – che è un severo regime di lotta alla rendita – risiede proprio nel fatto che lo stato paga sicuramente. Lo Stato italiano ha pagato sempre e, salvo forse in un episodio, puntualmente. Dunque che cosa rischia chi investe in titoli del debito pubblico di uno stato che adotta (e può adottarlo perché stato sovrano), un regime giuridico di repressione finanziaria? Niente, perché lo stato pagherà, come ha sempre pagato. Gli stati che rischiano di andare in default sono soltanto gli stati che non adottano il regime di repressione finanziaria, sempre che non decidano di adottare tardivamente quel regime.
Una regola aurea della finanza è che dove non c’è rischio non deve esserci guadagno. In caso di default, verrebbe meno questa certezza di rischio zero e per lungo tempo lo Stato italiano dovrebbe pagare interessi reali positivi per attrarre il risparmio dei cittadini e degli stranieri. Chi vorrebbe dare soldi a un tasso d’interesse reale negativo a uno Stato che ha dimostrato di non pagare i propri debiti?
Quindi esistono validissime ragioni per le quali i ceti popolari e medi dovrebbero essere contrari, fin quando è possibile, alle proposte pseudo-estremistiche che propugnano un default rilevante (una sospensione o postergazione di sei mesi in situazione di crisi drammatica, per esempio al momento dell’uscita dall’Unione europea o, come è più probabile, in occasione della implosione di questa organizzazione internazionale, è invece pienamente accettabile). Non bisogna ulteriormente indebolire lo Stato, la fiducia nel medesimo e la considerazione della quale esso gode presso i cittadini. I ceti popolari e medi hanno bisogno dello Stato. Perciò, pian piano, è necessario muovere in direzione contraria a quella perseguita negli ultimi trenta anni e promuovere il ruolo dello Stato nella vita economica, sociale e politica della nazione.
4. La giustizia del regime di repressione finanziaria
Un singolo cittadino, dotato di risparmio, può investire in un’impresa locale o acquistare azioni, correndo il rischio che l’impresa non produca utili o che i titoli azionari perdano molto valore; o può prestare i soldi ad un privato che conosce o ad una impresa che emette obbligazioni, con il rischio di non riavere indietro i soldi o almeno parte di essi. Oppure può tenere il denaro in un conto corrente, perdendo certamente in valore reale, perché gli interessi saranno inferiori all’inflazione. Oppure può tenere il denaro sotto le mattonelle ma rischierà di subire una rapina e di perdere tutti i soldi. L’alternativa è prestare i soldi allo Stato, ricevendo in cambio titoli vendibili; in tal caso lo Stato si farà pagare tra l’1,5 e il 2% per il servizio di “assicurazione” e perché preserverà in parte il risparmio dall’inflazione; ed è giusto che le cose stiano così. Dico che dovrà pagare tra l’1,5% e il 2%, perché, nel nostro ordinamento, questo dovrebbe essere il giusto differenziale tra i tassi di interessi nominali e il tasso di inflazione, posto che la nostra costituzione (art. 47 Cost.) impone di tutelare il risparmio. Lo Stato nominalmente pagherà interessi ma in termini reali guadagnerà in ragione dell’inflazione maggiore del tasso nominale.
In regime di repressione finanziaria, non sussiste nemmeno l’ingiustizia di prelevare con le imposte a tutti i cittadini, compresi coloro che sono sprovvisti di risparmio, le somme da restituire, con interesse, ai risparmiatori che hanno finanziato la spesa pubblica. In realtà, il valore che questi ultimi avranno indietro sarà mediamente inferiore al potere di acquisto della moneta al tempo dell’emissione dei titoli, sicché si ha piuttosto una redistribuzione di ricchezza da coloro che sono dotati di risparmio a coloro che ne sono privi, anziché il contrario.
Qualcuno, detentore di risparmi consistenti e non intenzionato ad investire o a prestare assumendo il rischio della mancata restituzione, potrebbe credere di avere interesse alla mancata adozione di un regime di repressione finanziaria. Ma quel qualcuno, salvo che sia un ricco possidente, sbaglia. I quattro o cinquemila euro che un risparmiatore dotato di duecentomila euro, e che preferisca i titoli del debito pubblico, perderebbe se abbandonassimo l’attuale regime dei rentiers, sarebbero compensati: da maggiori possibilità che i figli o i nipoti trovino un lavoro; da più alti redditi da lavoro, in ragione del fatto che il denaro risparmiato dallo Stato sul pagamento degli interessi sarebbe in parte domanda pubblica e in parte, per la possibilità di diminuire le imposte, domanda privata, con conseguente aumento della produzione e dell’occupazione (più ci si avvicina alla piena occupazione e più i salari salgono); da maggiori profitti o compensi, se è titolare di un’impresa o svolge comunque un’attività autonoma, perché le minori imposte genererebbero maggiore domanda; dal fatto che non vedrebbe scomparire tribunali ed ospedali dalla propria città; e così via.
Insomma, bisogna decidere se si vuole una società fondata sulla rendita o una società nella quale lo Stato paga certamente i crediti per prestiti ad esso concessi e quindi, dove, essendo zero il rischio, non vi deve essere rendita, bensì modesta perdita per il servizio di parziale tutela dall’inflazione e di assicurazione contro i furti.
Si tratta di combattere la rendita e in fondo di dar vita a una rivoluzione “borghese”, più simile alla rivoluzione francese che a quella d’ottobre. Se siamo (tornati) al tempo (ancien régime) in cui la società è dominata dalla rendita (parassitaria, allora terriera, oggi finanziaria), dobbiamo accettare che questa è la battaglia da combattere nella nostra epoca.
5. Il regime giuridico italiano di repressione finanziaria.
Il regime di repressione finanziaria, che è stato vigente in Italia fino ai primi anni ottanta, era fondato su poche norme e principi giuridici.
A) Fino al 1975 la Banca d’Italia aveva la facoltà – si badi, facoltà, non obbligo – di effettuare acquisti di titoli di Stato sul mercato primario, ossia al momento dell’emissione dei titoli (art. 41, n. 4 dello Statuto allora vigente).
Una convenzione tra Ministero del Tesoro e Banca d’Italia del 1975, recepita in una delibera del Comitato Interministeriale per il Credito e per il Risparmio(autorità creditizia ausiliare del Governo, di seguito CICR) del 21 marzo 1975, imponeva alla Banca d’Italia di rendersi acquirente di tutti i BOT non collocati nel mercato. L’obbligo non era previsto a livello legislativo, bensì a livello di delibere del CICR.
L’obbligo è venuto meno nel 1981 con il cosiddetto divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, per accordo tra Andreatta, allora Ministro del Tesoro, e Ciampi, allora Governatore della banca d’Italia. Per estinguere l’obbligo non fu necessaria una legge ma una “lettera” di Andreatta a Ciampi, seguita, da un provvedimento del Ministro del Tesoro. In questo modo si tornava alla facoltà della Banca centrale di acquistare titoli. Stranamente non fu necessaria nemmeno una delibera del CICR, bensì un semplice provvedimento del Ministro.
Oggi non ci può essere obbligo e non ci può essere facoltà, nel senso che una legge italiana, deliberata dal Parlamento italiano, anche all’unanimità, la quale volesse reintrodurre l’obbligo o la facoltà per la Banca d’Italia di acquistare titoli di Stato, violerebbe l’art. 117 della Costituzione, che impone di legiferare nel rispetto dei vincoli comunitari (ma il principio della prevalenza del diritto comunitario – ora dell’Unione – sulla legislazione ordinaria italiana era stato già accolto dalla nostra Corte Costituzionale molto prima della modifica dell’art. 117 Cost.). Infatti, l’art. 104, comma 1, del Trattato di Maastricht, ora art. 123 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), vieta “l’acquisto diretto presso di essi” – ossia presso gli Stati membri – “di titoli di debito da parte della BCE o delle Banche centrali nazionali”.
La Banca centrale, adempiendo l’obbligo o, ancor prima, esercitando la facoltà di acquistare i titoli di stato, creava una domanda di titoli del debito pubblico e abbassava i tassi. Anzi, nel periodo più critico per l’economia, quando appunto venne introdotto l’obbligo, era il Governo a decidere senz’altro i tassi di interesse.
B) Il Tesoro poteva ricorrere a una particolare forma di indebitamento, costituita dallo scoperto del conto corrente di Tesoreria intrattenuto con la Banca d’Italia. La disciplina era contenuta nell’art. 2 del D. lgs. 7 maggio 1948, n. 544. L’utilizzo dello scoperto era consentito, formalmente (solo formalmente) a fini di equilibrio di cassa nella misura del 14% (fino al 1965 la percentuale era del 15%) delle spese finali del bilancio di competenza, quali risultavano dalla legge di approvazione annuale e successive modificazioni. Era una forma di credito automatico al Tesoro, verificato con riscontro mensile, che, a rigore, eliminava la illimitata possibilità dello Stato di finanziarsi presso la Banca d’Italia (3). L’interesse era fissato nella misura dell’1% (anche quando l’inflazione era del 10 o 20%!) e le spese di tenuta del conto erano forfettarie e avevano carattere simbolico. Ora è evidente, che al di là della formale enunciazione delle esigenze di cassa, l’enormità dello scoperto e la convenienza dell’interesse (1%) rispetto ad altre forme di finanziamento, spingevano lo Stato a sfruttare lo scoperto e di fatto assegnavano all’istituto una seconda funzione: si trattava a tutti gli effetti di un importante mezzo di finanziamento del fabbisogno dello Stato. Ricorrendo allo scoperto, lo Stato doveva emettere meno titoli e quindi incontrava più difficilmente problemi di scarsità della domanda, con la conseguenza che, indirettamente, il ricorso allo scoperto incideva anche sul livello dei tassi di interesse, abbassandoli.
Il limite massimo dello scoperto non poteva essere superato, salvo ricorrendo a un’anticipazione straordinaria, che però doveva essere autorizzata da una legge. Una volta si ricorse anche a un’anticipazione straordinaria, con la L. 24 gennaio 1983, n. 10. La durata dell’anticipazione venne fissata in dodici mesi. Mentre il tasso d’interesse non venne stabilito dalla legge in questione, la quale demandò la decisione ad un decreto del Ministero del Tesoro, ossia alla decisione del debitore!
La possibilità di ricorrere ad anticipazioni e quindi di godere di uno scoperto è stata soppressa dall’art. 1 della L. 26 novembre 1993, n. 483, il quale prevede che “la Banca d’Italia non può concedere anticipazioni di alcun tipo al Tesoro” (4). L’art. 1 è stato emanato in applicazione dell’art. 104, comma 1, del Trattato di Maastricht, ora con alcune modifiche formali, art. 123 del TFUE, il quale dispone che «Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle Banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate “Banche centrali nazionali”), a istituzioni, organi o organismi dell’Unione, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri… ». Nel dicembre del 1993 lo scoperto era di 76.206 miliardi di lire circa, i quali furono trasformati in BTP all’1% con scadenza tra il 2014 e il 2044.
Anche con riguardo a questa materia dobbiamo osservare che il Parlamento italiano non potrebbe reintrodurre l’illimitata possibilità dello Stato di finanziarsi presso la banca centrale, come originariamente previsto nel 1936, né la più modesta possibilità dello Stato di finanziarsi, entro certi limiti, ricorrendo a uno scoperto di conto corrente, come ancora ammesso fino al 1993. Infatti, tale la disciplina dovrebbe essere disapplicata, in ragione della prevalenza del diritto dell’Unione europea rispetto alle norme poste da leggi ordinarie emanate dal Parlamento italiano.
C) Un ruolo importante nel contenere gli interessi sul debito pubblico fu svolto fino al 1975 dalla disciplina della riserva obbligatoria. Il vincolo delle banche commerciali di costituire una riserva che avesse ad oggetto una parte dei depositi fu introdotto già nel 1926. Infatti, le crisi bancarie registratesi nel primo dopoguerra indussero a introdurre una garanzia per i depositanti. Dopo una serie di proposte non attuate, il RDL n. 1830 del 6 novembre 1926, nell’art. 15, previde il versamento in contanti ovvero l’investimento in titoli emessi o garantiti dallo Stato per la parte di depositi eccedente il rapporto di venti volte il patrimonio aziendale – ma al tempo il rapporto medio depositi/patrimonio era di circa 8 volte, sicché poche banche dovettero eseguire l’obbligo di versare la riserva. Peraltro, quando fallì la Banca italiana di Sconto, non tutte le quote vennero recuperate (il recupero oscillò tra il 62 e il 67%).
Anche per questa ragione venne modificata la disciplina della riserva obbligatoria. L’art. 32 del R.D.L. 12 marzo 1936, n. 375 prevedeva: “Le aziende di credito soggette alle disposizioni della presente legge dovranno attenersi alle istruzioni che l’Ispettorato (poi Banca d’Italia) comunicherà, conformemente alle deliberazioni del Comitato dei Ministri (poi CICR) relativamente … al rapporto fra il patrimonio netto e le passività ed alle possibili forme di impiego dei depositi raccolti in eccedenza all’ammontare determinato dal rapporto stesso”. In sostanza non era più prefissato per legge il coefficiente di riserva e si attribuiva al centro politico il potere di modificare il coefficiente (5).
Successivamente dal 1947 fino al 1962, la raccolta superiore a dieci volte il patrimonio delle banche netto andava versata in contanti o investita in titoli di stato, anche se la riserva non doveva eccedere il 15% (poi 25) dei depositi. Il 1955 è l’anno della punta massima, nel quale il 23,67 dei depositi andavano a riserva.
Seguirono molte modifiche del coefficiente di versamento della riserva, le quali prevedevano il versamento di una percentuale dei nuovi depositi registrati a fine mese, al netto del contestuale aumento del patrimonio netto, percentuale che variò dal 15% (nel 1975) al 25% nel 1982. Nel 1975 la disciplina subì una grande modificazione, perché, da quel momento, la riserva poteva essere costituita soltanto da contante e non da titoli (si ricordi che nel 1975 venne stipulata la convenzione tra banca d’Italia e Ministero del tesoro che prevedeva l’obbligo della prima di acquistare i titoli invenduti e che ebbe massima importanza l’istituto del vincolo di portafoglio: cfr. sub A e D).
E’ evidente come da strumento di tutela del risparmio la riserva si era trasformata in strumento di politica monetaria, utilizzabilissimo, dato l’alto ammontare della riserva, in periodi di inflazione, quando la liquidità aumenta e con essa aumentano i depositi rispetto alla capitalizzazione. Ma in questa sede interessa una terza funzione: quella di concorrere al finanziamento del fabbisogno statale e di abbassare i tassi di interesse. Vediamo come era svolta questa funzione:
1) La riserva obbligatoria, per la parte in titoli del debito pubblico era composta quasi esclusivamente da Bot. Tuttavia, il Tesoro, pur non avvantaggiandosi direttamente della disciplina della riserva obbligatoria, salvo la quota dei BOT, “era favorito indirettamente dalla riduzione dei tassi che in tal modo si veniva a determinare a causa dell’accresciuta domanda sul mercato delle emissioni obbligazionarie” (6). Eravamo in presenza di un vincolo di portafoglio occulto.
2) Ma c’era anche un altro vantaggio. La Banca centrale non era vincolata ad investire la riserva in contanti versata collettivamente dalle banche in titoli del tesoro ma di fatto acquistava titoli del tesoro (esercitando la facoltà della quale abbiamo detto sub A)
3) Infine vi era una “tassa occulta” che gravava sulle banche. Infatti la Banca d’Italia, sui titolo acquistati con la disponibilità del conto vincolato alle riserve, non percepiva il tasso di mercato ma retrocedeva al Tesoro la differenza tra gli interessi resi dai titoli del debito pubblico e il rendimento pagato alle banche per il versamento del denaro sul conto fruttifero (7).
Quando è stato abrogato l’istituto della riserva obbligatoria? Non è stato abrogato ma è stato completamente snaturato e, come forma di finanziamento del fabbisogno pubblicoe mezzo per abbassare i tassi, è stato disattivato.
L’art. 10 della legge del 26 novembre 1993 trasferì dal CICR alla Banca d’Italia il potere di disporre la riserva, variare i coefficienti e definire gli aggregati sui quali andava calcolato il coefficiente. Veniva così rescisso l’ultimo legame che congiungeva il Tesoro all’Istituto di emissione.
Si prevedeva poi la misura massima nel 17,5%, una misura ampiamente inferiore alla media che la riserva aveva avuto per molti anni. Ma fissata la misura massima era chiaro che, nell’interesse delle Banche commerciali, le quali desiderano impiegare il denaro di cui dispongono nel modo da esse reputato ottimale, la riserva sarebbe scesa, come infatti è scesa, fino ad arrivare a livelli irrisori.
Infine, in base all’ art.19 dello statuto del SEBC (sistema europeo di banche centrali), la BCE ha la facoltà di imporre agli enti creditizi insediati nei Paesi della zona euro la detenzione di riserve su conti costituiti presso la stessa BCE o presso le rispettive BCN. Oggi la riserva è costituita soltanto dal 1% dei depositi.
Pertanto non resta più niente di questo nobile istituto, anche mediante il quale un tempo lo Stato italiano ha esercitato il comando unico sul credito e sul finanziamento del fabbisogno pubblico.
D) Il vincolo di portafoglio era un obbligo delle banche di acquistare titoli obbligazionari. Fu introdotto nel 1973: le banche dovevano incrementare, in misura non inferiore al 6% della consistenza dei depositi, l’acquisto di titoli obbligazionari compresi in una “rosa” indicata dalla Banca d’Italia, che disciplinava anche come amministrare il portafoglio. Nel 1975, per risolvere alcuni problemi tecnici, sorti relativamente al metodo di calcolo, fu stabilito che l’acquisto era obbligatorio per il 40% degli incrementi dei depositi su base semestrale. Il vincolo di portafoglio ha avuto una importanza rilevante fino al 1978, quando progressivamente venne diminuito, fino a scomparire nel 1986 (la percentuale sugli incrementi scese al 6,5 poi al 5,5, al 4,5 fino ad arrivare all’1% nel 1986). Anche qui il vantaggio per il Tesoro era anche indiretto, perché la domanda di titoli obbligazionari faceva scendere i tassi.
E) Nei momenti di crisi si ricorreva anche al prestito forzoso. Mentre sembra che negli Stati Uniti e in Inghilterra si sia ricorsi al prestito forzoso soltanto durante la seconda guerra mondiale, quando i cittadini furono obbligati a sottoscrivere titoli del debito pubblico, in Italia si ricorse a questo strumento anche in tempo di pace. L’ultimo ricorso al prestito forzoso si ebbe nel 1976, quando in piena crisi economica, il governo Andreotti varò la legge n. 797/76 con la quale a partire dal febbraio ’77, gli incrementi della contingenza, vennero corrisposti mediante BTP al portatore.
F) Infine, il regime di repressione finanziaria era possibile in ragione del fatto che l’ordinamento conteneva enormi vincoli amministrativi alla circolazione dei capitali, e nel 1979 si era giunti anche ad introdurre sanzioni penali per la violazione di alcuni divieti. Il principio, desumibile dalla L. 25 luglio 1956, n. 786, era il divieto generale di concludere operazioni finanziarie con l’estero, salvo il rilascio di apposte autorizzazioni.
Tutti questi vincoli vennero meno, in parte nel 1986 e in parte nel 1988, in seguito alla direttive comunitarie 86/566 e 88/361. Anche in questa materia, finché resteremo all’interno dell’Unione europea, il Parlamento italiano non potrebbe reintrodurre, sia pure all’unanimità, restrizioni alla circolazione dei capitali, perché prevarrebbero le citate direttive e soprattutto l’art. 63 del TFUE, che vieta tutte le “restrizioni” alla circolazione dei capitali “tra Stati membri nonché tra Stati membri e paesi terzi”.
6. Conclusioni e proposte
Negli anni ottanta, abbandonammo il regime di repressione finanziaria. L’abbandono non avvenne soltanto con il divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia, come, con eccessiva semplificazione, talvolta si asserisce, anche autorevolmente. Ha scritto in proposito Nino Galloni: “Se, ad esempio, pur in presenza di “divorzio” (autonomia) tra Tesoro e Banca centrale, nonché eliminazione dei “vincoli di portafoglio”, si fosse consentita la copertura (l’acquisto), da parte della Banca centrale stessa, di una piccolissima quota (quella marginale, appunto) dell’emissione, i tassi di interesse sarebbero risultati ben più contenuti, a parità di tutto il resto. Invece, ci furono giornate in cui il tasso di interesse sui titoli di Stato faceva aggio sul MLR (“minimum lending rate”, il tasso sui prestiti per i migliori clienti); sicché, un grosso imprenditore, ad esempio la Fiat, poteva recarsi in banca, prendere a prestito quanto denaro voleva, investirlo immediatamente in titoli di Stato e guadagnare la differenza tra i due tassi! Percentuali elevate, fino al 50% dei profitti delle grandi imprese – in quegli anni – era investito in titoli del Tesoro, ed altrettanto profitto proveniva da tale fonte, sia per quanto riguardava le realtà private che quelle a partecipazione statale” (8).
Dunque, divorzio tra Tesoro e Banca d’Italia (1981); mancato esercizio della facoltà di acquisto di titoli da parte della Banca d’Italia (dal 1981); riforma della riserva obbligatoria del 1975 (riforma che inizialmente trovò compensazione nel vincolo di portafoglio e nell’obbligo di acquistare titoli introdotto nel 1975; ma il successivo affievolimento del vincolo di portafoglio e il divorzio non furono accompagnati da una riforma della riforma della riserva obbligatoria!); affievolimento notevole e progressivo del vincolo di portafoglio (anche esso databile nei primi anni ottanta); libera circolazione dei capitali (1986-1988); eliminazione dello scoperto di conto corrente (1993).
Fino all’approvazione del trattato di Maastricht, l’errore poteva essere corretto, con una diversa scelta politica. Successivamente, lo Stato ha perduto la possibilità di instaurare un regime di repressione finanziaria e si è collocato “sul mercato”. Insomma, noi avevamo già liberato la bestia; ma l’Unione europea ci impedisce di tornare sui nostri passi e di re-imprigionarla. La bestia che noi stessi avevamo liberata, con il deliberato proposito di stringere i legami tra l’Italia e “l’Europa” (9), non aspira per natura a fuggire, bensì ad opprimere quello che dovrebbe essere il suo padrone.
Se lo Stato rinuncia al potere monetario e a connettere inscindibilmente potere monetario e finanziamento della spesa pubblica, il potere monetario esiste lo stesso: è il potere delle banche, dei grandi intermediari finanziari e in genere del capitale finanziario, che assoggetta lo Stato a tassi di interessi “di mercato”, sistematicamente superiori all’inflazione – oggi in Europa, soltanto la Germania si trova in situazione di repressione finanziaria, come premio per essere stata la vincitrice di una competizione fratricida e distruttiva delle economie più deboli.
Riappropriarci del potere monetario ed evitare che lo Stato paghi anche il 4% di interessi superiore all’inflazione è l’obiettivo politico ineludibile della forza politica alternativa che deve sorgere (10). Anche questo obiettivo non potrà essere raggiunto rimanendo nell’Unione europea. Fanno davvero sorridere le posizioni di coloro che, comprendendo che dentro l’Unione europea e in regime di libera circolazione dei capitali, non è possibile re-instaurare il regime di repressione finanziaria, concludono, tuttavia, che “Ci sono però altre possibilità. Intanto un concerto delle più grandi banche centrali, e soprattutto FED e BCE, possono imporre tassi di interesse nominali bassi, come già infatti avviene al momento. Ma soprattutto bisognerebbe coinvolgere gli investitori privati con nuove regole, imponendo ai fondi pensioni di detenere nella loro pancia una quantità fissa di titoli di stato, a prescindere dalla loro valutazione di mercato….” (11). Dunque, in primo luogo, i popoli dovrebbero affidarsi a “un concerto delle più grandi banche centrali”. L’autore non lo dice ma probabilmente pensa che i cittadini italiani debbano votare partiti che si candidino in Parlamento per supplicare “un concerto delle più grandi banche centrali”. In secondo luogo, come si coinvolgono “gli investitori privati con nuove regole” a livello mondiale? Perché la Germania dovrebbe interessarsi di questo problema se si trova in situazione di repressione finanziaria, generata dal mercato e se il risparmio tedesco beneficia del regime dei rentiers vigente in tanti paesi europei? Affidarci per l’ennesima volta alla compassione dello stato che ha interesse contrario al nostro, convincendolo che sta segando il ramo sul quale si trova? E se quello stato e i risparmiatori tedeschi del quale è espressione attendono che la nostra condizione peggiori per acquistare i gioielli che ci sono rimasti?
Quando mi trovo dinanzi a simili “proposte”, prive di minimo realismo e generate soltanto da codardia e volontà di non prendere atto della realtà, non provo più soltanto fastidio, provo disprezzo. Dobbiamo provare disprezzo. Non dobbiamo affidare a nessuno il potere di salvarci. Dobbiamo salvarci da soli, prima che ci conducano nella situazione in cui versa la Grecia.
E non possiamo salvarci rimanendo dentro l’Unione europea. Perciò dobbiamo uscire. L’Unione europea è, anche sotto il profilo considerato in questo scritto, in radicale contrasto con la disciplina costituzionale dei rapporti economici (12). In primo luogo, perché in nessun modo il regime impostoci dall’Unione europea può essere ricondotto alla formula costituzionale secondo la quale La Repubblica “coordina e controlla” l’esercizio del credito (art. 47 cost.). Nell’Unione europea e fin quando vi resteremo, la Repubblica non può coordinare nulla. In secondo luogo, perché l’art. 47 Cost. prevede che “La repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme”: tutela il risparmio ma non può e non deve promuovere la rendita. Una repubblica fondata sul lavoro e che ammette l’iniziativa privata, riconosce dignità soltanto al lavoro e all’investimento rischioso (e produttivo); non alla rendita. Più in generale, l’applicazione del regime impostoci dall’Unione europea conduce a smantellare a poco a poco lo stato sociale, e genera disoccupazione e quindi bassi salari. Quello impostoci dall’Unione europea è un regime assolutamente anticostituzionale, che di fatto, se non di diritto, impone di smantellare i diritti sociali promossi e garantiti dalla costituzione.
O si sta con la Costituzione della Repubblica Italiana o si sta con l’Unione europea. Ogni posizione intermedia, pseudo-mediatrice, ipocrita o codarda va rigettata per amore della verità. Soltanto accettando la verità, come essa si presenta ai nostri occhi, potremo intraprendere la strada che ci ridarà la libertà.
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