Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 23 febbraio 2013

Elezioni 2013, panico a palazzo: cosa si inventeranno i lavapiatti della Nato?

 di |
Hanno paura. Le sedie traballano. Il fatto è che non sono abituati ad avere un’opposizione, e adesso ne avranno più d’una: che immaginano composta di selvaggi sconosciuti e vocianti, orde di popolo che stanno per invadere il parlamento. Che fare? Ci sarà da piangere e da ridere. Questo conferma quanto dissi prima che cominciasse la campagna elettorale: che si sarebbe dovuto fare ogni sforzo per costruire una unica lista di opposizione; che c’erano le condizioni per mettere in pericolo il premio di maggioranza al Pd.
Comunque una chiara maggioranza non ci sarà. Meglio così che affondare come dei topi nella trappola europea, per giunta senza formaggio. Dunque sarà opportuno prepararsi a ballare nel mare in tempesta. Del resto anche “loro” si preparano. Avrete notato che Napolitano è stato convocato a Washington, da Obama, a pochi giorni dal voto. Siamo all’impudenza, visto che non mi sovviene nulla di analogo. Di che avranno parlato?
Io penso abbiano parlato del ‘pasticcio italiano’. Risulta che si è parlato anche delle basi americane e Nato, in Italia. E anche questo non è stato evento casuale. Ma non si sono limitati a questo. Certamente uno dei punti all’ordine del giorno è stato la ‘crisi di governo’ che uscirà dalle urne. Notato il paradosso? Le urne dovrebbero produrre le condizioni per fare un governo e, invece, produrranno una crisi di governo. E dunque perché stupirsi se Napolitano fosse andato da Obama a spiegargli che si appresta a cucinargli, e cucinarci, un altro ‘governo tecnico’? Certo non sarà un Monti-2, perché Monti finirà quarto, addirittura dietro Grillo. E potrebbe non essere nemmeno un Bersani-1, che al massimo sta nella parte del cameriere del Bar Sport Centrale (con annessa ricevitoria del Lotto) di Reggio Emilia.
Impresa che potrebbe costringerli, i manovratori, a inventare un nuovo maggiordomo Goldman Sachs. Che sarebbe il loro ideale organizzatore dello shopping dei gioielli industriali italiani, con una privatizzazione da fare quasi invidia a quella del 1992. Fatta a base di dollari falsi, cioè inventati.
Il fatto è che il primo tentativo di governo che faranno produrrà, loro malgrado, un ‘gabinetto di guerra’. Avete dimenticato la Siria? Male. Tenetela presente perché andremo in Siria a zampettare nel sangue. Avete dimenticato l’Iran? Male. Tenetelo a mente, perché incombe un attacco israelo-americano, checché ne dica, o finga di dire, Barack Obama. Napolitano gli ha sussurrato nell’orecchio che “noi ci saremo”. Come al solito, per non smentire ciò che si dice nei corridoi di Bruxelles, cioè che noi siamo considerati i lavapiatti della Nato. Niente di nuovo.
E così avremo occasione di misurare la statura dell’opposizione in Parlamento. Già, perché questa volta ci sarà un’opposizione. Anzi ce ne saranno tre. Quali?, direte.
Ci sarà il battaglione di Grillo, e sarà inopinatamente grosso. Tanto grosso, appunto, da terrorizzare i piani alti. Ci sarà il drappello di Ingroia, e potrebbe essere discreto. Ci sarà anche una parte dei “selliani”. Ora io non so cosa succederà a tutta questa gente dopo il 25 febbraio. Immagino considerevoli problemi nel tenere insieme le truppe del Movimento 5 Stelle. Prevedo che la lista Ingroia sarà soggetta a forti scossoni e laceranti nelle sue componenti dipietrista, verde slavato e falcemartellista. Ma prevedo anche che ci saranno maldipancia pre-diarrea anche in non pochi deputati entrati nella lista di Vendola con l’idea ingenua di fare da spalla sinistra a un programma di destra.
Vedremo. Ma non è difficile prevedere che per molti di queste new entry all’opposizione sarà molto scomodo, o proprio inaccettabile, andare in guerra. Alcuni – li conosciamo già per nome e cognome - in guerra ci andranno senza problemi, magari cantando inni di pace. Ma molti altri non ci andranno. Altri ancora, ingenui, ma onesti, avranno bisogno di molto Maloox per votare i provvedimenti del fiscal compact. Insomma c’è odore di bruciato. Il nostro prode Napolitano, tra una telefonata e l’altra a Mancino, ha sicuramente promesso a Obama che terrà il timone e poi lo passerà a persona fidata, ma potrebbe non poter mantenere le promesse.
Molto di quello che succederà dipenderà anche da quello che facciamo noi (che siamo fuori). Se riusciremo a far sorgere dal paese una forte protesta sociale, cioè se creeremo una solida ‘maniglia’, allora parecchi di questi homines novi all’opposizione potrebbero impugnarla, aggrapparvisi. Ma questo presuppone l’avvio della tessitura di una grande coalizione di ‘salvezza nazionale’. Quello che non si è saputo e potuto fare prima di questo voto, lo si potrebbe cominciare a fare adesso. E potrebbe essere molto utile in vista di possibili elezioni anticipate, o per le europee del 2014, o per fronteggiare la repressione che verrà. Sicuro che verrà. Se guardo alle notizie che vengono da oltre Oceano, che ci annunciano un piano per costruire 30 mila droni di sorveglianza, che saranno in grado di spiare sui cittadini americani 24 ore su 24, penso che laggiù preparano qualche offensiva orwelliana contro i loro cittadini.
Quelli che, qui, adesso, tremano stanno preparando, d’intesa con Washington, un “piano B”. Ma quando si ha paura si possono fare mosse false, anche senza volere. In questi casi – è accaduto nella storia – mentre ci prepariamo per difenderci, potremmo anche cominciare a pensare di poter vincere.

Le elezioni.




Generalmente mi ricordo
una domenica di sole
una giornata molto bella
un'aria già primaverile

in cui ti senti più pulito
anche la strada è più pulita
senza schiamazzi e senza suoni

chissà perché non piove mai
quando ci sono le elezioni.

Una curiosa sensazione
che rassomiglia un po' a un esame
di cui non senti la paura
ma una dolcissima emozione,

e poi la gente per la strada
li vedi tutti più educati
sembrano anche un po' più buoni

ed è più bella anche la scuola
quando ci sono le elezioni.

Persino nei carabinieri
c'è un'aria più rassicurante
ma mi ci vuole un certo sforzo
per presentarmi con coraggio
c'è un gran silenzio nel mio seggio

un senso d'ordine e di pulizia.
Democrazia!

Mi danno in mano un paio di schede
e una bellissima matita
lunga, sottile, marroncina,
perfettamente temperata

e vado verso la cabina
volutamente disinvolto
per non tradire le emozioni

e faccio un segno sul mio segno
come son giuste le elezioni.

È proprio vero che fa bene
un po' di partecipazione
con cura piego le due schede
e guardo ancora la matita
così perfetta è temperata...

io quasi quasi mela porto via.
Democrazia!

Lettera di una suora di Betlemme.

“Caro Flavio, convincimi. Perché dovrei votare Rivoluzione Civile?”

Ciao Flavio,
io sarò una dei tanti italiani che voteranno all’estero, (lista per Asia – Africa – Oceania) visto che vivo e lavoro a Betlemme. Sono sicura che lo conosci. Ci siamo visti e parlati più volte ma tu non ti ricorderai di me e non lo pretendo nemmeno.
Ti ho sempre seguito, anche quando venivi qui, anche quando c’erano le marce Betlemme-Gerusalemme.
Visto che mi dai la possibilità di scriverti… eccomi a te! Forse non arriverai in fondo alla mia mail. Ne sono sicura, ma almeno ho l’illusione di essere ascoltata da un futuro politico e anche questo aiuta la mente e il cuore a scaricarsi. Un modo di dialogare anche questo!
Dicono che le suore non si devono occupare di politica, ma credo che il Vangelo è politica e quindi, mi interesso anche di questo (non che sia un’esperta).
C’è una cosa che mi fa dubitare dei politici: che parlano, che promettono e poi lì in quello che si chiama Parlamento le cose cambiano! Uno sembra non essere più quello che era. Lo vedo io, nel mio piccolo, quando sei suora “semplice” fai le lotte per questo o per quello e poi, quando vai un po’ più su nella scala gerarchica sembra che ci si dimentichi di chi si era e a volte si fa l’esatto contrario di quello per cui si lottava! È così!
Flavio non credo più ai politici! Cerco e voglio ancora credere alla politica, quella fatta per il bene comune, anche se… mi chiedo se si sa il significato della parola “comune”, sembra che sia più chiara quella di “personale”.
Non so cosa voterò! E credo che tanti italiani siano sulla mia stessa barca.
Votassi anche Rivoluzione Civile, cosa cambia, quando il PDL e il PD avranno la maggioranza dei voti? E le alleanze fatte in campagna elettorale, si dissolvono poi quando ci si trova dentro, perché, lo scopo dell’alleanza era quella di entrare in un partito forte per ottenere voti e poi uscirne il più presto possibile.
Ho ricevuto oggi il depliant di Bersani che fa “campagna” per gli italiani all’estero! Il nostro voto sembra contare parecchio visto che “riceveranno dei seggi”!
Se ti devo dire la verità quando ho cominciato a ricevere le “tue” email che dicevano che saresti entrato in politica, mi sono detta “ecco un altro che si perde”! Ma è anche vero che le cose si cambiano quando si è dentro! Ma che forza avrete voi nuovo e “piccolo” partito, di cambiare le cose?
E poi, il tuo discorso sul tuo stipendio di parlamentare. In questo sono parecchio incazzata. Mi sarei aspettata che tu dicessi che ti batti per ridurre questo stipendio! Certo lo usi per ragioni importanti quali la pace (ne so qualcosa vivendo qui), ma… lo riceverai! E penso a mio fratello che pur lavorando 8 ore al giorno riesce a portare a casa solo 500 Euro al mese, perché la fabbrica non ha soldi per pagarlo, pur avendo lavoro, ma non c’è moneta che gira e le banche non fanno più prestiti. Ebbene lui ha un mutuo da pagare, una figlia che studia ancora e la moglie che, non trova lavoro dopo aver perso il suo.
Tu credi che il discorso della pace interessa a mio fratello? Interessa a tantissimi, e credo tu conosca i numeri meglio di me, italiani che vivono peggio di mio fratello perdendo la loro dignità? Non so se conosci le cucine popolari di Padova: sono strapiene di italiani! A loro Flavio non interessa il discorso pace! Anche se la pace è importante! Anche se mi sto battendo per la pace, come posso qui!
La tua campagna per gli F35 mi piaceva! Ci credevo! Ho firmato! Ma…. cos’e cambiato Flavio! Cosa bisogna che succeda perché ci siano uomini che davvero lavorano per il bene degli italiani, di tutti gli italiani e di chi vive nel nostro paese!
Ti ripeto Flavio, non so cosa voterò. Forse farò astensione! Non è de-responsabilità! No! Credo, come ti dicevo nella Politica! È che… la nostra è una politica a doppia faccia! E mi fermo se no andrei troppo avanti!
Abbiamo bisogno di Politici Veri!
Se sei arrivato alla fine, ti ringrazio!
Come dice il mio “capo” qui in Ospedale “convincimi per dare il voto a Rivoluzione Civile” perché lo pensavo come alternativa ma……. non so!
Buona Fortuna!
Ciao
Sr. Giovanna
febbraio 2013
Fonte: cambiailmondo.org | Autore: Alfiero Grandi
I soldi della BCE devono andare all’economia reale dei paesi in crisi: altrimenti sarà una catastrofe
La Banca centrale europea ha reso noto che nel periodo 2011/2012 ha acquistato oltre 100 miliardi di buoni del Tesoro italiani, che si aggiungono ad altri 100 di Grecia, Portogallo e Spagna. Una cifra notevole. La Bce ha anche reso noto che da queste operazioni ha guadagnato e quindi ha redistribuito altri 500 milioni di euro alle Banche centrali che ne sono azioniste. In altre parole gli aiuti ai paesi più in difficoltà si sono rivelati fonte di guadagni redistribuiti a tutti i paesi europei e quindi anzitutto a quelli più ricchi che hanno maggiore peso nella Bce. In sostanza è uno dei tanti rivoli di denaro che dai paesi più in difficoltà finiscono nei paesi più ricchi e solidi.
Basta pensare al credito che è più oneroso per i paesi maggiormente in difficoltà perché influenzato dal livello degli spread, generando di conseguenza una concorrenza sleale nel credito a parti invertite: i più ricchi beneficiano di tassi più bassi e quindi sono in grado di fare concorrenza più facilmente ai meno ricchi.
Basta pensare alla concorrenza sul piano fiscale. Ci sono paesi dell’Unione, che fanno parte dell’Euro, che hanno legislazioni che ricordano i paradisi fiscali o per lo meno più favorevoli. Del resto anche sul piano societario recentemente la Fiat ha deciso di fare un’operazione targata Olanda, evidentemente più favorevole di quella italiana.
Mentre sui bilanci pubblici si pretende un controllo occhiuto, quando si tratta di politiche fiscali ci sono paesi come l’Irlanda che hanno un’aliquota del 12,5 % sulle imprese e altri che fanno concorrenza su altri capitoli fiscali, al punto che ricordano i paradisi fiscali.
Inoltre è noto che in questi anni i tassi alti sui debiti dei paesi più in difficoltà hanno giustificato, come in un’altalena, tassi di interesse bassissimi, addirittura negativi su quelli dei paesi più ricchi. Nessuna solidarietà è transitata dai paesi più forti, che hanno semplicemente beneficiato dei tassi bassi, a quelli maggiormente in difficoltà, che hanno dovuto fronteggiare l’attacco speculativo a loro spese, come conferma da ultimo anche questo ristorno via Bce.
La questione del debito pubblico in Italia, come negli altri paesi più in difficoltà, è un problema di grande peso anche perché la recessione ha provocato un aumento relativo del debito pubblico sul Pil. Ormai il rapporto debito/Pil italiano è al 127 %. Un livello enorme perché si registra in presenza di un calo del Pil. Dal 2015 inoltre produrrà i suoi effetti il Fiscal Compact che rischia di provocare ulteriore recessione perché ogni anno obbligherà a ridurre il debito pubblico di un ventesimo, il cui valore sta crescendo perché il Pil sta diminuendo. Senza crescita sarà un disastro economico per l’Italia e anche con la crescita il taglio sarà comunque doloroso.
Quindi dopo le elezioni si riproporrà il problema di fondo del debito pubblico e a seconda delle soluzioni la situazione potrebbe ulteriormente peggiorare.
Perché l’Unione europea considera normale prestare alle banche oltre 1.000 miliardi di euro all’1 % per 3 anni ? Consentendo così alle banche di lucrare sulla differenza tra il tasso della Bce all’1 % e i Buoni del Tesoro, i cui tassi ovviamente gravano sugli Stati. In altre parole i singoli Stati trasferiscono quattrini alle banche.
Perché la Bce non presta direttamente agli Stati europei maggiormente in difficoltà almeno lo stesso importo girato alle banche, allo stesso tasso dell’1 %, per coprire la parte di debito pubblico eccedente il 60 % previsto dal Fiscal Compact ?
In realtà non avere affrontato con chiarezza il nodo di fondo del debito ha creato uno squilibrio maggiore tra i paesi più ricchi e quelli più deboli con un trasferimento netto dagli uni agli altri e questa è una situazione non più sopportabile perché l’avvitamento nella crisi economica sta creando un impoverimento netto e un disagio sociale crescente e insopportabile. Naturalmente le soluzioni tecniche possono essere diverse, ciò che conta è la volontà politica.
Questo nodo di fondo è il primo problema che dovrà affrontare il nuovo Governo che uscirà dalle elezioni – in Italia e in Europa – altrimenti gli spazi di manovra del nuovo Governo saranno ridotti al lumicino.

venerdì 22 febbraio 2013

Lo stato di crisi permanente

10. New Man 1923 by El Lissitzky 1890-1941Andrea Fumagalli
Se Atene piange, Sparta non ride. I paesi europei dell’area mediterranea hanno già versato lacrime amare. Nel 2012 l’imposizione forzosa (o meglio, golpista, nel caso dell’Italia) di politiche di austerity ha prodotto un impoverimento che non ha precedenti nella storia dal dopoguerra a oggi. Ma neanche Sparta, ovvero la Germania, se la passa bene. Ciò che sta avvenendo è l’avvio di un circolo vizioso in cui anche i paesi economicamente più forti rischiano di essere avviluppati in una spirale recessiva che continuamente si autoalimenta. Dopo aver resistito per due anni alla crisi del debito europeo, traendo vantaggio dall’indebolimento dell’euro che ha permesso esportazioni più competitive al di fuori dell’eurozona, anche la Germania ora inizia a mostrare i primi segni di una possibile crisi. Il governo tedesco ha infatti rivisto al ribasso le stime di crescita previste per il 2012 e 2013, avvicinandosi a livelli di stagnazione, e per la prima volta le vendite al dettaglio sono crollate.
Con il 2013 entriamo nel sesto anno di crisi. Neanche la grande crisi del 1929-30 era durata così a lungo. A partire dal 1933 (dopo quattro anni) l’economia Usa aveva ricominciato a risalire la china. All’epoca l’uscita dalla crisi era stata favorita dalla definizione di una nuova governance sociale e politica che prendeva atto, seppure parzialmente e spesso in modo contraddittorio, dei nuovi meccanismi di accumulazione e valorizzazione che l’avvento del paradigma taylorista aveva prodotto.
Oggi non si intravede nulla di tutto ciò. È ormai assodato che la governance capitalistica imposta dai mercati finanziari si è rivelata fallace, seppure dopo aver ottenuto potenti risultati nel plasmare e definire le nuove modalità di valorizzazione e le nuove forme di comando e gerarchia attuali. Tale governance si basava sulle nuove funzioni economiche assunte dai mercati finanziari, con il passaggio da un’economia monetaria di produzione (quella del paradigma taylorista-fordista) a un’economia finanziaria di produzione (quella del biocapitalismo cognitivo): ridefinizione continua dell’unità di misura del valore (una volta venuta meno la parità aurea con il crollo di Bretton Woods) e quindi finanziamento dell’attività privata d’investimento; assicuratore sociale della vita come esito della finanziarizzazione, e conseguente privatizzazione, dei sistemi di welfare; strumento di crescita dell’economia e regolatore della distribuzione del reddito grazie ai processi di espropriazione della cooperazione sociale e al suo indebitamento, e moltiplicatore finanziario della domanda finale.
Condizione perché tale governance potesse garantire stabilità era una continua, illimitata espansione degli stessi mercati finanziari, in grado di produrre (plus)valore in misura costantemente superiore agli effetti distorsivi e negativi sulla domanda causati dalla crescente concentrazione dei redditi e dall’espropriazione della ricchezza sociale prodotta dal «comune». Poiché questa condizione non può persistere illimitatamente, l’instabilità strutturale che ne deriva può essere politicamente e socialmente governata solo facendo ricorso a shock esogeni, dettati dall’emergenza di turno. In altre parole, la governance era data dall’emergenza. Negli anni Duemila l’emergenza era la guerra al terrorismo. Oggi l’emergenza è data dalla stessa crisi dei mercati finanziari e degli Stati europei. Diremo di più: la crisi diventa strumento di governance e quindi è crisi perenne. Ciò significa che l’emergenza è finita: la crisi diventa «norma».
Lo stato di crisi permanente ci dice che è in atto una crisi della valorizzazione capitalistica. Nonostante i profondi processi di ristrutturazione organizzativa e tecnologica che hanno allargato la base dell’accumulazione, imponendo – dietro il ricatto del bisogno – la messa a valore della vita, del tempo di vita e della cooperazione sociale umana, la valorizzazione attuale, proprio perché si fonda solo sull’espropriazione esterna della vita e del «comune» umano, senza essere in grado di organizzarli, non si trasforma in crescita di plusvalore. Il processo di finanziarizzazione ha sì consentito una poderosa «accumulazione originaria», ma non è stato in grado di tradursi in valorizzazione diretta e reale. È questa la contraddizione centrale che sta alla base della crisi attuale. Nonostante i vari tentativi (dalla lusinga, dagli immaginari, al ricatto, al bastone, alla mercificazione totale), la vita umana messa a valore produce comunque un’eccedenza che sfugge al controllo capitalistico, un’eccedenza che non si trasforma in valore economico, è cioè non misurabile in termini capitalistici.
In un simile contesto nessuna politica «riformista» è possibile e ciò si traduce anche in crisi politica e istituzionale. Non vi sono le condizioni di definire un nuovo New Deal compatibile con l’attuale economia finanziaria di produzione, a differenza di ciò che era avvenuto negli anni Trenta del secolo scorso. La fuoriuscita dalla crisi può avvenire solo in un contesto postcapitalistico. Ma di ciò parleremo in seguito.

Come vota la Sicilia

di Margherita Billeri , Mario Centorrino , Pietro David

Cosa Nostra nell’urna.

 
La rotta d'Italia. La mafia condiziona il voto di un milione di elettori in Sicilia. Dopo l’astenzione alle regionali del 2012, ora tratta pacchetti di voti locali e accordi con chi offre favori: affari, condoni, leggi su misura
La Sicilia viene considerata una regione decisiva nella sua espressione di voto, per la vittoria di questa o quella coalizione a livello nazionale. Ci si può legittimamente interrogare quindi sull’orientamento possibile del voto di “Cosa Nostra”, potenzialmente destinato a determinare il risultato finale. Nella formulazione della risposta andremo per ordine soffermandoci prima su due punti di premessa: quanto “pesa” oggi in Sicilia il voto della mafia e come questa ha presumibilmente espresso il suo consenso nelle elezioni immediatamente precedenti, le regionali del 2012.
Le stime ufficiali del voto di mafia lo quantificano in trecentomila preferenze (il 15% all’incirca di quelle valide nel 2012). Ma questa stima andrebbe disaggregata per realtà territoriali. Qualcuno, ragionando intorno alle dichiarazioni sul tema dei pentiti, si azzarda a proporne una valutazione ben più ampia. Il voto della mafia coinvolgerebbe, in varie forme, un milione di elettori (quasi il 50% dei voti validi nel 2012)[1]. Occorre annotare che, proprio in questi ultimi giorni, malgrado la repressione giudiziaria, la mobilitazione della cosiddetta società civile e le nuove metodologie di verifica sulla “presentabilità” dei candidati, in alcune importanti città siciliane (Palermo, Trapani) “Cosa Nostra” dimostra di aver ripreso il controllo del territorio (Palermo) o comunque di non perdere rapporti consolidati con la politica (Trapani).
Andiamo alla seconda premessa. Come è noto, nelle ultime elezioni siciliane si è registrato un notevolissimo tasso di astensione (il 55%). L’opinione prevalente è che, in questa ricorrenza, la mafia abbia preferito anch’essa una forma di astensione. Intanto, perché il suo rapporto con la politica è al centro, da qualche tempo, di un’attenzione d’indagine, potremmo dire, spasmodica, tale per cui i costi di “esposizione” sono troppo alti. Poi, per l’assenza in Sicilia, oggi, di “grandi affari”: l’Expo è a Milano, non a Palermo. Oppure, perché si preparava a trattare la scadenza politica nazionale, limitandosi, come sostiene un pentito (Gaspare Mutolo), a mandare messaggi ai politici.
Un parametro in base al quale si è ritenuto di giudicare l’orientamento politico della mafia, nelle passate elezioni in Sicilia, è la totale astensione da parte dei detenuti per reati di mafia. Forse questo parametro – a parer nostro – poteva essere utilizzato tempo addietro, ora non più. Immaginiamo che i detenuti, senza alcun retropensiero, votino in maggioranza per un certo partito o per un certo candidato. Paradossalmente oggi il loro voto sarebbe controllato (e quindi subito interpretato) assai più di quanto “Cosa Nostra” riuscirebbe a fare nei singoli seggi. Altri, piuttosto, tendono a coglierne un preciso significato (Ingroia). L’astensionismo nelle carceri siciliane in occasione delle elezioni regionali potrebbe esser stato un gesto plateale di disimpegno elettorale da parte del mondo del carcere, riferibile a Cosa Nostra, che è anche una minaccia di disinteresse per queste elezioni politiche.
C’è stata un’ulteriore interpretazione dell’astensione. Nello scenario di una crudele recessione dell’economia italiana che provocherà, si prevede, un ulteriore aumento della disoccupazione, la situazione dei conti dello Stato e degli Enti Locali appare assolutamente drammatica. Non si tratta più di manovrare redistribuzioni di risorse finanziarie; si tratta di “tagliare” non potendo rispettare, per forza di cose, alcun criterio di discrezionalità. Chi si è astenuto potrebbe avere percepito questa incombente minaccia.
Veniamo ora a formulare qualche ipotesi di risposta alla domanda che ha fatto da incipit a questa breve analisi: come voterà “Cosa Nostra” al prossimo appuntamento elettorale? Nel ricordo del voto in Sicilia, qualcuno (Ingroia) ha messo in guardia da conclusioni affrettate: la mafia c’è, è presente e guarda sempre la politica. Nei momenti di passaggio, se non ha accordi stabiliti si prepara a trattare, subito dopo le elezioni. (“Il Fatto Quotidiano, 3 novembre 2012). C’è un altro aspetto da cogliere. Quasi in sintonia con quanto emerge dalla letteratura specialistica, dalle inchieste e dai sondaggi oggi – lo si desume anche dalle intercettazioni – l’atteggiamento delle cosche è di profondo disprezzo per la politica, dalla quale si richiedono accordi precisi, garanzie puntuali in cambio di voti. Ma come è stato giustamente posto in rilievo (Bellavia) mentre nel caso delle elezioni locali è immediata la verifica dell’accordo, nel caso invece di una competizione nazionale, con la legge esistente, è ben difficile per un politico siglare accordi del genere con la certezza di poterli rispettare. C’è un altro profilo di approfondimento: la compravendita dei voti. Prezzi stabili: 300 preferenze valgono al momento sul mercato 15 mila euro. Ma quest’indotto economico elettorale non offre elementi per un racconto credibile sull’orientamento del voto mafioso. Le “famiglie” semplicemente controllano il territorio e quindi chi gestisce il voto di scambio (Bellavia). Si capovolge allora il senso della risposta. Per comprendere l’obiettivo del voto mafioso dovremo passare dalla previsione ex ante alla valutazione ex post.
È il momento di concludere. Il voto mafioso inciderà sui risultati finali quand’anche si esprimesse come astensione. Sono da attendersi, però, comportamenti legati a singoli territori più che a indicazioni generali per questa o quella coalizione. Il “porcellum” e l’abolizione delle preferenze, forse suggeriscono a “Cosa Nostra” più che vendere voti in proprio o farli confluire su questo o quel candidato di attendere, se così possiamo definirlo, un responso scaturito dal voto mafioso in libertà. E poi di selezionare i soggetti sui quali esercitare pressioni per ottenere “favori” (affari, condoni, leggi ad hoc).
[1] E.Bellavia, Il voto invisibile della mafia. Quei trecentomila consensi in attesa di nuovi padroni, La Repubblica Palermo, 17 febbraio 2013

A che serve la crisi ??

di Agenor

Il vero obiettivo è privatizzare il pubblico

L’Europa è avvolta in una spirale senza uscita fatta di ricette controproducenti, mentre la crisi fa il suo lento, inesorabile lavoro. Le famiglie, se possono, risparmiano e contraggono i consumi. Le imprese non investono. Le banche cercano di limitare i danni e riducono il credito. Una crisi di debito estero (prevalentemente privato) è stata spacciata per una crisi di debito pubblico. La spesa pubblica viene bloccata con perfetto tempismo da un trattato internazionale che impone un rozzo vincolo di pareggio di bilancio, senza troppo distinguere se si tratti di spesa per investimenti o di spesa corrente.
Era ben noto che una politica di repressione della spesa pubblica, in presenza di un eccesso d’indebitamento del settore privato e di tassi di interesse già bassi e ai minimi storici, non poteva che avere effetti deleteri. Il crollo della domanda interna ha raggiunto le economie più solide della zona euro, che si avvicinano anch’esse a scenari recessivi. Assumendo l’impossibilità di una follia collettiva di tutte le classi dirigenti europee, resta da chiedersi cui prodest? A chi giova tutto questo?
Non è un caso che le ricette per uscire dalla crisi più in voga si concentrino su un punto: la dismissione del patrimonio pubblico per ridurre il debito. Ovviamente, la sensazione di trovarsi in un vicolo cieco per le finanze pubbliche, con la scelta obbligata di privatizzare enti, beni e servizi pubblici, è la scena classica di un film già visto in tante parti del mondo.
Non ci si arriva per caso, anzi, spesso è uno degli obiettivi neanche troppo nascosti della lunga strategia di logoramento del settore pubblico, la cosiddetta “starve the beast”. La bestia è lo stato, nemico ideologico da affamare, sottraendo continuamente risorse necessarie al suo funzionamento. La qualità dei servizi che esso eroga al cittadino diminuisce. Il cittadino lo nota e incomincia a chiedersi se davvero valga la pena mantenere in piedi con le proprie imposte un servizio pubblico sempre più scadente.
Poi arrivano i salvatori della patria, che comprano l’azienda o servizio pubblico a un prezzo conveniente e ne estraggono profitti. Quando va bene, il nuovo proprietario del servizio ex-pubblico lo eroga in modo più selettivo e a costi maggiori per il cittadino. Quando va male, scorpora la parte migliore da quella cattiva, scarica i costi sulla collettività (bad companies), sfrutta gli attivi ancora validi, e poi scappa.
La privatizzazione della sanità negli Stati Uniti ha raddoppiato i costi per i cittadini, escludendo un’enorme fetta della popolazione da ogni copertura sanitaria. Una volta capito l’errore commesso e verificati i costi economici e sociali di tale processo, l’inversione di questa tendenza nefasta è l’atto che Obama considera come il più importante del suo primo mandato presidenziale.
L’esperienza delle “riforme” nell’Europa centrale ed orientale subito dopo la caduta del comunismo ci insegna che le privatizzazioni realizzate per necessità di far cassa si traducono in svendite di beni comuni a vantaggio di pochi privati, che i primi servizi a essere privatizzati sono quelli che funzionano meglio, i gioielli di famiglia, e che questo contribuisce a un notevole aumento delle disuguaglianze.
Altre parti del mondo, come l’America Latina, hanno vissuto esperienze simili, in cui beni e servizi pubblici sono stati ceduti a condizioni vantaggiose solo per l’acquirente. Non è un caso che Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo secondo Forbes, debba la sua fortuna alle privatizzazioni selvagge degli anni ’80-‘90 in Messico, dalle miniere alle telecomunicazioni.
Adesso è il turno della vecchia Europa. Il Portogallo ha chiuso il 2012 privatizzando gli aeroporti, la compagnia aerea nazionale, la televisione (ex) pubblica, le lotterie dello stato e i cantieri navali. In Spagna le privatizzazioni “express” riguardano i porti, gli aeroporti, la rete di treni ad alta velocità, probabilmente la migliore e più moderna d’Europa, la sanità, la gestione delle risorse idriche, le lotterie dello stato e alcuni centri d’interesse turistico. La Grecia è stata recentemente esortata ad accelerare il processo di privatizzazione dei beni e servizi erogati finora dallo stato, come condizione per continuare a ricevere gli aiuti europei.
In Italia Mario Monti, poco prima di dimettersi da Presidente del Consiglio, decretava l’insostenibilità finanziaria del sistema sanitario nazionale, spiegando la necessità di “nuovi modelli di finanziamento integrativo”. L’agenda Monti oggi ci ricorda che “la crescita si può costruire solo su finanze pubbliche sane” e quindi invita a “proseguire le operazioni di valorizzazione/dismissione del patrimonio pubblico”. E sulle prime pagine di alcuni giornali c’è anche chi vede ancora “troppo stato in quell’agenda”.
La teoria economica e l’esperienza del passato ci insegnano che la privatizzazione di aziende pubbliche se da un lato riduce il deficit di un dato anno, dall’altro ha un notevole rischio di aumentare il deficit di lungo periodo, nel caso in cui l’azienda dismessa sia produttiva. Inoltre non basta che la gestione privata sia più efficiente di quella pubblica; il guadagno di efficienza deve anche assorbire il profitto che il privato necessariamente persegue.
Se chi vende (lo stato) ha urgenza e pressioni per farlo, chi acquista (privati) ha un chiaro vantaggio negoziale, che gli permette di ottenere condizioni più convenienti. E se le condizioni della privatizzazione sono più convenienti per il privato, esse saranno simmetricamente più sconvenienti per il pubblico, cioè i cittadini.
Studi recenti dimostrano come i cittadini dei paesi che hanno subito privatizzazioni rapide e massicce negli anni ’90 siano profondamente scontenti degli esiti. I giudizi ex-post sono tanto più critici quanto più rapide erano state le privatizzazioni, maggiore la proporzione di servizi pubblici svenduti (acqua ed elettricità in particolare), e più alto il livello di disuguaglianza creatosi nel paese.
La questione delle privatizzazioni è il punto d’arrivo del processo che l’Europa e l’Italia stanno vivendo. Discuterne più apertamente è fondamentale, se si ha a cuore il bene comune. Le decisioni che si prenderanno in proposito definiranno la rotta che l’Italia sceglierà di seguire nel dopo-elezioni.
La rotta d'Italia di Andrea Baranes , Grazia Naletto

La rotta d’Italia e una campagna elettorale fuori rotta

Le proposte di Sbilanciamoci, le cose da fare nei primi 100 giorni del nuovo governo, e una campagna elettorale che ha ignorato i contenuti. La nostra agenda per il dopo-elezioni e l’impegno di 118 candidati al Parlamento che hanno sottoscritto l'appello “Io mi Sbilancio!”
Cittadinanza per chi nasce qui; taglio alle spese militari e investimenti nella scuola e nella spesa sociale; tassazione dei capitali portati all'estero per finanziare un piano di lavoro verde; maggiore equità del nostro sistema fiscale per diminuire le diseguaglianze e redistribuire la ricchezza; tutela del lavoro attraverso la cancellazione dell’articolo 8 della legge n. 148 del 2011. Sbilanciamoci.info ha aperto il dibattito su La rotta d’Italia indicando queste priorità per i primi 100 giorni del futuro governo.
Alla base di queste indicazioni la convinzione che per portare il paese fuori dalla crisi economica (e sempre più) sociale sia indispensabile lanciare immediatamente un segnale di cambiamento nella direzione di un’economia più giusta e ecosostenibile e di una maggiore giustizia sociale.
L’invito della redazione ad avviare un dibattito pubblico su questi temi è stato raccolto da molti: quasi 40 interventi hanno affrontato in modo puntuale i diversi contenuti che avrebbero dovuto animare il confronto tra le forze politiche e le diverse coalizioni che si candidano a governare il paese dopo le elezioni del 24 e 25 febbraio.
Così non è stato. La campagna elettorale che si chiude oggi è una delle peggiori degli ultimi anni, tutta centrata sul posizionamento tattico dei suoi protagonisti, sulla giustificazione delle alleanze già definite e sulla ipotetica rappresentazione di quelle che saranno più o meno imposte dal risultato elettorale. Una campagna giocata a colpi di cinguettii e di post ingiuriosi nei confronti dell’avversario più che sulla puntualizzazione delle proposte necessarie per far fronte alla recessione economica in corso e alla profonda questione sociale che coinvolge il paese.
Il tema fiscale è stato ancora una volta al centro del dibattito elettorale, ma certo non nella direzione da noi auspicata. Si è parlato quasi esclusivamente dell’IMU, sicuramente iniqua così come è stata attuata, ma assai poco della necessità di accentuare la progressività del nostro sistema fiscale a vantaggio dei redditi più bassi. Si potrebbe fare, come la campagna Sbilanciamoci! suggerisce da tempo, modificando le aliquote Irpef, introducendo una tassa patrimoniale del 5x1000 sui grandi patrimoni, portando la tassazione sulle rendite finanziarie al 23%. Questi provvedimenti, insieme all’introduzione di alcune tasse di scopo (diritti televisivi, pubblicità, veicoli inquinanti, licenze per il porto di armi ecc.) potrebbero far entrare più di 16 miliardi nelle casse dello stato.
Il forte consenso dell’opinione pubblica alla cancellazione del programma degli F35 (più di 78.000 le firme raccolte dalla campagna Taglia le ali alle armi, sostenuta da oltre 650 associazioni) è stato utilizzato in modo per lo più strumentale dai leader di quelle stesse coalizioni che hanno sottoscritto e riconfermato fino ad oggi il contratto di acquisto. Il costo esatto dei 90 F35 attualmente previsti non lo sappiamo, il costo medio stimato di un solo F35 è pari a circa 130 milioni di euro: tra acquisto e gestione il programma ci costerà tra i 50 e i 52 miliardi di euro. Un’intera manovra finanziaria. Al di là dei vari spot elettorali (paradossale quello di Berlusconi), continua a prevalere la convinzione che si possa tagliare tutto ma non la spesa militare. Il bilancio pluriennale dello Stato prevede già, del resto, per il Ministero della Difesa un progressivo aumento dai 20.935 milioni previsti nel 2013 ai 21.024 milioni nel 2015.
Sono rimaste nell’ombra e affrontate con ricette generiche le vere emergenze del paese: come rilanciare l’economia italiana e creare nuova occupazione; come ripensare i nostri rapporti con l’Europa e uscire dalle strettoie del patto di stabilità; come riequilibrare i rapporti tra finanza, economia reale e politica; come reinventare un modello di welfare capace di sostenere le famiglie, le donne, i giovani.
Sullo sfondo del dibattito elettorale, la tesi secondo la quale non vi sarebbe alternativa possibile al modello economico esistente né all’accettazione degli attuali vincoli imposti dall’Europa con il fiscal compact e all’insegna dell’austerità. Gnesutta ha invece bene argomentato qui come l’alternativa sia non solo possibile ma indispensabile, richiamando l’urgenza di un profondo riorientamento del governo delle politiche pubbliche finalizzato a rovesciare l’attuale rapporto di sudditanza materiale e culturale della politica rispetto alla finanza.
I richiami ai vincoli imposti all’Europa, a partire dal nuovo mantra “È l’Europa che ce lo chiede” sono strumentali: l’Europa siamo noi e possiamo reindirizzarne le scelte politiche: continuare a perseguire la priorità dell’austerità, rimuovere il tema del rilancio dell’economia e del benessere sociale, ridurre il bilancio Europeo, significa indirizzare l’Europa verso una strada senza uscita. Il futuro Governo dovrebbe innanzitutto impegnarsi a rimetterla in discussione. Si veda il contributo di Gnesutta-Pianta.
Ma anche ammettendo, e così non è, che il contesto sia dato, una diversa allocazione delle risorse pubbliche è possibile se c’è la volontà politica di farlo. Gli interventi di Pianta, Pini, Pizzuti, Baranes, tra gli altri, hanno affrontato qui in modo puntuale i nodi da affrontare: una diversa crescita economica, il rilancio di una politica per l’occupazione, l’esigenza di curare le fragilità del nostro sistema di welfare e di una non più rinviabile regolamentazione della finanza.
Il tema della riduzione del debito pubblico è centrale, ma le indicazioni puntuali su come garantirla davvero, senza aggravare ulteriormente le condizioni di vita materiali dei cittadini, sono state decisamente scarse nel corso del dibattito elettorale. E quando le risorse sono scarse diventa ancora più rilevante la scelta della loro destinazione.
Nel suo ultimo rapporto annuale, la campagna Sbilanciamoci! ha dimostrato, dati alla mano, che si può scegliere, proponendo la sua “manovra” da 29 miliardi di euro. Tagliare le spese sbagliate libererebbe risorse per le spese giuste: in primo luogo quelle per stabilizzare i lavoratori precari e sostenere i redditi delle famiglie. La cancellazione degli stanziamenti per le grandi opere (2,7 miliardi) permetterebbe, ad esempio, di garantire la realizzazione di piccole opere molto più utili per i cittadini e compatibili con l’ambiente: dalle ferrovie locali alla messa insicurezza del territorio, dalla tutela delle aree protette all’abbattimento degli ecomostri, dall’ammodernamento della rete idrica nazionale agli impianti fotovoltaici. Un taglio di 5,5 miliardi alle spese militari potrebbe finanziare il servizio civile nazionale, corpi civili di pace, la riconversione dell’industria militare, un programma di asili nido per 3.000 bambini, il rifinanziamento del Fondo Sociale Nazionale e del Fondo per la non autosufficienza, la messa in sicurezza delle nostre scuole. La chiusura dei Centri di Identificazione ed Espulsione libererebbe risorse per programmi di inserimento sociale dei migranti.
Oltre 118 candidati al Parlamento hanno sottoscritto ad oggi l'appello Io mi Sbilancio!, contenente queste ed altre proposte. Dal 26 febbraio, un punto di partenza per cambiare le politiche pubbliche e per un nuovo modello finanziario, economico, sociale, ambientale e di democrazia in Italia.
Fonte: il manifesto | Autore: A. Fab.
Bersani e Ingroia: soglie più alte per cambiare la Carta
Cari candidati alla presidenza del Consiglio, che intendete fare con le riforme costituzionali? Alla lettera del presidente dell’associazione Salviamo la Costituzione, Alessandro Pace, indirizzata a tutti, da Alfano a Grillo, hanno risposto solo in due: Pier Luigi Bersani e Antonio Ingroia. Assicurando che si muoveranno per mettere in sicurezza la Carta del ’48. Silenzio assoluto invece dagli altri, Mario Monti compreso. Il che ha destato stupore tra i componenti dell’associazione, che è stata fondata dall’ex presidente della repubblica Oscar Luigi Scalfarno per dare corpo alla campagna referedaria del 2006. Allora si riuscì a far cadere la riforma costituzionale «di Lorenzago», imposta con la maggioranza parlamentare del governo Berlusconi.

La lettera, spedita a inizio febbraio, oltre a quella di Pace porta anche la firma di un ministro del governo Monti, Renato Balduzzi, componente del comitato direttivo dell’associazione. Con loro Franco Bassanini, Valerio Onida, Carlo Smuraglia, Giovanni Bachelet e altri. Sottolineata l’importanza di offrire ai cittadini informazioni precise sulle intenzioni dei partiti nel campo delle riforme costituzionali, il testo ricorda che «puntuali e limitate modifiche» devono restare «coerenti con i principi e i valori della Costituzione repubblicana e compatibili con il suo impianto e i suoi equilibri fondamentali». Per evitare il ripetersi di modifiche «di parte» propone che venga alzato il quorum previsto dall’articolo 138 per le leggi di revisione e che sia reso sempre possibile il referendum «confermativo» in modo da far esprimere i cittadini. Per la recente modifica dell’articolo 81 che ha introdotto l’obbligo di pareggio di bilancio, ad esempio, l’accordo Pd-Pdl in parlamento ha escluso questa possibilità. La proposta dell’associazione è che in futuro le firme di 500mila cittadini bastino a convocare il referendum, per la validità del quale com’è noto non è previsto il quorum del 50% più uno degli elettori. Una nota dell’ex presidente della Consulta Zagrebelsky, allegata alla lettera, chiariva poi come la «messa in sicurezza» della Carta non può essere limitata solo agli articoli della prima parte.

Nella sua risposta, Bersani annuncia l’intendo di riformare la Costituzione «secondo la Costituzione e non contro di essa». «Procederemo – chiarisce il segretario del Pd – sulla base del criterio del minimo indispensabile piuttosto che per conseguire l’obiettivo del massimo possibile». Bersani concorda con l’esigenza di «elevare in misura assai considerevole la maggioranza necessaria per l’approvazione parlamentare delle leggi di revisione» ed è anche favorevole ad aprire le porte al referendum confermativo, aderendo alla proposta delle 500mila firme.

«La difesa dei principi e dei valori della Costituzione del 1948 è esattamente il motivo fondante della nascita della lista Rivoluzione Civile», scrive invece Antonio Ingroia, che ricorda come più volte gli sia piaciuto definirsi «partigiano della Costituzione». «Appoggeremo – aggiunge l’ex pm – qualunque proposta che miri a rendere più stringenti i limiti alla revisione costituzionale». A partire dall’obbligo di referendum, visto che «gli elettori si sono inoltre dimostrati in più occasioni dotati di maggiore lucidità e memoria storica rispetto agli eletti e questo ha consentito di scongiurare riforme in senso presidenziale dalle conseguenze a nostro avviso estremamente pericolose».

giovedì 21 febbraio 2013

Chi odia l’Europa e chi ne costruisce un’altra

- rifondazione -

di Francesco Raparelli -
Sul Financial Times del 19 febbraio, Martin Wolf ha ammonito: la crisi dell’euro non è ancora finita, la moneta unica continua ad essere un bad marriage (cattivo matrimonio) garantito dal fatto che il divorzio costa troppo caro. In Italia il rumore della campagna elettorale, così assordante perché nulla di importante, dopo la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, potrà essere deciso, impedisce a questo tema, l’unico che conta, di conquistare l’attenzione necessaria.
Succede allora che passa sotto silenzio, o quasi, il fallimento del Consiglio europeo dell’8 febbraio che per la prima volta ha ridotto (del 3%) il budget dell’Unione rispetto ai 7 anni precedenti (2007-2013). Del G20 di Mosca, dedicato alla guerra delle valute e agli squilibri delle bilance commerciali, con un accanimento particolare nei confronti della Germania che, respingendo il ruolo di locomotiva europea, continua a comprimere la domanda interna aumentando a dismisura l’export, si parla poco e male.
No, la campagna elettorale italica delle due questioni che contano, quella sociale e la crisi dell’Eurozona, non se ne occupa, perché al di là del teatrino, tra responsabili e populisti, non sa e non può fare altro. Tutt’al più ci si augura, e questo lo fa anche la Camusso, che “si apra una nuova stagione di dialogo” tra le parti sociali. Più semplicemente, che la spirale recessiva non si traduca in un rinnovato e potente conflitto sociale. Proprio di questo, d’altronde, si era parlato anche a Davos qualche settimana fa: il contenimento della conflittualità sociale come problema prossimo venturo per l’Europa devastata dalla strettoia ordoliberale.
Strettoia che comincia a colpire anche la Francia, e non solo i PIIGS. Se la Germania ha ripreso a crescere, seppur a livelli molto bassi (si prevede un aumento dello 0,4% del PIL per il 2013), tanto che il ministro dell’Economia Rösler dichiara al Wall Street Journal che “non siamo alla fine della crisi, ma all’inizio della fine”, per la Francia, il nuovo “malato d’Europa”, le cose vanno molto diversamente. Lo squilibrio della bilancia commerciale con la Germania è netto (meno 33 miliardi di euro a fronte del +136 miliardi tedeschi), crescita ferma, tassi di disoccupazione significativi (27% per i giovani e 10,6% in generale).
Al di là delle incertezze legate alle elezioni e alla governabilità italica, la fragilità francese ci segnala che l’euro non è per niente salvo e che l’austerità che ha schiacciato i PIIGS sta per investire anche l’Europa di serie A.
Contro questa catastrofe torneranno a mobilitarsi i movimenti, gli unici europeisti ora presenti sul suolo continentale. Dal 13-14 marzo, a Bruxelles in concomitanza con il nuovo Consiglio europeo e in molte altre città, fino alla seconda edizione di Blockupy Frankfurt, riparte la sfida della democrazia del 99% alla ‘gabbia d’acciaio’ del super-euro, della Bundesbank e della BCE. Una primavera che giunge ricca dell’esperienza del 14N (lo sciopero generale europeo dello scorso 14 novembre, teatro di tumulti giovanili che hanno definito il segno dell’Europa che non c’è e di quella che ci vuole), ma che sarà carica di incognite.
Una cosa è certa ormai, i padroni e le classi dirigenti continentali, contrariamente a quanto dichiarano, l’Europa la odiano, i tagli del budget dell’Unione sono lì a dimostrarlo. Solo la tenacia di chi non si arrende all’austerità e alla deregolamentazione del mercato del lavoro potrà, seppur a salti e con tempi assai lunghi, fermare il treno che viaggia verso la catastrofe.
da Huffingtonpost.it

Appello della Sinistra Europea per Rivoluzione Civile

    
Appello della Sinistra Europea per Rivoluzione Civile

Pubblicato il 21 feb 2013

Il 24 e 25 Febbraio in Italia si voterà per il rinnovo del Parlamento. E’ un voto importante per l’Italia ed anche per i destini di tutti i popoli europei, che si trovano a vivere gli effetti della crisi del capitalismo finanziario , delle politiche neoliberiste e di austerità che stanno facendo pagare ai giovani, ai lavoratori, alle donne il prezzo più alto. In tutta Europa ci battiamo contro il fiscal compact e le politiche di austerità. Politiche recessive che aggravano la crisi e che aiutano solo la speculazione e le banche. Politiche sostenute insieme da governi di centrosinistra e centrodestra. Politiche che creano sempre più disoccupazione, disuguaglianza sociale e attacco ai diritti sociali, al welfare e ai beni comuni.
Per questo è importante che anche in Italia si affermino le forze della sinistra che hanno combattuto contro Berlusconi e il governo Monti e che propongono un programma alternativo. Un programma che metta al primo posto le persone e non il profitto, la lotta per la piena occupazione, la giustizia sociale, i diritti, la difesa dell’ambiente, la pace e il disarmo. Per queste ragioni sosteniamo e invitiamo a votare la lista Rivoluzione civile di Antonio Ingroia, composta da uomini e donne della società civile e da forze politiche e sociali che si oppongono al neoliberismo, chiaramente alternative a Berlusconi come a Monti e a chi lo ha sostenuto. Un voto per un’Italia e un’Europa più giusta. Un’Europa dei popoli e non delle banche.
Primi firmatari:
Pierre Laurent, Presidente del Partito della Sinistra Europea-segretario nazionale PCF-Front de Gauche-Francia,
Jean Luc Melenchon, candidato presidenziale Front de Gauche, Presidente Parti de Gauche- Francia,
Alexis Tsipras, Vice-presidente Partito della Sinistra Europea-Presidente Syriza –USF Grecia,
Bernd Riexinger e Katja Kipping- Presidenti Die Linke Germania,
Oskar Lafointane, Die Linke Germania,
Cayo Lara, Coordinatore generale di Izquierda Unida- Spagna,
Maite Mola, Vice Presidente Partito della Sinistra Europea, PCE- Izquierda Unida, Francis Wurtz, già capogruppo GUE-NGL al Parlamento Europeo-PCF-Front de Gauche, Jose Luis Centella, Segretario Nazionale Partito Comunista spagnolo,
Andros Kyprianou, segretario nazionale Akel-Cipro,
Vojtech Filip, presidente partito comunista di boemia e moravia (repubblica ceca)
Joan Josep Nuet , Coordinatore generale Euia ( sinistra unita e alternativa) Catalogna- Spagna,
Milan Neubert, Presidente Partito del Socialismo democratico, Repubblica ceca,
Juha-Pekka Väisänen, segretario nazionale Partito comunista Finlandese,
David Wagner, portavoce nazionale Dei Lenk Lussemburgo,
Mirko Messner segretario nazionale Partito Comunista austriaco,
Attila Vanaij segretario nazionale Partito dei lavoratori Ungheria,
Willy Meier , eurodeputato e responsabile esteri Izquierda Unida- Spagna,
Dieter Dhem parlamentare Die Linke- Germania,
Kostas Barkas- deputato Syriza-USF,
Yiannis Bournos- della direzione di Syriza-USF-esecutivo sinistra europea,
Natasa Theodorakopoulou della direzione di Syriza-USF-esecutivo sinistra europea ,
Stelios Pappas- Direzione Syriza-USF,
Nikolaj Villumsen parlamentare e responsabile Europa Alleanza Rosso Verde Danimarca
Inger V. Johansen Alleanza Rosso Verde Danimarca,
Mireia Rovira, responsabile Esteri Euia Catalogna (Spagna),
Toni Barbara e Angels Tomas Euia Catalogna,
Serge Urbany, parlamentare Dei Lenk (la sinistra) Lussemburgo,
Andre Hoffmann, Fabienne Lentz Murray Smith Dei Lenk Lussemburgo,
Christine Mendelsohn e Jean Francois Gau PCF- Front de Gauche,
Celine Meneses, Parti de Gauche-Front de Gauche- Francia,
Claudia Haydt Die Linke Germania,
Jiri Hudecek e Miroslava Hornychova Partito del socialismo democratico-Repubblica ceca,
Waltraud Fritz, Partito Comunista austriaco,
Margarita Mileva, Ivan Genov, portavoci Bulgarian Left,
Emmi Tuomi e Yrjö Hakanen- Partito Comunista Finlandese.

Ecco perché l’Europa ha sbagliato tutto

- lavorincorsoasinistra -       

intervista a Wolfgang Münchau di Alessandro Banfi,
Londra. “Expect the unexpected in Italy’s volatile election”. “Aspettatevi l’imprevisto dalle volatili elezioni italiane”. L’ultimo suo editoriale sul Financial Times, Wolfgang Münchau, l’ha firmato ieri. La sua tesi, in estrema sintesi: la coalizione di Mario Monti arriverà quarta tra le maggiori in campo, e un nuovo scenario alla Romano Prodi del 2006 è piuttosto probabile. A Berlino, e non solo, fanno scongiuri: d’altronde Münchau è considerato la bestia nera della Merkel. Tedesco come lei, e come la cancelliera puntiglioso e ostinato, l’editorialista del blasonato quotidiano finanziario londinese è di recente diventato (più) famoso in Italia per aver scritto l’editoriale su Monti che “non è l’uomo giusto per guidare l’Italia”. Lo abbiamo incontrato nella redazione del Ft a Southwark e ci ha detto perché.
D. Lei è considerato il più eminente e schietto critico delle politiche di Angela Merkel. Se dovesse individuare con precisione gli errori di queste politiche economiche imposte all’Europa dalla Germania, quali elencherebbe?
R. Se dovessi fare l’elenco degli errori, individuerei quello più grande nell’insistenza sull’austerità come modalità principale per combattere la crisi, la convinzione che la crisi del debito debba essere risolta ripagando il debito, cosa che sembra essere un’affermazione piuttosto ovvia. Se si considera un singolo individuo che ha un debito eccessivo, si pensa che debba ripagarlo, ma da un punto di vista di macroeconomia globale si devono fare considerazioni differenti, perché se tutti ripagano i debiti nello stesso momento in un periodo in cui l’economia è in calo si rischia di finire in una recessione che si autoperpetua. E’ ciò che sta accadendo all’Italia che è entrata in un programma di riduzione del debito, con l’austerità, ma il cui governo ha sottovalutato l’impatto del rigore sulla crescita. Si è visto chiaramente che hanno sbagliato i conti per quanto riguarda l’impatto economico dell’austerità e ora il vostro paese è in recessione. La recessione porta a entrate minori per lo stato e a uscite maggiori, quindi ci sarà un altro programma di austerità a meno che non cambi la politica.
Il secondo errore che metterei nell’elenco è la riluttanza a risolvere la crisi velocemente. La Merkel è una donna che riflette: ha capito, giustamente, che all’interno della dimensione politica in Germania non c’era appoggio per una risoluzione veloce della crisi, perché ciò avrebbe comportato la creazione degli Eurobond, titoli europei. Insomma sarebbe costata molto denaro. In una prospettiva politica, è meglio reagire a una crisi come questa lasciando che si risolva da sola nell’arco di molti anni. Dal punto di vista economico questa scelta è un disastro. Abbiamo attraversato crisi finanziarie prima d’ora, abbiamo visto la crisi del debito nell’America latina, la crisi del debito in Asia, il problema del Giappone negli anni Novanta, anch’esso irrisolto per molti anni, che precipitò l’economia in una depressione e una deflazione, e questo è ciò che sta accadendo qui. Il debito è cresciuto in molti paesi, non si è risolto nulla, ci troviamo ancora nella stessa situazione di debito. In questo momento abbiamo un allentamento della tensione, dato che la Banca centrale europea è intervenuta. Questo sembra essere il modo in cui stiamo effettivamente risolvendo la crisi: attraverso una qualche forma di finanziamento monetario, anche se ciò viene negato. Se torniamo in sintesi alle posizioni politiche della Merkel, credo che i suoi due errori più grandi siano l’austerità e il non aver spiegato alla popolazione tedesca che questa crisi comunque costerà loro denaro e che c’è uno scambio necessario tra lo stare nell’euro e il doverlo pagare, finanziare. Questa idea che la Germania possa far parte dell’euro, del quale è una grande beneficiaria, e non debba pagare nulla essenzialmente non è coerente.
D. Quindi lei sta dicendo che l’assenza di una reazione rapida sta causando danni maggiori sul bilancio economico. I cittadini tedeschi erano convinti che non pagare immediatamente sarebbe stato meglio, ma ora le cose sono peggiorate…R. Non risolvere una crisi di debito, solitamente rende tale crisi peggiore. Questa è l’esperienza che abbiamo avuto con l’Argentina, con il Giappone e altri. Alla fine i giapponesi hanno obbligato le loro banche a una ricapitalizzazione. Negli anni Ottanta in Argentina i Brady bond contribuirono a una soluzione definitiva: ci fu una sorta di sostegno pubblico da parte degli Stati Uniti.
Le crisi da debito possono durare a lungo, ed è per questo che una volta ho affermato che la crisi dell’Eurozona richiederà una ventina d’anni per risolversi. Questo non significa che ci troveremo in una fase acuta per vent’anni, ma arrivare alla fine di tutta questa situazione, se non decidiamo di risolverla velocemente, comporterà un processo lento, e ciò vuol dire vent’anni di crescita molto bassa e di debito molto alto.
C’è una domanda politica che le popolazioni alla periferia si porranno: sono pronte e possono permettersi di avere una crescita molto bassa per un periodo di tempo così lungo? Perché questo è ciò che avviene in uno scenario di deflazione del debito, qualcosa che noi capiamo fin troppo bene. E a causa dell’euro, Italia, Spagna, e gli altri paesi del sud Europa non solo devono ridurre il loro debito – l’Italia ha un grande debito pubblico, la Spagna un grande debito privato –, devono contemporaneamente bilanciare la loro economia. Quindi hanno bisogno di deflazione, di una forma di deflazione per tenere il passo con la Germania, e tuttavia la deflazione accresce il livello del debito. E’ molto difficile risolvere queste due crisi simultaneamente. Sono a conoscenza di pochissimi esempi, a dire il vero non ne conosco nessuno in cui questo abbia funzionato all’atto pratico. Ed è per questo che sono convinto del fatto che abbiamo bisogno di qualche forma di sgravio del debito per riuscire a far funzionare le cose.
D. Il suo editoriale a proposito di Mario Monti sul Financial Times – “Non è l’uomo giusto per guidare l’Italia” – ha causato polemiche in Italia. Lei ha scritto: “Un abbassamento nel rendimento dei titoli ha giocato un ruolo in questa storia, ma la maggior parte degli italiani sa che deve questo a un altro Mario, Draghi, presidente della Banca centrale europea”. Lei è convinto di questo, che non sia Monti l’uomo che ha salvato l’Italia dal baratro?R. No, è stato Draghi. E’ evidente che è stato Draghi. Monti è arrivato con un governo tecnico in un momento di crisi. Non dobbiamo dimenticare quella congiuntura: c’era Berlusconi, molte crisi in atto, lo spread dei titoli era aumentato, c’era evidentemente una emergenza nazionale. L’annuncio di un nuovo leader – avrebbe potuto essere chiunque, ma Monti era una persona sufficientemente seria – certo aiuta ad allontanare il panico. Sono convinto però che il programma che ha attuato non sia stato cruciale. Non credo che i mercati abbiano provato un interesse particolarmente grande per le minuzie delle politiche fiscali e strutturali dell’Italia. Hanno sentito dire, o hanno pensato, che Monti fosse un riformatore delle strutture e gli hanno creduto sulla parola, ma non sono andati a vedere i dettagli. Ci sono state riforme del mercato del lavoro, del sistema delle pensioni, ma in definitiva non erano di un ordine di grandezza che avrebbe potuto aumentare la crescita dell’Italia in alcun modo. Il vero cambiamento è stato la promessa da parte della Banca centrale di agire infine da prestatore di ultima istanza. Draghi non ha acquistato nessun titolo, ma ha confermato la posizione della Bce come prestatore di ultima istanza. E questo ha cambiato i giochi per il mercato finanziario, perché in quanto investitore, in quel momento, ho appreso che lo stato italiano non potrà andare in default. Questo non era chiaro prima. Ma il tema del mio articolo su Monti non era questo, si trattava di altro.
D. Qual era il vero tema?R. Il tema era che l’Italia ha bisogno di elaborare una strategia sostenibile per l’Eurozona. Non è possibile per un paese, un qualunque paese della periferia, diventare più competitivo e contemporaneamente ridurre il debito in un periodo di dieci anni, per esempio. Probabilmente potrebbe funzionare nell’arco di cinquant’anni, ma non si possono perdere due generazioni. Prendendo un periodo di dieci anni, che è l’orizzonte temporale della maggior parte delle persone, un tale obiettivo non può essere raggiunto se la Germania non è pronta per avere gli Eurobond, o qualunque altro meccanismo di conversione, e se la Germania non è pronta a ridurre il suo attuale avanzo nei conti, così da aiutare le aziende esportatrici del sud. Stiamo chiedendo al sud di fare tutti gli aggiustamenti, sia nell’economia sia nell’ambito fiscale: il sud deve occuparsi di ripagare tutto il debito, non ci saranno ristrutturazioni, non ci saranno Eurobond, nessun aiuto per ridurre il peso, nulla di tutto ciò. Per quanto riguarda gli aggiustamenti economici, sul fronte della competitività, la Germania è il benchmark, cioè è il paese più competitivo perché ha una tendenza naturale alla deflazione trovandosi all’interno di un sistema di cambio a interesse fisso. Quindi adesso tutti gli altri devono fare lo stesso, anziché elaborare un compromesso, una qualche forma di simmetria nelle correzioni. Sì certo, Italia e Spagna devono adeguarsi. Io stesso vivo in Italia per una parte dell’anno e so che i prezzi sono cresciuti di anno in anno. In Germania non è accaduto. Prodotti e servizi sono molto più costosi in Italia di quanto non lo siano in Germania, e lo sono diventati sempre più nel corso degli anni. Questa differenza deve essere corretta al ribasso. E sarà difficilissimo farlo. L’Italia è in qualche modo pronta per uno scenario di deflazione. Credo che Monti avrebbe dovuto dire: siamo pronti per fare queste correzioni, ma non possiamo essere sostenibili nell’Eurozona, a meno che la Germania non faccia altrettanto; abbiamo bisogno di un accordo più ampio, abbiamo bisogno dell’Eurobond.
Credo che Monti avrebbe dovuto dire la verità alla Merkel, avrebbe dovuto dirle che si devono realizzare questi obiettivi o l’Italia non potrà rimanere un membro dell’Eurozona. Avrebbe dovuto rendere più chiara questa alternativa ai tedeschi. Questi ultimi sono convinti di poter imporre la loro politica, che non ci siano costi, che l’Italia non lascerà l’Eurozona perché hanno tutti paura. Ma se Monti avesse mutato direzione, e si era creata una buona opportunità per farlo nel giugno 2012, se avesse detto alla Merkel che l’Italia aveva davvero un’opzione di uscita dall’Eurozona, che quella exit option era reale e che le si sarebbe dato l’avvio se non ci fosse stato alcun progresso sull’Unione bancaria e fiscale, tutto ciò avrebbe dato una forma diversa al dibattito. L’Eurozona è come il gold standard: essenzialmente è un tasso di cambio fisso per sempre, e ciò significa che in quella Unione economica chiunque si deve adeguare intorno allo stesso livello. Non si può avere una propria politica dei salari, dei propri tassi d’inflazione.
D. Sul Corriere della Sera due economisti, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, hanno risposto al suo editoriale sostenendo che senza austerità, in Italia come in altri paesi, non ci sarebbe più stata crescita, e lo spread sarebbe andato alle stelle.R. Credo si tratti del solito argomento del tipo “bond vigilantes”, ovvero i guardiani del mercato dei titoli di stato: si sostiene cioè di aver bisogno dell’austerità. Anche se l’austerità non funziona, la si deve avere per poter avere credibilità. Io però non credo che dovremmo presumere che i mercati siano stupidi. I mercati hanno assegnato all’Italia una probabilità di uscita dall’euro nel momento in cui Monti ha assunto l’incarico. Se osserviamo lo spread in Italia, è migliorato quando Monti ha assunto l’incarico, ma in seguito è peggiorato di nuovo, notevolmente. Ha raggiunto il livello dello spread sotto Berlusconi a un certo punto dell’estate, ed è stato lì che è entrato in gioco Draghi. Quindi affermare che i mercati guardino solo all’austerità fiscale non è corretto. Gli investitori con cui ho parlato erano preoccupati più per l’austerità che per la mancanza di austerità. Il problema con l’Italia, e lo sapevamo da tempo, era un debito molto elevato. Tuttavia, l’effettiva politica fiscale, anche sotto le amministrazioni precedenti, per l’esattezza sotto le due amministrazioni precedenti, sia quella di Prodi che quella di Berlusconi, era responsabile solo in parte: l’Italia non ha visto esplodere il proprio deficit, e nella recessione del 2009 ha avuto una quantità minima di esborsi per incentivi o salvataggi, ha mantenuto un budget piuttosto prudente. Per questo credo che l’austerità non fosse giustificata da nessuna ragione oggettiva. L’unica ragione che si poteva accampare era quella della mancanza di credibilità, cosa che non ritengo vera. I mercati erano preoccupati che, a causa delle politiche messe in atto e dell’instabilità politica, si potesse creare una situazione – ricordiamo il sorgere del Movimento cinque stelle e tutte le altre cose che sono accadute – in base alla quale ci sarebbe stata una possibilità che l’Italia lasciasse l’Eurozona. Si creò un rischio di “ridenominazione”, ovvero l’ipotesi che titoli di stato e contratti potessero di punto in bianco essere rinominati in una valuta nazionale, e i mercati perciò apprezzarono di avere qualcuno che li rassicurasse. La mia critica era che Monti non avrebbe dovuto solo rassicurare l’Italia… L’Italia deve dimostrare che si può rimanere in modo sostenibile nell’Eurozona, e ciò non si può ottenere unicamente in un contesto di politica nazionale. Abbiamo bisogno di un accordo più ampio.
D. Allora secondo lei perché quando la Merkel ha incontrato Monti qualche settimana fa ha detto che l’attuale presidente del Consiglio è molto duro e difende davvero l’Italia?R. Lo vuole appoggiare, è chiaro. Lo considera un primo ministro italiano più congeniale rispetto a Berlusconi o Bersani. La Merkel ha paura di Bersani perché teme che possa allinearsi con il socialista francese François Hollande e l’ultima cosa che vuole è un fronte franco-italiano contro la Germania. Chiaramente con Berlusconi la Merkel non aveva buoni rapporti, quindi non vuole che torni. Di conseguenza Monti, che non è un politico per natura, è la controparte perfetta con la quale avere a che fare su un terreno principalmente tecnico, senza grandi implicazioni politiche. Bisogna pensare alla frase della Merkel su Monti come un riflesso degli interessi tedeschi. Se sia o no un’affermazione sincera di quel che pensa di lui non lo so. Non ho idea di cosa pensi di lui, ma certamente secondo la prospettiva della Merkel è più facile avere a che fare con lui che con il suo predecessore.

D. Lei prima ha menzionato la rinegoziazione in Europa. Abbiamo bisogno di un nuovo patto, un nuovo modo per risolvere i problemi con i vecchi paesi europei. Cosa pensa del Fiscal compact? Noi ci siamo impegnati a pagare come italiani, l’anno prossimo, circa quaranta miliardi di euro solo per far rientrare il debito.
R. Il Fiscal compact essenzialmente deriva da una legge costituzionale tedesca che cercava di eliminare per sempre il deficit di budget. Il deficit strutturale avrebbe dovuto essere ridotto quasi allo zero, si sarebbe permessa una sorta di fluttuazione ciclica intorno a quel livello: è un’ossessione sul debito di stato in Germania che ho sempre giudicato irrazionale. Ora, nel Fiscal compact, sono gli europei ad avere tale ossessione. Eppure non c’è nessuna teoria economica che affermi che il deficit giusto sia zero. Non esiste. Non c’è nessuna teoria economica che dica nemmeno che il debito debba essere zero. E naturalmente se si ha un deficit a zero sul lungo periodo allora il debito sarà zero. Quindi il Fiscal compact è in definitiva compatibile con una riduzione massiccia del debito. Tutto ciò deve essere sostenibile. Come ben sanno le società, si prende in prestito denaro, si investe: se si fanno troppi prestiti ci si ritrova in difficoltà, se si chiedono troppo pochi prestiti si corre il rischio di non sfruttare i propri potenziali, c’è una golden line. La teoria economica non ha ancora stabilito a oggi una formula che possa definire l’esatto importo in cui si trovi quella golden line. C’è una prova empirica che una volta superato un preciso importo le cose potrebbero diventare difficili per la crescita. Altri mettono in dubbio questa prova empirica, affermando che dipende molto dalle singole situazioni, che è quel che credo io.
D. Un autorevole economista di Washington mi ha detto, in confidenza, che se un suo studente di Economia avesse redatto il Fiscal compact non avrebbe superato il suo esame.R. Il Fiscal compact ha senso da un punto di vista politico, ai politici piace perché pone dei limiti, rende alcune cose meno spaventose per la popolazione. Nel caso dell’Italia il problema è la mancanza di crescita. Si può guardare al debito e alla crescita nello stesso modo. Se si ha una crescita del 5 per cento e un rapporto debito/pil del 120 per cento, tale situazione è perfettamente gestibile. Con lo 0 per cento di crescita si è insolventi, ma questo vale anche con un rapporto debito/pil al 60 per cento, ovvero entro i limiti di Maastricht e Fiscal compact. Chiunque è insolvente se ha contratto debiti e non cresce, a meno che non si voglia avere permanentemente un avanzo primario, cosa che non ritengo probabile.
D. Come possiamo, quindi, crescere di nuovo?R. Questa è la domanda chiave, l’unica su cui concentrarsi. Non punterei tanto sulla riduzione del debito, quanto sulla crescita. Due sono le cose che devono accadere. L’ambiente macroeconomico dovrebbe essere migliorato. Ciò significa che dovremmo ottenere gli aggiustamenti simmetrici, così che i prezzi in Germania aumentino mentre diminuiscono in Italia, in modo da incontrarsi a metà strada, per dirlo in una maniera semplificata. Tuttavia il peso degli aggiustamenti non può gravare unicamente sulla periferia. La seconda cosa che dovrebbe accadere è che l’Italia intraprenda le riforme strutturali, ma di quelle che aiutino la crescita nel lungo periodo. Ciò che si deve capire è che non si tratta dell’intera agenda Ocse sulle riforme strutturali, che è molto ampia e che cambierebbe considerevolmente la società italiana tanto da renderla irriconoscibile: questo forse non è necessario. Ma alcune cose devono accadere: nel mercato del lavoro occorrono flessibilità nelle assunzioni e nei licenziamenti e introduzione di contratti salariali, nel mercato dei prezzi dei prodotti si devono rafforzare i provvedimenti anti cartello, anti trust, accordi sulla fissazione dei prezzi. Un’altra cosa che menzionerei è la necessità di investimenti. Si possono mettere in ordine molte cose più attraverso gli investimenti che attraverso i risparmi.
D. E forse anche meno stato, meno burocrazia.R. Quella è certamente una priorità. Io per esempio sono fortemente a favore della riduzione dei troppi “strati” di governo locale in Italia: i comuni, le province, le regioni. Nella gran parte dei paesi c’è un livello locale, uno statale e uno federale. Tre livelli, che è la cosa giusta. Con l’Unione europea arriviamo a quattro, ma avere più livelli interni rende le cose più complicate del necessario. Queste sono tutte cose piuttosto difficili da raggiungere, direi impossibili, quando contemporaneamente si mette in atto l’austerità. Qui ci troviamo di nuovo di fronte a un conflitto: i governi hanno un capitale politico, lo possono usare per mettere in atto l’austerità, ma poi si esaurisce, e non possono attuare riforme. Oppure attuano le riforme, ma in questo caso devono cedere un po’ dal lato fiscale. Se si ricorda, la Germania, nel 2003, quando fece le sue famose riforme, le riforme del cancelliere Gerhard Schröder, allo stesso tempo ruppe il Patto di stabilità. Schröder fu obbligato a farlo per guadagnarsi sufficienti sostegni in politica che gli permettessero di poter attuare le riforme. Fu uno scambio per ottenere le riforme. Ora si sta chiedendo di fare entrambe le cose allo stesso tempo al sud Europa, cosa che non credo sia possibile.
D. Un problema che credo ci sia in Italia: non è la stessa cosa tagliare la spesa pubblica e aumentare le tasse, ma in un periodo di recessione sono cose simili.R. Gli effetti sono simili. Probabilmente lei ha parlato con gli economisti Giavazzi e Alesina che sono convinti ci sia una differenza tra i due provvedimenti, cosa che è vera in tempi normali ma non in recessione. Una volta che in un’economia il tasso d’interesse di riferimento è già pari a zero, una volta che si ha disoccupazione, recessione, allora se si tagliano le spese non ci sarà nulla che funzioni a mo’ di compensazione. L’Italia ha tasse altissime, non le aumenterei ancora, sarebbe la cosa più stupida. Tuttavia credo che il dibattito sia in qualche modo completamente fuori tema. L’austerità viene comunque praticata, che si tratti di tasse o di tagli nella spesa. Per il momento, visto l’elevato moltiplicatore fiscale, ciò significa che se si risparmia un euro, l’economia si contrae di due euro, o di un euro e mezzo, ma non c’è un’espansione miracolosa. Avremmo bisogno di un ambiente totalmente differente perché ciò si verificasse.
D. Anche il Fondo monetario internazionale, con la teoria del capo economista Olivier Blanchard sui moltiplicatori, sostiene che l’austerità sta peggiorando la crisi più di quanto ci si aspettava…R. E’ interessante che Berlusconi stia facendo campagna sulle misure anti austerità, che sono ragionevoli dal punto di vista economico. E’ difficile per me dire che si dovrebbe votare per Silvio Berlusconi, in quanto ci sono ragioni per non votarlo, ma economicamente parlando è una strategia sensata. Io farei esattamente la stessa cosa: tagliare le tasse, tagliare le tasse, tagliare le tasse… Taglierei anche una parte di spesa e guarderei alle riforme strutturali. Taglierei le tasse e mi occuperei delle questioni strutturali allo stesso tempo. Questo Berlusconi lo può fare. Tagliare le tasse è un provvedimento popolare, ma poi si potrebbe sfruttare la popolarità come capitale per attuare le riforme strutturali. Questa sarebbe la mia proposta e la promuoverei come un modo per rivitalizzare l’Italia, per riportarla alla crescita. Una volta tornati a una crescita del 3 per cento, nessuno più si preoccuperebbe del debito.

Amazon e lo schiavismo al tempo della globalizzazione

- megachip -

amazon 20130219
di Giorgio Cremaschi - MicroMega
La notizia ha fatto un certo scalpore anche nel mondo abituato a giustificare sempre la globalizzazione.
In Germania negli stabilimenti Amazon dove si smistano le merci per la vendita on line, migliaia di lavoratrici e lavoratori migranti, costretti a vergognose condizioni di sfruttamento, venivano sorvegliati da guardie giurate di una associazione neonazista.
È proprio questo aspetto che ha sollevato lo scandalo, sorveglianti neonazisti in Germania, via è sembrato un po’ troppo. Qualche manager desideroso di strafare è stato un po’ troppo precipitoso. Sarebbe bastato che si fosse rivolto a qualche più neutra agenzia di sorveglianza e lo scandalo non ci sarebbe stato. Perché nel mondo del capitalismo globalizzato si lavora così in tanti posti e, questa semmai è la novità, anche nella Europa più ricca.
Ovunque si sono diffuse imprese dove le condizioni di chi lavora sono di sostanziale schiavitù.
Naomi Klein già più di dieci anni fa descriveva le condizioni carcerarie di grandi centri manufatturieri dell’Asia, ove si produce anonimamente quasi tutto ciò a cui le multinazionali possono poi aggiungere i propri marchi, rastrellando così i propri ingenti profitti.
Le recenti vicende della Foxconn in Cina, ove la prima reazione degli operai alle condizioni di lavoro imposte per produrre per conto della Apple sono stati i suicidi, sono solo un tenue squarcio in un velo globale.
Le maquilladoras sono insediamenti industriali nel Messico a ridosso degli Stati Uniti, ove imprese nord americane possono operare a condizioni di sfruttamento più libere che oltre confine. D’altra parte più di venti anni fa il sindacato AFL CIO denunciava già il diffondersi a New York di quelle che venivano chiamate “sweat shops”, officine del sudore. Si sa gli Usa anticipano.
Si crede davvero che questo sistema di sfruttamento mondiale si regga solo sul consenso o magari anche solo sulla pura passività di chi lo subisce?
Davvero si pensa che gli operai assunti dalla Fiat in Serbia per 12 ore al giorno di catena di montaggio a meno di 400 euro al mese, passino il poco tempo rimasto a ringraziare Marchionne? E che la raccolta degli agrumi da noi veda i migranti stanchi ma rassegnati? E se qualcuno, come ai magazzini della Ikea a Piacenza non ci sta ? Perché ogni persona oppressa, anche la più rassegnata, prima o poi pensa alla ribellione.
Così la prevenzione e la repressione dei comportamenti ribelli diventano anche un business. Una attività secondaria delle mafie che mettono a disposizione i loro caporali nei casi meno sofisticati. Un modo per dare uno sbocco al mercenariato neonazista, in quelli più sfacciati e stupidi. Una impresa raffinata quando la sorveglianza dei lavoratori viene affidata alle agenzie di investigazione e magari anche alle indagini di psicologi preparati ad hoc.
Esagerazioni? Ma se dilaga la pubblicità di imprese che vantano di poter fornire tutto ciò che serve per controllare le assenze del lavoratore e quanto altro sia necessario conoscere. E i colloqui per le assunzioni spesso diventano sottili interrogatori con domande preparate da strutture specializzate. Domande che servono a far capire se il nuovo assunto sarà fedele o ribelle.
Ovunque nei luoghi della produzione si diffonde un sistema autoritario e oppressivo. Può essere più sottile o più brutale a seconda delle mansioni o della nazionalità dei lavoratori. Non ci sono ovunque sorveglianti neonazisti, ma il fascismo aziendale dilaga, perché questo reclama il capitalismo globalizzato per la condizione di lavoro.
Anche qui esagerazioni? Ma proprio ieri la commissione economica dell’ OCSE ha raccomandato all’Italia di rendere ancor più facile il licenziamento per riprendere a crescere.
E le politiche di austerità e rigore non stanno forse cancellando ciò che resta di contratti e di diritti del lavoro qui da noi e in tutta Europa? E nel paese cavia di esse, la Grecia, chi si è salvato dalla disoccupazione di massa non produce ora a condizioni che tempo fa avremmo definito da terzo mondo? E la Grecia, come l’Italia sta aumentando le esportazioni mentre l’economia complessiva regredisce. Si lavora negli spazi e alle condizioni che i poteri del mercato globale hanno deciso di assegnare.
Non si piangano lacrime da coccodrillo, ci si risparmi la solita dose di ipocrisia. Questo capitalismo globale vuole la schiavitù del lavoro e, come ci ricorda Quentin Tarantino nel suo bel film Django, non c’è schiavitù senza negrieri. Qualche capetto della Amazon in Germania deve aver pensato che in fondo quelli neonazisti sono più motivati di altri.
Non c’è futuro democratico e civile se non si mette fine al dominio del capitalismo globalizzato.

(16 febbraio 2013)

La tortura in Italia

tortura in italiaAugusto Illuminati
Ma che razza di problema è la tortura in Italia? Li conosciamo bene i nostri veri problemi: mantenere o togliere l’Imu, smacchiare il giaguaro, lo spread, la moneta padana, il voto utile. Magari, sì, il sovraffollamento delle carceri, ‘sto tormentone dei radicali che adesso pure Napolitano ci ha messo bocca. Ma la tortura? Nella patria di Beccaria, per di più! mica stiamo a Guantanamo…
E invece il bel libro di Patrizio Gonnella, La tortura in Italia, ci viene a ricordare bruscamente che il nostro Paese rifiuta di includere il reato relativo nel proprio Codice, malgrado varie e sfortunate iniziative parlamentari che da ben 23 anni, sotto governi di centro-destra e di centro-sinistra, tentano di tradurre in legge positiva la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, pur ratificata nel lontano novembre 1988. Mentre si trovano agevoli maggioranze per un giusto divieto di maltrattamenti agli animali, non si riesce a concludere nulla per il ben meno rilevante divieto di tortura per gli uomini. E così la Cassazione ha dovuto, rammaricandosene, dichiarare prescritte, in assenza di una fattispecie specifica sulla tortura, le condanne per semplici lesioni inflitte a poliziotti e dirigenti per la macelleria della scuola Diaz e di Bolzaneto nel 2001.
Questo è stato l’episodio più clamoroso, ma la prescrizione è la regola non solo per la tenuità delle sanzioni per semplici atti di violenza e perfino per omicidi “colposi” ma per il ritardo con cui spesso i fatti vengono denunciati da detenuti a buon diritto esitanti a chiedere giustizia fin quando restano sotto il controllo dei seviziatori denunciati o dei loro colleghi. Più in generale, la riluttanza a introdurre il reato di tortura, procedibile in ogni caso d’ufficio (le lesioni lo sono soltanto se determinano danni superiori a 20 giorni di degenza), testimonia una malintesa riaffermazione della sovranità nazionale – crollata sul piano politico ed economico – proprio sul terreno più arretrato e moralmente discutibile.
Per usare le parole dell’autore, nel rifiuto di adeguazione alla norma sovranazionale si manifesta l’identificazione profonda di poliziotto e Stato, «in quanto il primo assicura la ragion di vita del secondo».Vi si aggiunge, terzo, il magistrato che dovrebbe controllare, chiudendo il cerchio dell’incensurabilità gerarchica «nel nome della sovranità intangibile e illimitata del potere punitivo».
Per un verso, Gonnella, forte di una lunga esperienza di tali temi quale presidente dell’associazione Antigone, distingue nettamente la tortura da altre forme di crudeltà, sopraffazione, degradazione e violenza, facendone un reato specifico dei pubblici ufficiali cui legalmente sono affidati soggetti privati di libertà, per l’altro estende tale definizione a tutte le forme di diminuzione o distruzione della dignità più ancora che del corpo della vittima, quindi a molte pratiche carcerarie riferibili a decisioni legislative e giudiziarie (l’art. 41 bis, l’arresto obbligatorio di consumatori di sostanze stupefacenti e di migranti clandestini, l’esclusione dei recidivi dai benefici) ma soprattutto all’esercizio indeterminato dei poteri di custodia.
Vi sono vessazioni, “legali” o arbitrarie, che umiliano o danneggiano fisicamente la vittima (interruzione del sonno, divieto di contatti con l’esterno o di lavoro, cella d’isolamento, ispezioni invasive, ecc.) in concorrenza o in associazione a punizioni corporali, spesso delegate ad altri detenuti, il tutto per tenere sotto controllo soggetti “riottosi” o per indurli a “collaborare”, secondo la modalità strumentale (mezzo per fini ulteriori) che è tipica della tortura a differenza del puro esercizio individuale di sadismo, che certo non scarseggia.
Lo scenario allestito nelle stipate prigioni italiane (già questa una sofferenza, ripetutamente condannata dalla Corte europea di giustizia, cinicamente messa in conto nell’uso della carcerazione preventiva) assomiglia talvolta a Guantanamo e Abu Ghraib, come l’officina artigianale sta alla grande fabbrica, ma la logica securitaria e intimidatoria è la stessa. Non dimentichiamo il sequestro Dozier, Genova 2001 e i recenti casi Uva e Cucchi. E teniamo d’occhio la Grecia, dove (esempio non contemplato dal libro, chiuso prima) la polizia ha diffuso le foto segnaletiche di quattro “sovversivi” indagati e vistosamente tumefatti a deliberato ammonimento dei facinorosi.
Un libro come questo è prezioso proprio in controtendenza all’imperante populismo penale che a destra pretende di tenere a bada il disagio sociale con un sovraccarico di criminalizzazione o si illude, in varie sfumature della sinistra, di combattere la corruzione con la retorica manettara e una restrizione del garantismo. In quest’ultimo caso, inquieta un’eccessiva presenza di operatori giudiziari e della sicurezza perfino nelle liste più alternative. Il faut défendre la société? Grazie, abbiamo già dato.
Patrizio Gonnella
La tortura in Italia
prefazione di E. Resta e postfazione di M. De Palma
DeriveApprodi (2012), pp. 143
€ 15

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