Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 7 aprile 2012

È ora di imbrigliare la finanza

Antonio Tricarico - sbilanciamoci -
Un vademecum per capire come controllare i movimenti di capitale, porre fine all'egemonia finanziaria e liberista e impedire gli attacchi degli speculatori

Pubblichiamo l'introduzione all'edizione italiana di È ora di un nuovo consenso. Regolamentare i flussi finanziari per la stabilità e lo sviluppo, il rapporto curato da Peter Chowla e promosso dal Bretton Woods Project

Dopo la mastodontica crisi finanziaria, e poi economica e sociale, che ha portato dal 2008 l’economia mondiale sull’orlo del collasso, si parla molto di regolamentazione finanziaria, anche se ad oggi ben poco è cambiato nel funzionamento speculativo della finanza mondiale. Diverse misure sono state proposte, da una tassa sulle transazioni finanziarie a una pesante ristrutturazione del sistema bancario, da una revisione dei requisiti patrimoniali delle banche alla regolamentazione del cosiddetto sistema bancario ombra incentrato sulle cartolarizzazioni e sull’utilizzo dei prodotti derivati. Tutte misure sensate, o quanto meno utili per iniziare a ridimensionare i mercati finanziari internazionali, oggi superiori di decine di volte al valore dell’economia reale del Pianeta. Ma ancora poco si discute, specialmente in Italia, di misure che sarebbero molto più efficaci e strutturali, quali ad esempio il controllo dei movimenti di capitali. Questa pubblicazione è una delle poche in italiano a portare luce su questa tematica cruciale in maniera didascalica e concreta. Il controllo dei movimenti di capitali è intimamente collegato alla gestione dei sistema monetario internazionale, ed entrambe le questioni ci riportano alla “madre di tutte le battaglie”. La sbornia liberista e monetarista, infatti, iniziò con la rottura del sistema di Bretton Woods nel 1971-73. Una data che forse segna l’inizio della cosiddetta globalizzazione di stampo liberista, ponendo fine al trentennio keynesiano, che ha caratterizzato il periodo di crescita economica più elevata nella storia moderna. All’inizio degli anni ‘70 il presidente americano Richard Nixon decise di porre fine al sistema monetario statico che collegava tutte le monete al dollaro e quindi alle riserve auree di Fort Knox. Non a caso dopo la decisione unilaterale di far fluttuare le monete di tutto il mondo e di non collegare più il dollaro all’oro fu una tappa inevitabile per la liberalizzazione dei movimenti di capitali a livello internazionale, spesso sotto il diktat del Fondo monetario internazionale nel caso dei Paesi più poveri. Il resto della storia della crescita dei mercati finanziari internazionali e dell’ascesa del capitalismo finanziario, culminata poi nel crollo della Lehman Brothers e nella crisi, la conosciamo. Perciò è cruciale tornare a spiegare che cosa significa controllare i movimenti di capitali, come questo può avvenire in pratica, quali sono le sue implicazioni macroeconomiche e quali opzioni esistono a livello nazionale, regionale e mondiale per intraprendere questa strada, ponendo termine all’egemonia liberista e finanziaria. Finalmente anche il Fondo monetario internazionale ha rotto il tabù iniziandone a parlare, e addirittura consigliando questa misura nel caso della crisi finanziaria che ha colpito l’Islanda nel 2009.

Un «nuovo consenso» per fermare la follia finanziaria

Antonio Tricarico - controlacrisi -
Pubblichiamo l’introduzione all’edizione italiana di «È ora di un nuovo consenso. Regolamentare i flussi finanziari per la stabilità e lo sviluppo», il rapporto curato da Peter Chowla e promosso dal Bretton Woods Project

Dopo la mastodontica crisi finanziaria, e poi economica e sociale, che ha portato dal 2008 l’economia mondiale sull’orlo del collasso, si parla molto di regolamentazione finanziaria, anche se ad oggi ben poco è cambiato nel funzionamento speculativo della finanza mondiale. Diverse misure sono state proposte, da una tassa sulle transazioni finanziarie a una pesante ristrutturazione del sistema bancario, da una revisione dei requisiti patrimoniali delle banche alla regolamentazione del cosiddetto sistema bancario ombra incentrato sulle cartolarizzazioni e sull’utilizzo dei prodotti derivati. Tutte misure sensate, o quanto meno utili per iniziare a ridimensionare i mercati finanziari internazionali, oggi superiori di decine di volte al valore dell’economia reale del Pianeta. Ma ancora poco si discute, specialmente in Italia, di misure che sarebbero molto più efficaci e strutturali, quali ad esempio il controllo dei movimenti di capitali . Il controllo dei movimenti di capitali è intimamente collegato alla gestione dei sistema monetario internazionale, ed entrambe le questioni ci riportano alla “madre di tutte le battaglie”. La sbornia liberista e monetarista, infatti, iniziò con la rottura del sistema di Bretton Woods nel 1971-73. Una data che forse segna l’inizio della cosiddetta globalizzazione di stampo liberista, ponendo fine al trentennio keynesiano, che ha caratterizzato il periodo di crescita economica più elevata nella storia moderna. All’inizio degli anni ’70 il presidente americano Richard Nixon decise di porre fine al sistema monetario statico che collegava tutte le monete al dollaro e quindi alle riserve auree di Fort Knox. Non a caso dopo la decisione unilaterale di far fluttuare le monete di tutto il mondo e di non collegare più il dollaro all’oro fu una tappa inevitabile per la liberalizzazione dei movimenti di capitali a livello internazionale, spesso sotto il diktat del Fondo monetario internazionale nel caso dei Paesi più poveri. Il resto della storia della crescita dei mercati finanziari internazionali e dell’ascesa del capitalismo finanziario, culminata poi nel crollo della Lehman Brothers e nella crisi, la conosciamo. Perciò è cruciale tornare a spiegare che cosa significa controllare i movimenti di capitali, come questo può avvenire in pratica, quali sono le sue implicazioni macroeconomiche e quali opzioni esistono a livello nazionale, regionale e mondiale per intraprendere questa strada, ponendo termine all’egemonia liberista e finanziaria. Finalmente anche il Fondo monetario internazionale ha rotto il tabù iniziandone a parlare, e addirittura consigliando questa misura nel caso della crisi finanziaria che ha colpito l’Islanda nel 2009. I più grandi speculatori ed attori finanziari non solo sono troppo grandi per fallire o addirittura troppo grandi per essere salvati dagli Stati, ma anche too big too jail, troppo grandi per essere imbrigliati, come aveva preconizzato Keynes. Tornare a controllare i movimenti di capitali sarebbe l’unico modo per addomesticare la tigre e riportare finalmente il genio della finanza dentro la lampada. Converrebbe a tutti: ai governi oggi incapaci di arginare la finanza globale, ai popoli che soffrono la crisi, all’ambiente ed alla giustizia sociale devastati dal profitto finanziario. Certo, non converrebbe a quelli che ci hanno portato sull’orlo del fallimento e hanno beneficiato enormemente dalla follia finanziaria degli ultimi decenni, ma di questo non vale la pena preoccuparsi. Cambiare si può, iniziando a controllare i capitali.
Il testo integrale su www.sbilanciamoci.info

La normalità «tecnica»

di Alberto Burgio e Claudio Grassi
«Tecnici». Tutto questo discorso sulla tecnica al posto della politica ci sta trascinando verso esiti inquietanti. Non è che non se ne sia consapevoli, ma è come se fossimo tutti narcotizzati. La vista si annebbia, i pensieri faticano. E rischiamo di andare a sbattere malamente contro un muro.
Nel sempre più arrogante discorso di questo governo e dei suoi mentori, «tecnica» vuol dire due cose. Da un lato evoca il vero: una strada obbligata, dettata dalle cose stesse. Essere tecnici e non politici significa che non si sceglie nemmeno: ci si limita ad applicare le ricette giuste dettate dalla scienza per guarire il malato. I medici parlerebbero di protocolli terapeutici. E se i più intelligenti ammetterebbero che la medicina non è una scienza esatta, ma un sapere piuttosto simile a un’arte, non per questo accetterebbero interferenze di profani. Così i nostri governanti, a cominciare dal loro capitano. Alle obiezioni, la risposta è sempre la medesima: non ci sono alternative. Ma se per la medicina è chiaro che cosa sia la salute del corpo, per un governo non lo è affatto, perché la società non è un corpo, è un insieme di parti in conflitto tra loro. Il bene degli uni genera il male di altri. Così cade il primo argomento. Questo governo sceglie eccome. Non ci sono ricette obbligate, ma opzioni tra interessi in conflitto e tra modelli alternativi. I lavoratori dipendenti, a cominciare dagli «esodati», ne sanno qualcosa, come pure i rentiers.

Dirsi «tecnici» vuol dire anche un’altra cosa: che si è (ci si pretende) immuni dal dissenso, quindi liberi di assumere «decisioni impopolari». Anche questo è un argomento molto caro al senatore Monti, che gode nello sfottere i politici col disprezzo tipico del grand commis: non soltanto sacerdoti del vero, anche disinteressati (appunto perché interessati solo al vero e al bene). Se di scienza e verità si trattasse, il discorso non farebbe una piega – salvo che soltanto i dittatori prescindono dal consenso. Ma siccome in ballo ci sono interessi e poteri (la «scienza» di Monti la conosciamo bene: è quella che in trent’anni ha moltiplicato le disuguaglianze nel mondo, provocato la bancarotta di decine di Stati e cancellato ovunque i diritti del lavoro), questo dell’indipendenza del governo dal vincolo democratico è un discorso alquanto spaventoso: non è che per caso ci siamo liberati di Masaniello per ritrovarci Luigi Bonaparte?
Qui veniamo a noi. Dopo un primo momento di generale euforia (non vedere più Berlusconi e non dovere ogni giorno ascoltare le sue idiozie pareva un guadagno non indifferente), è pian piano subentrata la consapevolezza. Prima le pensioni, con relativo melodramma ministeriale; poi i regali alle banche, la Tav e la controriforma dello Statuto dei lavoratori. Finalmente anche chi voleva ribaciare il rospo ha capito. Oggi tutti quanti viviamo come sospesi in una bolla. Assistiamo a un gioco surreale, che non ha precedenti. Un governo catapultato sul parlamento impone decisioni gravi sulla vita di milioni di persone già stremate. I suicidi per disperazione si susseguono. Le statistiche parlano di sperequazioni inaudite; le previsioni, di un esercito di disoccupati e di poveri. Non può durare, pensiamo. Ed è vero che non durerà. Per malandata che sia, una democrazia ha bisogno di connessioni e mediazioni, di rappresentanza e riconoscimento. Ma la questione è come se ne uscirà, posto che la crisi economica è sempre più grave (del resto, come potrebbe non esserlo, in un paese senza classe dirigente, con gli imprenditori che non investono e frodano il fisco, e un tasso di illegalità e corruzione da fare invidia alla Colombia?)

venerdì 6 aprile 2012

L'Europa di spade e di denari

di Guglielmo Ragozzino - sbilanciamoci -
La discussione sull’Europa si intreccia alla manovra economica di casa nostra, che moltiplica le iniquità. Poi ci sono le rivolte in molti paesi, i conflitti che non si fermano. Ci sono altre Europe sotto i nostri occhi, quella delle disuguaglianze, delle guerre, del disastro ambientale. Altre Europe con cui fare i conti. Ne parla Guglielmo Ragozzino nell'articolo di apertura al secondo e-book che raccoglie gli interventi sulla "Rotta d'Europa"

Lunga storia quella d’Europa

1. L’Europa unita è un valore perché è una garanzia di pace, sia per gli europei di origine controllata che per gli altri, di più nuova presenza, aggiuntisi ai primi nel corso dei decenni. Senza risalire troppo nel tempo, prima c’è stata una guerra di cento anni tra Francia e Inghilterra; poi un’altra, durata molti secoli, con alterne fortune e alleanze, di tutti contro tutti, per il predominio sulla Germania e di conseguenza sull’intero continente. Motivo dichiarato: come pregare dio correttamente, notava Voltaire. Nel nostro piccolo, si può anche riflettere che dopo secoli di guerre, nel centinaio di anni che intercorrono dal 1848 ai trattati di Roma del 1957, l’Italia si è impegnata in sei guerre europee di cui tre guerre soprannominate d’indipendenza, senza considerare la presa di Roma, deprecata oggi da molti, due guerre mondiali, con in mezzo la guerra di Spagna, nonché tre guerre di conquista coloniale in Africa, la fondazione dell’impero e l’Albania. Alla nascita del primo embrione di un’Europa unita, sono invece seguiti 50 anni di pace, interrotti soltanto dal bombardamento umanitario sulla Serbia. Siccome in Libia, negli scorsi mesi, si è avuta una sgradevole replica di quella tendenza umanitaria di taluni stati europei – in particolare Francia e Inghilterra, ormai unite, ma non Germania, in questo caso, a bombardare città di altri, la prima preoccupazione sull’Europa riguarda questo aspetto: un’Europa bombardante non fa per noi. Occorre tenerla unita e rilanciare, ogni volta se ne presenti l’occasione o la necessità, il popolo della pace, la timida seconda potenza mondiale.

Athens June 2011. Which Site Were You On?

Günter Grass: “Quello che deve essere detto”

Günter Grass: “Quello che deve essere detto”
Scritto il 4 apr 2012 - analisamelandri -

Perché taccio, passo sotto silenzio troppo a lungo
quanto è palese e si è praticato
in giochi di guerra alla fine dei quali, da sopravvissuti,
noi siamo tutt´al più le note a margine.

E´ l´affermato diritto al decisivo attacco preventivo
che potrebbe cancellare il popolo iraniano
soggiogato da un fanfarone e spinto al giubilo organizzato,
perché nella sfera di sua competenza si presume
la costruzione di un´atomica.

E allora perché mi proibisco
di chiamare per nome l´altro paese,
in cui da anni — anche se coperto da segreto -
si dispone di un crescente potenziale nucleare,
però fuori controllo, perché inaccessibile
a qualsiasi ispezione?

Il silenzio di tutti su questo stato di cose,
a cui si è assoggettato il mio silenzio,
lo sento come opprimente menzogna
e inibizione che prospetta punizioni
appena non se ne tenga conto;
il verdetto «antisemitismo» è d´uso corrente.
Ora però, poiché dal mio paese,
di volta in volta toccato da crimini esclusivi
che non hanno paragone e costretto a giustificarsi,
di nuovo e per puri scopi commerciali, anche se
con lingua svelta la si dichiara «riparazione»,
dovrebbe essere consegnato a Israele
un altro sommergibile, la cui specialità
consiste nel poter dirigere annientanti testate là dove
l´esistenza di un´unica bomba atomica non è provata
ma vuol essere di forza probatoria come spauracchio,
dico quello che deve essere detto.

Perché ho taciuto finora?
Perché pensavo che la mia origine,
gravata da una macchia incancellabile,
impedisse di aspettarsi questo dato di fatto
come verità dichiarata dallo Stato d´Israele
al quale sono e voglio restare legato
Perché dico solo adesso,
da vecchio e con l´ultimo inchiostro:
La potenza nucleare di Israele minaccia
la così fragile pace mondiale?
Perché deve essere detto
quello che già domani potrebbe essere troppo tardi;
anche perché noi — come tedeschi con sufficienti colpe a carico -
potremmo diventare fornitori di un crimine
prevedibile, e nessuna delle solite scuse
cancellerebbe la nostra complicità.

E lo ammetto: non taccio più
perché dell´ipocrisia dell´Occidente
ne ho fin sopra i capelli; perché è auspicabile
che molti vogliano affrancarsi dal silenzio,
esortino alla rinuncia il promotore
del pericolo riconoscibile e
altrettanto insistano perché
un controllo libero e permanente
del potenziale atomico israeliano
e delle installazioni nucleari iraniane
sia consentito dai governi di entrambi i paesi
tramite un´istanza internazionale.

Solo così per tutti, israeliani e palestinesi,
e più ancora, per tutti gli uomini che vivono
ostilmente fianco a fianco in quella
regione occupata dalla follia ci sarà una via d´uscita,
e in fin dei conti anche per noi.

(Traduzione di Claudio Groff)

Fonte: RaiNews
Con una poesia pubblicata oggi dalla ‘Sueddeutsche Zeitung’ lo scrittore e premio Nobel per la letteratura nel 1999 Günter Grass interviene sui rapporti tra Israele e l’Iran e scatena un pandemonio in Germania. Secondo quanto riportano oggi i principali mezzi di informazione lo scrittore nella poesia chiede alla Germania di non fornire altri sommergibili a Israele che potrebbe lanciare missili con testata nucleare contro l’Iran; Grass sostiene infatti che l’arsenale atomico di Israele rappresenta una minaccia più seria della possibile atomica iraniana. Il testo, rifiutato da Die Zeit, è stato pubblicato oggi dalla Suddeutsche Zeitung oltre che da altri quotidiani europei come “La Repubblica” e “El Pais”. Nella poesia Grass critica anche la politica tedesca rimproverando a Berlino di aver venduto e continuato a vendere armi letali a Israele.

Il giornale di Monaco di Baviera mette in prima pagina la foto di Grass accompagnata dal titolo “Ein Aufschrei”, un grido di dolore, sottolineando che il Nobel tedesco “mette in guardia su una guerra contro l’Iran”. Nella poesia dal titolo “Ciò che va detto“, lo scrittore spiega i motivi per cui il suo Paese non deve più fornire sommergibili a Israele. Nel giorni scorsi i cantieri navali tedeschi hanno consegnato un quarto sommergibile “Dolphin” a Israele che dovrebbe riceverne ancora un altro.

Grass paventa la possibile minaccia di “un attacco preventivo” contro un Paese che si sospetta di voler costruire l’atomica, ma subito dopo aggiunge: “Perché mi vieto di chiamare per nome quell’altro
Paese, in cui da anni, anche se in segreto, e’ disponibile un crescente arsenale nucleare, ma fuori controllo, poiché non sono ammesse ispezioni?”.

Grass è stato duramente criticato dal Consiglio centrale ebraico tedesco: il suo è stato definito ”un pamphlet aggressivo”, ha detto il presidente del Consiglio Dieter Graumann all’agenzia tedesca Dpa.

Per Graumann è triste che il premio Nobel per la letteratura demonizzi in quel modo Israele: il testo — che accusa lo Stato ebraico di mettere a repentaglio la già fragile pace mondiale — è irresponsabile e capovolge la realtà delle cose. Per il presidente del Consiglio ebraico non è Israele a minacciare la pace, ma l’Iran, il cui regime opprime il suo popolo e finanzia il terrorismo internazionale. “Un autore straordinario del resto non è automaticamente uno straordinario analista della politica mediorientale”, chiosa Graumann.

Dura risposta anche dell’ambasciatore israeliano in Germania, Emmanuel Nahshon, che sulla homepage
della rappresentanza diplomatica scrive che fa parte della tradizione europea “accusare gli ebrei di uccisioni rituali nell’imminenza della festa del Pessach. In passato erano i bambini cristiani, con gli ebrei accusati di usare il loro sangue per fare il pane azzimo, oggi e’ il popolo iraniano, che lo Stato ebraico vorrebbe cancellare”. Reazione pesante anche da parte del presidente della Commissione Esteri del Bundestag, Ruprecht Polenz (Cdu), secondo il quale “Grass è un grande scrittore, ma ogni volta che parla di politica ha difficoltà e sbaglia sovente, questa volta ha sbagliato di grosso”.

Durissimo il commento dello scrittore ebraico Henrik M. Broder, columnist dello ‘Spiegel’, secondo il quale lo scrittore di Danzica rappresenta “il prototipo dell’antisemita”. Secondo Broder, Grass ha sempre avuto “problemi” con gli ebrei, “ma non li ha mai articolati in maniera così chiara come in questa poesia”.

Un sostegno al premio Nobel è invece arrivato dalla Linke, il cui deputato Wolfgang Gehrcke ha spiegato che “Grass ha ragione” ed ha mostrato “il coraggio di dire cose che continuano ad essere taciute”.

http://www.sueddeutsche.de/verlag
http://www.repubblica.it/ambiente/2011/04/10/news/nucleare_grass-14743120/

Napolitano e Monti denunciati per attentato contro l’integrità e l’indipendenza dello Stato (e altri 7 reati)

Napolitano e Monti denunciati per attentato contro l’integrità e l’indipendenza dello Stato (e altri 7 reati)
- agoravox -
La notizia è di quelle che fanno saltare sulla sedia. Un avvocato di Cagliari, Paola Musu, ha sporto formale denuncia nei confronti di Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, tutti i ministri e tutti i membri del parlamento.

I reati ravvisabili, come si legge nel documento protocollato e presentato presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Cagliari, sono:
- attentato contro l'integrità, l'indipendenza e l'unità dello Stato;
- associazioni sovversive;
- attentato contro la Costituzione dello Stato;
- usurpazione di potere politico;
- attentato contro gli organi costituzionali;
- attentato contro i diritti politici del cittadino;
- cospirazione politica mediante accordo;
- cospirazione politica mediante associazione;
La denuncia è scattata a seguito delle vicende degli ultimi mesi, conseguenza della crisi economica e del diktat della Bce che hanno "suggerito" al Presidente della Repubblica la formazione di un nuovo governo, cosidetto "tecnico", a guida di Mario Monti. Un governo non legittimato dal voto popolare. Di ciò si è molto discusso, ma nessuno finora si era spinto così in là da sporgere una denuncia formale impugnando la Costituzione e il Codice Penale.

La prima violazione, secondo l'avvocato Paola Musu, sarebbe all'articolo 1 della Costituzione: "L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione".

La denuncia continua: "Contenuto essenziale della sovranità di un popolo è dato dalla propria sovranità in materia di politica monetaria, economica e fiscale: è con essa, ed attraverso i suoi strumenti, che un popolo determina le sue sorti. Svuotare un popolo e la sua sovranità di quello specifico contenuto significa, e comporta, privarlo della sovranità stessa, in quanto lo si priva dalla facoltà e dal potere di determinare il proprio destino ed il proprio stesso "essere", compromettendone la sua stessa esistenza".

La sovranità monetaria oggi non appartiene più al popolo italiano, ma effettivamente alla Banca Centrale Europea che ha dettato, negli ultimi mesi, le politiche economiche del Governo Monti.

Foto, il testo integrale della denuncia di Paola Musu, che finora ha trovato il sostegno del giornalista Paolo Barnard, tra i principali divulgatori della Modern Money Teory e impegnato contro quello che non esita a definire un Golpe Finanziario.
SMOKE'S SMOKE
( cigar smokers LEGA president quits)

giovedì 5 aprile 2012

Stiamo ammazzando le nostre nonne

di Marco Cedolin
L'Italia che cammina come un gambero ed è in procinto di cadere dentro a un pozzo senza fondo, può essere interamente condensata nelle misere spoglie della nonnina di 78 anni, che a Gela si è ammazzata gettandosi dal balcone, dopo avere realizzato che con la sua misera pensione, ridotta da 800 a 600 euro, non sarebbe stata in grado di sopravvivere in maniera dignitosa e con tutta probabilità neppure in altra maniera.
Un Paese che permette, ostentando indifferenza, che i suoi figli, i suoi uomini, le sue nonnine, si ammazzino per disperazione è un paese morto dentro, una landa abiotica dove l'aria ha un sapore acre che brucia nei polmoni e le coscienze più non albergano nella massa di umanoidi che tentano di mantenersi in "vita" praticando l'antropofagia.
Gli italiani che sono ancora in vita, si stanno ammazzando per disperazione ad un ritmo impressionante (oltre 4000 solamente nell'ultimo anno) senza che il circo dell'informazione e l'opinione pubblica da esso costruita abbiano mai preso in considerazione il problema. Qualche trafiletto a fondo pagina, spesso solamente sui giornali locali, affogato fra le notizie "che contano". Gli scandali della politica (ormai pensionata a ben altre cifre rispetto a quelle delle nonnine), le partite di Champions League, gli scandali del calcio scommesse, le "imprese" compiute dalla polizia fiscale, le borse di Chanel e il prezzo del gelato alla vaniglia.
Mario Monti, il boia deputato a mettere in atto la strage, campeggia sulle prime pagine dei giornali.....
dichiarando che la crisi è finita, l'Italia è un paese in salute e ciascuno di noi potrà cavalcare felice fra i verdi pascoli prossimi venturi.
Ma i verdi pascoli, almeno in questa versione terrena della nostra vita (che molti di noi stanno abbandonando) davvero non s'intravvedono e la realtà parla il linguaggio impietoso del gambero ormai a fine corsa dentro la padella.

La disoccupazione (sarebbe più corretto definirla l'impossibilità di portare a casa un reddito necessario alla sopravvivenza) sta aumentando a ritmi vertiginosi. Il potere di acquisto dei salari di chi ancora lavora e delle pensioni si ridimensiona drasticamente giorno dopo giorno e da qualche mese gli stessi hanno iniziato a ridursi anche quantitativamente. La prospettiva di fruire un giorno della pensione per giovani e meno giovani è stata pressoché annullata, nonostante lo stato pretenda da essi il versamento di sempre più elevate spese contributive. La profonda recessione, la stretta creditizia e l'aumento incondizionato della tassazione (pazzia fra le pazzie la gogna degli studi di settore, reintrodotti fin dal primo anno di attività) hanno reso di fatto impossibile carezzare qualsiasi progetto di attività imprenditoriale. Le industrie e le imprese chiudono i battenti ad un ritmo forsennato, mentre ogni anno centinaia di migliaia di persone vengono trasportate a forza nei pascoli della povertà.

"Il debito non lo paghiamo". In Irlanda è rivolta fiscale

di fabio sebastiani - rifondazionepioltello -
In Irlanda è rivolta fiscale. Migliaia di irlandesi sono scesi in strada sabato per protestare contro le nuove misure di austerità e i rincari fiscali. E la nuova tassa sulla casa è stata rispedita al mittente da metà della popolazione.

La corda si è spezzata. Mentre si assiste al crollo dei prezzi immobiliari, ai fallimenti a catena di aziende e banche, e imperversa disoccupazione e povertà, i cittadini irlandesi hanno deciso di provare a liberarsi dal ricatto dell’economia finanziaria che ha messo sulle loro spalle un prestito di novanta miliardi di dollari di Fmi e Ue.

Centinaia di migliaia di persone ora rischiano di subire delle multe e potenzialmente anche di finire a processo. Si tratta a tutti gli effetti di una rivoluzione fiscale che potrebbe smantellare la strategia del governo volta a rimettere in sesto l'economia e rendere ancora più difficile l'implementazione delle nuove misure di austerità.

Tra gli slogan campeggiavano "Non posso pagare, non paghero'". "Quando i banchieri pagano, allora pagheremo anche noi!". Chi si oppone alla tassa, sostiene che l'aliquota è identica sia per i benestanti sia per i piu' poveri. L'indignazione è alimentata dalla percezione generale che un gruppo elitario di banchieri, politici e agenti immobiliari ultra ricchi ha distrutto l'economia senza aver ancora pagato un soldo e senza aver ricevuto la punizione che si merita.

L'introduzione della tassa contro le famiglie è stata accolta con una campagna contraria lanciata da attivisti politici e anche piccole comunità, che hanno esortato tutti a boicottare la nuova imposta. Visto il successo riscontrato dalle iniziative, devono aver sicuramente stimolato un nervo scoperto.

Come se non bastasse, tutto cio' sta accadendo mentre il paese si prepara a recarsi alle urne in occasione di un referendum sul Fiscal Compact. Un'eventuale bocciatura del nuovo patto di bilancio europeo il 31 maggio, quando andrà in scena il voto popolare, porterebbe alla fuga degli investitori stranieri necessari per la ripresa economica dell'isola. Secondo un recente sondaggio, il 49% degli intervistati si è dichiarato a favore del trattato, il 33% contrario mentre il 18% e' ancora indeciso.

L’obiettivo dell’esecutivo di coalizione tra Fine Gael (nazionalisti centristi aderenti al PPE) e Laburisti è quello di abbassare l'incidenza del debito al 10% del Pil nel 2011 e restituire il debito.

Secondo il ministro delle Finanze irlandese, Michael Noonan, si tratta di continuare "la costruzione della fiducia nell'Irlanda", sottolineando che l'interessamento espresso questa settimana da un fondo sovrano cinese rispetto alle opportunità d'investimento nell'isola non ci sarebbe stato "se non fossimo completamente coinvolti nell'Eurozona".

Per risparmiare occorre spendere

Posted by keynesblog
Ci è stato insegnato fin da piccoli a mettere i soldi nel salvadanaio e conservarli. Ad un certo punto possiamo rompere il salvadanaio e spendere in un solo acquisto la moneta che abbiamo “tesaurizzato”. Forti di questa convinzione, pensiamo che per spendere occorra prima risparmiare. E, finché ci limitiamo al nostro salvadanaio o a considerare una unità familiare, le cose stanno in effetti più o meno così, anche se quei soldi risparmiati dobbiamo averli prima guadagnati lavorando. Questo dovrebbe porci già qualche dubbio; ma non anticipiamo nulla e vediamo cosa accade in un sistema economico. Per illustrare come funziona l’accumulazione dei risparmi supporremo un sistema semplice, composto da famiglie e imprese. Il reddito delle famiglie deriva dalle paghe che i lavoratori percepiscono dalle imprese. Inoltre il sistema, per semplicità, è chiuso, ossia non vi sono importazioni ed esportazioni.

All’inizio le imprese investono (quindi spendono) una cifra aggiuntiva rispetto al periodo precedente, diciamo 100 milioni. Indicheremo questo investimento aggiuntivo con ∆I; quindi ∆I=100.

Cosa vuol dire che le imprese hanno investito 100 milioni? Significa che hanno acquistato nuovi macchinari o costruito nuovi capannoni o fatto acquisti in altri beni capitali. Pertanto qualcuno nell’insieme delle famiglie ha percepito quella spesa aggiuntiva: ad esempio sono stati assunti nuovi lavoratori delle imprese che costruiscono capannoni e macchinari. Pertanto il ∆I si traduce in reddito aggiuntivo per le famiglie.

Cosa faranno le famiglie di questo reddito? Non lo spenderanno tutto, ma risparmieranno una parte. Supponiamo che spendano il 70% e risparmino il restante 30%. Spendere questi 70 milioni significherà acquistare prodotti in più per 70 milioni dalle imprese. Pertanto la situazione sarà quella in figura:

Dove ∆S rappresenta il risparmio (“saving”) aggiuntivo che in questo primo passaggio è uguale a 30. Per rispondere ai consumi aggiunti (che indicheremo con ∆C) pari a 70 milioni le imprese dovranno assumere nuovo personale e compiere altre spese che, come in precedenza, si riverseranno sulle famiglie. Queste ultime risparmieranno il 30% dei 70 milioni aggiuntivi, pari a 21 milioni e ne spenderanno il 70%, pari a 49 milioni. Pertanto al secondo passaggio ∆C = 70+49 = 119 e ∆S = 30 + 21 = 51:

Il processo va avanti così, in un circolo sempre più smorzato. Vediamo i due successivi passaggi (indicheremo con ∆Y la spesa aggiuntiva delle imprese, che corrisponde al reddito aggiuntivo percepito dalle famiglie)

Passaggio 3:

∆Y = 100+70+49 = 219

∆C = 70+49+(0,7*49) = 153,3 (70% di 49 = 34,3)

∆S = 30 + 21 + (0,3*49) = 65,7 (30% di 49 = 14,7)

Passaggio 4:

∆Y = 100+70+49+34,3 = 249,3

∆C = 70+49+34,3+(0,7*34,3) = 177,3

∆S = 30 + 21 + 14,7 + (0,3*34,3) = 76

Come si può notare ad ogni passaggio cresce non solo il reddito ma anche il risparmio. Ma fino a quando? Vediamo subito il risultato finale; dato un ∆I=100 e una propensione al consumo delle famiglie c=0,7
TODAY ITALY

mercoledì 4 aprile 2012

I ricchi servono alla società?

MURIZIO FRANZINI in Micromega
- controlacrisi -
Esce oggi il nuovo numero di Micromega che non risparmia critiche al Governo Monti e dibatte sulle prospettive di una vera alternativa ai tecnici. Pubblichiamo uno stralcio del saggio dell'economista Franzini.

La pubblicazione delle retribuzioni – spesso stratosferiche – dei ‘tecnici’ del nuovo governo non ha suscitato la stessa, unanime, indignazione che viene solitamente riservata alla casta dei politici e ai loro privilegi. Per quale motivo? Perché sono retribuzioni, si è detto, provenienti dalle loro professioni e dunque dal libero mercato. Ma è giusto che le ricchezze acquisite nel settore privato siano indiscutibili? Sono davvero sempre frutto di merito e competenza?
Maurizio Franzini
Da qualche tempo, nel dibattito pubblico, si parla molto, certamente più che in passato, di disuguaglianze economiche e di equità. Si tratta di una novità positiva, ma il rischio che si corre è che l’argomento venga trattato concedendo troppo alle emozioni e troppo poco all’analisi. Questo sembra essere accaduto anche in occasione della pubblicazione dei redditi percepiti dai ministri del governo Monti. Di fronte a quella lista – che contempla redditi elevatissimi all’interno di una distribuzione che, però, probabilmente farebbe assumere valori molto alti ai tradizionali indici di disuguaglianza – vi è stato chi ha pronunciato parole di indignazione e chi, invece, non ha nascosto la propria ammirazione nei confronti dei più ricchi.
Di argomenti anche soltanto vagamente analitici, a sostegno dell’una o dell’altra posizione ne sono circolati pochi e spesso sono apparsi deboli quanto può esserlo la riproposizione di qualche logoro luogo comune. In realtà, sulla ricchezza, sui meccanismi che la generano e sugli effetti che essa produce, molto vi sarebbe da riflettere perché qui, probabilmente, si nasconde un’importante chiave di lettura del capitalismo contemporaneo e delle sue trasformazioni. In particolare, è interessante chiedersi che caratteristiche abbiano i mercati (intesi in senso lato) che permettono retribuzioni non altrimenti definibili che stratosferiche.
Sorprendentemente, o forse no, quanti giustificano quelle stratosferiche retribuzioni lo fanno accontentandosi di richiamare che esse si sono formate in liberi mercati, come tali non facilmente sindacabili. Non ci si chiede, però, se quei mercati siano gli stessi mercati ai quali la teoria economica riconosce la capacità di assicurare l’efficienza e di premiare il merito, anche se questo va inteso nel senso piuttosto ristretto di «merito di mercato».

La dittatura della Finanza: abbiamo tradito il Vangelo ?

Un appello alle comunità cristiane di Padre Alex Zanotelli.
- altritasti -
In questo periodo quaresimale sento l’urgenza di condividere con voi una riflessione sulla "tempesta finanziaria" che sta scuotendo l’Europa, rimettendo tutto in discussione: diritti, democrazia, lavoro. Arricchendo sempre di più pochi a scapito dei molti impoveriti. Una tempesta che rivela finalmente il vero volto del nostro Sistema: la dittatura della finanza ...

L’Europa, come l’Italia, è prigioniera di banche e banchieri. E’ il trionfo della finanza o meglio del Finanzcapitalismo come Luciano Gallino lo definisce: “Il finanzcapitalismo è una mega-macchina, che è stata sviluppata nel corso degli ultimi decenni, allo scopo di massimizzare e accumulare sotto forma di capitale - e insieme di potere - il valore estraibile sia del maggior numero di esseri umani sia degli eco-sistemi”.

Estrarre valore è la parola chiave del Finanzcapitalismo che si contrappone al produrre valore del capitalismo industriale, che abbiamo conosciuto nel dopoguerra. E’ un cambiamento radicale del Sistema!

Il cuore del nuovo Sistema è il Denaro che produce Denaro e poi ancora Denaro. Un Sistema basato sull’azzardo morale, sull’irresponsabilità del capitale, sul debito che genera debito. E’ la cosiddetta “Finanza creativa”, con i suoi "pacchetti tossici" dai nomi più strani (sub-prime, derivati, futuri, hedge-funds …) che hanno portato a questa immensa bolla speculativa che si aggira, secondo gli esperti, sul milione di miliardi di dollari! Mentre il PIL mondiale si aggira sui sessantamila miliardi di dollari. Un abisso separa quei due mondi: il reale e lo speculativo. La finanza non corrisponde più all’economia reale. E’ la finanziarizzazione dell’economia.

Per di più le operazioni finanziarie sono ormai compiute non da esseri umani, ma da algoritmi, cioè da cervelloni elettronici che, nel giro di secondi, rispondono alle notizie dei mercati. Nel 2009 queste operazioni, che si concludono nel giro di pochi istanti, senza alcun rapporto con l’economia reale, sono aumentate del 60% del totale. L’import-export di beni e servizi nel mondo è stimato intorno ai 15.000 miliardi di dollari l’anno. Il mercato delle valute ha superato i 4.000 miliardi al giorno: circolano più soldi in quattro giorni sui mercati finanziari che in un anno nell’economia reale. E’ come dire che oltre il 90% degli scambi valutari è pura speculazione.

Penso che tutto questo cozza radicalmente con la tradizione delle scritture ebraiche radicalizzate da Gesù di Nazareth. Un insegnamento, quello di Gesù, che, uno dei nostri migliori moralisti, don Enrico Chiavacci, nel suo volume "Teologia morale e vita economica", riassume in due comandamenti, validi per ogni discepolo: ”Cerca di non arricchirti“ e “Se hai, hai per condividere”.

Non sputiamo sulla nostra storia

di Luciana Castellina (il manifesto 04.03.2012) - printfriendly -
Monti, da Tokio, ci fa sapere che lui è popolare, i partiti no, sono solo oggetto di disprezzo. Pirani, solitamente molto politically correct, scrive che il bello del nuovo nostro primo ministro sta nel fatto che è autonomo dalle fluttuazioni parlamentari, dalla dialettica dei partiti e dalle pressioni della società. (Voglio sperare che non si sia reso conto di cosa ha torizzato). La traduzione a livello popolare del concetto è quanto si sente sempre più ripetere: «A che mi serve la democrazia? Costa troppo. Perché debbo pagare tanti soldi perché una cricca vada a chiacchierare dei fatti suoi in un parlamento?».
A livello alto, invece, nelle istituzioni europee e fra insigni studiosi, si dice che siamo entrati nella post democrazia parlamentare, che i problemi sono ormai troppo complicati per lasciarli a incompetenti istituzioni rappresentative. Ricordo queste cose per avvertire che quando si cominciano a denunciare classe politica e, indifferenziatamente, i partiti in quanto tali, bisogna stare un po’ attenti. L’attacco alla democrazia non viene più da bande neofasciste ormai poco più che folcloristiche, ma da una minaccia più raffinata: dall’uso capzioso che ormai apertamente viene fatto dell’oggettivo fastidio, della distanza che si è scavata fra società civile e istituzioni politiche. Cui inconsapevolmente concorre anche il neo anarchismo che percorre ovunque i movimenti.
D’accordo quindi con “il manifesto per il nuovo soggetto politico” pubblicato il 29 marzo scorso su questo giornale (e firmato da molti miei amici di cui ho la massima stima) quando dicono che per salvare la democrazia bisogna arricchirla e trovare nuove forme di partecipazione e anche di democrazia diretta. Ma, vi confesso di provare anche molta preoccupazione per il tipo di nuovo soggetto politico di cui si auspica la nascita in sostituzione della forma partito novecentesca. Certo, è vero, anche i partiti di sinistra o presunta tale sono pessimi. Anche i più recenti. Bisognerebbe rifarli daccapo e naturalmente questa non è operazione che si fa sulla carta: i buoni partiti nascono sempre da un movimento reale. Ma può servire a questo scopo il descritto nuovo soggetto?
Innanzitutto non si può mettere fra parentesi il fatto che se i partiti sono diventati così è perché le istituzioni rappresentative nazionali in cui sono chiamati a far sentire la loro voce sono state da tempo svuotate di un potere decisionale che peraltro non è stato nemmeno trasferito ad altri livelli ma semplicemente assunto, extra legem, da chi stabilisce accordi privati sul mercato globale. In questi anni sono state privatizzate non solo le centrali del latte o le aziende di trasporti, ma anche la sovranità, il potere decisionale. La crisi dei partiti dipende dunque anche dalla drastica perdita di influenza che hanno subito in conseguenza di questa perdita di potere delle istanze rappresentative a tutti i livelli, anche comunale.Per questo la gente avverte la loro superfluità. Nessun soggetto politico può pensare di essere efficace se elude questo problema pensando di potersi limitare a produrre un po’ di partecipazione locale. A meno di non reinventarsi l’impero ottomano, dove ai califfati veniva lasciato qualche potere locale, mentre restava saldamente in mano a Costantinopoli ogni opzione generale e decisiva. L’idea che il sistema possa esser cambiato solo dal basso, da una rete orizzontale che, pur non negandolo, sospende la sua attenzione al problema del potere centrale e ritiene che basti una frammentata pressione dal basso per cambiarlo, credo non vada lontano.

martedì 3 aprile 2012

Vendere i beni pubblici è un pessimo affare

di Roberta Basilio - il manifesto - esserecomunisti -
Tra i 500 e gli 800 miliardi è il valore dei nostri beni demaniali. Se tutto ciò rendesse solo l’1 per cento del proprio valore si coprirebbe la metà delle spese ordinarie della macchina statale. E se rendesse appena il 2 per cento tutti gli idonei dei concorsi universitari potrebbero entrare di ruolo. Invece la tentazione è vendere tutto

Niente di nuovo sotto il sole. A centocinquanta anni dall’Unità, la questione demaniale torna nel dibattito pubblico con un provvedimento governativo che rilancia i piani di dismissione degli immobili pubblici, peraltro già in atto nel nostro Paese da circa un ventennio.
Tuttavia oggi fa notizia la campagna che numerose associazioni stanno portando avanti contro l’ultima misura legislativa in materia. Le sigle sono tante – AIAB, ALPA, ARI, Campagna popolare per l’Agricoltura Contadina, Crocevia, Libera, Connettivo terra/TERRA, Slow Food, Legambiente, Rete Semi Rurale, Terra Nuova – e tutte chiedono che il Parlamento in questi giorni faccia marcia indietro sulle norme riguardanti il settore agroalimentare del decreto Cresci Italia. Il decreto-legge 24 gennaio 2012, n.1 attualmente in esame prevede, tra le altre direttive, l’alienazione in misura stabile dei terreni agricoli o a vocazione agricola di proprietà pubblica, che secondo l’ultimo censimento ISTAT ammonterebbero a ben 338.127,51 ettari per un valore di 6,22 miliardi di euro, stando alle stime di Coldiretti e Inea.
L’articolo 66 del Cresci Italia presenta come finalità di una simile operazione lo sviluppo dell’imprenditorialità giovanile nel settore agricolo e la riduzione del debito. Secondo la Coldiretti si toglierebbe in questo modo allo Stato il «compito improprio di coltivare la terra» e si incentiverebbe la crescita, l’occupazione e la redditività delle imprese.

Il segreto di Marchionne

Nella foto: Giorgio Napolitano con il ministro per lo Sviluppo Economico Bersani, consegna le insegna di Cavaliere dell'Ordine "Al Merito del Lavoro" a Sergio Marchionne

Le parole di Minchionne, il re magio moderno che porta ai lavoratori la chiusura delle fabbriche invece che mirra e diritti sindacali, sono importanti, parole da riflessione zen per ogni operaio licenziato. Da meditazione con la chiave inglese in mano. Minchionne si occupa di macchine a petrolio, un settore che è in discesa da 12 anni. Finito, strafinito. Lui lo ammette senza problemi. Il mercato dell'auto è "orribile". Più per la Fiat che per gli altri costruttori, ma questo è un dettaglio. Il suo reddito resta comunque straordinario. E' riuscito nell'impresa dove fallì la Triplice sindacale degli anni '70, quella di rendere il suo stipendio una variabile indipendente dal mercato. Le cause delle perdite della Fiat vanno ricercate altrove, non sicuramente nel management, infatti "Il problema dell'eccesso di capacità produttiva va affrontato a livello europeo. Sono fiducioso che troveremo una soluzione, non possiamo continuare a perdere sui livelli che stiamo perdendo: il sistema non regge". Minchionne invece regge come nessun altro tra emolumenti e stock options. Nel mese di marzo la Fiat ha perso il 36,08% delle vendite rispetto allo stesso mese del 2011. L'Alfa il 45,59%, quasi metà della sua produzione. Il peggior risultato degli ultimi 32 anni. MInchionne è rassicurante "La Fiat non lascia l'Italia'', ma il Paese ''deve cambiare, abbandonando un atteggiamento passivo nei confronti del presente". E' decisionista sulla riforma del lavoro che ''Va fatta, non c'e' alternativa''. E' mentore della nuova classe dirigente in un convegno della Bocconi (ma chi l'ha invitato, forse Rigor Montis per spiegare come la Fiat tirerà le cuoia? E perché nessuno studente lo ha fischiato?) "I diritti vanno tutelati ma se continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo". I diritti dei lavoratori, questo è il problema! In particolare per un Cavaliere del Lavoro nominato da Napolitano. Minchionne, abruzzese di Chieti, vuò fà l'americano, ma è nato in Italy, nel periodo 2004-2009 ha totalizzato compensi in azioni per 255 milioni di euro, pari a circa 38 milioni di euro l'anno:1.037 volte lo stipendio di un suo dipendente medio. In compenso, la quotazione di Fiat Gruppo è passata in cinque anni dal valore di 23 euro, luglio del 2007, a quello di inizio aprile 2012 (dopo la scissione) di circa 4,3 euro. Con numeri come questi, di crollo delle vendite e delle azioni, qualunque amministratore sarebbe stato licenziato all'istante. Marchionne, qual è il tuo segreto?

L’Italia come l’Argentina 10 anni fa

- abassavoce -
Le polemiche italiane sull’articolo 18 hanno per gli argentini uno sgradevole sapore di déjà vu e lo stesso dicasi per le reazioni nei confronti del governo tecnico di Mario Monti. Se la nostra esperienza può servire a qualcosa eccone un breve resoconto. Il presidente Carlos Menem (1989-1999) abolì le leggi a tutela dei lavoratori che garantivano diritti ottenuti dopo decenni di lotte sociali, cosa questa che non aveva osato fare nemmeno la dittatura militare (1976-1983).

Il tecnico che preparò la riforma del mercato del lavoro fu Domingo Cavallo, incaricato di porre fine al “populismo peronista”.

In Italia settori che si considerano progressisti o comunque facenti parte di una delle anime della sinistra, hanno accolto con sollievo il rappresentante delle banche e di quel mitologico personaggio che va sotto il nome di“Merkozy”. Dicono sia un uomo serio, che gode di notevole prestigio in Europa e che ora non bisogna più vergognarsi di essere italiani.

La situazione ha qualche analogia con l’Argentina di 20 anni fa anche se in Argentina il problema non era il bunga bunga, ma la superinflazione.

Stabilendo il rapporto di parità tra dollaro americano e peso argentino, Cavallo fece calare immediatamente l’inflazione e avviò un programma di riforme il cui scopo era quello di migliorare la competitività dell’economia. La brusca stabilizzazione così ottenuta permise a Menem, che somigliava più a Berlusconi che a Mario Monti, di vincere le elezioni successive e di portare avanti un programma di smantellamento delle conquiste sociali, di liberalizzazione finanziaria, di deregulation e di privatizzazioni che causò indebitamento con l’estero per sostenere la finzione secondo cui un peso valeva quanto un dollaro, deindustrializzazione e dismissione delle industrie pubbliche.

La flessibilità del lavoro fu una delle pietre angolari di questo modello.

La perdità di stabilità del lavoro e la legalizzazione dei contratti a tempo determinato o a salario ridotto senza benefici sociali per i nuovi lavoratori ridussero il costo del lavoro e fecero lievitare i profitti delle imprese il cui contributo al sistema pensionistico subì una drastica riduzione. Di conseguenza il sistema pensionistico venne privatizzatio e i fondi pensione gestiti dalli grandi banche. Anche Cavallo era un uomo rispettato negli ambienti finanziari internanzionali e Menem prometteva che con questa politica l’Argentina sarebbe divenuta un paese del primo mondo, realizzando una vecchia ossesione argentina.

Avvenne l’esatto contario. Invece di registrare aumenti di produttività, il settore industriale entrò in crisi profonda. La chiusura di moltissime attività produttive, che non potevano competere con le importazioni a prezzi molto bassi, fece lievitare la disoccupazione fino a livelli mai toccati in Argentina.

Se la politica si riprendesse la moneta

Posted by keynesblog on 3 aprile
Bassa crescita, alto debito e ricche occasioni di speculazione. La miscela esplosiva della crisi europea potrebbe essere evitata da una politica economica comune, partendo da una moneta che torni a servire la politica. La discussione di Sbilanciamoci.info e il manifesto sulla rotta d’Europa

di Daniela Palma, Paolo Leon, Roberto Romano, Sergio Ferrari
In Europa si vivono due crisi: la prima, economica, si esprime in tassi di crescita tanto bassi da lasciare invariato o addirittura da aumentare un tasso di disoccupazione socialmente ed economicamente molto costoso. (…) La seconda crisi colpisce lo stato. Con il Pil che non cresce, e con la spesa pubblica che aumenta per la necessaria assistenza sociale (con la stagnazione, basta un minimo aumento della produttività del lavoro per far crescere la disoccupazione), il deficit pubblico aumenta; ciò allevierebbe la crisi economica, perché quella pubblica è pur sempre domanda aggiuntiva, ma poiché il deficit è coperto dal debito pubblico – ché se fosse coperto da maggiori tasse aggraverebbe la crisi – cresce il rapporto debito/Pil. Al crescere di questo rapporto e poiché la crisi limita i risparmi nazionali destinati ad acquistare il maggior debito pubblico, è sul mercato finanziario internazionale che gli stati troveranno gli acquirenti delle loro obbligazioni. Questo innesta un movimento speculativo che, senza regolazione, tende a rafforzarsi. La speculazione sulle obbligazioni pubbliche, in fase di crisi, è sempre al ribasso: si tratta, per gli operatori finanziari, di vendere oggi per ricomprarle domani a un prezzo più basso. Quando l’ammontare del debito è una quota rilevante del Pil del paese debitore, e se l’economia non cresce e il gettito tributario non aumenta, è difficile pagare gli interessi; così, ogni nuova emissione avviene a prezzi più bassi di quelle precedenti, e la speculazione al ribasso ha successo. Tuttavia, proprio perché la speculazione funziona, gli operatori continueranno a giocare contro il debito pubblico, vincendo ogni volta, finché non si arriva alla bancarotta dello stato (…).

Nel caso dell’Europa dell’euro, poiché il fallimento di uno stato membro avrebbe conseguenze sulla moneta europea, gli altri membri intervengono e consentono al paese in potenziale bancarotta di pagare i creditori, ma lo obbligano a dotarsi di un piano di restrizioni finanziarie tanto grande quanto necessario per produrre un avanzo di bilancio pubblico, così da ridurre il volume del debito. Naturalmente, il paese in questione subirà una crisi ancora più forte, e solo se la sua economia è piccola rispetto alla somma di quelle degli stati membri, ciò potrà non avere un’influenza sulla crescita complessiva. Poiché gli operatori finanziari sperimentano questo salvataggio, e poiché non perdono di valore le obbligazioni in loro possesso, riterranno che la speculazione al ribasso contro i debiti pubblici è a basso rischio, e continueranno a operare nei confronti di qualsiasi paese membro (logicamente, verso paesi più grandi, anche per testare la resistenza collettiva dei membri), ogni volta che il tasso di crescita specifico è troppo basso per consentire al governo del paese oggetto di attenzione di aumentare il gettito tributario e ridurre il deficit (…). La prospettiva è disastrosa, anche perché la difesa dei paesi più grandi diventerebbe sempre più difficile, perché sempre più grande sarebbe il fondo rischi da erigere per evitare la bancarotta degli stati.
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Enrico De Pedis - Wikipedia, the free encyclopediaen.wikipedia.org/wiki/Enrico_De_Pedis - Traduci questa paginaEnrico De Pedis (May 15, 1954 − February 2, 1990) was an Italian criminal and … to the disappearance of Emanuela Orlandi, whose casehas been linked with … is currently investigating why he was entombed in the Vatican-owned basilica.

lunedì 2 aprile 2012

To the citizens of Europe.

Europe unites peoples, cultures and traditions that are unrivaled in the world, and their identities.
And together these nations have expressed an idea that only extraordinarily difficult to decline: that diversity is wealth and that the unity in diversity can be based on a set of values and principles, democracy, social cohesion, subsidiarity, the value the person, legal certainty ...
The economic crisis gripping Europe and has engulfed Greece (arrived at a ratio of government debt to GDP that stood at 160%) is putting this idea in deep crisis, promoting the revival of ancient selfishness and nationalism.
Greece, a people of about 11 million inhabitants with a unique history, when Europe and throughout the West have a good part of their civilization, the very idea of democracy, theater, philosophy, poetry ...
While the National and Community institutions are finding the solutions, because the European economy returns to growth, the European people is called to demonstrate in this difficult time in its history that exists, who can be in solidarity with those most fragile, really want and actually be together.
For this we turn with our initiative to individual citizens, their associations, municipalities all over Europe, among which more than any other institutions represent their community, because a free economic aid to the Hellenic Red Cross, however small, provided repeated for 12 months, both the tangible sign of our feeling and be one people, the people of Europe.
The Coordination of the Network of Mayors and the Hellenes of Italy

BRICS – Banca Sviluppo senza Dollari, declino delle vecchie potenze economiche

- verdemoneta -
Brasile, Russia, India, Cina, Sud Africa, Stanno per dar vita ad una banca per lo sviluppo, in più scambieranno tra loro le merci in valuta locale, il Dollaro perde così il suo ruolo di valuta di riferimento, una spallata al modo di governare la finanza da parte delle attuali istituzioni.

Non manca certo la determinazione ai paesi che formano i BRICS, acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa, infatti dal 4° vertice che si è appena svolto a New Delhi sono arrivate delle conclusioni a dir poco temibili.

Le decisioni prese rischiano infatti, e forse hanno proprio lo scopo, di mettere in crisi le istituzioni finanziarie statunitensi ed europee, ponendole di fronte ad una scelta, cominciare realmente a fare qualcosa per uscire dalla crisi o soccombere.

Non è un caso che i BRICS rappresentino le economie emergenti, per cui non è un caso che i loro vertici siano ben diversi dai vari G-Vertici ( G8, G20).

Sino ad ora ogni appuntamento tra i leader di questi stati ha visto prevalere una caratteristica comune, la voglia di fare, per cui dinamismo e concretezza.

Cosa è successo in questo vertice ? Qualcosa di estremamente importante, un segnale chiaro di come i BRICS non sopportano più l’ immobilismo delle maggiori economie industrializzate.

Per prima cosa si è deciso di attivare ufficialmente l’ iter per la creazione di una nuova Banca per lo Sviluppo che possa supportare i paesi più poveri.

La mancanza di considerazione per le persone “meno fortunate” è uno degli atti d’accusa rivolta ai paesi sviluppati e alle istituzioni finanziarie esistenti, non è la prima volta che i BRICS la portano all’ attenzione delle cronache solo che questa volta non è stato un semplice ammonimento.

Le vecchie decrepite istituzioni finanziarie europee e statunitensi, non sono riuscite e non hanno alcuna intenzione di aiutare i paesi poveri che continuano a restare isolati nel loro faticoso percorso verso uno scenario migliore.

Indi per cui traendo spunto dal modello della Banca Mondiale, a breve sarà attivata una istituzione per i bisogni e le necessità di quella parte del mondo ancora oggi esclusa dai giochi di potere economico.

Ma questo non è il problema principale, anzi tanto di cappello ai BRICS per l’ iniziativa.

Assediamoli

di Giulietto Chiesa - www.ilfattoquotidiano.it - megachip -
Reduce dalla manifestazione di Milano “Occupy Piazza Affari”. Eravamo in tanti. Certo molti di più dei 15 mila forniti dalla Questura. Moltissimi giovani, in larga maggioranza.

Le cose che si sono scritte, e dette, le poteva capire chiunque. Se fossero note alla grande massa dei cittadini italiani, sabato in piazza ci sarebbero stati alcuni milioni di cittadine e cittadini.

Il fatto è che quelle cose non le conosce quasi nessuno. E questo spiega tutto, anche il fatto che un governo di selvaggia rapina, come questo di Monti-Napolitano, che ti ruba i soldi in tasca, riesce a stare a galla, addirittura, per ora, con il consenso (secondo i sondaggi) di una maggioranza dei rispondenti.

Ma perché la gente non sa? Non solo perché si tratta di questioni difficili da capire e da sapere. Essenzialmente perché tutto il mainstream (tutti i giornali “che contano”, tutte le televisioni) tace la verità, nega l’informazione, “distrae” il pubblico agitandogli davanti agli occhi straccetti di vario colore.

Dunque credo che si debba finalmente capire una cosa: le prossime manifestazioni di dissenso non si devono più fare (solo) nelle strade, con i cortei eccetera.

Bisogna assediare i centri della informazione-comunicazione. Tutti. Costringendoli a dire la verità. Perché di verità ce n’è una sola e non tante, equivalenti, in base a una par condicio demenziale.

Questa verità si chiama truffa. Il debito, che spiegherebbe tutto, è una truffa. E molto pochi sanno che questo debito è una truffa. Se lo sapessero in molti questa truffa svanirebbe.

Dunque bisogna che la lotta si trasformi in una grande battaglia per una informazione veritiera.

Cercheranno in tutti i modi di impedirla. Ma non c’è che la lotta aperta per imporla. Altrimenti continueranno come sempre. La manifestazione di Milano, contro il debito, è stata “silenziata” da tutto il mainstream. E’ la prova che bisogna andare a imporre una informazione diversa a coloro che la detengono, che sono gli stessi che tengono in piedi questo governo. E sono gli stessi che tengono la borsa ai ladri della finanza italiana e internazionale.

Forza ragazzi. Là dentro, dentro la Rai, dentro Mediaset, dentro le redazioni dei maggiori quotidiani italiani, c’è un sacco di gente che aspetta di essere liberata. Vogliamo provare a farci sentire? E a farci vedere?

Fonte e commenti: http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/04/01/assediamoli/201682/

Bankitalia: la ricchezza dei 10 Paperoni d’Italia vale quanto tre milioni di persone più povere

- ilfattoquotidiano -
Il divario più ampio rispetto alla distribuzione del reddito: quanto posseduto dagli italiani dipende sempre di più dal patrimonio accumulato in passato e sempre meno dal reddito

L’Italia è il Paese dove i dieci Paperoni posseggono una ricchezza che vale tutta insieme quella di altri tre milioni di italiani più poveri. Un divario molto più ampio di quello della distribuzione del reddito. Un fenomeno presto spiegato: l’Italia è ancora piuttosto ricca, ma la ricchezza degli italiani è composta sempre di più dal patrimonio accumulato in passato e sempre meno dal reddito.

Ad analizzare la ricchezza nazionale è uno studio di Giovanni D’Alessio, del servizio studi di Banca d’Italia, in un rapporto pubblicato negli Occasional papers diffusi da Palazzo Koch. Negli ultimi anni, secondo Bankitalia, si è invertita la distribuzione della ricchezza tra le classi di età: oggi al contrario che in passato gli anziani sono più ricchi dei giovani che non riescono ad accumulare. Se da un lato i dati evidenziano l’esistenza di un conflitto generazionale in termini di redditi, il livello di diseguaglianza è comparabile, secondo D’Alessio, a quello di altri Paesi europei.

Il reddito da capitale. Il rapporto tra la ricchezza e il reddito è all’incirca raddoppiato negli ultimi decenni, ma è aumentato altrettanto anche il ruolo dei redditi da capitale rispetto a quelli da lavoro. Questo significa che sta assumendo un ruolo via via crescente tra le risorse economiche che definiscono la condizione di benessere di un individuo.

Le tasse sulla ricchezza. Lo studio sottolinea che è “notevole” che in Italia “il carico fiscale sulla ricchezza all’inizio degli anni Duemila fosse tra i più bassi d’Europa e che, al netto dei condoni, sia diminuito sensibilmente nel corso del decennio”. Da qui “l’inversione di questa tendenza occorsa con il decreto di fine 2011 è apparsa opportuna”.

“if they discover that all committed suicide …… Mr. Monti gets pissed off”

domenica 1 aprile 2012

Risolvere la crisi del debito sovrano in modo semplice, una proposta dai Post Keynesiani del Levy Institute

Posted by keynesblog
Philip Pilkington e Warren Mosler in una Policy Note del Levy Institute (il noto centro di ricerca Post Keynesiano di New York che ha avuto tra i suoi schoolars Hyman Minsky) hanno avanzato un’innovativa proposta finanziaria che potrebbe risolvere la crisi del debito sovrano della zona euro: il “tax-backed bond“, ovvero l’utilizzo dei titoli del debito pubblico per il pagamento delle imposte.
Il meccanismo è il seguente: se (e solo se) un paese dell’eurozona va in default, cioè non riesce a ripagare un titolo di stato, tale titolo può essere utilizzato da chi ne è in possesso per il pagamento delle imposte in quel paese.
“Se, ad esempio un investitore detiene un bond del governo irlandese del valore di 1.000 euro”, scrivono i due economisti, “e il governo irlandese non riesce a pagare gli interessi o restituire il capitale, l’investitore può utilizzare semplicemente il titolo per effettuare pagamenti fiscali al governo irlandese per l’importo di 1.000 euro.”
Se il titolo è però detenuto da qualcuno che non paga le tasse in quel paese, chi è in possesso del titolo potrà venderlo a un istituto di credito sottoposto all’imposizione fiscale del paese in default, con un piccolo sconto (ad esempio 5 euro), per rendere l’acquisto conveniente, e l’istituto di credito l’utilizzerebbe per il pagamento delle imposte. Nell’esempio, una banca tedesca che fosse in possesso di un titolo di stato irlandese da 1000 euro potrebbe venderlo ad una banca irlandese per 995. La banca l’utilizzerebbe per pagare le tasse dovute dai suoi clienti al governo irlandese (come avviene normalmente quando un cliente fa un versamento al fisco), guadagnandoci quindi i 5 euro di sconto.
In altre parole, i bond di un paese in default diverrebbero una moneta per pagare le tasse. Keynes spiegò nella Teoria generale che lo scopo di chi opera in borsa è spesso quello di passare al altri la “moneta cattiva“:
Lo scopo privato dei più esperti investitori di oggi è lo to beat the gun come dicono gli americani, metter nel sacco la gente, riuscire a passare al prossimo la moneta cattiva o svalutata.

Chi salverà l’Europa dall’euro?

Andrea Terzi* - economiaepolitica -
Dopo gli articoli apparsi sull’Economist e sul Washington Post e il reportage di Repubblica, è cresciuto l’interesse per l’economia ‘neo-cartalista’, nota anche con l’acronimo MMT (Modern Monetary Theory). Qui vorrei proporre ai lettori di Economia e Politica una sintesi dei concetti principali di questo approccio ‘eterodosso’ per ricavarne alcune ricette per l’Europa, in alternativa alla visione che domina il dibattito in corso, e che si può riassumere più o meno così:

La crisi dell’euro non è un problema della moneta unica europea, che invece ha dimostrato di mantenere stabile il proprio potere d’acquisto interno ed estero, grazie alla BCE. È piuttosto un problema di alcuni stati che hanno fallito su due fronti: la competitività e l’equilibrio dei conti pubblici. In altre parole, se fossimo tutti come la Germania l’area dell’euro godrebbe di ottima salute. Per quei paesi che hanno fallito, e che possono ancora rimboccarsi le maniche per evitare di uscire dall’euro, la ricetta è una sola: austerità e riforme strutturali, e quindi sacrifici fino a quando le riforme non daranno i loro frutti. È un cammino non breve, né facile, ma è l’unico percorribile: solo riducendo sprechi e costi di produzione (anche attraverso una minor tutela del lavoro dipendente) si riacquisterà la competitività che consentirà di creare nuovi posti di lavoro.

Secondo la MMT, le ragioni della crisi non sono affatto queste, né le ricette sul tavolo dell’Europa (e dell’Italia) hanno una qualche possibilità di successo. E in considerazione del fatto che l’Europa, tra summit, annunci della BCE e nuovi trattati, entra ormai nel terzo anno della “sua” crisi, può essere utile esaminare alcune proposizioni neo-cartaliste e valutare le proposte per l’Europa che se ne possono trarre. Si tratta, d’altra parte, di proposte condivise da un più ampio fronte di economisti di formazione keynesiana e postkeynesiana, con i quali la MMT condivide alcuni principi di fondo.

1. La moneta è un istituzione politica, non una manifestazione delle leggi del mercato

È il punto centrale della teoria neo-cartalista. La moneta, come gli scienziati sociali non economisti ben sanno, è un fenomeno politico-istituzionale, sia dal punto di vista storico che logico. È documento (‘carta’) emessa dallo stato. Non è la soluzione dei privati al problema dei costi di transazione. In un celebre articolo del 1998, Charles Goodhart[1] mosse una serie irresistibile di obiezioni alla teoria privata della moneta, concludendo che la costruzione dell’euro è a rischio: la separazione tra moneta e sovranità politica, spesso elogiata dagli architetti dell’euro come la vera forza della nuova moneta unica, costituisce invece un elemento di profonda fragilità. A distanza di oltre un decennio, I fatti danno ragione a Goodhart.

2. Ogni taglio della spesa e ogni aumento delle tasse riduce la ricchezza finanziaria di famiglie e imprese

Si tratta di un principio che si ricava dalla contabilità settoriale: il disavanzo finanziario di un settore corrisponde sempre ad un equivalente avanzo finanziario di un altro settore. Nel caso del disavanzo pubblico, la maggior ricchezza finanziaria del settore privato corrisponde all’emissione dei titoli e/o delle riserve bancarie prodotti dal disavanzo[2]. In altre parole, il disavanzo pubblico crea (non distrugge) risparmio privato.

Ciò significa che lo sforzo coordinato dell’Europa nel ridurre i disavanzi pubblici comporta una pari riduzione delle attività finanziarie di famiglie e imprese, con effetti depressivi su consumi, investimenti e occupazione. [3] È vero: anche nella letteratura mainstream non si legge più che l’austerità è espansiva. Ma qui c’è un aspetto in più: il disavanzo del settore pubblico è considerato l’unica sorgente netta di ricchezza finanziaria per il settore privato. L’unica alternativa, e cioè un avanzo commerciale con l’estero, è un gioco a somma a zero tra l’esportatore netto e l’importatore netto. Anche la Cina l’ha capito e si sta prudentemente spostando verso un maggior peso dei consumi interni, anche grazie al ruolo della politica fiscale. Gli Europei preferiscono invece la sterile virtù dei bilanci in pareggio.

SIAMO IL 99% E SIAMO IN CREDITO

di checchino antonini - controlacrisi -
C'è vita a sinistra del centrosinistra. E piazza Affari, meta del corteo, non basta a contenerla tutta. Una forma di vita che mescola e ostenta i tratti del vecchio e del nuovo, che deve ancora - probabilmente - assumere una forma più matura. Ma guardandosi sfilare nel centro di Milano in ventimila, forse anche di più, in un sabato pomeriggio primaverile, quello spazio politico comprende di aver vinto la prima sfida, quella di esistere dopo essere restato, come anche altri soggetti, quasi senza voce dopo il disastro politico del 15 ottobre scorso.
E' il rifiuto del ricatto del debito, leva costituente per il neoliberismo, che tiene insieme una pluralità di soggetti politici e sociali, dalla Rete 28 aprile di Giorgio Cremaschi, dai sindacati USB, Cub e Orsa, da San Precario ai collettivi di Atenei in rivolta e mille altre sigle studentesche più l'Unione inquilini e buona parte della lotta per la casa di città come Roma, Napoli, Firenze, Milano. Franco Turigliatto, tanto per citare i nomi più noti della politica, Paolo Ferrero, Vittorio Agnoletto o Luciano Muhlbauer. In mezzo, o più spesso in coda, i partiti con la falce e martello, o quello che di loro resta. Ma l'anima a questo corteo gliela forniscono le pratiche di resistenza e di conflitto, dalla Valsusa ai GAP, esperienza di partito sociale ispirata da Rifondazione, fino a Rivolta il debito, Rid, che prima di sfilare mette in scena, alle spalle di Piazza Duomo, una rapina agli sportelli di Mediobanca con finti banditi camuffati da Monti. "Mediobanca figura tra quelle banche che hanno preso soldi dalla Bce all'1 per cento e stanno speculando sulla crisi", spiega Piero Maestri, uno dei portavoce di Sinistra critica che ha aperto la campagna Rid "a chiunque voglia attraversarla", precisa Paola De Nigris, studentessa di Atenei in rivolta della Sapienza. La "rapina è un pezzo di Sbanca la banca, idea per colpire davvero gli istituti di credito. Paola e i suoi compagni suggeriscono, ad esempio, di sanzionare le banche spostando i propri risparmi verso casseforti meno sanguisughe, come le Poste o la stessa Banca Etica. Altra idea portante della Rid è quella dell'audit, un percorso partecipato che riveli la reale composizione del debito pubblico. "Anche quello dei comuni o delle università", conclude la studentessa.
Un drappo arancione, che vuole alludere ai colori dei nuovi sindaci, dice così, pendendo da un camion: "Meteomilano: nessun cambiamento di vento rilevato". La partecipazione milanese, infatti, è espressione della delusione nei confronti della giunta Pisapia. Quando la banda di suonatori imparruccati si rimescola al corteo, poco dopo Piazza Vetra, ci si accorge che un muretto di foratini è spuntato sul portone di una filiale Paribas. Velocità d'esecuzione, creatività, parole d'ordine senza ambiguità contro il governo Monti.
Preannunciata dal lugubre tam tam del mainstream come la calata dei blackout bloc sulla città, OccupyPiazzAffari é stata invece una forma ibrida di street parate e di corteo politico sindacale, un anticipo di Mayday, il primo maggio degli atipici, e uno scampolo di autunno caldo. Tra le bandiere di Usb e Cub erano riconoscibili quasi tutte le vertenze in corso: Alcoa, Esselunga, Alitalia, i lavoratori dei treni notturni che da 117 giorni occupano tetti di Roma e Milano. In realtà altro non sono che l'altra faccia della battaglia dei No Tav arrivati in massa dal Piemonte. Il debito che ha tagliato il posto ai ferrovieri servirà a pagare l'alta velocità e da questa sarà aumentato in una spirale perversa che solo un'altra politica potrà interrompere. A questo serve lo spazio politico NoDebito dentro il quale ci si interroga su cosa fare da grandi. La polarizzazione potrebbe condensarsi tra chi punterebbe a formare una confederazione di soggetti, un coordinamento permanente, e chi vorrebbe l'espansione del movimento e del conflitto tale da produrre nuove connessioni e magari coinvolgere gli assenti di Piazzaffari (il grosso della Fiom e i Cobas, solo per citare). Next stop, Firenze, alla fine del mese, probabilmente, per una due giorni seminariale. Ma l'agenda dei movimenti è piuttosto articolata. Il clou sarà a Francoforte per la chiamata tedesca nella città simbolo della Bundesbank e della Bce. Accadrà il 17 maggio

Quest’anno lo scherzo ve lo facciamo noi. Etinomia lancia lo sciopero bancario

- notav -
Questo appello è rivolto a tutti i cittadini che vogliono diventare padroni della propria vita oltre che dei propri soldi, che non vogliono più accettare le scellerate politiche finanziarie contemporanee, che hanno procurato l’attuale black-out economico da cui consumatori ed imprese non riescono ad uscire. Dire NO a questo corrotto sistema finanziario, vuol dire credere in un modello di sviluppo diverso, sostenibile e più giusto per tutti. Etinomia, imprenditori e associati e altre realtà lanciano la prima iniziativa nazionale di sciopero bancario. L’elenco completo dei promotori è disponibile sul sito www.sbankiamoli.it. Qui si trovano tutte le informazioni per aderire.

L’11 aprile 2012 (in corrispondenza con la data di notifica ufficiale dell’occupazione dei terreni privati in Val Clarea, ove permane l’occupazione militare dell’inesistente cantiere del tunnel geognostico per il TAV) daremo inizio alla campagna contro le banche generaliste e irresponsabili. Si invitano tutti coloro che intendono manifestare il proprio dissenso verso la politica finanziaria condotta dalle banche, a chiudere il proprio conto corrente spostando i risparmi dalle banche irresponsabili presso una banca responsabile, oppure una MAG (Mutuo Autogestito). In alternativa invitiamo a prelevare contante presso la propria banca, comunicando al direttore l’adesione all’iniziativa con una lettera, sottolineando il nostro totale e assoluto rifiuto per opere e investimenti, inutili e devastanti (TAV, inceneritori, F35, cementificazione del territorio, speculazioni finanziarie, petrolio ed energie inquinanti).

Gli imprenditori di Etinomia vi invitano a sbancare le banche, scarica Qui il volantino.

Sabato rosso a Piazza Affari

Oltre 20mila persone sfilano nel cuore finanziario della città contro il governo Monti. Precari, No Tav, studenti e lavoratori, in coda i partiti della sinistra extraparlamentare. Manca solo Sel
L'opposizione sociale ai diktat dei mercati riparte dal lavoro e punta allo sciopero generale

di Giorgio Salvetti - contropiano -
MILANO
Ripartiti. Ieri a Milano l'opposizione sociale contro la prepotenza dei mercati e contro il governo Monti che li rappresenta ha finalmente battuto un colpo. Oltre 20mila persone hanno raccolto l'appello lanciato dal Comitato No Debito. Hanno occupato Piazza Affari dopo un lungo corteo che ha invaso pacificamente le strade del centro e che è partito poco lontano dalla Bocconi, l'università tanto cara al presidente del consiglio.
Occupyamo Piazza Affari è stato un successo che è andato al di là delle più rosee previsioni. I numeri per una manifestazione nazionale come si deve ancora non ci sono, ma quello di ieri è stato un buon momento di rilancio e di ricostruzione. Non era facile infatti rianimare il variegato fronte che si era incontrato a Roma il 15 ottobre per poi finire in mille pezzi dopo gli scontri in piazza San Giovanni. Da quel giorno molte cose sono successe. E solo una in meglio: non c'è più Berlusconi. Tutto il resto invece va sempre peggio. La crisi è sempre più spietata e il governo la scarica sui più poveri. Il parlamento è ridotto a un organo consultivo, l'opposizione non esiste, se non fuori dai palazzi. Eppure mentre la Grecia affonda e la Spagna viene bloccata da un grande sciopero generale, in Italia fino a ieri tutto sembrava tacere. La rassegnazione al volere dei mercati e della Bce sembrava invincibile. Nulla si era ancora mosso davvero nel paese, neanche davanti alla controriforma del lavoro del ministro Elsa Fornero.
«Sciopero generale. Sciopero generale». Il corteo si presenta gridando questo slogan davanti al dito medio che guarda la Borsa. Piazza Affari è più che occupata. È stracolma. Il corteo straripa in piazza Cordusio e la riempie. Il quadrilatero finanziario di Milano, e quindi di tutto il paese, per qualche ora è in mano ai cittadini che lo contestano. E' stata una manifestazione tanto radicale quanto composta e ironica. Uniche trasgressioni della giornata un muretto di pochi mattoni costruito davanti alla Banca Nazionale del Lavoro e qualche vetrina di banca imprattata. Un flash mob davanti a Unicredit e due striscioni appesi sulle impalcature di due cantieri: «Siamo il 99% e siamo in credito» e «Voi il debito, noi la rivolta». I cronisti assetati del proverbiale «attimino di tensione» si devono accontentare di un animato scambio di parole tra un gruppo di No Tav e alcuni agenti in borghese che si sono mischiati tra la folla.

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