Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 29 giugno 2013

Dalle stelle alle stalle

Fonte: il manifesto | Autore: Marco Bertorello                         


Il Fondo monetario internazionale prevede che nel 2013 i paesi occidentali, cioè quelli più ricchi al mondo almeno dai tempi della rivoluzione industriale, scenderanno nelle quote di Pil globale al disotto del 50%. Forse la definizione di paesi emergenti per nazioni quali Cina, India, Brasile e molti altri è da mettere in soffitta. Certamente restano enormi divari nelle proporzioni pro-capite a tutto vantaggio dei paesi di antica industrializzazione. Nonostante il cambio degli equilibri e dei connotati dell’economia mondiale però i percorsi per uscire dalla crisi non si semplificano. I paesi ormai emersi non rappresentano una possibile via di uscita dalla crisi globale, almeno nel breve periodo. Dopo la precipitazione del 2008-09, un paese come la Cina veniva considerato la nuova possibile locomotiva della ripresa. A distanza di cinque anni si registra una consistente diminuzione della sua crescita. Restano numeri importanti, ma forse non adeguati ai ritmi precedenti e alle attese create.
A fronte della crisi dei vecchi bastioni del capitalismo, i nuovi protagonisti dell’economia contemporanea non potevano restarne immuni, considerati i loro assetti sbilanciati verso l’export. Il buco nero rappresentato dall’Europa pesa enormemente sulla Cina che aveva nel Vecchio continente il principale importatore delle proprie merci. D’altronde c’è una sfasatura temporale tra la necessità di riprendersi dei paesi occidentali, scommettendo sulle esportazioni, e l’incapacità, in tempi ragionevoli, di ri-centrare il proprio modello di sviluppo degli ex-emergenti. Aumentare ulteriormente lo sviluppo interno anziché esportare e acquistare titoli di debito dei paesi occidentali non sarà operazione che si risolve rapidamente, per la Cina e non solo.

Ma i problemi non finiscono qui. Negli ultimi giorni le difficoltà registrate dalle borse orientali indicano come il capitalismo globale abbia utilizzato formule molto simili per arginare la crisi. L’annuncio della Fed sulla riduzione della politica monetaria espansiva, unica vera arma utilizzata in questi anni, ha mandato in fibrillazione paesi molto differenti tra loro. In questi anni, infatti, l’economia a debito non è stata prerogativa unicamente dei paesi occidentali. Nel 2012 in Cina il credito ha raggiunto proporzioni doppie rispetto al Pil, come già per gli Usa ante-crisi. In questo paese è stata praticata una via finanziaria alla crescita fondata sullo sviluppo non controllato del debito privato, con un preoccupante lassismo nei controlli, eccessi e mal distribuzione di liquidità. Così sono emersi timori per la scarsità di liquidità nell’Impero Celeste. Anche perché la moneta immessa nel sistema non si è riversata prevalentemente sulle attività produttive tradizionali. Qualche giorno fa il Sole 24 ore metteva in evidenza un caso da manuale di questo processo, quello della Youngor, imponente società cinese specializzata nel tessile, che si è trasformata da azienda produttiva in grande gruppo immobiliare e finanziario dal futuro molto incerto: «dal tessile al mattone alla finanza, fine della parabola di un’azienda modello». Un percorso che potremmo confondere con quello di tante aziende del capitalismo maturo, per non dire in disfacimento. Se persino la cosiddetta fabbrica del mondo in breve tempo si inserisce nel modello della finanziarizzazione, rendendo sempre più lontana l’ambizione a separare economia reale e finanziaria, allora forse non devono stupire le rivolte turche e brasiliane o le lotte operaie cinesi, cioè quel protagonismo giovanile di una generazione che vive in prima persona le contraddizioni sistemiche dell’attuale economia di mercato a qualsiasi latitudine.

martedì 25 giugno 2013

Ristrutturare il debito

Fonte: il manifesto | Autore: Guido Viale
Spese militari, grandi opere, pensioni d’oro, evasione: anche cambiando molte voci della spesa l’Italia non potrà evitare il tracollo e lo spettro della Grecia. Lo dicono le cifre degli 80-90 miliardi di interessi sul debito, più i 45-50 per riportarlo al 60% del Pil
Ci siamo assuefatti a convivere con un meccanismo economico e finanziario che ci conduce inesorabilmente a una progressiva distruzione del tessuto produttivo del paese e delle istituzioni fondanti della democrazia: in questo quadro la perdita di imprese, posti di lavoro, know-how e mercati in corso è irreversibile, come lo è la progressiva abolizione dei poteri degli elettori, del Parlamento e, soprattutto, degli Enti locali: cioè dei Comuni, che sono le istituzioni del nostro ordinamento giuridico più vicine ai cittadini. La Grecia, avanti a noi di un paio di anni in quel percorso di distruzione delle condizioni di esistenza di un’intera popolazione imposto, con una omogeneità impressionante, a tutti i paesi europei del Mediterraneo, ci mostra come alla devastazione provocata dai diktat della finanza e dalla governance europea non ci sia mai fine. Il Governo italiano non sa dove trovare otto miliardi per soddisfare le richieste su Iva e Imu a cui Berlusconi ha subordinato la sua permanenza nella maggioranza. Ma nessuno mette in discussione il fatto che ogni anno lo Stato italiano riesca sempre a trovare – e paghi – 80-90 miliardi di interessi ai detentori del debito pubblico italiano. E nessuno dice che dall’anno prossimo, a quegli 80-90 miliardi se ne dovranno aggiungere ogni anno altri 45-50 per riportare in 20 anni il debito pubblico al 60 per cento del PIL. Nel frattempo il PIL cala e il debito cresce mentre interessi e quota del debito da restituire aumentano; e nessuno sa o dice dove troverà tutto quel denaro che, con il pareggio di bilancio in Costituzione, non può che essere estratto da nuove tasse – ovviamente a carico di chi già le paga – facendo precipitare ancor più in una spirale senza fine occupazione, redditi, bilanci aziendali e spesa pubblica, cioè scuola, sanità, pensioni, ricerca, salvaguardia del territorio e del patrimonio artistico. C’è stata una cessione di sovranità a favore della finanza internazionale sia in campo economico che politico e ciò a cui molti di noi si sono assuefatti è l’idea che a tutto ciò “non c’è alternativa”.
Quell’alternativa va dunque trovata, ma bastano i pochi numeri citati per capire che a queste condizioni nessuna promessa, o anche solo proposta, di “rilancio produttivo” e di lotta alla disoccupazione e alla povertà ha la minima possibilità di funzionare; e che coloro che le fanno, ignorando volutamente questo quadro, mentono; forse anche a se stessi. Certo, all’interno del bilancio statale si potrebbero spostare molte poste: per esempio dalla spesa militare a quella civile; dalle grandi opere inutili e costose al reddito di cittadinanza; dalle 100mila pensioni oltre i 90mila euro (per un totale di 13 miliardi all’anno!) a quelle sotto i 10mila; oppure recuperare fondi dall’evasione: in fin dei conti il debito pubblico italiano (2.040 miliardi) è meno della somma dell’evasione fiscale e degli interessi sul debito degli ultimi 20-25 anni: e in gran parte, probabilmente, i beneficiari sono gli stessi. Il debito pubblico italiano, con gli interessi, è insostenibile e incompatibile con qualsiasi prospettiva che non sia la chiusura e il degrado progressivo di tutte le nostre fonti di sostentamento; lo Stato italiano, come quello greco, di fatto è già fallito. Ridurre in misura sostanziale il debito svendendo il patrimonio pubblico, più che un’illusione è un imbroglio: la svendita della quota pubblica di Eni, Enel, FS, Finmeccanica e Fincantieri oggi frutterebbe poco più di 100 miliardi, meno di quanto continueremmo a pagare ogni anno tra interessi e quota di restituzione; la svendita di tutto il demanio e degli immobili di Stato ed Enti locali a prezzi di mercato frutterebbe ancor meno. Meno che mai potrebbe funzionare, per rimettere in piedi il tessuto economico, “l’uscita dall’euro”, che probabilmente si verificherà comunque come conseguenza dello sfascio di tutto l’edificio dell’UE a cui ci sta portando la sua governance; non prima, però, di aver ridotto a zero il potenziale economico di metà del continente. Né c’è da sperare che dopo le elezioni tedesche la musica cambi… Che una svalutazione anche consistente possa far ripartire esportazioni e domanda interna a un’economia ormai in frantumi è una mera illusione: il quadro internazionale è profondamente cambiato e niente è più come prima. E che il problema principale non sia la sopravvalutazione dell’euro ma il blocco della spesa pubblica lo dimostra il fatto che le imprese italiane rimaste solide hanno esportato e continuano a esportare anche con l’euro.

Grecia, decine di bambini lasciati agli orfanotrofi. Non ci sono soldi per mantenerli

  
Grecia, decine di bambini lasciati agli orfanotrofi. Non ci sono soldi per mantenerli

Pubblicato il 24 giu 2013

di Davide Falcioni -
Che la Grecia sia schiacciata da una terribile crisi economica è noto a tutti. E che gli effetti siano l’aumento di povertà e disoccupazione idem. Quello che pochi sanno è però un altro dato, forse il più allarmante: sempre di più le famiglie non riescono a prendersi cura dei propri figli. Non ci sono soldi per le visite mediche, né per i libri scolastici. Mancano persino quelli per la sussistenza. Allora in qualche caso i figli si lasciano negli orfanotrofi. Il numero non è altissimo – si parla di qualche decina – ma segnala comunque un disagio crescente in un Paese dove il 10% dei minori rischia di vivere in famiglie precipitate nella povertà più buia.
Un caso, ad esempio, è quello del piccolo Nicolas Eleftheriàdu, raccontato dal quotidiano britannico DailyMail. Al giornalista che gli chiedeva come stesse, ha risposto: “Sono duro come una noce”. Nicolas vive in un istituto per minori dal lunedì al venerdì, da quando i genitori – Olga e Alexandros – hanno perso il lavoro e non possono garantire uno stipendio dignitoso e fisso ogni mese, ma sono costretti ad arrangiarsi come possono, tra lavoretti in nero che – quando va bene – fanno incassare 400 euro. “E’ stato incredibilmente doloroso portare nostro figlio in un istituto. Non riuscivo a sopportarlo, ma adesso lui si è abituato e sta bene, anche perché gli educatori sono persone estremamente premurose”.
Il dramma di Nicolas Eleftheriàdu e della sua famiglia si inserisce in un quadro disastroso, con l’economia a picco e in continua caduta libera che ha prodotto un livello di disoccupazione record in Europa. Un adulto su tre è senza lavoro, e anche due giovani su tre. Le retribuzioni nel settore privato sono calate del 30% in quattro anni e nuove tasse dolorosissime sono state imposte dalla Troika. Nel volgere di qualche anno il paese è stato retrocesso da “Economia sviluppata” a “mercato emergente”. Ne settore pubblico è stato dato il via libera a un massiccio piano di licenziamenti che potrebbe coinvolgere 150mila persone. Con questi numeri, va da sé che le difficoltà per le famiglie siano crescenti e che stia prendendo piede la pratica di cedere i figli a degli istituti in grado di prendersene cura.
fanpage.it

La macchia umana sull’Europa

La Repubblica                                 
                                                                                
Mentre le condizioni dei greci si fanno sempre più disperate e aumentano le critiche all'operato della troika, la istituzioni europee continuano a guardare dall'altra parte. La Commissione dovrebbe essere messa di fronte alle sue responsabilità.
Se almeno avessero le loro divinità antiche: forse i Greci capirebbero meglio quel che vivono, l'ingiustizia che subiscono, l'abulica leggerezza di un'Europa che li aiuta umiliandoli da anni, che dice di non volerli espellere e nell'animo già li ha espulsi. Le divinità d'un tempo, si sapeva bene che erano capricciose, illogiche, si innamoravano e disamoravano presto. Su tutte regnava Ananke: l'inalterabile Necessità, ovvero il fato. A Corinto, Ananke condivideva un tempio con Bia, la Violenza. L'Europa ha per gli Ateniesi i tratti di questa Necessità.
Forse capirebbero, i Greci, come mai a Roma s'è riunito venerdì un vertice di ministri dell'Economia e del Lavoro, tra Italia, Spagna, Francia, Germania, per discutere il lavoro fattosi d'un colpo cruciale, e nessuno di essi ha pensato di convocare la più impoverita delle nazioni: 27 per cento di disoccupazione, più del 62 per cento giovani. Sono i tassi più alti d'Europa. Forse avevano qualcosa da dire, i Greci, sui disastri della guerra che le istituzioni comuni continuano a infliggere con inerte incaponimento, e senza frutti, al paese reo di non fare i compiti a casa, come recita il lessico Ue.
La Grecia è la macchia umana che imbratta l'Europa, da quando è partita la cura d'austerità. Ha pagato per tutti noi, ci è servita al tempo stesso da capro espiatorio e da cavia. In una conferenza stampa del 6 giugno, Simon O'Connor, portavoce del commissario economico Olli Rehn, ha ammesso che per gli Europei è stato un "processo di apprendimento". In altri paesi magari si farà diversamente, ma non per questo scema la soddisfazione: "Non è stata cosa da poco, tenere Atene nell'euro"; "Dissentiamo vivamente da chi dice che non è stato fatto abbastanza per la crescita". Poi ha aggiunto piccato: "Sono accuse del tutto infondate".
O'Connor e Rehn reagivano così a un rapporto appena pubblicato dal Fondo Monetario: lo stesso Fmi che con la Banca centrale europea e la Commissione è nella famosa troika che ha concepito l'austerità nei paesi deficitari e dall'alto li sorveglia. L'atto di accusa è pesante, contro strategie e comportamenti dell'Unione durante la crisi. La Grecia "poteva uscirne meglio", se fin dall'inizio il debito ellenico fosse stato ristrutturato, alleggerendone l'onere. Se non si fosse proceduto con la micidiale lentezza delle decisioni prese all'unanimità. Se per tempo si fosse concordata una supervisione unica delle banche. Se crescita e consenso sociale non fossero stati quantità trascurabili. Solo contava evitare il contagio, e salvaguardare i soldi dei creditori. Per questo la Grecia andava punita. Oggi è paria dell'Unione, e tutti ne vanno fieri perché tecnicamente rimane nell'euro pur essendo outcast sotto ogni altro profilo.
Addio alla troika dunque? È improbabile, visto che nessun cittadino può censurare i suoi misfatti, e visto il sussiego con cui è stato accolto il rapporto del Fondo. L'ideale sarebbe di licenziarla fin dal Consiglio europeo del 27-28 giugno, dedicato proprio alla disoccupazione che le tre Moire della troika hanno così spensieratamente dilatato. Il Parlamento europeo non oserà parlare, e quanto alla Bce, le parole di Draghi sono state evasive, perfino un po' compiaciute: "Di buono, nel rapporto FMI, è che la Banca centrale europea non è criticata". Il Fondo stesso è ambivalente, ogni suo dire è costellato di ossimori (di asserzioni acute-stupide, etimologicamente è questo un ossimoro). Il fallimento c'è, ma è chiamato "necessario". La recessione greca è "più vasta d'ogni previsione", ma è "ineludibile". Il fato illogico regna ancora sovrano, solo che a gestirlo oggi sono gli umani.
In realtà c'è poco da compiacersi. L'Unione non ha compreso la natura politica della crisi – la mancata Europa unita, solidale – e quel che resta è un perverso intreccio di moralismi e profitti calcolati. Resta l'incubo del contagio e dell'azzardo morale. Condonare subito il debito, come chiedevano tanti esperti, significava premiare la colpa. E poi all'Europa stava a cuore proteggere i creditori, dice il rapporto del Fondo, più che scongiurare contagi: dilazionare le decisioni "dava tutto il tempo alle banche di ritirar soldi dalle periferie dell'eurozona". La Banca dei regolamenti internazionali cita il caso tedesco: 270 miliardi di euro hanno abbandonato nel 2010-11 cinque paesi critici (Grecia, Irlanda, Portogallo, Italia, Spagna).

Sentenza Ruby, la sconfitta della politica

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Un collegio giudicante composto di tre donne, già definite da Berlusconi femministe e comuniste, ha condannato Silvio Berlusconi per concussione (elevata a costrizione) e prostituzione minorile a 7 anni di reclusione più l’interdizione perpetua dai pubblici uffici, un anno in più dei sei chiesti dall’accusa nella requisitoria finale di Ilda Boccassini, la più femminista e comunista di tutte agli occhi dell’ex premier. Una sentenza del tutto prevedibile data la mole di indizi, testimonianze e intercettazioni a sostegno dell’accusa, quasi tutte peraltro note all’opinione pubblica già prima della celebrazione del processo, e probabilmente foriera di un nuovo allargamento dell’inchiesta giudiziaria, dato il rinvio a riconsiderare le eventuali responsabilità penali dei/delle testimoni della difesa che contiene, e che sembra prendere molto sul serio il giudizio già espresso da Boccassini sull’esistenza ad Arcore di un vero e proprio ”sistema prostitutivo”. Mentre i siti web di tutto il mondo battono la breaking new, mentre piovono le dichiarazioni di Fabrizio Cicchitto sulla fine dello Stato di diritto, di Daniela Santanché sulla sentenza ”vergognosa” di un processo che ”non si doveva nemmeno celebrare”, di Giuliano Ferrara sulla sinistra talebana, mentre l’avvocato Ghedini prova disperatamente ad aggrapparsi agli atti processuali, i commenti politici si spostano già tutti, a destra e a sinistra e al centro, sulle conseguenze della sentenza per il governo: reggeranno le larghe intese, non reggeranno? Berlusconi si metterà a fare l’agitatore extraparlamentale, o farà finta di niente aspettando il secondo e il terzo grado di giudizio? E Letta (Enrico), come gestirà l’incontro di domani sera con l’ex premier? E del Pdl che ne sarà, si compatterà sul suo monarca o si dissolverà? La politica ufficiale è fatta così, getta sempre il cuore oltre l’ostacolo. Svanisce il merito di una vicenda che solo tre anni fa aveva squarciato il velo sulla pasta di cui era fatto il regime di Berlusconi, costringendoci a riflettere non solo su di lui ma su di noi, sul consenso allucinato e complice che più di mezza Italia gli aveva garantito, sulle complicità incoffessabili col suo sistema di valori che l’altra metà aveva interiorizzato. Svanisce il merito di una vicenda tutta politica perché incentrata sul rapporto fra i sessi che è materia politica, una vicenda cominciata ben prima del caso Ruby con la denuncia di Veronica Lario, una vicenda che tuttavia la politica ufficiale, di centrodestra e di centrosinistra, ha preferito considerare materia privata finché, col caso Ruby, non è diventata materia penale, delegabile, per il centrosinistra, a un tribunale. La vera domanda non è sugli effetti politici di questa sentenza giudiziaria; è sulla capacità della politica di sconfiggere Berlusconi e il suo sistema di valori a prescindere dalle e prima delle sentenze giudiziarie. Fin qui non ne è stata capace: è una sentenza giudiziaria, non una sentenza politica, a interdire Berlusconi dai pubblici uffici. Il Pd, as usual, di fronte alla sentenza del Tribunale di Milano «prende atto e rispetta». Il governo delle larghe intese può andare avanti, salvo che sia Berlusconi a farlo saltare.

lunedì 24 giugno 2013

La Germania e l’euro: una partita ambigua

di Riccardo Achilli - bandierarossa -

Un giudizio costituzionale aggrovigliato

Mentre l’attenzione del Paese è, come al solito, distratta da pinzillacchere varie, come ad esempio il risultato rugbistico delle amministrative, o le beghe da telenovela (perché prive di analisi politica e caratterizzate da un elevato tasso di sceneggiata napoletana) dentro il M5S, altrove, cioè a Karlsruhe, Germania, si sta consumando qualcosa di importante. La Corte Costituzionale tedesca è infatti chiamata a decidere della costituzionalità della partecipazione tedesca all’Omt, il meccanismo di acquisto di titoli di Stato sul mercato secondario ideato da Mario Draghi per calmierare il galoppo dei rendimenti del debito pubblico dei PIIGS. Il nocciolo della questione giuridica è che un eventuale default della Bce, costretta ad acquistare titoli pubblici dei Paesi in difficoltà, difficilmente rivendibili sul mercato, costringerebbe la Germania a coprire una parte delle perdite, e ciò potrebbe, ipoteticamente, mettere sotto tensione l’obbligo costituzionale di pareggio del bilancio federale. E’ del tutto evidente che l’arzigogolata motivazione giuridica del ricorso contro l’Omt presso i giudici costituzionali tedeschi poggia su basi quantomeno precarie. Si chiede infatti alla Corte di giudicare su un’eventualità teorica, resa ancor più teorica dal fatto che l’Omt, in realtà, non è mai stato attivato, pur essendo stato annunciato, e non si conoscono nemmeno i dettagli di funzionamento di tale meccanismo. Ed anche se tale eventualità si realizzasse, non è detto che ciò condurrebbe ad un deficit di bilancio federale. Numerose soluzioni potrebbero essere ideate per fare fronte ad un teorico buco nel bilancio della Bce.

E’ quindi evidente che la questione è tutta politica. Ed è uno scontro politico, acuito dall’imminenza delle elezioni, in cui, da un lato, milita l’attuale maggioranza di centro-destra, in un certo senso “prigioniera” della sua fede europeista, dopo averla utilizzata, essenzialmente, per scaricare la crisi dei debiti sovrani sui Paesi debitori, preservando, fino ad ora, l’economia tedesca ed il suo sistema bancario dai relativi contraccolpi. Tale fede, infatti, non è stata spesa per promuovere una convergenza dell’area-euro verso i parametri tipici di un’area valutaria ottimale (o quantomeno sostenibile) visto che di questioni fondamentali come l’unificazione fiscale e politica, una maggior coordinazione delle legislazioni nazionali sul lavoro ed il welfare, l’espansione della domanda interna tedesca per riequilibrare gli scompensi delle bilance commerciali, non si è parlato mai, e persino sull’unione bancaria la Germania è ancora reticente, per timore che il suo sistema creditizio, largamente utilizzato per portare “fuori bilancio” ampie quote di debito pubblico federale, venga allineato alle ben più severe regole vigenti per i Paesi PIIGS. Il centrodestra tedesco sarebbe ben contento di sganciarsi dal suo connotato europeista, ora che parte del suo elettorato di riferimento è attratta dalle sirene antieuropeiste di Alternative für Deutschland. Ma per l’elettorato tedesco la coerenza è un valore, e la Merkel e Schaeuble sono costretti a vestire gli scomodi panni dei difensori di un programma di espansione monetaria come quello ideato da Draghi. Che peraltro, con la sua penosa (e fondamentalmente inutile) intervista ad una radio tedesca, per difendere il suo operato agli occhi dell’opinione pubblica germanica, rivela in modo solare come la presunta “indipendenza” della Bce valga solo per alcuni, e non per tutti i partecipanti al gioco.


Le “ragioni” dei conservatori tedeschi anti-euro

Sull’altro lato della barricata, si trova la destra antieuropeista tedesca, guidata dalla Bundesbank, che si fa portatrice del più egoistico concetto di interesse nazionale che mai si possa immaginare. Il ragionamento di questa destra è il seguente: “l’euro ci è servito per cancellare la possibilità delle svalutazioni competitive da parte delle economie mediterranee nostre concorrenti (in primis l’Italia) costringendole a un deflazione interna per recuperare competitività, esigenza che in fondo la crisi ha accelerato, e ciò ha portato, fondamentalmente, ad una destrutturazione del loro apparato produttivo ed a una crisi talmente profonda che per decenni non potranno più essere considerati nostri competitor. L’euro ha anche consentito al nostro sistema bancario/industriale, fortemente interconnesso da legami di controllo, di fare buoni affari con il debito pubblico dei Paesi PIIGS, negli anni precedenti alla crisi, alimentando una prosperità artificiosa che spesso ha creato mercato per le nostre stesse merci (tipico il caso greco, che con debito pubblico acquistato anche da banche tedesche, comprava armamenti germanici per il suo esercito).

Il nemico parla chiaro

di Sergio Cararo - contropiano - sinistrainrete -

Le Costituzioni nate dalla sconfitta delle dittature in Europa sono ormai considerate una palla al piede dai poteri forti. Loro parlano chiaro mentre l'ipocrisia è il linguaggio della sconfitta.

La brutta sensazione era nell'aria da un po' di tempo. Poi, come spesso accade, il messaggio arriva brutale ma netto. Un documento della banca d'affari JP Morgan dice chiaro e tondo quello che la classe dominante europea e il suo ceto politico-tecnocratico stanno facendo senza dirlo.

Le Costituzioni approvate in Italia, Spagna, Grecia, Portogallo dopo la caduta delle dittature militari e fasciste sono ormai un intralcio insopportabile per la tabella di marcia del capitale finanziario nei paesi europei Pigs. Nel linguaggio crudo dei banchieri “l'eccesso di democrazia” rende debole la governabilità e non predispone i sudditi al piegarsi ad una esistenza che non prevede diritti o garanzie. Non solo. Siccome l'austerità farà parte del panorama europeo ancora per un lungo periodo, i paesi aderenti all'Eurozona dovranno anche predisporsi affinchè non sia prevista la “licenza di protestare quando vengono proposte modifiche sgradite allo status quo”.

Un messaggio e un linguaggio brutale che devono suonare come un allarme rosso nella testa e nella coscienza di chi vive in condizione subalterna nei paesi europei, soprattutto nei Pigs.

Due sottolineature ci paiono d'obbligo.

La prima è che l'offensiva contro “l'eccesso di democrazia” non nasce oggi. Nasce anch'essa dentro una crisi, quella del '73, che suonò come l'inizio della grande crisi sistemica che si è manifestata con maggior durezza negli ultimi cinque anni. A muovere l'assalto fu la prima riunione della Commissione Trilaterale nel 1974, nata dalle esigenze del grande capitale multinazionale di dotarsi di un disegno di strategico di ri-subordinazione complessiva del lavoro e di una iniziativa globale contro l'esistenza dell'Urss e dei movimenti di liberazione nel terzo mondo.

La seconda è che chi vive e agisce nell'Unione Europea deve finalmente diventare consapevole che un blocco geopolitico ed economico creatosi intorno ad una unione monetaria è qualcosa di diverso e di peggiore di un “sovrastato”. Essa non prevede in alcun passaggio decisivo una procedura democratica. Si viaggia su dati “oggettivi” e se ne trasformano gli effetti in direttive che i singoli Stati aderenti – in ogni loro istituzione o istanza – non possono far altro che applicare. La ricerca del consenso è limitata all'indispensabile e l'autoritarismo ne conforma ogni relazione con i settori dissonanti.

Se questo è vero – e il documento della JP Morgan ce lo esplicita con chiarezza – i corpi intermedi tra poteri decisionali e consenso come i partiti, i sindacati etc. diventano baracconi non più indispensabili. I partiti devono somigliarsi, praticare gli stessi programmi, sostenere i medesimi concetti, essere intercambiabili e collaborare tra loro ogni volta che ciò sia necessario. I riti del pluralismo decantati dai dogmi liberali sono sostituiti da quello della governabilità. Due fazioni di un partito unico, una sfera politica divisa tra liberali di destra e liberali di sinistra deve conformare l'unico scenario politico ammesso. Come si lasciò scappare il “trilateralista” Mario Monti, le ali vanno dunque soppresse e i sindacati devono adeguarsi ad una funzione di complicità che consegna al passato anche ogni velleità di concertazione.

Uno scenario come questo potrebbe apparire come un incubo, ma somiglia maledettamente alla realtà che ci hanno predisposto davanti occultandola con l'integrazione europea prima, la governance poi, la competitività totale oggi. La “politica”, anche quella della sinistra radicale europea, ha continuato a vivacchiare, ad alimentare le illusioni e segnalare qui e lì le distorsioni del sistema (vedi ad esempio il congresso della Linke tedesca) ma rifiutandosi di capire che era “il sistema” stesso a produrre – o meglio – a riprodurre gli spiriti animali che lo spingono continuamente a maciullare tutto ciò che nel breve e brevissimo tempo non gli torna funzionale.

E' evidente che a fronte di questo non si possa che perseguire una ipotesi politica di rottura, di sottrazione dalla gabbia dei vincoli europei che trascinano nel baratro non solo l'economia, i salari, i diritti, le condizioni di vita di milioni di persone, ma che scuotono sempre più violentemente anche i residui formali di una epoca democratica nata dalla sconfitta delle dittature e che avevano promesso che “mai più sarebbe successo”.

Ma ora sta accadendo di nuovo e su scala molto più grande. Oggi Carandini su La Repubblica si chiede come mai a fronte di una disoccupazione di massa così ampia non ci siano rivolte sociali nell'Europa meridionale. E si risponde affermando – correttamente – perchè con la globalizzazione non si riesce più a individuare il responsabile né a trovare nei governi nazionali le risposte possibili a domande sociali sempre più disperate. Riteniamo che sia ancora possibile rendere reversibile il processo prima che si solidifichi in un “regime continentale. Ma occorre essere chiari su almeno due cose:

a) Il “nemico” c'è e va nominato pubblicamente, altrimenti nessun movimento popolare sarà in grado di unificarsi. Sono le banche, le imprese multinazionali e la struttura politico-economica di cui si sono dotate attraverso la costituzione dell'Unione Europea. Sono quelli che possono permettersi di arrivare in un territorio, fare i propri comodi e poi andarsene verso occasioni migliori di businness lasciando dietro di sé macerie, disoccupazione, immiserimento.

b) la dimensione “minima” di un movimento di massa all'altezza di questo nemico può e deve essere continentale o regionale. Niente di più piccolo può essere adeguato. Nessuna vertenza o lotta locale che non possieda questo “spirito europeo contro l'Unione Europea” può andare oltre il proprio naso.

Fermare la bestia che si agita nel ventre dell'Europa è ancora possibile... ma occorre rompere gli indugi e muoversi in fretta.

Dividiamoci il lavoro. Risposta a Lunghini

di Giovanni Mazzetti - sbilanciamoci - sinistrainrete -

Tra le intuizioni dei sostenitori del reddito di cittadinanza e le critiche di chi, come Giorgio Lunghini, pensa che quel reddito non risolva la questione dell’autonomia dei non occupati, rimane aperta una sola via: la redistribuzione del lavoro tra tutti, con la riduzione del tempo di lavoro ma senza decurtazioni di salario
Giorgio Lunghini nel suo “Reddito sì, ma da lavoro” ha sottolineato che la proposta del reddito di cittadinanza soffre di limiti intrinseci. Con le sue parole: “quel reddito è semplicemente l’eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi. Il palliativo rappresentato da un reddito di cittadinanza o di esistenza non risolve la questione dell’autonomia economica e politica dei non occupati, probabilmente ne aumenterebbe il numero, ne certificherebbe l’emarginazione, favorirebbe il voto di scambio e lascerebbe irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti. L’autonomia economica e politica presuppone un reddito da lavoro.”
Si tratta di un’argomentazione logicamente ineccepibile. Ma l’evoluzione della realtà sociale notoriamente non va di pari passo con la logica, visto il ricorrente sopravvenire di eventi contraddittori, cioè di fenomeni che impongono la ristrutturazione degli stessi presupposti del ragionamento e dell’azione. Può così accadere che la giusta critica alla proposta del reddito di cittadinanza venga articolata senza tener conto di alcuni degli elementi che hanno fondatamente spinto i sostenitori di quella strategia ad optare per quella soluzione, anche se poi quegli stessi elementi li hanno spinti a sbagliare nello svolgimento della soluzione del problema, ma non nella sua formulazione di partenza. Cerchiamo di vedere di che cosa si tratta.
Lunghini rappresenta il quadro dei rapporti sociali attuali con il seguente schema:
Questo schema, a mio avviso distorce il dato di fatto con il quale ci stiamo confrontando. Il quadro delle relazioni produttive – sia di quelle che riescono a procedere fisiologicamente, sia di quelle che incontrano ostacoli – mi sembra che sia piuttosto il seguente:
Perché è importante tener conto di questa articolazione più complessa della realtà? La tesi di Lunghini è condivisibile per la parte di strada che ci permette di percorrere, ma non ci consente di portare il problema della disoccupazione di massa odierno alla sua coerente risoluzione. La produzione capitalistica di merci – dice – si arresta nonostante ci siano molti bisogni insoddisfatti perché la loro soddisfazione non garantirebbe alle imprese un profitto. Questo meccanismo impone, così, all’attività produttiva una limitazione artificiale, visto che le risorse materiali per soddisfare quei bisogni esistono.

domenica 23 giugno 2013

Poco spazio in cella? Basta tenere aperta la porta

Lecce, il tribunale impone spazi umani

Si chiama “vigilanza dinamica”, è una soluzione “all’italiana” al problema del sovraffollamento
Evadere da quei 3 claustrofobici metri quadrati a disposizione e riguadagnare spazio e dignità sottratti. Non si tratta di un’azione illegale, ma di un diritto finalmente riconosciuto. È l’ordinanza 2013/1324, datata 16 maggio 2013, del Tribunale di sorveglianza di Lecce, che dispone il trasferimento di un detenuto nel carcere di Borgo San Nicola “in una cella adeguata alla normativa vigente”. Nulla di più e nulla di meno che nel rispetto della legge.
Eppure, è la prima volta che accade in Italia: un giudice ordina all’amministrazione penitenziaria di mettere a disposizione del detenuto le condizioni previste dai regolamenti. E lo fa con un’ordinanza che - secondo una recente sentenza della Corte costituzionale - ha effetto coercitivo. In buona sostanza, se l’amministrazione del carcere non dovesse eseguirla nell’immediato, commetterebbe un reato.
Il provvedimento, qualora divenisse esempio per altri detenuti e per altre realtà, potrebbe avere l’effetto di un macigno sulla situazione ormai disperata delle carceri italiane. Tassi di sovraffollamento altissimi e frequenti suicidi, infatti, hanno reso tristemente famosi in tutta Europa i penitenziari di casa nostra.
«Ma è da qui che bisogna ripartire», ha commentato l’avvocato Alessandro Stomeo, difensore del detenuto leccese. «La soluzione del problema non si trovava nel divieto di tortura o nell’articolo 27 della Costituzione. Esistono, molto semplicemente, delle norme interne: l’articolo 6 dell’ordinamento penitenziario e il decreto ministeriale del 5 luglio del 1975 prevedono delle misure minime per le strutture che ospitano il detenuto», osserva Stomeo.
Misure che, nella fattispecie, il carcere leccese non rispetta. La Asl di Lecce, incaricata dal magistrato di sorveglianza per controllare i requisiti della cella in questione, ha notificato che “la superficie pavimentata della cella è di 10,17 metri quadrati, che vi è sufficiente aeroilluminazione naturale, che all’interno della cella vi è un servizio igienico di 1 metro quadrato con lavabo, vaso e bidet con aerazione forzata al momento dell’accertamento malfunzionante; che la cella presenta chiazze di muffa in prossimità delle finestre, presumibilmente dovute ad infiltrazioni di acqua, che i letti sono a castello e l’ultimo è a 50 centimentri dal soffitto”.
Ogni cella del carcere di Lecce – nonostante il progetto ne prevedesse un uso individuale – ospita tre persone. Ogni individuo dispone di uno spazio calpestabile pari a circa 3 metri quadrati: se non una tortura, qualcosa di molto simile. Nella casa circondariale di Borgo San Nicola, attualmente, ci sono circa 1150 detenuti, ma dovrebbero essere solo 659. In linea con i numeri nazionali: il rapporto Antigone del 2012 parlava di un tasso di affollamento del 142,5%, a fronte del 99,6% della media europea.
E se svuotare le carceri in tempi brevi è pura utopia, quali potrebbero essere le soluzioni possibili? Escludendo la realizzazione di nuove strutture – operazione che contribuirebbe solo a ingrandire il problema – lasciare aperte le porte delle celle durante il giorno, permettendo così ai reclusi di usufruire anche dello spazio dei corridoi interni, rappresenta di fatto un escamotage. Tecnicamente, si chiama “vigilanza dinamica” e alcune sezioni detentive italiane la stanno già sperimentando. Tuttavia, anche questo sistema avrebbe i suoi rischi. Se così fosse, infatti, potrebbe insorgere la polizia penitenziaria, costretta già in molti casi a lavorare con un’organico ridotto e con misure di sicurezza al limite. Insomma, una questione complicata da risolvere; almeno nell’immediato.
L’Europa, d’altra parte, ci chiede trasparenza: dal settembre del 2012 il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa è in attesa dei dati dettagliati sul sovraffollamento dei penitenziari italiani. Lo stesso Comitato che, all’inizio del mese di giugno, ha preso in esame la prima condanna pronunciata nel 2009 contro l’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la violazione dei diritti dei detenuti. Strasburgo richiede concretezza: l’Italia ha un anno di tempo per presentare le contromisure al problema del sovraffollamento e, su questo piano, il provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Lecce sembra solo un valido motivo in più per decidere e per far presto.
Twitter: @AndreaGabellone


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Africom Go Home

     
Africom Go Home

- rifondazione -

Dichiarazione per il cinquantenario dell’unità Africana -
“Noi, capi di Stato e di Governo africani riuniti ad Addis Abeba-Etiopia; Convinti che i popoli abbiano il diritto inalienabile di decidere del proprio destino; Coscienti del fatto che la libertà, l’uguaglianza, la giustizia e la dignità siano obiettivi essenziali per la realizzazione delle legittime aspirazioni dei popoli africani; Sapendo che nostro dovere è di mettere le risorse naturali e umane del nostro continente al servizio del progresso generale dei nostri popoli in tutti gli ambiti dell’attività umana…”
Che cosa resta di questa carta redatta da Modibo Keita e Sylvanus Olympio e fatta propria da trentatré giovani paesi nel lontano 25 maggio 1963? La Carta poneva le basi dell’OUA (Organizzazione per l’unità africana) che non è riuscita a realizzare l’unità continentale. Cinquant’anni dopo l’Unione Africana ha sostituito l’OUA, ma l’Africa lotta ancora per la sua piena sovranità. Essa resta ingabbiata in una divisione internazionale del lavoro ingiusta, alimentata da un ordine imperialista che ostacola risolutamente il panafricanismo. Un recente rapporto francese della Difesa considera il Panafricanismo come una minaccia per gli interessi occidentali. (1)
In occasione del cinquantenario, noi cittadini Africani, Tedeschi internazionalisti esigiamo che siano definitivamente girate, in materia di ri-colonizzazione, le pagine del 19° e 20° secolo che ancora nessuno ha voltato. Nel 1885, a Berlino, il capitalismo creò, a scapito del Congo, il primo spazio di libero scambio che doveva permettere altri accordi coloniali che dividessero il continente. Nel 2013, è da Stoccarda che l’Africom vuole estendersi in Africa, mentre conflitti geopolitici, economici e geostrategici indeboliscono più che mai il continente. La Germania, che ha tanta esperienza di guerra, pure è abitata da cittadini che dissentono e sono solidali con le nostre posizioni antimilitariste. Noi tutte e tutti aspiriamo alla pace, alla sovranità e alla solidarietà.
Nella linea di una politica espansionista e aggressiva in Africa, il Comando Generale degli Stati uniti per l’Africa, Africom, varata dall’amministrazione di Bush jr, mira a proteggere la sicurezza nazionale degli Stati uniti, rafforzando le capacità di difesa degli Stati Africani contro minacce transnazionali, e a realizzare un ambiente favorevole ad uno sviluppo armonioso. (2) Cerca di stabilire una base sul Continente africano trasferendo l’Africom, che staziona dal 2008 a Stoccarda in Germania. Lì è anche acquartierato lo US Marine Forces Africa (MARFORAF), che coordina gli attacchi militari e le manovre sul Continente.
Questa prospettiva di una base dell’Africom in Africa, per il momento respinta dalla maggior parte dei paesi del continente, ne seduce pochi. Essa si impone nella forma del fatto compiuto, man mano che progredisce la strategia di indottrinamento, di accerchiamento e di diffusione nel continente, e si alimentano focolai di tensione. In effetti l’Africom, così come le disposizioni della NATO e talune iniziative unilaterali di qualche paese della NATO come la Francia (3) perseguono gli interessi esclusivi dei paesi occidentali e delle classi compradore locali. Essa mira solo a mettere in sicurezza, durevolmente e a loro esclusivo vantaggio, le nostre materie prime e il nostro spazio strategico di fronte agli appetiti delle Potenze emergenti del BRIC (Brasile, Russia, India e Cina) e la nostra stessa prospettiva di unità. Nessuno di questi paesi della NATO ha bisogno di una base militare cosi grande in Africa. Non solo infatti essi dispongono di molte basi e opportunità, ma già possono andare dove vogliono in tutto il Continente, in virtù di vari accordi bilaterali e degli altri accordi connessi. La maggior parte degli eserciti dei paesi africani sono stati cooptati dalle forze degli Stati imperialisti e dalle loro milizie private ed altre compagnie di sicurezza. Queste forze peraltro alimentano, direttamente o indirettamente, il pericolo terrorista che prospera sul terreno del sottosviluppo. Altrimenti, esse si ingegnano a frenare le conquiste democratiche, come in Africa del Nord, destabilizzando alcuni paesi o sostenendo, con l’aiuto dei paesi alleati del Medio Oriente, i regimi retrogradi.

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