Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 30 marzo 2013

Soluzione mediocre per Cipro, pessima per l'Europa

di Carlo D'Ippoliti - sbilanciamoci -
Una tempesta globale nata in un bicchier d'acqua: una crisi finanziaria che vale lo 0,1% del Pil europeo. Ecco cosa ci insegna l'improvvisazione europea su Cipro, e perché dobbiamo preoccuparcene
Poco tempo fa il presidente francese Hollande entrò in polemica con la Bce, sostenendo che un euro troppo forte danneggia la competitività delle economie europee, perché rende le nostre merci più costose per chi le acquista all’estero. Nel mezzo della crisi di Cipro, l’euro ha un po’ perso di valore per via dei timori sui mercati finanziari, quindi si potrebbe dire che la pessima gestione della crisi europea, fintanto che genera panico nei mercati, potrebbe essere un compromesso tra il desiderio tedesco di ridurre i debiti pubblici e quello francese di ridurre la quotazione dell’euro. Ahimè, così non è. La soluzione trovata per la crisi di Cipro è forse la migliore possibile per la piccola isola, sebbene raggiunta – come sempre in Europa – solo dopo aver tentato prima tutte le altre opzioni. Ma per l’Europa nel complesso, sono brutte notizie.
In sintesi, possiamo paragonare la crisi di Cipro a quella irlandese (ricordiamo che, di greco, i ciprioti hanno solo l’orgoglio): finanze pubbliche sane, un settore finanziario molto ‘competitivo’, fondato su bassissima tassazione e controlli ‘leggeri’, che hanno attirato un fiume di capitali dall’estero (nel caso di Cipro per buona parte sospettati di riciclaggio e/o evasione fiscale, ma lo stesso potremmo dire per il Lussemburgo, Liechtenstein e altri paesi europei). Le banche cipriote hanno investito questi capitali, che sono arrivati a valere un multiplo di 7-8 volte l’intera economia nazionale, nell’isola, soprattutto nel settore immobiliare, e all’estero, soprattutto in Grecia. Come sappiamo, non è un buon periodo né per il settore immobiliare né per la Grecia, e si era capito almeno dall’inizio del 2012 che il governo di Cipro non aveva le risorse necessarie per salvare banche-mostri grandi 7-8 volte l’intera economia dell’isola. Non si volle però prevenire la crisi perché Cipro nel secondo semestre 2012 aveva la presidenza di turno del Consiglio Ue, e sarebbe sembrato sconveniente che chiedesse aiuto.
Arriviamo ad oggi. Cipro ha bisogno di un prestito per salvare il suo settore bancario: una cifra irrisoria per l’Ue, viste le ridotte dimensioni dell’economia dell’isola (pari a circa l’1% del Pil italiano). Qual è il problema? L’Europa ha lanciato lo European Stability Mechanism, un fondo di salvataggio pensato per ricapitalizzare le banche e spezzare il circolo vizioso tra debito bancario e debiti pubblici. Il problema è che diversi paesi europei (in primis la Germania) non vogliono sia usato. Si decide che l’Europa (e forse il Fondo monetario internazionale) darà un prestito di circa di €10 miliardi al governo di Cipro, e gli altri circa 5, stimati come necessari per salvare le banche cipriote, devono venire dallo stesso sistema bancario di Cipro. Il problema è che il sistema bancario cipriota è un po’ strano: le banche emettono pochi titoli per finanziarsi, in particolare poche obbligazioni, e invece accettano depositi per somme inconsuete, molto alte (secondo alcune stime, circa il 45% dei depositi ciprioti supererebbe i 500.000€, e circa un altro 15% sarebbe tra i 100.000 e i 500.000€).
Quindi, per ottenere la somma di 5 miliardi i correntisti devono pagare parte del prezzo. La querelle, sembrerebbe, è stata tra il Consiglio Ue che voleva che a pagare fossero solo i depositi superiori ai 100.000€, perché sotto di ciò valgono diverse forme di assicurazione per i piccoli risparmiatori, e il governo di Cipro, che voleva difendere l’economia dell’isola come paradiso off-shore, e quindi non voleva punire troppo i grandi evasori investitori. L’accordo iniziale è stato di imporre una tassa del 6,75% sui depositi assicurati (un’imposta, proprio per aggirare il divieto formale di intaccare i piccoli risparmi) e una del 9,9% sui depositi sopra i 100.000€.

Se la Troika ascoltasse la Troika

 

- fonte -
Le analisi di Fmi e Bce confermano che la crisi non è legata a eccessi di spesa pubblica e welfare. Perché le ricette di politica economica continuano ad andare nella direzione opposta?
L'Europa si divide in due. Da un lato i Paesi del Sud. Le cicale. Fannulloni e pigri, non lavorano e hanno una bassa produttività, spendono troppo per welfare e stato sociale. Sono loro i responsabili della crisi e ora devono stringere la cinghia e accettare giusti e inevitabili sacrifici. Dall'altra i Paesi dell'Europa del Nord, riuniti attorno alla Germania. Le formiche. Seri, lavoratori, rispettano i parametri europei e sono un esempio di virtù.
Una conferma arriva lo scorso 14 marzo, quando il presidente della Bce Mario Draghi presenta alcuni dati ai capi di Stato e di governo della zona euro [1]. Tra il 2000 e il 2012, nei Paesi dell'Europa del Nord, grosso modo produttività e salari crescono di pari passo. Uno sviluppo armonioso dell'insieme della società. Ben diversa è la situazione dell'Europa del Sud: i salari crescono molto più rapidamente della produttività, frenando la crescita e mettendo in crisi le nazioni periferiche e l'intera Europa.
Il problema di questo ragionamento è in una piccolissima svista, segnalata sul Guardian nei giorni scorsi.[2] Nei grafici presentati dalla Bce, la produttività viene espressa in termini reali, mentre i salari sono indicati in termini nominali. In altre parole, la prima serie di dati tiene conto dell'inflazione, la seconda no. Sarebbe come dire che 50 anni fa il pane costava 1 lira al kg e gli stipendi erano di 500 lire. Oggi gli stipendi sono di 1.000 euro, quindi si può comprare molto più pane. “Dimenticandosi” di segnalare che il pane nel 2013 non costa 1 lira al kg.
Se si prendono dati omogenei, le cose cambiano. Parecchio. Anche considerando un'inflazione al'1,9% annuo (obiettivo fissato dalle stesse istituzioni europee), tra il 2000 e il 2012 occorre tenere conto di un fattore correttivo intorno al 28%. Tenuto conto che l'inflazione, in particolare nei Paesi del Sud Europa, è stata in media molto superiore, la correzione da apportare è ancora maggiore. Se consideriamo produttività e salari o entrambi al netto dell'inflazione o entrambi con l'effetto dell'inflazione, scopriamo che in molti Paesi del Sud salari e produttività vanno di pari passo, mentre è in quelli del Nord, Germania in testa, che la forbice si allarga sempre di più, ma a discapito delle retribuzioni dei lavoratori.
In altre parole, non c'è nessun eccesso di Stato sociale, nessun diritto dei lavoratori da rimettere in discussione, nessun sacrificio da chiedere a chi ha già pagato un caro prezzo per una crisi nella quale non ha alcuna responsabilità. E' dall'altra parte, nel Nord Europa, che alcune nazioni hanno sistematicamente violato gli impegni europei, hanno intrapreso una aggressiva politica di svalutazione salariale, e hanno improntato i rapporti nell'UE a una competizione sfrenata sulla pelle dei lavoratori, in barba ai proclami di collaborazione e alla stessa idea di “unione” europea.
Con questi dati, corretti della piccola “svista” sull'inflazione, la Bce di fatto conferma quali siano le responsabilità della crisi. Come, prima di tutto, i mostruosi debiti creati dalla finanza speculativa siano stati trasferiti agli Stati, poi da questi ai cittadini. Oggi non c'è nessun altro su cui scaricarli. Siamo rimasti con il cerino in mano e dobbiamo pagare il conto. Ed è un conto estremamente salato proprio in termini di tagli al welfare e allo Stato sociale, disoccupazione, precarietà e rimessa in discussione di diritti dati per acquisiti. Ma per non farci protestare troppo ci sentiamo ripetere quotidianamente che è pure colpa nostra. E che dobbiamo stringere la cinghia per “restituire fiducia ai mercati”.
Ricordiamo che l'Fmi, nei suoi ultimi studi, riconosce che le politiche di austerità in una fase di recessione non fanno altro che aggravare i problemi. Diminuisce la spesa pubblica, quindi il Pil, e molto spesso questo calo non è compensato da una analoga diminuzione del debito pubblico. Il risultato, oltre a una devastazione sociale, è un peggioramento proprio di quel rapporto debito/Pil che si pretende di diminuire.[3]
Da un lato, quindi, la Troika continua a imporre piani di austerità e sacrifici a mezza Europa. Dall'altro, la stessa Troika ci mostra, dati alla mano, che le cause sono altre e che comunque le soluzioni sono inutili e nocive. L'unica speranza è che i burocrati europei, se non alle molteplici analisi che provengono da un numero sempre crescente di economisti, comincino a dare retta almeno a loro stessi.

[1] Mario Draghi - “Euro Area Economic Situation and the Foundation For Growth” - Studio presentato all'euro summit il 14 marzo 2013
[2] Andrew Watt - “Is Europe's central bank misleading us over who's to blame for eurozone crisis?” - The Guardian, 27 marzo 2013.
[3] Sbilanciamoci.info - “Austerità, Blanchard fa autocritica” www.sbilanciamoci.info/Sezioni/capitali/Austerita-Blanchard-fa-l-autocritica-16308

La politica come può essere

- sbilanciamoci -

I nomi dei deputati e senatori che sostengono le richieste della Campagna Sbilanciamoci!, per cambiare rotta. Un impegno preciso su cose che si possono fare: una politica di bilancio non ammazzata dall'austerity, una politica sociale per l'eguaglianza, una politica industriale per lo sviluppo sostenibile...Ecco chi ci sta. Con molte conferme e qualche sorpresa

Alla vigilia del voto, la campagna Sbilanciamoci! aveva invitato i candidati a sottoscrivere un'agenda di cambiamento: all'appello "Io mi sbilancio!" avevano risposto in 118. Dopo il voto, abbiamo riaperto l'agenda, verificando chi ci sta, stavolta tra le elette e gli eletti. Ecco le prime adesioni (c'è tempo fino al 5 aprile, legislatura permettendo...)
La nuova legislatura può rappresentare un punto di svolta e di discontinuità rispetto alle politiche neoliberiste di austerity che hanno impoverito il paese e lo hanno fatto sprofondare nella recessione. Queste politiche hanno accentuato le disuguaglianze, aumentato la disoccupazione, indebolito il welfare, reso più precario il lavoro, messo in difficoltà le imprese.
Non è “l’Europa che ce lo chiede”: non occorre “restituire fiducia ai mercati”, politiche economiche alternative sono possibili. Da anni la campagna Sbilanciamoci! presenta il proprio rapporto per “usare la spesa pubblica per i diritti, l’ambiente, la pace”. Il XIV rapporto è stato presentato a fine novembre del 2012 e contiene 94 proposte che, numeri alla mano, dimostrano che una differente legge di stabilità permetterebbe di investire nel rilancio dell’economia, in un nuovo modello di sviluppo ambientalmente sostenibile, in una redistribuzione della ricchezza e in una maggiore giustizia sociale.
Solo per fare alcuni esempi, se tagliassimo i crescenti contributi alla scuola privata, ci sarebbero maggiori risorse per quella pubblica. Senza educazione, ricerca ed alta formazione il paese non ha un futuro, servono investimenti pubblici nella qualificazione dell’offerta formativa, nel diritto allo studio, nell’edilizia scolastica e universitaria, nella ricerca. Se abbandonassimo la follia delle “grandi opere”, a partire dalla realizzazione dell’alta velocità in Val Susa, ci sarebbero le risorse per le “piccole opere” di cui ha bisogno il Paese, dalla mobilità sostenibile alla lotta contro il dissesto idrogeologico. Se rinunciassimo all’acquisto dei cacciabombardieri F35 e tagliassimo le spese militari del 20%, ci sarebbero le risorse per il welfare, per la cooperazione internazionale e per il Servizio Civile Nazionale e ne avanzerebbero anche per ridurre il debito pubblico. La politica estera del nostro Paese non può fondarsi sulle missioni militari all’estero, ma sulla cooperazione internazionale e la solidarietà. Una politica fiscale all’insegna di una maggiore progressività, consentirebbe una redistribuzione più equa della ricchezza. E via discorrendo.
Dall’ambiente alla sanità, dall’istruzione alle politiche di accoglienza dei migranti, dal contrasto alla corruzione alla lotta all’evasione e all’elusione fiscale, è in questa direzione che occorre impostare le future scelte di politica economica.
Siamo immersi in una crisi finanziaria, economica, sociale, ambientale, di democrazia. Per uscirne, il primo passo deve però essere culturale. Bisogna capovolgere un paradigma – quello del neoliberismo – costruendone un altro: quello di un’economia fondata sui beni comuni, la sostenibilità ambientale e sociale, l’uguaglianza e i diritti.
Noi eletti vogliamo realizzare un “cambio di rotta”.
Condividiamo le proposte della campagna Sbilanciamoci!
Ci impegniamo a portarle avanti, se saremo eletti, nella nostra azione in Parlamento.
Ci impegniamo a costituire un gruppo di lavoro e di confronto con le organizzazioni della campagna Sbilanciamoci! per portare nelle istituzioni, a cominciare dal Parlamento, anche sotto forma di proposte di legge, i contenuti della Campagna per costruire insieme un diverso modello economico, sociale e ambientale.
Un’altra Italia è possibile. Un’Italia dalla parte dell’ambiente e della pace, dei diritti e della cittadinanza, della scuola e del welfare, della solidarietà e di un’economia diversa. Proviamo a costruirla insieme!
Hanno aderito (al 26 marzo 2013)
Giorgio Airaudo, deputato Sel
Pierpaolo Baretta, deputato Pd
Paolo Beni, deputato Pd
Laura Boldrini, presidente della Camera
Luisa Bossa, deputato Pd
Celeste Costantino, deputato Sel
Kashetu Cécile Kyenge , deputato Pd
Khalid Chaouki, deputato Pd
Florian Kronbichler, deputato Sel
Federica Daga, deputato M5S
Loredana De Petris, senatore Sel
Donatella Duranti, deputato Sel
Filippo Fossati, deputato Pd
Marialuisa Gnecchi, deputato Pd
Marianna Madia, deputato Pd
Giulio Marcon, deputato Sel
Generoso Melilla, deputato Sel
Marisa Nicchi, deputato Sel
Giovanni Paglia, deputato Sel
Serena Pellegrino, camera Sel
Ileana Piazzoni, deputato Sel
Stefania Pezzopane, senatore Pd
Nazzareno Pilozzi, deputato Sel
Laura Puppato, senatore Pd
Stefano Quaranta, deputato Sel
Lara Ricciatti, deputato Sel
Massimiliano Smeriglio, camera Sel
Le adesioni possono essere inviate a info@sbilanciamoci.org

Decrescita felice e Chiesa povera

Decrescita felice e Chiesa povera

Un perfetto ossimoro
- connessioni -
Frutto marcio del binomio Latouche-Francesco I




Il tempo passa, ma l’orizzonte economico è sempre cupo. Peggio. Le tensioni sociali crescono e in molte aree del mondo sono sfociate in guerre, più o meno civili. Non è uno scenario rassicurante. Soprattutto perché dimostra che il modo di produzione capitalista non funziona così bene come ci dicevano pochi anni fa. Inevitabilmente, sorgono proposte alternative, che prospettano un diverso modo di produzione. E ce ne per tutti i gusti. Le varie proposte, pur riflettendo situazioni assai differenti, e spesso contrastanti, cercano di conciliarsi tra loro, proponendo soluzioni compatibili con il sistema complessivo, ovvero con il modo di produzione capitalistico. Pur criticandolo aspramente. O meglio criticandone aspramente le presunte distorsioni, che invece sono consustanziali al sistema.

Sperequazione dilagante

Orbene, già da alcuni anni si assiste a una polarizzazione della ricchezza, da cui la crescente sperequazione sociale (il cosiddetto Coefficiente di Gini), che la crisi ha stimolato. Per inciso, questa tendenza non fa altro che confermare la tesi marxista sulla miseria crescente. Più volte contestata dagli apologeti del capitalismo, sempre confermata dai fatti. A questo proposito si veda: Antonio Pagliarone, La polarizzazione delle società industriali avanzate ovvero la de-integrazione (www.countdowninfo.net/); Aa. Vv., La legge della miseria crescente, «N+1», n. 20, dicembre 2006 (www.quinterna.org/pubblicazioni/rivista/20/rivista_20_completa.p/).

Non ci vuole un particolare acume sociologico, per capire che gli effetti della sperequazione hanno conseguenze differenti in un Paese di vecchia industrializzazione (area Ocse) come l’Italia rispetto a un Paese cosiddetto in via di sviluppo come il Perù. Le differenze comportano anche una differente percezione della povertà: nell’immaginario collettivo italiano la povertà è rimossa; in quello peruviano è incombente.

A questo proposito, faccio un paragone tra le condizioni economiche dei due Paesi, considerando: Pil pro capite, Coefficiente di Gini, Tasso di disoccupazione, Popolazione sotto il livello di povertà. Resta esclusa la cosiddetta «qualità della vita», su cui ci sarebbe troppo da disquisire, ma da tener comunque presente.

Ho scelto il Perù come termine di confronto poiché è un Paese in via di sviluppo dell’America Latina, continente che, a differenza di Africa e Asia, non è sconvolto da traumi bellici (guerrilla a parte). Inoltre, il Perù, a differenza di altri Paesi latini, non è stato soggetto a particolari «turbative» di carattere economico e politico, come il Venezuela di Chavez o il Brasile di Lula. Ovvero, il Perù riflette nel bene e nel male una situazione simile a quella di altri Paesi del Terzo Mondo. Infine è un Paese cattolico.

venerdì 29 marzo 2013

La sostenibilità è il nuovo paradigma

 
- Guido Viale - ilmanifesto -
L'esito delle elezioni ha creato una irreversibile instabilità del sistema politico italiano, ma sta anche facendo prendere coscienza a molti che siamo ormai alla vigilia di un "cambio di paradigma". Il sistema politico che ha retto le sorti del Paese negli ultimi vent'anni, ma soprattutto l'assetto economico che lo ha forgiato e foraggiato, non reggono più. Il successo di Grillo non ne è che un segnale.
Questo assetto, espressione e referente del cosiddetto "pensiero unico", è il combinato disposto di vari fattori.
Globalizzazione, delocalizzazione delle produzioni, precarizzazione del lavoro, diseguaglianze crescenti, finanziarizzazione del comando capitalistico, debito pubblico e privato come strumento di imbrigliamento della società, della politica e del lavoro, guerre, crisi e insicurezza come condizione umana permanente. È il paradigma che si è andato affermando nell'ultimo quarto del secolo scorso a spese di quello che era stato in vigore prima, nei cosiddetti "trent'anni gloriosi" (1945-75) senza che per molto tempo quel passaggio venisse avvertito in tutta la sua portata. Perché fino a quarant'anni fa i meccanismi portanti dell'accumulazione del capitale erano stati il mito dello sviluppo economico (sia nei paesi già "sviluppati" che in quelli "in via di sviluppo") e la crescita di salari, consumi e welfare: una sintesi di fordismo e politiche keynesiane governata con la continua espansione della spesa pubblica e l'intervento dello Stato nell'economia. Anche quel paradigma aveva comunque concluso il suo corso perché non reggeva più: a metterlo alle strette erano state le aspettative di uguaglianza, di autonomia, di democrazia, di libertà delle nuove generazioni (non a caso si era parlato allora addirittura dei "giovani come classe"): i movimenti studenteschi del '68, la rivolta antimilitarista contro la guerra in Vietnam, la discesa in campo, in molti paesi, di una classe operaia giovane, spesso immigrata, ancora in gran parte concentrata in grandi stabilimenti industriali; e poi, al loro seguito, una pletora di "categorie" sociali - dai ricercatori ai giornalisti e agli insegnanti, dai poliziotti ai magistrati, dai disoccupati "organizzati" ai baraccati - che aveva messo in moto, senza portarla a termine, quella «lunga marcia attraverso le istituzioni» preconizzata da Rudi Dutschke.
Adesso un nuovo cambio di paradigma, e ben più radicale e traumatico, è di nuovo all'ordine del giorno; non è ancora il contenuto esplicito di un conflitto aperto, ma cova sotto traccia da parecchi anni. C'è chi sostiene che la soluzione alla crisi in corso sia il ritorno al paradigma di un tempo: più Stato e meno mercato, più spesa pubblica per rilanciare redditi e consumi, più Grandi Opere e incentivi alle imprese per creare occupazione. Ma bastano ricette del genere per far fronte alla crisi?
No. Le condizioni che presiedevano al modello dei "trenta gloriosi" non ci sono più. Il mondo si è "globalizzato": lo hanno reso tale non solo la "libera circolazione" dei capitali (che certamente va bloccata) e l'enorme viavai di merci generato da una divisione del lavoro estesa su scala planetaria (che va drasticamente ridotto). Ma anche internet - una grande risorsa per tutti - la diffusione dell'istruzione, e l'accesso all'informazione, in tutti i paesi e i giganteschi flussi migratori che attraversano il mondo intero, che sono invece fenomeni irreversibili. Tuttavia l'orizzonte esistenziale della nostra epoca è ormai occupato - la si voglia vedere o no - dalla crisi ambientale che incombe tanto su tutto il pianeta quanto, in forme specifiche e differenti, su ogni sua singola porzione. Crescita e sviluppo - pur con tutte le qualificazioni del caso - sono ormai ritornelli ricorrenti ma privi di senso perché la crisi ambientale sbarra la strada a ogni espansione economica che non sia anche e soprattutto devastazione.

I peccati di una sinistra né radicale né popolare

      - fonte - di Enrico Grazzini -
La sinistra radicale si mangia il fegato dall’invidia: tutto quello che non è riuscita a fare dal ’68 in poi, in 45 anni di vita, è riuscito invece a fare Beppe Grillo in solo quattro o cinque anni. Grillo ha costruito un partito-movimento radicale con 8,7 milioni di voti, è riuscito a prendere voti sia da destra, rubandoli a Berlusconi e alla Lega, che a sinistra, togliendoli a Bersani, Renzi, D’Alema, Vendola e Ingroia. Soprattutto è riuscito a raccogliere milioni di voti popolari di protesta causati da una crisi sconvolgente per la quale due famiglie su tre guadagnano meno di quanto devono spendere per vivere.
Premetto che non ho votato per Grillo e che non mi piace ubbidire agli ordini di un capo assoluto. Ritengo che sia irresponsabile e drammatico il cieco rifiuto dei neo-eletti grillini a votare un governo con un programma di svolta come quello che – finalmente, in maniera un po’ trasformista ma molto pragmatica – ha proposto Bersani. Bersani rappresenta la “vecchia politica” ma ha (o aveva visto l’esito sospeso dell’incarico) un buon programma per tentare di uscire dalla crisi profonda e per battere Berlusconi e le prospettive devastanti del governissimo Berlusconi, Renzi, Monti.
Non c’è quindi simpatia pregiudiziale per Grillo: ma la sinistra alternativa deve cominciare a riconoscere la realtà e i suoi peccati mortali. Il Movimento 5 Stelle è il primo partito della classe operaia, dei disoccupati e dei “ceti medi riflessivi”. La mia interpretazione è che il movimento grillino rappresenti il nuovo partito, ancora contraddittorio, dei “lavoratori della conoscenza”: infatti è fortissimo tra i laureati, i diplomati, gli studenti, le partite Iva e chi usa Internet. Comunque è già un partito nazionale, votato al nord, al sud e nel centro Italia del “popolo rosso”. Un capolavoro che la sinistra neppure si immagina. Grillo è un demagogo? Sì, però ci insegna molte cose che la sinistra radicale, uscita tramortita dalle elezioni, non vuole imparare. Il primo insegnamento è che molto spesso per ottenere degli obiettivi non occorre andare al governo ma bisogna fare una buona opposizione. Grillo dall’opposizione è già riuscito (indirettamente) a far eleggere come presidenti di Camera e Senato due degne persone, Laura Boldrini e Piero Grasso, che altrimenti non sarebbero mai stati eletti in quei posti. I tre punti principali del programma di Grillo, reddito di cittadinanza, finanziamenti per le piccole medie aziende, legge anti-corruzione sono chiari e condivisibili da milioni di persone, e per la prima volta il moderato partito democratico – che aveva già votato il fiscal compact e l’austerità antipopolare di Monti – ha dovuto mettere i punti programmatici di Grillo (quasi) al centro della sua agenda. Nonostante che perfino Susanna Camusso sia contro il reddito di cittadinanza. Con l’elezione dei grillini diventa finalmente probabile il blocco della Tav.

Lettera a Laura Boldrini: «Il Parlamento discuta dei problemi del Paese, indica seduta sulla povertà e i gruppi dicano che vogliono fare»

Fonte: paoloferrero.it
        
Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista, ha inviato oggi una lettera alla Presidente della Camera Laura Boldrini, per chiedere che il Parlamento discuta «dei problemi reali del Paese». Ferrero ha proposto di «indire una seduta della Camera sulla povertà in Italia, chiamando il governo in carica a riferire su quanto fatto e i gruppi parlamentari ad esprimersi avanzando le loro proposte, al fine di assumere provvedimenti urgenti in materia».
Di seguito il testo completo della lettera inviata da Paolo Ferrero a Laura Boldrini.
Carissima Presidente della Camera dei Deputati,
Le scrivo perché indignato dal fatto che ad oltre un mese dalle elezioni, il mondo politico – “nuovi” e “vecchi”, nessuno escluso – discute di tutto salvo che dei problemi reali del paese. Questi sembrano magicamente scomparsi. Le propongo quindi di indire una seduta della Camera dei Deputati sulla povertà in Italia, chiamando il governo in carica a riferire su quanto fatto e i gruppi parlamentari ad esprimersi avanzando le loro proposte. È infatti evidente che la situazione delle famiglie italiane è in continuo peggioramento e sono oramai milioni le persone che sopravvivono in condizioni indecenti per un paese civile. La nostra Carta Costituzionale che Lei ha opportunamente valorizzato nel suo discorso di insediamento dice parole chiare riguardo alla responsabilità dello Stato italiano di: «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Un dibattito parlamentare sulla povertà, finalizzato all’assunzione di indicazioni precise per il governo in carica, costituirebbe quindi un modo degno per rispondere alla richiesta di cambiamento che è venuta dalle urne ma che rimane – mi pare – ad oggi completamente inascoltata. Sarebbe un modo per mettere con i piedi per terra la discussione sulla formazione del governo che altrimenti si caratterizza come puro gioco politico. Nel cogliere l’occasione per farLe – a nome mio e di Rifondazione Comunista – le felicitazioni per la Sua elezione a Presidente della Camera e i migliori auguri per un positivo lavoro,
Le rivolgo un caro saluto,
Paolo Ferrero

giovedì 28 marzo 2013

Eurozona, appello contro la tenaglia del “two-pack”

 

- micromega -
Il 12 marzo il Parlamento europeo riunito a Strasburgo ha votato a maggioranza il cd. Two-Pack, ovvero due Regolamenti che, dopo le ulteriori fasi di approvazione, entreranno automaticamente in vigore in modo vincolante per i paesi dell'Eurozona. In sostanza i due Regolamenti estendono a tutto l'arco dell'anno il controllo da parte della Commissione europea, con poteri stringenti, sulla legge di stabilità (la ex legge finanziaria) dei singoli paesi. Così da valutare preventivamente la sua congruità rispetto alle linee di politica economica adottate a Bruxelles.

I singoli stati sono così obbligati a formulare le proposte di legge di stabilità e a inviarle in sede europea entro il 15 ottobre di ogni anno per ottenere il via libera. Qualora si riscontrassero delle divergenze, i paesi membri sono tenuti a modificare le loro proposte di legge secondo le indicazioni fornite dalla Commissione Europea.
Siamo di fronte ad un'altra grave perdita di sovranità nazionale, del potere dei parlamenti e di lesione alla democrazia dei singoli paesi su quella che da sempre è ritenuta la legge fondamentale di uno stato, cioè la legge di bilancio.

La Commissione europea, organo non elettivo, diventa il luogo di valutazione delle leggi di stabilità nazionale e ha il potere di esigere modificazioni.
Siamo quindi ad un nuovo giro di vite, dopo l'approvazione del fiscal compact, nel sistema di governance europea, sempre più a-democratico e lontano dalle esigenze dei cittadini.

Nella prossima riunione del Consiglio ECOFIN, che può anche essere imminente, anticipando quella già fissata per il 14 maggio, il TWO-PACK potrebbe essere ratificato definitivamente anche senza ulteriore discussione, a meno che questa non venga esplicitamente richiesta da uno degli stati membri della Ue.

Per queste ragioni facciamo appello ai singoli parlamentari e alle forze politiche, affinché venga subito promosso un dibattito nelle aule parlamentari per decidere l'atteggiamento che il nuovo governo dovrà tenere nelle sedi Ue su questa questione che mortifica ulteriormente i poteri delle istituzioni democratiche ed elettive in materia di bilancio.

Chiediamo che il governo che si formerà sollevi il problema nella prossima riunione del Consiglio ECOFIN (o in qualsiasi altra formazione del Consiglio chiamata a ratificare l'accordo raggiunto con il Parlamento europeo sui due regolamenti) ed esprima un parere contrario al TWO-PACK.

Luciano Gallino, Bruno Amoroso, Fulvia Bandoli, Andrea Baranes, Marco Bersani, Fausto Bertinotti, Raffaella Bolini, Aldo Bonomi, Alberto Burgio, Andrea Di Stefano, Gianni Ferrara, Francesco Garibaldo, Alfonso Gianni, Roberto Musacchio, Marco Revelli, Gianni Rinaldini, Umberto Romagnoli, Mario Sai, Patrizia Sentinelli, Massimo Torelli, Guido Viale
Le ulteriori adesioni possono essere inviate a cercareancora2010@gmail.com

(28 marzo 2013)

martedì 26 marzo 2013

La pedina cipriota

«Sotto i nostri occhi», cronaca di politica internazionale n°31.
sottonsocchi31di Thierry Meyssan. - megachip -
Washington è stata pronta a usare la crisi finanziaria cipriota per attuare la strategia di acquisizione di capitali che ho descritto tre settimane fa su queste colonne (1). Con l’aiuto della direttrice del Fondo monetario internazionale, la statunitense Christine Lagarde, ha rimesso in causa l’inviolabilità della proprietà privata nell’Unione europea e ha tentato di confiscare un decimo dei depositi bancari, in apparenza per salvare la banca nazionale cipriota colpita dalla crisi greca. Va da sé che la finalità annunciata è solo un pretesto, poiché, lungi dal risolvere il problema, questa confisca - se dovesse essere attuata – non farebbe altro che peggiorarlo. Una volta minacciati, i capitali rimanenti fuggirebbero dall’isola provocando il crollo della sua economia.
L’unica vera soluzione sarebbe quella di cancellare i debiti anticipando il fatturato dello sfruttamento del gas cipriota. Sarebbe d’altronde più logico che il gas a buon mercato rilanciasse l’economia dell’Unione europea. Ma Washington ha deciso diversamente. Gli europei sono invitati a continuare a procurarsi la loro energia a prezzi elevati nel Vicino Oriente, mentre il gas a buon mercato è riservato ad alimentare l’economia israeliana.
Per nascondere il ruolo decisionale di Washington, questa rapina in banca non è presentata come un’esigenza del FMI, bensì di una troika che include anche l’UE e la BCE. In questa prospettiva, la confisca sostituirebbe una svalutazione resa impossibile a causa dell’appartenenza alla zona euro. Solo che qui la svalutazione non sarebbe una politica di Nicosia, ma un diktat del padrone della BCE, Mario Draghi, l’ex direttore europeo della banca Goldman Sachs, che è appunto il principale creditore di Cipro.
La signora Lagarde, ex consulente legale del complesso militare-industriale USA, non sta cercando di danneggiare Cipro, bensì di mettere in allarme i capitali basati in Europa per poi pilotarli fino a Wall Street affinché rilancino la finanza USA.
prelievoPerché mai prendersela con quest’isola? Perché è uno dei pochi paradisi fiscali rimasti in seno all’Unione europea e perché i depositi presenti sono principalmente russi. Perché farlo ora? Perché i ciprioti hanno commesso l’errore di eleggere come nuovo presidente lo statunitense Nikos Anastasiades. Essi hanno così ripercorso gli stessi passi dei greci che, vittime dello stesso miraggio americano, avevano eletto come primo ministro lo statunitense Georgios Papandreou.
Questa bassa cucina non ha comunque funzionato. Il Parlamento cipriota ha respinto all’unanimità dei voti espressi la tassazione che confisca i depositi bancari. C’è qui un apparente paradosso. Il governo liberale vuole nazionalizzare un decimo dei capitali, mentre il Parlamento comunista difende la proprietà privata. Il fatto è che la nazionalizzazione non si farebbe a favore della comunità nazionale, bensì della finanza internazionale.
I consigli amichevoli hanno dunque lasciato il posto alle minacce. Si parla di escludere Cipro dalla zona euro, se i rappresentanti del suo popolo persistono nel loro rifiuto. Tuttavia, questo risulta difficilmente possibile. I trattati sono stati concepiti in modo che la zona euro sia un viaggio senza ritorno. Non è possibile lasciarla da soli, né esserne esclusi, a meno che non si lasci l’Unione europea.
Tuttavia questa opzione, che non era stata considerata da quelli che raccolgono il pizzo, è temuta da Washington. Se l’isola fuoriuscisse dall’Unione, verrebbe acquistata con appena una decina di miliardi di dollari da Mosca. Si tratterebbe di un pessimo esempio: uno Stato della zona di influenza occidentale che entrerebbe nella sfera di influenza russa, in un cammino inverso rispetto a tutto quel che abbiamo visto dopo la caduta dell’URSS. Sarebbe sicuramente seguito dagli altri Stati balcanici, a partire dalla Grecia.
Per Washington, questo scenario catastrofico deve essere evitato a tutti i costi. Pochi mesi fa, al Dipartimento di Stato fu sufficiente aggrottare le sopracciglia per far sì che Atene rinunciasse a vendere il suo settore energetico a Mosca. Questa volta, tutti i mezzi, anche i più anti-democratici, saranno usati contro i ciprioti se resistono.
La Russia finge di non essere interessata. Vladimir Putin ha trascurato le offerte vantaggiose di investimento che sono state fatte dal governo Anastasiades. Il fatto è che non ha intenzione di salvare gli oligarchi russi che avevano nascosto i loro capitali nell’isola, né l’Unione europea, che li aveva aiutati a organizzare la loro evasione fiscale. Dietro le quinte, ha negoziato un accordo segreto con Angela Merkel che dovrebbe consentire una soluzione finanziaria alla crisi, ma dovrebbe anche sfociare in una vasta rimessa in causa delle regole europee. Per inciso, lo Zar ha raccolto delle informazioni sorprendenti in merito agli investimenti russi nell’isola durante l’epoca Medvedev, informazioni che potrebbero essere utilizzate come mezzo di pressione sul suo inconsistente primo ministro.
(1) "La NATO economica, soluzione USA alla crisi" 3 marzo 2013.

Che fare dell'Euro?

di Mimmo Porcaro - controlacrisi -

Quasi un’introduzione

Il compito che oggi sta di fronte a quel che resta della sinistra italiana è dei più difficili. La situazione è chiara, per chi sappia guardarla: ma per affrontarla è necessaria, dopo tante piccole innovazioni più predicate che praticate, una netta e dolorosa rottura con l’europeismo dogmatico che da troppo tempo ci accompagna. E’ chiaro infatti che ogni libera espressione elettorale della volontà degli elettori sudeuropei rende inattuabile il patto che ha consentito finora la sopravvivenza dell’euro, perché impedisce di fatto la tranquilla attuazione delle restrizioni previste dal Fiscal Compact, anche in eventuale versione light. E’ chiaro quindi che l’euro, come moneta che unisce nord e sud Europa, è ormai irreversibilmente finito, perché anche se restasse in vita ciò avverrebbe contro il volere di una massa crescente di cittadini europei. Ma è altrettanto chiaro che la sinistra italiana e continentale non è capace di un pensiero che sia all’altezza della situazione, perché non è capace di prendere atto della fine della globalizzazione e del riemergere degli stati nazionali (o meglio degli stati nazionali più forti) come attori principali della politica. Non è capace di capire che l’Europa è ancora fatta di nazioni, che le nazioni più forti dettano la direzione di marcia e che, anche a causa della persistente crisi economica, questa marcia conduce ad un gioco in cui il nord vince ed il sud perde. E che quindi una coerente difesa dei lavoratori italiani si identifica, oggi, con la costruzione di un discorso che sappia legare in maniera inedita questione di classe e questione nazionale. Le incertezze sono più che comprensibili: da Crispi a Mussolini, per tacere degli epigoni minori, in Italia nazionalismo fa rima con avventurismo autoritario. Per questo l’europeismo è parso a molti una ulteriore garanzia contro l’anima nera della società italiana, tanto che anche la sinistra anticapitalista ha visto in qualche modo nell’Europa un vincolo esterno che poteva obbligare il paese alle virtù democratiche. Purtroppo, però, l’ideologia del vincolo esterno è esattamente l’ideologia delle classi dominanti italiane, e purtroppo l’Europa si è trasformata, da ipotetico baluardo della democrazia, a baluardo del monetarismo contro la volontà popolare. Sarà quindi necessario rielaborare in fretta tutto il nostro orientamento degli ultimi decenni e riscoprire un nesso tra classe e nazione che in Italia ha avuto rari, benché importanti, momenti di emersione: nella Resistenza, nella difesa delle fabbriche contro l’invasore, nelle lotte postbelliche per il lavoro, nelle campagne comuniste contro l’imperialismo, e forse anche nel contraddittorio e perdente itinerario di Berlinguer. Si può fare. E soprattutto si deve fare.

Le note che seguono tentano di argomentare questo assunto basandosi su vari lavori di diverso campo disciplinare e di diverso orientamento, non tutti convergenti su un’ipotesi di rottura dell’euro, ma certamente tutti concordi nel chiedere quanto meno la fine dell’ europeismo “incondizionato”. Si tratta degli scritti di Alberto Bagnai, Bruno Amoroso, Emiliano Brancaccio, Leonardo Paggi, Lucio Caracciolo, Vladimiro Giacchè. Ho tenuto conto anche delle critiche all’Unione europea ed all’euro mosse da chi, come Riccardo Bellofiore, Alfonso Gianni e Bruno Steri, non ne deduce però conclusioni radicali. Queste note non intendono proporre l’immediata uscita dall’euro, ma sottolineare la necessità di inscrivere la nostra azione nella prospettiva storica del superamento dell’euro, precondizione per la creazione di una nuova unità politica europea fondata su un recupero delle sovranità nazionali e monetarie come base per la successiva e progressiva costruzione di una vera sovranità politica continentale. Per chi inorridisce al solo sentir parlare di “sovranità” preciso che con questo termine qui non si intende indicare il fondamento di una politica assoluta, aggressiva sia verso l’interno che verso l’esterno, ma una condizione elementare della democrazia (“la sovranità appartiene al popolo…”) che non a caso è stata messa in discussione proprio dalla globalizzazione guidata dal capitalismo anglosassone. Una condizione elementare della democrazia, ma anche della politica e dell’esistenza stessa di una sinistra, giacché l’estinzione della differenza fra destra e sinistra non è che l’ultimo frutto della cancellazione della libertà di scelta, implicita nella fine della sovranità


1. L’Europa indiscutibile


Un partito dei lavoratori non può limitarsi a prendere posizione a fianco di essi contro il capitalismo “in generale”, ma deve anche prendere posizione nei confronti della particolare forma spaziale, geografica, che di volta in volta è assunta dal dominio del capitale sul lavoro. Un partito che, su questo tema, assuma di fatto la stessa posizione dell’avversario, è condannato a non avere mai una vera e propria autonomia. In questi anni il movimento operaio ed i movimenti civili hanno ritenuto che l’Unione europea offrisse uno spazio più ampio alle lotte popolari e costituisse (vigendo la cosiddetta globalizzazione) la dimensione minima per ogni tipo di politica, e quindi anche per la politica progressiva. La dimensione europea è apparsa indiscutibile, ed è per questo che, al di là di ogni esame logico, i difetti dell’Unione e quelli dell’euro sono stati dichiarati ipso facto emendabili.

La BCE torna in cattedra

In 15 slide Draghi mostra l'agenda all'Europa

Clash city workers - sinistrainrete -

Ci risiamo: ancora una volta ci troviamo a commentare un intervento del presidente della Banca Centrale Europea. Sono ormai anni che seguiamo con una certa attenzione i contributi di Mario Draghi: sin da quando, da governatore della Banca d’Italia, segnando una discontinuità con i suoi predecessori, si distingueva per la capacità di rappresentare pienamente il punto di vista e gli interessi del grande capitale europeo fuori da logiche di tipo nazionale. Una capacità di sintesi e di raccordo che lo ha portato a presiedere la Bce, l’istituzione comunitaria che di fatto in questi anni ha scalzato tutte le altre, avviando un processo di centralizzazione delle funzioni esecutive e d’indirizzo politico inimmaginabile fino a pochi anni fa.

La crisi dell’Eurozona e la conseguente necessità di interventi di politica monetaria, tesi a stabilizzare i mercati e in particolare a difesa dei debiti sovrani, ha posto la Bce nella possibilità di poter imporre ai governi dei singoli Stati europei la propria “agenda” condizionando così la propria azione di tutela all’applicazione di determinati provvedimenti.

La lettera inviata il 5 agosto 2011 dalla Bce al governo italiano (che ha imposto misure durissime come l’anticipo del raggiungimento del pareggio di bilancio al 2013 e che successivamente ha determinato le dimissioni di Berlusconi e la nomina di Mario Monti alla guida dell’esecutivo con il compito di riformare pensioni, mercato del lavoro e di tagliare il welfare) è esemplificativa del nuovo ruolo assunto dalla Banca Centrale Europea.
Un ruolo e un meccanismo che è stato poi di fatto istituzionalizzato nel settembre 2012 attraverso l’adozione del piano per le Outright Monetary Transactions, il cosiddetto piano anti spread.

Questo piano prevede che la Bce proceda all’acquisto illimitato dei titoli di stato a breve termine sul mercato secondario per gli stati che ne facciano richiesta al fine di ridurre i rendimenti. L’attivazione del piano di OMT è però legata ad una “rigida ed efficacia condizionalità” ovvero la sottoscrizione da parte degli stati di un programma del fondo ESM (European Stability Mechanism). I programmi dell’ESM sono misure vincolanti per gli Stati che “possono spaziare da un programma di correzioni macroeconomiche al rispetto costante di condizioni di ammissibilità predefinite”. In parole povere il “salvataggio” è condizionato alla cessione della propria sovranità, ad una sorta di commissariamento da parte dell’ESM – con modalità simili a quelle utilizzate dal Fondo Monetario Internazionali di cui ricordiamo i “brillanti” interventi dei decenni passati che hanno distrutto le condizioni di vita e di lavoro di decine di milioni di lavoratori a tutte le latitudini ed in particolare nei paesi sudamericani…


Draghi sale in cattedra: l’analisi delle slide


Fatta questa breve premessa, necessaria a delineare il contesto, passiamo ora all’oggetto vero e proprio dell’articolo. Nonostante i media nazionali non ne abbiano quasi fatta menzione, troppo occupati a celebrare il nuovo Papa e a seguire l’elezione dei presidenti di Camera e Senato, a Bruxelles il 14 e 15 marzo si è tenuto il Consiglio Europeo di primavera. La notizia non sta tanto nello svolgimento del summit, in cui non si è presa nessuna decisione di particolare rilevanza, ma nell’intervento fatto da Draghi nel corso del Consiglio. Il governatore della Bce ha infatti radunato tutti i leader dei paesi dell’Unione, li ha fatti accomodare e, con fare quasi scolastico, con l’ausilio di una ventina di slide ha fatto il punto della situazione per poi concludere “assegnando” i compiti da fare a casa. Dati i precedenti e soprattutto la rilevanza assunta dalla Bce e dal suo governatore, così come ricordato nella premessa, pensiamo sia il caso di sederci virtualmente anche noi in quella sala, analizzare le slide e fare il punto sulle conclusioni.

Il documento si intitola “Euro area economic situation and the foundations for growth”, ovvero “La situazione economica della zona Euro e le basi per la crescita”. Le prime slide ci forniscono semplicemente una serie di dati macroeconomici come l’andamento del Pil nell’area Euro dal 2007 ad oggi, andamento che mostra una recessione pari quasi all’1% per l’anno in corso, per poi passare ai dati sulla disoccupazione sempre per lo stesso periodo che vedono primeggiare Spagna e Grecia che in meno di sei anni hanno più che raddoppiato il proprio tasso arrivando rispettivamente al 26,2% e al 26,4% (approfittiamo per ricordare come questo genere di statistica riguardante il tasso di disoccupazioni siano di fatto falsate a causa della non armonizzazione dei sistemi di welfare e quindi possono indurre a visioni distorte della realtà, come nel caso dell’Italia, che si attesta al di sotto della media dell’area euro, ma che finora aveva un sistema di ammortizzatori sociali che lasciava il lavoratore anche nei periodi di inattività dovuta a crisi e/o ristrutturazioni legato alla propria azienda).

Draghi è poi passato all’analisi della bilancia dei pagamenti, all’andamento dei conti pubblici
e in particolare al rapporto deficit/Pil e Debito/Pil oltre che all’andamento del credito alle imprese (che segnala una forte flessione per Spagna e Italia). Si tratta di dati abbastanza noti su cui non occore fermarsi più di tanto.

La parte interessante del documento arriva con la ottava slide intitolata “basi per la crescita”.
Qui il nostro caro Draghi pone una domanda: da dove viene la crescita? Come ogni bravo insegnante ci fornisce la risposta. La crescita deriva dal:
  • rafforzamento della domanda globale;
  • sostegno della politica monetaria di ancoraggio alla stabilità dei prezzi;
  • ripristino di fiducia, competitività e credito.
Queste risposte meritano a nostro giudizio un paio di considerazioni.

Per quanto riguarda il primo punto è interessante vedere come il governatore si guardi bene dal parlare di un rafforzamento della domanda per quanto concerne la zona euro (che tra l’altro sarebbe l’area di sua competenza), ma usa il termine globale. Questo perché è cosciente del fatto che le politiche che intende mettere in campo indeboliranno ulteriormente la domanda interna attraverso l’abbassamento dei salari e diventa quindi fondamentale, in un modello produttivo orientato alle esportazioni, che ci sia un rafforzamento della domanda a livello globale.

La seconda affermazione invece pone come condizione per la crescita il sostegno incondizionato a quello che da sempre è il mandato della Bce: mantenere l’inflazione sotto il 2%. Un mandato che tutela uno degli interessi principali del grande capitale e in particolare di quello finanziario bancario, ovvero non vedere erosi i propri profitti dalla svalutazione della moneta.

La terza risposta pone la questione della fiducia e della competitività, ovvero la certezza da parte di chi investe che si concretizzino le condizioni necessarie alla profittabilità del proprio business. Tradotto in altri termini: governi autoritari capaci di imporre le proprie decisioni e aumento dello sfruttamento dei lavoratori.

Infine si parla di credito inteso come tutela delle banche in modo che possano svolgere tranquillamente e soprattutto senza rischi la propria attività di intermediazione finanziaria. Nelle slide seguenti è lo stesso Draghi a spiegare nel dettaglio le problematiche legate a competitività e fiducia.

La slide 9 mostra due grafici che rappresentano: l’andamento dei salari dal 1999 al 2011 e l’andamento della produttività nel medesimo periodo di due insiemi di paesi: quelli in surplus e quelli in deficit (i paesi sono assegnati al gruppo Surplus/Deficit se hanno avuto un avanzo di conto corrente/disavanzo nel 2007, l'ultimo anno pre-crisi). Senza grandi sorprese scopriamo che nei paesi in surplus i salari sono cresciuti molto di meno rispetto a quelli in deficit. E, anche per quanto concerne la produttività, la tendenza viene confermata: i paesi in surplus hanno una maggiore produttività rispetto a quelli in deficit. Questi dati non fanno altro che dare una conferma empirica a quella che è da sempre una caratteristica del modo di produzione capitalistica, ovvero più si abbassano i salari, più intensi sono i ritmi di lavoro, tanto più aumentano gli investimenti e si può esportare e conquistare nuove fette di mercato attraverso la possibilità di applicare prezzi più bassi ai prodotti finiti.

Il governatore passa poi nella slide 10 ad analizzare l’andamento dei salari e della produttività nei singoli paesi dell’area Euro. La Germania risulta chiaramente il paese in cui sono cresciuti di meno i salari ed è aumentata di più la produttività: ecco spiegato, a chi ancora non l’avesse capito, il tanto celebrato miracolo tedesco frutto di 10 anni di blocco degli aumenti delle retribuzioni e di riforme del lavoro e del welfare devastanti, come nel caso della Hartz IV. Situazione speculare invece per l’Italia dove gli stipendi sono aumentati nella media dell’UE e il livello di produttività è rimasto quasi immutato dal 1999, sia per la capacità da parte dei lavoratori di porre un argine agli attacchi del padronato che per un arretramento strutturale del modello produttivo.

La slide 11 è intitolata “profitability problems”, letteralmente problemi di redditività. Qui si pone la questione centrale per la borghesia europea ovvero la possibilità di far profitti. Vengono mostrati due grafici (sempre riguardanti i due medesimi insiemi di paesi): in uno viene mostrato l’andamento dei margini di profitto e nell’altro una curva che rappresenta i “contratti negoziati” e il tasso di occupazione. Anche per quanto concerne i margini di profitto i paesi in surplus ovviamente battono di gran lunga i paesi in deficit, dato che viene confermato anche per il tasso di occupati. Un'altra ovvietà dato che è normale che solo chi è in condizione di mantenere bassi i salari può competere, quindi esportare e realizzare profitti. Lo stesso vale per il tasso di occupazione, in quanto più esistono condizioni di profittabilità più aumentano gli investimenti e quindi il numero di occupati.

Seguono poi una slide sulla “Fiducia” misurata con l’andamento dei rendimenti dei bond societari e dei titoli di stato che testimoniano negli ultimi anni un ritorno di fiducia con tassi più bassi. L’unica a fare eccezione è l’Italia che presenta negli ultimi mesi una leggera inversione di tendenza.

La tredicesima slide invece riguarda la questione del credito ed in particolare l’andamento del Tasso di interesse sui nuovi prestiti alle imprese dei principali paesi della zona Euro. Qui i dati divergono nettamente e mostrano come Italia e Spagna siano penalizzate da tassi d’interesse molto più alti rispetto a Francia e Germania, questo differenziale è dovuto a quelle che sono le prospettive di crescita per i singoli paesi. I tassi alti hanno però l’effetto di aggravare ulteriormente la situazione innescando un circolo vizioso dove all’aumento del costo del denaro corrisponde un peggioramento degli outllook che porta ad un nuovo aumento dei tassi d’interesse.

Il penultimo grafico rappresenta invece il rapporto deficit/pil dei singoli paesi, mostrando i risultati raggiunti negli ultimi anni dalle politiche di austerity. Ma il pezzo forte è la slide finale intitolata “Conclusioni”, di cui pensiamo sia opportuno riportare la traduzione letterale:
  1. riesaminare i mercati dei prodotti e del lavoro per verificare se sono compatibili con la partecipazione all’unione monetaria;
  2. riforma dei contratti di lavoro per i paesi con pressanti problemi di competitività;
  3. piena attuazione della legislazione sul mercato unico.
Il primo punto suona come una vera e propria minaccia. O si è in grado di orientare la produzione verso settori che possano permettere di esportare e si forniscono condizioni di lavoro perché ciò sia profittevole o si è fuori dall’unione monetaria.
La seconda affermazione è un vero e proprio bagno di realtà. Se si vuole l’incremento degli investimenti, la crescita e quindi l’aumento dei profitti, non c’è altra strada che aumentare lo sfruttamento. Come Marx ci ha insegnato, l’incremento del saggio di profitto può essere raggiunto esclusivamente diminuendo i salari, allungando la giornata lavorativa e aumentando la produttività. Quando Mario Draghi parla di riforma dei contratti di lavoro intende esattamente questo: abbassamento delle retribuzioni e incremento dell’orario e dei ritmi di lavoro. Probabilmente la lettura di queste slide sarebbe molto utile a coloro i quali (in particolare nell’ultimo periodo nel nostro paese) in buona fede ragionano in termini di compatibilità con questo modo di produzione o rivendicano una sua riforma che porti a un capitalismo dal volto umano magari depurato da corruzione e disonestà.

Il terzo ed ultimo punto invece appare a una prima lettura più criptico. In realtà è una precisa esortazione a eliminare tutti gli ostacoli presenti a una vera concentrazione dei capitali nell’area Euro. È un appello, rivolto ai governi di tutti i paesi dell’Unione e in particolare a quelli cosiddetti periferici, a non intralciare le fazioni di borghesia più forti nella loro opera di assimilazione di mercati e settori produttivi.

La ricetta è chiara, il piatto è servito: non ci resta che ingoiare il boccone amaro?

lunedì 25 marzo 2013

Il nuovo modello per "salvataggi”


Nota. Che sia il famoso “Eurogruppo” piuttosto che i singoli governi nazionali a decidere sui nostri destini ormai non c’e’ alcun dubbio. Ma chi e’ l’eurogruppo e come vengono decise le “misure” per ciascun paese ? Leggendo i media, nel caso di Cipro p.es. apprendiamo che tali decisioni sono state prese all’unanimita’ dai ministri della finanza dei paesi dell’eurozona.

Balle. Discussioni (si fa per dire) e decisioni avvengono a porte chiuse fra 4 persone. Il presidente l’olandese Disselbloem, la signora Lagarde del FMI, Draghi della BCE e naturalmente il superman sulla carrozzella tedesco Scheauble: il vero capo. Beh, veramente concedono anche la presenza del ministro del paese coinvolto, questo bisogna dirlo, senno che democrazia sarebbe? I ministri di tutti gli altri paesi attendono il testo finale su cui porre la propria firma per rendere la decisione … unanime!!

p.s. e pensare che in Italia si fa tanta ammuina per formare un “nuovo governo” … quando il governo c’e’ gia’ ed e’ quello di cui sopra.

==============================================


Eurogruppo: “Prelievo forzoso a Cipro è nuovo modello per salvataggi”

Dijsselbloem: “Se vogliamo un settore finanziario sano, l’unico modo è dire che chi ha assunto dei rischi deve gestirli e se non ci riesce non doveva assumerli. La conseguenza può essere la fine"

Il salvataggio di Cipro, con la partecipazione degli investitori e titolari di depositi nella ristrutturazione delle banche, rappresenta un nuovo modello su come gestire i problemi del sistema bancario in Europa. Lo sostiene il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, che ha rilasciato delle dichiarazioni in merito all’agenzia Reuters. Secondo il ministro delle Finanze olandese l’accordo raggiunto in nottata per salvare Cipro serve a “far rientrare i rischi. Se c’è rischio in una banca, la prima domanda è: che cosa può fare la banca? può ricapitalizzarsi?”. Se la banca non ci riesce, “dobbiamo parlare con azionisti e obbligazionisti, chiedendo loro di contribuire a ricapitalizzarla, e se necessario anche chi ha depositi non assicurati (sopra 100.000 euro, ndr)”.

Parole che hanno pesato come macigni sulle Borse europee che hanno accentuato le perdite virando tutte in rosso trascinate dalle banche. Nel mirino soprattutto gli istituti dei paesi più deboli dell’eurozona, con Madrid che ha perso il 2,27% e Milano il 2,5%, sui timori per il futuro dei depositi. Ma tremano anche gli istituti francesi (Parigi -1,12%), in particolare SocGen (-6%) e Credit Agricole (-5,84%). Caduta, a Piazza Affari, per Banco Popolare (-5,86%), Intesa Sanpaolo (-6,21%), Mediobanca (-5,3%), Unicredit (-5,81%) e Ubi (-4,76%) e le spagnole Bbva (-3,6%) e Banco Popular (-2,87%). Giù anche Deutsche Bank (-4,06%) e Commerzbank (-1,77%).

Cipro, via libera al salvataggio: salvi i depositi sotto 100mila euro

L'Eurogruppo ha raggiunto "all'unanimità" un accordo per evitare la bancarotta di Nicosia che riceverà aiuti per 10 miliardi in cambio della chiusura della Laiki Bank. Il portavoce del governo cipriota ha avvertito che il prelievo sui conti più ricchi nella Bank of Cyprus sarà di circa il 30 per cento


“Abbiamo evitato un fallimento disastroso“, commenta il ministro delle Finanze cipriota Sarrys quando l’alba non è ancora spuntata a Bruxelles. I volti sono tirati, l’Eurogruppo ha sì concesso il maxiprestito da 10 miliardi di euro per salvare Cipro ma, mai come in questa occasione, il club dell’Unione europea è stato vicinissimo allo scioglimento. Il Presidente della Repubblica Nikos Anastasiadis, ad un certo punto, ha sbuffato e rivolgendosi ai suoi interlocutori (Lagarde, Scheauble, Draghi) ha detto: “Vi faccio una proposta e non la accettate, ve ne presento un’altra ma è lo stesso. Cosa volete che faccia, che mi dimetta? Nessun problema”. In quei frangenti è anche circolata l’ipotesi che il suo testimone potesse essere raccolto dal capo della Chiesa di Cipro, l’Arcivescovo Chrysostomos II, che in quel caso avrebbe ripercorso gli stessi passi compiuti quarant’anni fa da Makarios, leader della chiesa e primo capo di stato dell’isola finalmente indipendente. Solo dopo quattro ore di trattative serrate con la troika la delegazione cipriota ha fatto ingresso nella sala dove nel frattempo era già iniziato senza di loro l’Eurogruppo.

Il nodo è per i depositi superiori a 100mila euro. Il portavoce del governo cipriota, Christos Stilianides, parlando alla radio statale ha avvertito che il prelievo sui super conti nella Bank of Cyprus sarà di circa il 30 per cento, punto più punto meno. Una percentuale altissima ma comunque inferiore al 60 per cento proposto dalla troika. Per questo oggi il quotidiano cipriota Fileleftheros titola “Thriller con racket”, per via del gioco di ricatti e veti che per quasi dodici ore è andato in scena a Bruxelles. La prima reazione a Nicosia è stata una bomba fatta esplodere nella città marittima di Limassol contro una sede della Bank of Cyprus: molti danni ma nessun ferito.

I punti chiave dell’accordo prevedono la liquidazione immediata della Laikì Bank, divisa in “bad bank” e “good bank”; la Bce fornirà la liquidità necessaria alla Bank of Cyprus; indenni i depositi sotto i 100mila euro; solo i depositi non assicurati rimarranno congelati fino a quando non si procederà alla ricapitalizzazione; quest’ultima coinvolgerà i depositi non assicurati dei titolari di azioni e obbligazioni; la misura non dovrà passare al vaglio del Parlamento cipriota, che qualche giorno fa ha già votato un ddl straordinario che attribuisce poteri eccezionali al governatore della Banca centrale. Il versamento della prima tranche del prestito dovrebbe avvenire entro due mesi, ha detto il capo del meccanismo europeo di stabilità (Esm), Klaus Regklingk: “Dovremmo essere in grado di fare la prima erogazione ai primi di maggio”. Prima però la troika sarà chiamata a determinare i dettagli tecnici. L’accordo raggiunto sulla ristrutturazione delle due maggiori banche di Cipro può procedere “senza ulteriori ritardi” grazie ad un testo di legge recentemente approvato dal Parlamento a Nicosia, ha aggiunto il presidente dell’eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem.

Lapidario il commento di Anastasiadis: “Non solo una battaglia vinta, ma credo che si sia evitato il rischio prevedibile di una catastrofica uscita dalla zona euro“. L’obiettivo, da domani, è quello di ottenere stabilità macroeconomica, riformare il settore bancario, la disciplina fiscale. Nessuna certezza, ha aggiunto Sarrys, sulla data di riapertura delle banche nell’isola. Il ministero delle Finanze ha confermato che la liquidità di 9,2 miliardi sarà trasferita alla Banca di Cipro grazie all’impegno diretto della Bce. Alla domanda circa il coinvolgimento di fondi pensione appartenenti ai clienti della Banca di Cipro per importi superiori a 100.000 euro, Sarrys ha risposto che i depositi (indipendentemente da chi li ha generati) saranno convertiti in azioni, e i nuovi proprietari delle banche saranno principalmente gli azionisti attuali. Ha aggiunto che i fondi di previdenza hanno una propria politica di investimento che prevede la partecipazione al capitale nelle banche, “che è anche un modo per contribuire alla stabilizzazione del sistema”. E il Financial Times scrive che alcune banche estere starebbero già premendo per accaparrarsi i depositi dei russi a Cipro. Pare che approcci indicativi siano già giunti da paesi come Andorra, Germania, Lettonia e Svizzera. Forse la crisi è solo all’inizio

 

domenica 24 marzo 2013

La crisi di Cipro e la svolta darwiniana della BCE

Autore: Emiliano Brancaccio
  
Ancora non conosciamo i suoi esiti, ma dalla crisi bancaria di Cipro possiamo già trarre qualche indicazione per il futuro. Molti commentatori ne hanno tratto spunti per valutare le possibili conseguenze di una tassazione dei depositi bancari. Per Donato Masciandaro la decisione di coinvolgere i depositanti nei salvataggi “sta facendo fare all’Unione europea una pessima figura” [1] . Per Marco Onado, un prelievo forzoso sui depositi ciprioti solleverebbe dubbi sul valore atteso dei conti correnti di tutta l’Unione e potrebbe quindi generare “un disastroso effetto valanga” per l’intero sistema bancario europeo [2]. Queste valutazioni colgono indubbiamente dei rischi reali. Ma vi sono anche altre minacce all’orizzonte. La crisi di Cipro crea infatti un precedente per certi versi ancora più pericoloso: mi riferisco a una nota diramata ieri mattina con la quale il Consiglio direttivo della BCE ha dichiarato che la liquidità di emergenza a favore della Banca centrale di Cipro sarà fornita solo fino a lunedì prossimo. Dopo quella data, l’erogazione di liquidità da parte della BCE sarà condizionata all’avvenuta ratifica di un accordo tra il governo di Cipro, l’Unione europea e il Fondo monetario internazionale, atto a garantire la solvibilità degli istituti di credito colpiti dalla crisi [3].
Il comunicato di Francoforte verte sull’idea che il banchiere centrale sia preposto a intervenire solo nel caso di una crisi di liquidità definibile di “breve periodo”, mentre non sia mai autorizzato a fornire ossigeno a istituti di credito che abbiano problemi di solvibilità di “lungo periodo”. Alla base di questa linea di policy risiede la concezione teorica secondo cui è sempre possibile separare concettualmente una crisi di liquidità da una crisi di solvibilità. Questa tesi si colloca lungo la scia dei vecchi contributi di Bagehot sul tema. Tuttavia la letteratura più recente, sia mainstream che critica, l’ha messa fortemente in discussione. Per esempio, è oggi possibile mostrare che la banca centrale, più o meno surrettiziamente, segue sempre una “regola di solvibilità” in grado di condizionare l’evoluzione degli assetti proprietari dei capitali interessati dalla sua azione di politica monetaria [4].
Ad ogni modo, non è questa la sede per valutare il grado di aggiornamento della teoria monetaria alla quale la BCE rinvia per giustificare le sue scelte. Senza dubbio più urgente è un esame delle ricadute pratiche di tali decisioni. A questo riguardo Alessandro Merli, sul Sole 24 Ore, ha commentato l’ultimatum della BCE nel seguente modo: “La Bce aveva detto in un primo tempo di voler attendere una decisione sul piano di salvataggio prima di deliberare sulla prosecuzione della fornitura di liquidità. Ora ha scelto di mettere pressione per una conclusione dell’accordo, consapevole del fatto che il perdurare dell’incertezza su Cipro può avere ripercussioni sui sistemi bancari del resto dell’eurozona” [5]. La chiave di lettura proposta da Merli trova in effetti dei riscontri nei comunicati ufficiali del Consiglio direttivo e delle altre istituzioni europee. Dai medesimi atti sembra tuttavia possibile trarre anche un’interpretazione meno benevola dell’ultimatum. La BCE, infatti, si è dichiarata pronta a chiudere i canali di erogazione della liquidità nel bel mezzo di una delicata trattativa sulle modalità di ricapitalizzazione delle banche in crisi. A ben pensarci, si tratta di un’ingerenza politica senza precedenti: a confronto con essa, persino la famigerata lettera di Draghi e Trichet inviata al governo Berlusconi nell’estate 2011 assume i caratteri del sommesso suggerimento. Il comunicato potrebbe dunque indicare che nel Consiglio direttivo della BCE è tornato ad esser prevalente, ed è anche divenuto esplicito, il gioco non cooperativo dei “falchi” della Bundesbank. Tale gioco, di fatto, consiste nel sottrarre tempo alle mediazioni politiche per forzare le liquidazioni degli istituti in difficoltà e i conseguenti processi di ristrutturazione del sistema bancario europeo. Obiettivo ultimo della strategia: favorire una modalità di unione bancaria di tipo “darwiniano”, dettata non dai compromessi politici ma da una aperta contesa sul mercato tra paesi più forti e paesi più deboli.
Qualcuno potrebbe a questo punto obiettare che il caso di Cipro è piuttosto circoscritto, in fin dei conti eccezionale, e che da esso non si dovrebbero trarre indicazioni sulle future linee d’azione del direttorio della BCE. Tre anni di crisi dell’eurozona dovrebbero tuttavia averci insegnato che proprio le peggiori eccezioni di politica economica europea tendono spesso a trasformarsi in perniciose ricette generali. Se così fosse, potremmo trovarci alle prese con un processo di unificazione bancaria europea scordinato e brutale, molto diverso da quello solitamente auspicato dai suoi fautori. Una simile prospettiva dovrebbe costituire un monito soprattutto per l’Italia e per gli altri paesi periferici dell’Unione. Infatti, se lo scenario di politica economica non muta e le divaricazioni tra le economie dell’eurozona persistono, è evidente che anche la forbice tra i risultati d’esercizio delle banche dei paesi membri è destinata ad allargarsi. Se la BCE si mostrasse anche in futuro intenzionata a forzare i tempi delle ristrutturazioni bancarie, c’è motivo di temere che l’Italia e gli altri paesi periferici si presenterebbero all’appuntamento della selezione “darwiniana” nello scomodo ruolo di debitori costretti a liquidare alle condizioni fissate dai potenziali acquirenti.
Vi è chi ritiene che la questione della nazionalità del capitale bancario sia in fondo secondaria. Altri invece temono che trascurare il problema finirebbe per aggravare quella che Paul Krugman ha definito la “mezzogiornificazione” dei paesi periferici della zona euro [6]. Il dibattito è aperto, ma forse su un punto si dovrebbe convenire. Se la BCE decidesse di assecondare una ristrutturazione bancaria europea scoordinata e “darwiniana”, i paesi periferici maggiormente in difficoltà verrebbero posti di fronte a un tremendo dilemma: subire passivamente la ristrutturazione cedendo le quote di controllo delle banche, oppure abbandonare l’euro per mantenere l’ultima parola sugli assetti proprietari del capitale bancario. Naturalmente si può discutere su quale sarebbe il male minore tra le due opzioni, e sarebbe bene iniziare a farlo senza pregiudizi. Ma si dovrebbe già convenire sul fatto che la BCE, con comunicati come quello di ieri, sospinge i paesi periferici dell’Unione verso quel bivio.

[1] Donato Masciandaro, La Ue faccia intervenire l’Esm, Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2013.
[2] Marco Onado, Un attacco inaccettabile ai depositi bancari, Il Sole 24 Ore, 22 marzo 2013.
[3] European Central Bank, Governing Council decision on Emergency Liquidity Assistance requested by the Central Bank of Cyprus, 21 March 2013.
[4] Emiliano Brancaccio and Giuseppe Fontana, “Sovency Rule” versus “Taylor Rule”. An alternative interpretation of the relation between monetary policy and the economic crisis, Cambridge Journal of Economics, 37 (1), 2013 (online 21 August 2012). Per una rassegna della letteratura mainstream ed eterodossa sul tema, cfr. anche la bibliografia riportata in Emiliano Brancaccio and Giuseppe Fontana, Solvency Rule and capital centralization in a monetary union, 15th Conference of the Research Network Macroeconomics and Macroeconomic Policies (Berlin, October 2011).
[5] Alessandro Merli, La BCE dà l’ultimatum a Cipro, Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2013.
[6] Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa, Il Saggiatore, Milano 2012. Sui problemi derivanti dall’allontanamento della “testa pensante” del capitale bancario dalle aree di esercizio dell’attività creditizia, la letteratura è vastissima. Cfr. ad esempio Pietro Alessandrini, Andrea Presbitero, Alberto Zazzaro, Banks, distances and firms’ financing constraints, Review of Finance, 13(2), 2009. Sul caso emblematico dei mutamenti degli assetti bancari nel Sud Italia, cfr. Adriano Giannola e Antonio Lopes, Banca, sistema produttivo e dualismo in Italia. Continuità e mutamenti strutturali in una prospettiva di lungo periodo, in SVIMEZ, Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia, Quaderni Svimez, numero speciale, 31.

Blog curato da ...

Blog curato da ...
Mob. 0039 3248181172 - adakilismanis@gmail.com - akilis@otenet.gr
free counters