Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 8 ottobre 2011

Dichiarzione dell'Occupazione di New York.

By Valerio Monteventi. Fonte: kafca
Traduzione Italiana del documento originale reperibile su NYC General Assemby
30 Settembre 2011
Questo documento e stato approvato dall'Assemblea Generale il 29 Settembre, 2011
Nel riunirci unitariamente, in solidarietà, per esprimere un senso di grande ingiustizia, non possiamo perdere di vista quello che ci ha portato a riunirci qui insieme.

Scriviamo questo documento in modo che tutti coloro che si sentono oppressi dalla forza del mondo corporativo possano sapere che noi siamo i loro alleati.

Come popolo compatto e unito, riconosciamo le seguenti realtà: che il futuro della razza umana ha bisogno della cooperazione dei suoi membri; che il nostro sistema deve proteggere i nostri diritti, ed in caso di corruzione del sistema, diventa un dovere degli individui, proteggere i propri diritti, e quelli dei loro vicini; che un governo democratico deriva il suo potere dal popolo, ma le grandi società capitalistiche non cercano consenso prima di estrarre ricchezze dalla Terra e dai popoli; e che nessuna vera democrazia è possibile quando il processo si basa sul potere economico. Lanciamo quest'appello in un momento in cui le grandi società, che mettono il guadagno prima delle persone, i loro interessi prima della giustizia, e l'oppressione prima dell'uguaglianza, controllono i nostri governi. Ci siamo uniti in modo pacifico, come il nostro diritto, per dare una voce a questi fatti.
Hanno preso le nostre case tramite un processo di pignoramento illegale, anche quando non potevano dimostrare di possedere il mutuo originale.
Hanno utilizzato il denaro proveniente dalle tasse dei contribuenti che doveva servire per il salvataggio economico con impunità e continuano a dare page esorbitanti ai loro dirigenti.
Hanno perpetuato inuguaglianza e discriminazione sul lavoro in base all’ età, colore della pelle, sesso, e preferenze sessuali.
Hanno irresponsabilmente avvelenato la catena alimentare, e hanno eroso il sistema agricoltura con un sistema di monopoli.
Hanno ricavato alti profitti dalla tortura, confinamento, e trattamento crudele d’innumerevoli animali, e hanno attivamente nascosto queste pratiche.
Hanno continuamente cercato modi per strappare ai dipendenti i loro diritti alla contrattazione per migliori paghe e condizioni di lavoro.
Hanno tenuto in ostaggio studenti con debiti per migliaia di dollari che sono stati costretti a contrarre per pagare la propria educazione, che è in se un diritto umano.
Hanno costantemente trasferito lavoro all’estero ed hanno usato ricatto del trasferimento di lavoro all’estero come vantaggio per le tagliare paghe e benefici sociali dei lavoratori.
Hanno influenzato i tribunali per ottenere gli stessi diritti delle persone, evitando però qualsiasi colpevolezza o responsabilità.
Hanno speso milioni di dollari per team di legali che cercano modi per evitare il pagamento delle spese sanitarie per i loro lavoratori.
Hanno venduto la nostra privacy come una merce.
Hanno usato le forze militari e la polizia per impedire la liberta della stampa.
Hanno deliberatamente rifiutato di ritirare dai mercati prodotti difettosi, mettendo vite a repentaglio in nome dei profitti.
Determinano la politica economica nonostante i fallimenti catastrofici che la loro politica ha prodotto e continua a produrre.
Hanno donato grandissime somme di denaro ai politici, che sono responsabili per le regolamentazioni.
Continuano a bloccare forme di energia alternative per mantenerci dipendenti dal petrolio.
Continuano a bloccare forme di medicine generiche che possono salvare la vita o dare sollievo a più persone per proteggere investimenti che hanno già procurato profitti sostanziosi.
Hanno insabbiato di proposito fuoriuscite di petrolio, incidenti, falsi in bilancio, e uso di additivi per inseguimento profitti sempre più alti.
Tengono di proposito il popolo disinformato e impaurito tramite il loro controllo dei mass-media.
Hanno accettato contratti privati per ammazzare prigionieri anche quando erano presenti seri dubbi della loro colpevolezza.
Hanno perpetuato il colonialismo in casa e all’estero. Hanno partecipato alla tortura e l'omicidio di civili innocenti al estero.
Continuano a creare armi di distruzione di massa per guadagnare contratti dal governo.*

Al popolo del mondo,

Noi, l'Assemblea Generale di New York, occupando Wall Street in Liberty Square, vi esortiamo ad affermare il vostro potere.
Esercitate il vostro diritto a riunirvi pacificamente; occupate i posti pubblici; create un processo per affrontare i problemi che ci sono stati presentati, e create soluzioni accessibili a tutti.
A tutte le communita che decidono di intraprendere azioni e formano gruppi nello spirito di democrazia diretta, noi offriamo il nostro appoggio, documentazione, e tutte le risorse che abbiamo disponibili.
Unitevi a noi e date potere alle vostre voci!

Dichiarzione dell'Occupazione di New York
30 Settembre 2011
Questo documento e stato accetato dall'Assemblea Generale il 29 Settembre, 2011

Vladimiro Giacché. 20 tesi sulla crisi.

Fonte: marx21
Pubblichiamo in anteprima, con l'autorizzazione dell'autore, il contributo di Vladimiro Giacché, Vice Presidente dell'Associazione Marx XXI, che uscirà nel prossimo numero della rivista "Essere comunisti"

1. La crisi attuale non è altra cosa rispetto a quella iniziata nel 2007-2008. La crisi è la stessa: semplicemente, non ne siamo mai usciti. Il modello che allora è andato in frantumi, quello della crescita a debito, dell’espansione economica drogata dal credito e dalla finanza, è ancora in pezzi. In questi anni si è tentato di farlo ripartire, ma inutilmente. Per capire la fase della crisi che stiamo vivendo oggi, è necessario ricapitolarne le tappe precedenti.

2. La violenza della crisi manifestatasi a partire dal 2007 nasce dalla profondità delle sue radici. Essa infatti
- nel breve è stata alimentata dal parossismo finanziario (e dal sovraindebitamento dei lavoratori, soprattutto dei paesi anglosassoni), ma
- nel medio periodo è originata da sovrainvestimenti (grande crescita degli investimenti nei paesi di nuova industrializzazione a cui non ha corrisposto una proporzionale diminuzione nei paesi industrialmente avanzati) e sovraconsumo pagati a debito.
- nel lungo periodo nasce dalla caduta del saggio di profitto cui si è reagito con la finanziarizzazione, resa possibile tra l’altro dallo status particolare del dollaro (valuta internazionale di riserva che però dal 1971 non è legata ad alcun sottostante).

3. La crisi scoppia a causa del collasso del modello di consumo degli Stati Uniti, basato sull’indebitamento privato, che consentiva di mantenere consumi elevati nonostante stipendi in calo ormai da decenni.

LA CRISI DEGLI ASINI

Un uomo con la cravatta si presentò in un piccolo paese. Si issò su una panchina e gridò a tutta la popolazione che avrebbe comprato in contanti, per 100 euro l'uno, ogni asino che gli avrebbero presentato. I contadini lo trovarono un po' strano ma il prezzo era molto interessante e quelli che fecero l'affare se ne tornarono a casa con il borsellino pieno e la faccia gioiosa. L'uomo con la cravatta tornò l'indomani e offrì 150 euro ad asino così gran parte degli abitanti vendette le proprie bestie. I giorni seguenti ne offri 300 e quelli che non avevano ancora venduto vendettero gli ultimi asini del paese. Si accorse che non ne restavo uno e dichiarò a tutti che sarebbe tornato dopo una settimana per comprare ogni asino pagando 500 euro a testa e se ne andò.
L'indomani affidò al suo socio il branco di asini che aveva aquistato e lo mandò nello stesso paese con l'ordine di rivendere le bestie al prezzo di 400 euro l'uno. I contadini vedendo la possibilità di avere un beneficio di 100 euro la settimana successiva, ricomprarono i loro asini ad un prezzo 4 volte superiore di quanto avevano ricevuto nella vendita e, per farlo, dovettero chiedere un prestito alla banca.
Come immaginate, i due affaristi se ne andarono a fare una vacanza meritata in un paradiso fiscale mentre i contadini si ritrovarono con degli asini senza nessun valore, indebitati sino al collo e rovinati.
Quei poveri diavoli di contadini tentarono invano di rivenderli per rimborsare il debito. Il valore dell'asino crollò. Le bestie furono sequestrate e poi affitate dalla banca ai loro precedenti proprietari. Però il banchiere andò dal sindaco spiegando che se non avesse recuperato i fondi si sarebbe rovinato anche lui e di conseguenza avrebbe dovuto chiedere il rimborso immediato di tutti i crediti concessi al comune.
Per evitare il disastro, il sindaco, invece di dare denaro agli abitanti per pagare i debiti, dette denaro al banchiere, amico intimo del primo assessore... Purtroppo questi, dopo aver ripristinato i suoi fondi, non annullò i debiti dei contadini né quelli del comune che si ritrovò vicino alla bancarotta.
Vedendo i suoi debiti crescere e preso alla gola dai tassi d'interesse, il comune chiese aiuto ai comuni vicini ma questi risposero che era impossibile avendo subito anche loro gli stessi infortuni.
Il banchiere consigliò, in un modo disinteressato, di ridurre le spese: meno soldi alle scuole, meno ai programi sociali, le strade, la polizia municipale... Si riportò in avanti l'età delle pensioni, si licenziarono gli impiegati municipali, si abassarono gli stipendi e si aumentarono le tasse. Era, si diceva, inevitabile ma si promise di moralizzare quello scandaloso commercio degli asini.
Questa ben triste storia si rivelò piccante quando si seppe che il banchiere e i due affaristi sono fratelli e vivono insieme in un isola delle Bermuda, aquistata col sudore... Si chiamano i Fratelli Mercato. Con tanta generosità hanno promesso di sovvenzionare la campagna elettorale dei sindaci uscenti. In ogni caso questa storia non è finita perchè non si sa che fine fecero i contadini. E tu, cosa avresti fatto al loro posto? Che farai tu?
TROVIAMOCI TUTTI IN PIAZZA
SABATO 15 OTTOBRE GIORNATA INTERNAZIONALE DEGLI INDIGNATI
(Tradotto dal testo originale francese)
10 YEARS OF WAR: victorious only over the children

venerdì 7 ottobre 2011

CARLO FORMENTI – Steve Jobs santo subito?

Fonte: micromega
Perché non farlo santo subito? I peana che hanno accompagnato la morte del guru della Apple, Steve Jobs, surclassano di gran lunga quelli che hanno salutato la dipartita di altri personaggi illustri negli ultimi decenni, con due sole eccezioni: le celebrazioni della fine di Diana d’Inghilterra e di papa Giovanni Paolo secondo.

Perché queste nuvole di incenso (un genio paragonabile a Leonardo, l’uomo che ha cambiato le nostre vite, l’ingegnere dei sogni e via di questo passo)? Perché quasi nessuno parla (e quando se ne parla lo si è fa in sordina, quasi vergognadosi di uscire dal coro) delle decine di operai della Foxconn che si sono suicidati per le spaventose condizioni di lavoro e di vita che hanno dovuto subire per rispettare gli obiettivi imposti dalla Apple ai propri subfornitori, dei danni ambientali provocati da questa impresa campione di stile ed eleganza, del fatto che il genio di Jobs non è stato certo quello dell’innovazione tecnologica (riconoscimento che spetterebbe piuttosto al suo ormai dimenticato socio, nonché cofondatore di Apple, Steve Wozniak), ma semmai quello di un abilissimo venditore e di uno spietato capitalista che ha retto con pugno di ferro il suo impero (“virtù” che condivide con personaggi quali Zuckerberg e Jeff Bezos)?

È successo perché Jobs rappresenta un simbolo, l’incarnazione vivente dello zeitgeist di un’epoca che sceglie i propri eroi fra i personaggi di successo (a prescindere da come questo sia stato ottenuto), fra i protagonisti di un turbocapitalismo fatto di finanza e tecnologie digitali che ha certamente cambiato le nostre vite, ma per la maggioranza le ha cambiate in peggio, visto che ha provocato crisi in cui ci dibattiamo dall’inizio del secolo, di un’era che ha addormentato le coscienze di cittadini e lavoratori trasformandoli in consumatori (o meglio, in prosumer che lavorano gratuitamente per le imprese ICT e dot.com, come le masse dei fan del marchio Apple iTunes ai quali è dovuta una considerevole percentuale del valore generato dall’industria di Cupertino).

Si adora Jobs in quanto consumatori, perché i suoi prodotti funzionano e hanno un design straordinario, perché rendono la vita comoda (a chi può permettersi i loro prezzi esorbitanti), allo stesso modo in cui si adora (chi ancora lo adora) Berlusconi perché si consumano le sue tv. Paragone irriverente? Irrispettoso accostamento fra un vero, grande innovatore e un guitto di provincia? Forse, ma non va dimenticato che entrambi sono stati a loro modo rivoluzionari e innovatori, e che innovazione è la parola magica con cui vengono legittimate le peggiori malefatte della cultura liberal liberista.

Sui media americani leggo che, finora, il contributo degli Afroamericani e dei Latinos al movimento Occupy Wall Street (l’unica vera, grande novità delle ultime settimane, quella di un popolo che si sta svegliando e comincia a ribellarsi contro chi lo sta riducendo in miseria), mentre tutti insistono sul fatto che i ribelli impugnano come armi gli ultimi ritrovati della tecnologia digitale (fra cui, si presume, molti portano il marchio Apple, prediletto dalla sinistra “creativa”).

C’è da sperare che ne facciano buon uso, senza indulgere nel culto del “divo” Jobs, e che trovino il modo di unirsi alle moltitudini che non possono permettersi tecnologie modaiole.
Carlo Formenti
(7 ottobre 2011)

Afghanistan, 10 anni di occupazione

Enrico Piovesana. Fonte: peacereporter
Manifestazioni di piazza a Kabul contro gli Stati Uniti e la Nato e contro il “governo fantoccio” di Karzai. A organizzare la protesta il movimento extraparlamentare di sinistra Partito Afgano della Solidarietà (Hambastaghì)

Centinaia di manifestanti, uomini e donne, sono scesi in strada a Kabul per protestare contro l'occupazione militare straniera dell'Afghanistan nel decennale dell'invasione del Paese.
I dimostranti, sostenitori del movimento extraparlamentare di sinistra Partito Afgano della Solidarietà (Hambastaghì), hanno bruciato bandiere stelle e strisce, scandito slogan antiamericani e mostrato striscioni e cartelli che accusavano gli Stati Uniti e la Nato di massacri contro i civili e denunciavano il presidente Hamid Karzai come un fantoccio asservito a Washington.

"Occupazione=atrocità e brutalità" e "Occupazione=morte e distruzione" si leggeva su cartelli con le immagini di donne e bambini uccisi dai bombardamenti alleati. "No all'occupazione", recitava un altro. Uno striscione recava una caricatura di Karzai come un burattino con in mano una penna mentre firma un documento intitolato "Prometto agli Stati Uniti".

Un altro mostrava il simbolo della Nato con un teschio al centro e la scritta "Nato fuori dall'Afghanistan". Un cartello riproduceva la foto del soldato americano Andrew Holmes in posa sorridente accanto al cadavere di un adolescente afgano che aveva appena ucciso, e la scritta "Il vero volto dell'occupazione".

"Lo spargimento di sangue, il sangue dei civili vittime della Nato ma anche di quelli uccisi dai talebani, è il risultato dell'invasione statunitense dell'Afghanistan. Gli invasori se ne devono andare subito!", ha gridato un manifestante dal suo megafono.
"In questi dieci anni di occupazione il nostro Paese ha vissuto solo sofferenza, povertà e insicurezza", ha dichiarato uno degli organizzatori della protesta, Hafizullah Rasekh.

Il Partito Afgano della Solidarietà, ideatore della manifestazione, è nato nel 2004 su una piattaforma politica democratica, laica e progressista, fautrice di una 'terza via' afgana (né con gli occupanti stranieri né con i fondamentalsiti) che affonda le radici nella tradizione degli Shòlai: i maoisti afgani che negli anni '80 combatterono sia i sovietici che gli integralisti, e che ancora oggi sono attivi in clandestinità.

Hambastaghì – che intrattiene contatti con Sel e Rifondazione in Italia, con Die Linke in Germania e con altri partiti della sinistra radicale europea – è l'unico partito afgano a non essere legato ai signori della guerra del passato, a non essere espressione di minoranze etniche, a riconoscere pari dignità a uomini e donne al suo interno e soprattutto l'unico a essere composto da soli giovani. A partire dal segretario Daud Razmak, 35 anni, ex studente di Medicina originario di Farah. Lo abbiamo incontrato poche settimane fa nella sede nazionale del partito, un piccolo e anonimo edificio alla periferia di Kabul, frequentato da giovani militanti: uno di loro, incrociato all'ingresso, indossava una maglietta di Che Guevara.

"Il Partito della Solidarietà - ci aveva detto Razmak - ha oltre trentamila iscritti, in continua crescita. Non facciamo politica in parlamento: abbiamo deciso di boicottare le farse elettorali messe in scena dal regime di Karzai e di lavorare tra la gente. Lo facciamo nei villaggi, con attività di alfabetizzazione e sensibilizzazione politica, e nelle città, organizzando grandi manifestazioni di piazza. Negli ultimi due anni le strade di Kabul, Jalalabad, Mazar, Herat sono state attraversate da cortei di protesta sempre più numerosi e con una crescente partecipazione delle donne".

"Manifestiamo contro le stragi di civili commesse dalla Nato, contro le basi permanenti che gli Stati Uniti vogliono mantenere nel Paese dopo il 2014, contro il terrorismo dei talebani e le ingerenze del Pakistan e dell'Iran, contro il regime mafioso di Karzai e contro il fondamentalismo religioso. Sono nemici molto potenti che possiamo sconfiggere non certo attraverso le elezioni, ma solo con una spinta al cambiamento dal basso, una sorta di pacifica insurrezione generale del nostro popolo".

Enrico Piovesana

15 Ottobre. Il movimento prende le “contromisure”.

di Federico Rucco. Fonte: contropiano
Una affollata assemblea all’università di Roma discute della manifestazione nazionale del 15 ottobre e sul come “rimandare al mittente la lettera alla Bce”. Così com’è la giornata del 15 non convince molti. Decisa una mobilitazione per mercoledì 12 ottobre in occasione del convegno con Draghi e Napoletano alla Banca d’Italia, in pratica un vertice del “governo unico delle banche”.

La “mitica” aula I della facoltà di Lettere si riempie quasi con puntualità. Più di trecento persone tra universitari, attivisti sociali e sindacali riempie una delle più grandi aule della Sapienza per discutere della manifestazione del 15 ottobre. La chiamata è venuta dalla rete Roma Bene Comune che da mesi sta sperimentando nella capitale una modalità unitaria di gestione del conflitto sociale.

L’intervento introduttivo è di una studentessa dei collettivi universitari che parte dalle manifestazioni in corso a New York attuate del movimento “Occupy Wall Street” per arrivare alla lettera della Bce e a quello che definisce “l’inganno dell’Europa”. Il non pagamento del debito è al centro della mobilitazione. “Se responsabilità nazionale, come invoca Napolitano, significa rinunciare ai nostri diritti allora è meglio essere irresponsabili” afferma raccogliendo l’applauso scrosciante dei presenti. L’intervento arriva poi al nocciolo delle discussioni di questi giorni ed è piuttosto esplicito:”Il 15 ottobre diventa una giornata centrale se è non una sfilata ma una giornata radicale di conflitto”. Le divergenze emerse nei giorni scorsi nella preparazione del 15 ottobre si materializzano così nitidamente già in apertura di assemblea.

Ancora più netto è l’intervento di uno studente del collettivo di Scienze Politiche “Parlare di conflitto il 15 ottobre non significa evocare gli scontri in piazza ma parlare di una lotta che non abbia come obiettivo la campagna elettorale”. L’intervento annuncia un appuntamento effettivamente significativo: mercoledì 12 giugno alla Banca d’Italia ci sarà un convegno con Draghi e Napolitano. Il primo autore della Lettera della Bce, il secondo sostenitore della linea dei tagli e dei sacrifici in nome della stabilità europea. Immediatamente si anima un conciliabolìo in sala. Si tratta di decidere se trasformare questa occasione in una iniziativa non solo propedeutica al 15 ottobre ma come mobilitazione che dia il segno giusto alle proteste contro le misure antisociali del “governo unico delle banche”.

Berlusconi convoca il governo nelle sue case dove spera di trasferire il parlamento.

di Francesco "Pancho" Pardi. Fonte: arcoiris
Un amico che viaggia molto all’estero mi pone una domanda diretta: perché Berlusconi preferisce svolgere la massima parte della sua attività di governo a casa sua invece che nelle sedi ufficiali, Palazzo Chigi o il consiglio dei ministri? Con ingenua malizia mi fa notare che Angela Merkel, anche se volesse imitarlo, non potrebbe. Abita infatti in una villetta bifamiliare a schiera: giardinetto minuscolo davanti e, dentro, un salottino di cui si può indovinare l’interno. Un divano, due poltrone e, se anche in Germania usa così, buffet e controbuffet.

Ma ho visto la casa di Prodi a Bologna. Piena zeppa di libri, i divani occupati alla rinfusa dai giocattoli dei nipotini: spazio per sei o sette interlocutori al massimo. Dunque Berlusconi usa casa sua perché è un miliardario dal pessimo gusto e vuole esibire la sua ricchezza malvissuta? Non penso che sia solo per sgraziato esibizionismo. Forse c’è anche questo aspetto ma non possiamo farci abbagliare da ciò che i giornalisti chiamano “colore”.

All’origine c’è la mezza cultura. Che in questo caso è l’imitazione televisiva dell’America. Il distributore italiano di Dinasty sogna la Casa Bianca e lo studio ovale. E siccome non ha letto “La democrazia in America” di Tocqueville non sa che il paragone tra il presidente degli Usa e il presidente del consiglio italiano è impossibile. Il sottofondo mentale è dunque una fantasia provinciale. Innestata su un egotismo di assoluto rilievo clinico.

Ma fermarsi alla psicologia ci impedisce di cogliere la durezza della sostanza politica. Che ha una semplicità estrema. Berlusconi pensa che la democrazia consista nell’eleggere un capo. Una volta eletto il capo diventa l’interprete indiscusso della volontà popolare per tutta la durata della legislatura. Il Parlamento diventa impaccio. L’opposizione fastidiosa presenza. Le procedure parlamentari, in commissione e in aula, strumento di viscose e malvagie lentezze. Non lo fanno governare, gli impediscono di esercitare il suo genio. Se non ottiene i risultati promessi è sempre colpa degli altri.

Uno dopo l’altro i suoi principali alleati, appena mostrano la minima indipendenza, tardiva e insufficiente, vengono eliminati. Così, a sussulti, la sua maggioranza traballa. Allora si compra nuovi sostenitori, pagati un tanto al chilo. La carne in vendita è a basso prezzo. Ma se ne fida poco. Fugge dunque i luoghi della democrazia. Si sottrae al confronto. Esorcizza il conflitto. Ama vivere in un universo autistico. Ciò potrebbe farci tornare alla psicologia. Ma bisogna sottrarsi alla tentazione. Che Palazzo Grazioli sia, a seconda delle ore, il teatro delle ragazze a pagamento o il carosello di ministri e sottosegretari schiavi della servitù volontaria, rischia di farci interpretare in chiave riduttiva una precisa volontà di ridurre la democrazia a messa in scena della volontà padronale.

La dimora privata si impone sempre di più come lo scenario chiuso di un’impotenza crescente. Dai suoi salotti arredati dalla volgarità sgarbiana convoca giannizzeri, elemosinieri e uomini di mano. Promette misure per lo sviluppo, farnetica della rivoluzione liberale che ha impedito e reso incredibile. Si illude di fare in un anno e mezzo ciò che ha fallito nei due decenni precedenti. Dal mondo chiuso di casa sua pensa che tutto sia possibile. Persino annichilire ciò che ormai tutti sanno, in Italia e nel mondo.

La sua maggioranza asservita può perfino confezionargli la cancellazione ufficiale della verità. Si consuma così una sua paradossale vittoria: la riduzione del Parlamento stesso a casa sua, luogo fisico di una volontà di potenza senza contraddittorio. Non se n’è accorto ma si è già condannato da solo agli arresti domiciliari.

Emergency

Cari amici di Emergency,
ricorre in questi giorni il decimo anniversario dell’ennesima aggressione militare in Afganistan. Quella cui orgogliosamente partecipa anche il nostro paese.
La casta politica italiana dal 2002 a oggi ha sempre approvato in modo bipartisan le spese per la guerra in Afganistan - camuffata da “missione di pace”. Per tenervi una media di 3.000 soldati, ha speso fino a ora quasi 4 miliardi di euro.
Il danaro delle nostre tasse per la guerra, contro la nostra Costituzione, contro le nostre coscienze.
In dieci anni Emergency ha speso in Afganistan 55 milioni di euro. Con poco più dell’1 per cento di quello che i governi italiani hanno speso per la guerra, Emergency ha realizzato 3 Centri chirurgici, un Centro di maternità, una rete di 29 Posti di primo soccorso e Centri sanitari, curando oltre 3 milioni di persone di tutti i gruppi sociali, di tutte le parti politiche, di tutti i credo religiosi.
Il lavoro di Emergency, non i blindati, è il pezzo di Italia che gli afgani apprezzano. Le vittime non capiranno mai le motivazioni di chi porta lutti e miseria, le ragioni di chi semina terrore per combattere il terrorismo, di chi pratica la guerra per fare finire la guerra.
Che cosa avrebbe potuto fare l’Italia per gli sfortunati cittadini afgani, che sopravvivono in mezzo alla guerra da ormai trentacinque anni?
Come si traducono 4 miliardi di euro? In migliaia – non centinaia – di ospedali, cliniche, scuole.
Peccato che i soldi ci siano sempre per la guerra, mai per costruire la pace e i diritti.
Persino i soldi che i cittadini hanno deciso di destinare agli aiuti umanitari attraverso il 5 per mille non sono ancora stati erogati. I soldi sono lì, nelle loro banche, i cittadini li hanno versati nel 2009, ma il governo preferisce tenerseli il più a lungo possibile.
Questo sta creando a Emergency grandi difficoltà economiche, perché i nostri ospedali e le nostre cliniche non possono aspettare i tempi della politica, hanno bisogni urgenti, immediati, concreti.
Per questo vi rivolgiamo un appello a sostenere economicamente Emergency ora più che mai. Per poter continuare a lavorare, a curare persone, a portare umanità nella barbarie della guerra.
Grazie
Gino Strada
Aiutaci a continuare a curare le vittime della guerra in Afganistan: sostieni Emergency con una donazione online

giovedì 6 ottobre 2011

Bertinotti. Io non sarò su quel treno

INTERVISTA di Loris Campetti Fonte: ilmanifestoIntervista.
«Saltare un giro è possibile». Il referendum? «Non ho firmato quello che vuole il ritorno al Mattarellum, meglio il proporzionale» Contro il processo autoritario e i diktat della Bce, perché saltare su un convoglio di governo se non puoi cambiare la direzione? Fuori dal recinto, la rivolta è un'opportunità. Parla Fausto Bertinotti I governi contestati dal basso sono anche delegittimati dai poter finanziari

La metafora di Bertinotti che più colpisce è quella del treno: «L'idea di salire su un treno in corsa pensando di poterlo guidare o almeno di poterne cambiare la direzione è destinata al fallimento. E sai perché? Perché la locomotiva marcia su binari fissi, al massimo puoi cambiarne la velocità». Traduzione: se resti dentro il recinto costruito dai nuovi poteri che hanno seppellito la politica e gli stati, in cui puoi solo confermare le ricette «oggettive» liberiste, non cambierai un bel niente, semplicemente verrai tu stesso sussunto dal pensiero unico. Al massimo potrai provare a introdurre «elementi di giustizia sociale» dentro un meccanismo comunque immodificabile, e diventerai un oggetto della rivoluzione passiva in atto».
Il patto con Bertinotti è chiaro: nessuna polemica diretta con la sinistra - nelle sue forme date, politiche e sociali - di cui intervistatore e intervistato sono in qualche misura parte. Già dire sinistra è complicato. Una volta si parlava delle «due sinistre», ma anche questa definizione è obsoleta, «sotterrata da quello straordinario sommovimento di agosto che ha reso visibile anche ai cechi il mutamento radicale di scenario». Chi non è sordo al rumore di uno scricchiolio diventato terremoto non può pensare di rispondere con i fondamentali classici del Novecento. Fausto Bertinotti ha lanciato un sasso nello stagno con il suo editoriale «L'opportunità della rivolta» su Alternative per il socialismo, pubblicato in parte dal manifesto e leggibile in toto sul nostro sito www.ilmanifesto.it. Dal magma della sinistra extraparlamentare, forse è meglio chiamarla così, sono schizzate critiche dure: questa è antipolitica, si rimuove il problema del governo; o, al contrario, «noi l'avevamo già detto, quindi avevamo ragione», e anche riflessioni più serie. Certo è che Fausto, extraparlamentare fino a un certo punto essendo presidente della Fondazione della Camera, si riaffaccia prepotentemente sulla scena con una nuova, «discontinuità».
Ne parliamo senza nominare Nichi Vendola né Paolo Ferrero, senza fermarci sul patto Bersani-Di Pietro-Vendola, sul Nuovo Ulivo che non convince Fausto, come non lo convince, da buon proporzionalista, il referendum per il ritorno al mattarellum. «Proviamo ad approfondire», dice.

E' MORTO STEVE JOBS. LO RICORDIAMO A MODO NOSTRO



Fonte: controlacrisi
La Apple ha comunicato il decesso del fondatore Steve Jobs. Lo ricorda riproponendovi il video di un suo ormai celebre discorso e la traduzione di un articolo assai critico apparso nell'agosto scorso sul sito americano In These Times.

Remembering Steve Jobs’ Record on Workers’ Rights
By Mike Elk

Ieri Twitter e’ stato intasato dalle reazioni alle dimissioni di Steve Jobs da CEO di Apple a causa delle sue cattive condizioni di salute. Progressisti e conservatori hanno lodato allo stesso modo Jobs come colui che ha rivoluzionato l´industria con l´innovativo design dei prodotti Apple; Qusto ha detto Ario Jafarzadeh in un twitt : "Grazie Steve per avere spinto per il design dei tuoi prodotti , perché il design ha l´uomo al centro"
Mentre il design di Jobs per i computer hanno l’uomo al centro, le condizioni di lavoro dei lavoratori della Apple hanno al centro il profitto.
Jobs ha rivoluzionato infatti l´industria dei computer ma in senso modo negativo per i lavoratori americani, che hanno visto per decenni i posti di lavoro della produzione diminuire per andare oltremare e aumentare progressivamente le condizioni di sfruttamento.
Molte persone possono trovare disgustoso criticare la vita lavorativa di una persona in cattiva salute ma io credo che sia necessario criticare le pratiche lavorative di Jobs. Sono certo, altresi, che molti sostenitori di Jobs eviteranno accuratamente di menzionare le violazioni sistematiche dei diritti dei lavoratori che succedono alla Apple.
L’industria dei computer é stata vista da molti come il potenziale salvatore dell’industria manifatturiera americana.

Secondo l’ex CEO di Intel Andy Grove, nel 1970 vi erano circa 150.000 americani che lavoravano nell’industria dei computer. Tra il 1970 ad oggi l’industria del computer é cresciuta da 20 miliardi all’anno a 200 miliardi all’anno. Al suo picco l‘industria dei computer impiegava circa 2 milioni di persone negli Stati Uniti.
Ora, gran parte delle lavorazioni di computer sono fatte oltreoceano, ci sono solo 150.000 lavoratori americani impiegati nell’industria dei computer, secondo Grove, che vorrebbe invertire questa tendenza.

THE END OF THE BULLFIGHTS?

mercoledì 5 ottobre 2011

Conferenza EAPN: un’altra risposta alla crisi è possibile.

Fonte: apiceuropa
La conferenza organizzata dall’European Anti-Poverty network è stata l’occasione per presentare il documento intitolato “Re-engaging Hope and Expectations – getting out of the crisis together”.
Il documento enumera i dodici elementi-chiave di un approccio di risposta alla crisi alternativo, sostenibile e inclusivo.
Esprimendo la propria solidarietà al popolo greco e invocando un’azione urgente per fermare le misure di austerità come sola risposta alla crisi del debito, EAPN chiede alle istituzioni europee di «aprire le loro porte» a un dibattito veramente inclusivo dal quale scaturiscano soluzioni basate su investimenti in occupazione, servizi e protezione sociale, trasparenza e «governance partecipativa».
Al primo posto tra le richieste di EAPN una «governance della crisi aperta e inclusiva» che consiste nel coinvolgimento di persone vulnerabili e di ONG che operano sul campo nell’implementazione della Strategia “Europa 2020” soprattutto per quanto riguarda gli obiettivi di eradicazione della povertà.
Altrettanto importante è ritenuto il salvataggio dell’euro ma «senza sacrificare la solidarietà» e quindi sostenendo gli Euro Bond e gli impegni per la governance sociale ed economica della crisi.
La piena occupazione e la protezione sociale – anche attraverso dispositivi di reddito minimo - devono, secondo EAPN, essere elementi cardine della risposta alla crisi in cui allo Stato compete un ruolo cruciale, soprattutto per garantire un welfare equo e universale.
EAPN sollecita inoltre un «patto di investimento sociale» che si concretizzi in investimenti a favore dell’educazione, della salute, dei servizi sociali, delle politiche per la casa e dell’lavoro «verde» (cioè in settori e produzioni a basso impatto ambientale) e «bianco» (cioè regolare e tutelato).
Altre azioni sollecitate da EAPN riguardano l’equa ripartizione della ricchezza e delle conoscenze, l’attivazione di dispositivi di reddito minimo, la «solidarietà fiscale» (che non può prescindere dalla progressività del regime di aliquote,dalla tassa sulle transazioni finanziarie e dalla fine dei paradisi fiscali), l’implementazione di politiche di inclusione attiva (compreso il sostegno alle Regioni e agli Enti Locali che destinano almeno il 20% dei Fondi strutturali all’inclusione sociale) e un quadro normativo che garantisca alle piccole e medie imprese (PMI) e all’economia sociale di poter operare sul mercato alla pari con gli altri soggetti .
Ultima ma non meno importante tra le raccomandazioni di EAPN è quella che, partendo dall’iniziativa Beyond GDP, sottolinea l’importanza degli di indici multidimensionali che consentano di misurare lo sviluppo non soltanto in termini di Prodotto Interno Lordo ma anche in termini di sostenibilità e di benessere. Dall’utilizzo di questi indicatori discende, secondo EAPN, la ridefinizione delle priorità future.

Come guidare il default italiano.

di Guido Viale. Il manifesto. Fonte: globalproject
Il fallimento di uno Stato (il cosiddetto default) non è un evento puntuale ma un processo. L’evento puntuale è la dichiarazione con cui lo Stato comunica che non intende più o non è più in grado di pagare alcuni dei suoi debiti: cioè di rimborsare alla loro scadenza i titoli (bond) che ha emesso. L’evento può assumere varie forme: se la cosa avviene “inaspettatamente” può gettare nel caos il paese debitore, ma anche alcuni dei paesi creditori (quelli le cui banche o i cui risparmiatori hanno accumulato quei bond) e, poi, il resto del mondo; o quasi. Oggi la cosa sembra impensabile; ma abbiamo di fronte anni di turbolenza finanziaria che renderanno sempre più difficile prepararsi a eventi del genere. Oppure può assumere forme “pilotate”, con accordi che ripartiscano gli oneri del default tra debitore e creditore, cercando di contenere i danni; può avvenire in forma parziale, attraverso la promessa di rimborsare solo una parte del valore nominale dei bond; o in forma “selettiva”, differenziando l’entità del rimborso a seconda della tipologia dei creditori (garantendo un rimborso maggiore ai piccoli risparmiatori, uno minore ai grandi investitori nazionali e uno ancora inferiore o nullo a quelli esteri). Oppure può avvenire sterilizzando il debito, il cui valore nominale resta inalterato, ma il cui rimborso viene procrastinato nel tempo. Scelte del genere non comporterebbero necessariamente “l’uscita dall’euro” degli Stati insolventi: non ci sono “procedure per farlo” – e non è una cosa semplice – e scatenerebbero una fuga dall’euro di tutti gli Stati a rischio; cioè la dissoluzione della moneta unica, gettando l’Europa in un caos anche peggiore. Inoltre, non è detto che il ritorno a una moneta nazionale comporti, per lo Stato in default, un recupero di competitività con una svalutazione e il ritorno a una bilancia dei pagamenti in equilibrio. Se il tessuto produttivo non c’è, o è inadeguato, la svalutazione non basta per togliere quote di mercato ai più forti in campo tecnologico e amministrativo: soprattutto in un mercato in contrazione, come sarà quello europeo, e mondiale, nei prossimi anni. In ogni caso, di fronte a una stretta del credito (credit crunch) potrebbero svolgere un ruolo decisivo la creazione e la moltiplicazione di “monete” a base locale emesse, in circuiti ristretti, su basi fiduciarie. È un tema che meriterebbe maggiore attenzione. Le conseguenze delle alternative qui prospettate non sono ovviamente le stesse; ma in tutti i casi il default non è una passeggiata: una notevole contrazione della circolazione monetaria, della produzione, dell’occupazione legata alle attività in essere, dei redditi e del potere di acquisto è inevitabile, come lo sono una fuga di capitali – se le reti per intercettarli non sono adeguate – un blocco degli investimenti esteri e privati e l’impossibilità, per diversi anni, di ricorrere a nuove emissioni (cioè di fare altri debiti). Ma, a ben vedere, questi non sono che in minima parte “effetti” dell’evento default, bensì i fenomeni che lo precedono e lo preparano: sono il default come processo. Quello che stiamo vivendo.

Un'Europa dei beni comuni.

di Riccardo Petrella. Fonte: ilmanifesto
Si può parlare di disintegrazione europea per una duplice ragione. Primo: la storia degli ultimi 30 anni (a partire dal 1971-73) in Europa è, in generale, la storia di una sempre più marcata regressione rispetto all’obiettivo dell’integrazione politica dell’Europa. Questa appare, nella testa delle attuali classi al potere, più lontana e impossibile di quanto lo fosse agli occhi degli europei di 60 anni fa. Secondo: la sottomissione voluta dai poteri forti dell’Unione europea al neo-totalitarismo capitalista ha disintegrato il tessuto sociale ed economico delle società europee. L’Europa è diventata un arcipelago di tante isole diverse, diseguali, internamente fratturate da forti ineguaglianze e sbattute da venti di esclusione verso l’esterno. Si potrebbe analizzare una terza ragione, la disintegrazione ecoambientale (rapporti esseri umani-natura), ma questa, per quanto estremamente importante per il divenire delle società, va ben al di là del contesto specificamente europeo.

La disintegrazione politica

Le classi dirigenti del secondo dopoguerra crearono nel 1951 la prima «comunità europea» (la Ceca, la comunità del carbone e dell’acciaio), dotata di poteri sovranazionali e mirante alla messa in comune di due risorse industriali chiave di grande importanza strategica per l’economia dell’epoca. In pochi anni, le speranze riposte nella Ceca, e poi nell’Euratom creata sei anni dopo, si infransero di fronte alla resistenza feroce dei poteri forti degli Stati membri (erano solo sei) i quali riuscirono - soprattutto la Francia e meno apertamente la Germania - a boicottare e far saltare de facto la sovranazionalità della Ceca e dell’Euratom. La creazione nel 1961 della Comunità economica europea (Cee, detta Mec – Mercato Comune) sempre a sei, segnò la prima grande regressione e la vittoria delle tesi funzionaliste in materia d’integrazione tra Stati sovrani.

Secondo le tesi funzionaliste – sposate dalla grande maggioranza delle élite europee, auto dichiaratesi realiste, pragmatiche e possibiliste – l’integrazione politica dell’Europa sarebbe stata realizzata solo mettendo anzitutto insieme gli interessi economici. Essa doveva avvenire per fasi graduali, la prima essendo quella della creazione di un mercato unico (libera circolazione interna delle risorse, dei beni, dei prodotti, dei servizi). L’integrazione dei mercati avrebbe condotto alla seconda fase: la convergenza delle strutture economiche, la quale a sua volta avrebbe condotto necessariamente alla definizione e realizzazione di politiche europee comuni. Considerato che nessuna politica economica comune avrebbe potuto affermarsi solidamente in assenza di una moneta comune, il funzionalismo sosteneva che le politiche comuni avrebbero imposto e condotto alla creazione di una moneta unica e quindi, inevitabilmente, alla politica monetaria e finanziaria europea. Per essere efficace, questa avrebbe richiesto un potere politico europeo: l’integrazione politica sarebbe arrivata così all’appuntamento. «Dal mercato al potere politico europeo» attraverso l’economia, le politiche economiche comuni e poi la moneta comune.

NUOVO ULIVO: LA NARRAZIONE DELLA BCE E DEI PADRONI ALLA BASE DEL PROGRAMMA

Fonte: controlacrisi
Il cantiere del nuovo ulivo già è aperto ma è come se fosse chiuso. I titoli già ci sono, e sono quelli imposti dal "vincolo esterno" della letterina della BCE e dal "vincolo interno" imposto da Confindustria. Ora si tratta solo di riempirli e sarà abbastanza semplice visto che il PD è il socio di maggioranza del nuovo ulivo. Di Pietro non dirà una parola di troppo dato che in Europa ha votato ancora più a destra del PD la logica del vincolo esterno appoggiando il six pact. Vendola invece si concentrerà su una video lettera su come riuscire a comunicare che l'alternativa si costruisce con un governo che accetta la logica del patto di stabilità rafforzato. Noi pensiamo invece che la lettera di Mario Draghi sia inaccettabile sia dal punto di vista democratico e costituzionale perchè lede la nostra sovranità , sia dal punto di vista dei contenuti perche' riafferma la logica neoliberista che impone ai paesi periferici di diventare il bacino a basso costo della forza lavoro in Eiropa. Accettare la compatibilità del vincolo esterno che impone il rientro forzato del debito vuol dire accettare il massacro dei diritti dei lavoratori. Dire come fa Bersani che all'interno di questa compatibilità andrebbe ridiscussa la ricetta vuol dire semplicemente prendere sberle dati i rapporti di forza sfavorevoli che ha il nostro paese in termini economici in Europa. Gli indici economici inseriti nel meccanismo di funzionamento del nuovo patto di stabilità non lasciano infatti margini di manovra. Anche Papadopulos in Grecia discute con la BCE ma non ci pare che gli sia servito a molto..

CRISI: BERSANI, SU RICETTE BCE VOGLIAMO DISCUTERE MA ACCETTIAMO LE COMPATIBILITÀ INDICATE (ANSA) - ROMA, 3 OTT - Il Pd accetta le compatibilità di bilancio per la finanza pubblica indicate dalla lettera della Bce al governo, ma sulle sue «ricette» per arrivarci «vuole discuterne». Lo ha detto il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ad una conferenza stampa al termine della Direzione del partito. Sulla lettera di Trichet e Draghi c'erano stati giudizi divergenti da parte di esponenti del Pd. «Nessuna critica da parte nostra alla Bce - ha detto Bersani - perchè ha fatto due supplenze: al governo europeo che non c'è e al governo italiano che è paralizzato e inconcludente. Se ci fossero stati altri governi non ci sarebbe stato bisogno del suo intervento». «Noi siamo pronti ad accettare le compatibilità indicate dalla Bce - ha proseguito - che nell'emergenza possono arrivare anche da un organo tecnico; ma le ricette le vogliamo discutere». «Per esempio - ha proseguito - noi non potremmo arrivare al pareggio di bilancio con 20 miliardi di tagli all'assistenza (come prevede il ddl di delega del governo, ndr), ma quei 20 miliardi vanno trovati e noi lo sappiamo». Bersani ha indicato che questo metodo verrà adottato anche con il manifesto delle imprese, «con cui stiamo cercando di organizzare un incontro»: «noi abbiamo accettato i titoli del loro manifesto - ha sottolineato - poi ci confrontiamo sulle posizioni, alcune delle quali collimano, altre no. Per esempio sul fisco c'è un palese avvicinamento, mentre sui temi sociali c'è da discutere». Infine, parlando in generale della situazione economica e finanziaria del Paese, Bersani ha messo in guardia: «c'è il pericolo di un avvitamento tra misure di rientro, recessione, nuove misure di rientro, e ancora recessione».

NEW YORK. Un viaggio tra gli indignati di Liberty Plaza

A due passi da Wall Street continua la protesta contro finanza, banche e lobbies
di Barbara Pianca (Vita.it) Fonte: controlacrisi
New York - Questa è la terza settimana. Loro non si muovono. O meglio, si muovono, marciano, dibattono, rispondono alle interviste dei giornalisti televisivi che ora finalmente invadono l'accampamento, si intervistano a vicenda (non si contano i videofonini continuamente in azione), dormono nel sacco a pelo battendo i denti, puzzano di giorni e giorni senza docce, distribuiscono cibo, lavano i vassoi con detersivi ecologici, raccolgono lo sporco che inevitabilmente si forma per terra. Ma rimangono. «Non abbiamo nessuna intenzione di andarcene» affermano, e sembrano davvero convinti. Sono quelli del movimento “Occupy Wall Street”. A New York uno zoccolo duro di ragazzi per lo più sulla ventina - qualcuno dice i soliti figli di papà che amano vestirsi da pezzenti e gridare alla rivoluzione, per poi tra cinque anni inserirsi nel sistema che oggi contestano – non molla. Dal 17 settembre si sono seduti a Liberty Plaza, una piazzatta subito accanto Wall Street, per manifestare contro il sistema capitalista adducendogli le colpe della crisi economica mondiale, sull'onda della primavera araba e delle proteste degli indignados. Dicono: «Rappresentiamo la maggioranza, il 99%: Lo strapotere dell'1% deve finire. Banche, lobbies, mercato finanziario: basta».

Ciò che sta accadendo è più interessante di quanto certi media hanno provato a raccontare: fossero i soliti figli di papà, se ne sarebbero già andati (in uno dei numerosi cartelli che si trovano un po' ovunque nella piazza si legge: “Vi stiamo divertendo? Intrattenervi non è il nostro obiettivo”). Non fosse per altro, se ne sarebbero andati almeno per la pioggia, che più volte in questi giorni arriva improvvisa e battente. Loro però invece rimangono, anche quelli che l'impermeabile non ce l'hanno, con i tamburi e un hula hop che si illumina nella notte, a ballare a turno in un cerchio improvvisato, o a discutere, accendersi, confrontarsi. O, ancora, a ripetere in massa le parole di uno. Gli oratori si turnano e ogni loro frase viene ripetuta ad alta voce da tutti gli ascoltatori. Si formano gruppi sparsi e a volte non è facile capire se sono organizzati o improvvisati. Nonostante ci tengano a dire che non esiste una leadership, di cose organizzate, almeno dal punto di vista pratico, ce ne sono. C'è, soprattutto, il centro “media”, un manipolo di computer protetti da un paio di ombrelloni, dove alcuni ragazzi diffondono in tempo reale le notizie tramite i social network. D'altronde, è proprio da lì che tutto questo è partito, eora cominciano anche a venire diffusi i primi documenti ufficiali del movimento.
LIBYA: THE SILENCE OF HIS MASTER VOICE

martedì 4 ottobre 2011

Bancocrazia

di Beppe Grillo
C'erano una volta i parlamenti, i governi federali e nazionali, i pubblici dibattiti sul futuro delle nazioni. C'era persino l'ONU che non funzionava un granché, ma era pur sempre uno straccio di organo rappresentativo. Tutto questo è memoria, cenere di democratica parvenza, polvere del passato. Non conta più nulla. Altri organismi li hanno superati con sigle misteriose per la gente: WTO, BCE, FMI. Il nostro destino è nelle loro mani, ma non sappiamo chi li dirige, chi ne decide gli obiettivi. Nessuno ne ha eletto i rappresentanti, ma da loro dipendono le nostre vite. La BCE, una banca, può inviare, senza che nessuno più si scandalizzi, una lettera a un governo in carica dettandogli le condizioni e minacciandolo di licenziamento. Il WTO può decidere di sconquassare il mondo con la libera economia, una parodia del libero amore dei figli dei fiori trasformati in figli delle banche. La produzione può essere affidata dalle multinazionali a bambini indiani o a lavoratori cinesi senza alcun diritto sindacale. Trasferita da Stati con norme severissime sull'ambiente, alle quali le aziende devono attenersi pena la loro chiusura, a Stati dove tutto è permesso. Di che competizione globale stiamo parlando? La competizione esiste a parità di regole, di diritti. E' più corretto parlare di sfruttamento globale, di abbassamento generale dei salari nelle nazioni industrializzate, della perdita di conquiste sociali e sindacali frutto delle lotte delle generazioni precedenti. Chi ha deciso tutto questo? Il WTO. E in nome in di chi? Il FMI internazionale ricorda gli avvoltoi. I suoi rappresentanti arrivano quando uno Stato sta tirando le cuoia per proteggere interessi internazionali. La Grecia non può andare subito in default. Se fallisse, potrebbero fallire le banche francesi che detengono il suo debito. Quindi prima deve vendere il suo patrimonio nazionale e salvare le banche. Il mondo è bancocentrico e di politica sociale non si discute nemmeno più. La UE è stata sostituita dalla BCE, l'ONU dal WTO, i governi dal FMI. Le stesse guerre hanno ormai solo finalità economiche, non più ideologiche, religiose o territoriali come ha dimostrato la guerra in Libia. Le banche finanziano le guerre che a loro volta finanziano le banche. In albergo ti chiedono la carta di credito al posto della carta di identità. Alla nascita ti attribuiscono il codice fiscale, insieme alla quota personale di debito pubblico, prima di assegnarti un pediatra. I politici sono i camerieri dei banchieri e noi paghiamo il conto.
AIR AMERICA
MY grandfather, my father, myself, my sons; the blood is not water...

lunedì 3 ottobre 2011

Franco Berardi Bifo: A cosa servono le sinistre europee?

di Franco Berardi Bifo. Fonte: controlacrisi
Il 20 Novembre si terranno le elezioni in Spagna, dopo che il governo a guida socialista ha deciso di rinunciare a condurre a termine la legislatura per le difficoltà di gestione della situazione economica, non prima però di avere avviato una politica di austerità aggressiva, che è già costata riduzioni di stipendio per i lavoratori pubblici, tagli alle diponibilità delle amministrazioni regionali, riduzione del finanziamento per i servizi sanitari, e soprattutto non prima di aver accettato la devastante logica antisociale imposta dalle autorità centrali europee.

Tra tutti i leader della sinistra europea Zapatero è stato quello che ha suscitato negli anni scorsi maggiori speranze. Eletto sull’onda di una mobilitazione popolare che aveva sconfitto la manovra di disinformazione montata da Aznar dopo l’attentato di Atocha, Zapatero aveva saputo in qualche modo essere all’altezza delle attese interpretando il rifiuto della guerra infinita di Bush cui Aznar aveva dato piena copertura politica, e portando a espressione legislativa il rinnovamento prodotto dalle culture gay e dalle culture femministe, iniziando sia pur timidamente un processo di allontanamento dello stato spagnolo dall’asfissiante presenza dei parassiti vaticani. Ma nel momento decisivo, quando si è trattato di esprimere una posizione autonoma sulla questione sociale, di fronte al diktat della classe finanziaria europea le attese sono state tradite.

Quando gli speculatori hanno preso di mira la Grecia l’Irlanda e il Portogallo, e la classe finanziaria ha chiesto ai governi nazionali di farsi esecutori del progetto di distruzione dei sistemi pubblici, riduzione del salario, uno dopo l’altro i leader politici della sinistra europea hanno capitolato, e hanno accettato di divenire strumenti della più spaventosa rapina mai conosciutanei paesi europei. Papandreou, leader del partito socialista greco, è stato il primo a chinare il capo di fronte alle pretese monetariste della Banca centrale ed ha accettato un piano di “salvataggio” che consiste essenzialmente nella riduzione del numero dei lavoratori pubblici e del loro salario, nella distruzione del sistema scolastico, e nella privatizzazione di interi comparti del sistema pubblico del paese.

Come era del tutto prevedibile il risultato si è rivelato subito catastrofico. Non solo queste misure di strangolamento non sono assolutamente bastate a pagare il debito (che nel frattempo aumenta con interessi sempre più elevati), ma il prodotto del paese è crollato del 7% in un anno. Segno evidente del fatto che il piano di “salvataggio” caldeggiato dalla BCE e imposto dalle banche francesi e tedesche non serve assolutamente a salvare l’economia greca, che non smette di sprofondare verso il fallimento, ma serve soltanto a spostare reddito verso il ceto finanziario, a ridurre il costo del lavoro a privatizzare.

Germany owes Greece a debt.

Germany's ducking of the war reparations issue makes its attitude to the current Greek debt crisis somewhat hypocritical
di Albrecht Ritschl
guardian.co.uk, Tuesday 21 June 2011
The Germans are not amused these days. Look everywhere from tabloids to the blogosphere, and it seems that the public mood has reached boiling point. Loth to shoulder another national debt increase and finance another bailout, the Germans have started questioning everything from the wisdom of supporting Greece to the common euro currency, or indeed the merits of the European integration project altogether. This might be strange for a country that is nudging ever closer to full employment, and which is about to recapture its position as the world's leading exporter of manufactured goods from the Chinese. But the Germans say they've had enough: no more underwriting of European integration, no more paying for this and that, and certainly no more bailing out the Greeks.

What is truly strange, however, is the brevity of Germany's collective memory. For during much of the 20th century, the situation was radically different: after the first world war and again after the second world war, Germany was the world's largest debtor, and in both cases owed its economic recovery to large-scale debt relief.

Germany's interwar debt crisis started almost exactly 80 years ago, in the last days of June 1931. What had triggered it was Germany's aggressive borrowing in the late 1920s to pay reparations out of credit. A credit bubble resulted, and when it burst in 1931, it brought down reparations, the gold standard and, not least, Weimar democracy.

Having footed the resulting massive bill, after the second world war the Americans imposed the London debt agreement of 1953 on their allies, an exercise in debt forgiveness to Germany on the most generous terms. West Germany's economic miracle, the stability of the deutschmark and the favourable state of its public finances were all owed to this massive haircut. But it put Germany's creditors at a disadvantage, leaving it to them to cope with the financial aftermath of the German occupation.

Indeed, the London debt agreement deferred settlement of the reparations question – including the repayment of war debts and contributions imposed by Germany during the war – to a conference to be held after unification. This conference never took place: since 1990, the Germans have steadfastly refused to reopen this can of worms. Such compensation as has been paid, mostly to forced workers, was channelled through NGOs to avoid creating precedents. Only one country has challenged this openly and tried to obtain compensation in court: Greece.

It may or may not have been wise to put the issue of reparations and other unsettled claims on Germany to rest after 1990. Back then, the Germans argued that any plausible bill would exceed the country's resources, and that continued financial co-operation in Europe instead would be infinitely more preferable. They may have had a point. But now is the time for Germany to deliver on the promise, act wisely and keep the bull away from the china shop.

Un video assolutamente da non perdere… prima che lo cancellino …sulle violenze della polizia negli stati uniti.

In difesa di Wall Street la polizia è stata più dura che mai.


di Angela Vitaliano. Fonte: linkiesta
Sul ponte di Brooklyn ai poliziotti gridavano «Shame!», vergogna. Su Twitter, chi è riuscito a sfuggire alla cella, riordina le idee. In molti nel movimento degli indignados americani, ricordano che a Seattle, nel 1999, dopo giorni di scontri durissimi, con un morto e centinaia di feriti, gli arresti furono circa 600. Qui, invece, per difendere la grande finanza di Wall Street, la polizia ha portato in galera, in poche ore, oltre 700 persone che stavano manifestando pacificamente (ma avevano occupato le corsie destinate alle auto).
Esteri
2 ottobre 2011 - 19:10
Settecento arresti non sono cosa da tutti i giorni, nemmeno in una città dai “grandi numeri” come New York. Soprattutto se si pensa che sono il frutto di una manifestazione che ha bloccato per ore il traffico su uno dei ponti simbolo che collega Manhattan al resto della città: il Brooklyn Bridge. Le immagini della marea umana che, lentamente, a partire dal primo pomeriggio, ha invaso la carreggiata pedonale del ponte, hanno richiamato alla mente scene che non si vedevano da un po’ ed erano, generalmente, circoscritte ai campus universitari e a battaglie per la pace. New York, invece, in queste settimane, è diventata, a suo modo, la “gemella” delle città spagnole, con i suoi indignados a mettere in ginocchio, in barba alla pioggia battente, una delle arterie di circolazione più importanti della città. Il loro credo, infatti, è ispirato dai movimenti egiziani e spagnoli, «giuriamo di mettere fine alla corruzione del denaro nella nostra democrazia».

La finta pace sia con tutti voi

di Giulietto Chiesa - «La Voce delle Voci», ottobre 2011. Fonte: megachip
Scrivo mentre la Assemblea dell’Onu discute il riconoscimento formale dello Stato Palestinese. Sarà un grande ed inedito passo avanti verso il soddisfacimento dei diritti di quel popolo, conculcati, vilmente, cinicamente, dalla cosiddetta comunità internazionale, cioè dai grandi e cinici padroni del mondo, per sessanta interminabili anni. Ma io guardo la cartina geografica e vedo come stanno le cose oggi. Vedo cos’era la Palestina nel 1946, cosa ne fu nel 1947, cosa ne restò nel 1967. E vedo adesso un puzzle di micro territori staccati gli uni dagli altri, un quinto, un decimo, forse meno, di quel territorio originario, fatto di misere nicchie isolate, impoverite, senz’acqua, senza diritti, vessate, martoriate.

E penso: può questa ragnatela sottile di vite e di terre ancora costituire uno Stato per il popolo palestinese, per i 15 milioni di palestinesi cha hanno dovuto fuggire, o ritirarsi, o rinunciare perfino alle loro case? Penso di no. Penso che sia ormai tardi per l’idea di due stati, due popoli. Semplicemente perché uno dei due popoli ha sopraffatto l’altro, con la forza, con l’inganno, con la protezione degli Stati Uniti d’America e dell’Arabia Saudita, con la connivenza dell’Europa e in generale dell’Occidente.

Davide è stato il popolo palestinese, e non ha avuto nessuna fionda per abbattere un Golia armato fino ai denti. Bene, anzi male. Per loro e per noi, temo. Ma io sono andato lo stesso a dare la mia solidarietà a Davide.

Tragedia greca: tasse e svendite.

di Argiris Panagopoulos. Fonte: ilmanifesto
La ribellione di un movimento eterogeneo di funzionari, studenti, pensionati, lavoratori del settore privato e tassisti ha registrato una piccola vittoria psicologica ad Atene costringendo alla ritirata i rappresentanti della troika europea, che hanno abbandonato da due giorni la sede dell'assediato e occupato ministero delle finanze, in piazza Syntagma, per riunirsi con i ministri e funzionari del governo Papandreou in un posto più sicuro.
Atene vive questi giorni una vera rivolta di quasi tutte le categorie ed età contro la nuova raffica di tagli e l'ulteriore giro di vite nell'amministrazione pubblica. La gente protesta e assedia i ministeri, funzionari e studenti occupano. Più di 600 scuole sono già occupate, come tanti istituti professionali e facoltà. Il tempo per le iscrizioni è stato allungato. Come quello per pagare le nuove tasse. Gli scioperi e gli effetti del licenziamento del personale con contratto a termine ha paralizzato le officine del fisco.
Ad Atene vive quasi la metà dei greci e si concentra gran parte della burocrazia di un apparato statale che fino a due anni fa si gonfiava con il voto di scambio. I mercati e la troika hanno firmato il certificato di morte di questo stato. Chi fino a ieri garantiva posti di lavoro per un pugno di voti si ritrova oggi a fare le liste di proscrizioni dei funzionari.
Papandreou e il suo ministro delle finanze Venizelos hanno garantito in parlamento e in tv che il taglio dei primi 30.000 statali nel le prossime settimane avverrà con trasparenza e per meritocrazia. Una presa in giro. Poi ci sarà un secondo giro. Un terzo e chissà quanti altri.
Poche centinaia di metri dal parlamento c'è piazza Clathmonos, la piazza di quelli che piangono. Ha preso il nome perché lì si concentravano piangendo gli impiegati che il governo di turno licenziava quasi un secolo e mezzo fa. Da questa piazza ha cominciato venerdì la marcia degli statali verso il ministero delle finanze, mentre Papandeou vuole alleggerire i conti statali sacrificando 100.000 di loro.
«La direttrice della scuola mi ha detto che prenderò 1110 euro al mese dopo 6 mesi e la liquidazione dopo 4 anni se vado via ora», dice Makis Barbanis, insegnante da 25 anni, che pensa di lasciare per la paura che con il probabile fallimento del paese perderà ancora di più. Le paure, le miserie umane, i bassi istinti si fanno avanti queste ore. L'eterno ricatto.
La maggior parte della gente crede ancora nello sforzo collettivo e lotta con coraggio contro la macelleria sociale di Papandreou e della troika.
«Il governo cerca di spaventarci e di ricattarci perché abbiamo detto che non dobbiamo riscuotere la nuova tassa sulle case attraverso la bolletta elettrica e vuole mettere Deh, la società elettrica, contro i lavoratori», ha detto al manifesto Nikos Fotopoulos, il presidente del sindacato di Denop-Deh, in mezzo alle polemiche per la posizione presa dal sindacato contro le indicazioni date a Deh dal governo di Papandreu (che en passant è anche presidente dell'Internazionale socialista...) di tagliare la luce a chi non paga la nuova tassa per la casa. «Nessun consumatore ha firmato con Deh un contratto che prevede il pagamento di tasse attraverso la bolletta», dice Fotopoulos, mentre aumenta rapidamente il numero di case che restano senza luce e di imprese che chiudono. «E' disumano tagliare la luce a chi non ha soldi per pagare la tassa. I lavoratori di Deh saranno al fianco di chi soffre», continua Fotopoulos, impegnato anche contro i tentativi del ministro dell'ambiente Papakonstantinou di smembrare e svendere la società.
«Gli ultimi tagli del governo hanno scatenato una rabbia collettiva. Il sindacato cerca di organizzare il malcontento tra la gente. Per il 5 ottobre abbiamo programmato manifestazioni, per il 19 uno sciopero generale di 8 ore e molte altre iniziative tra cui la occupazione dei ministeri e dei comuni da parte dei loro lavoratori», dice al manifesto Giorgos Gabrilis, dell'esecutivo della Gsee, l'unica centrale sindacale del settore privato. Per questo sindacalista di sinistra «il governo perde anche le sue ultime alleanze nei sindacati a maggioranza socialista e ogni legittimità nel paese». «La "mobilità" nel settore pubblico farà crescere la disoccupazione a livelli mai visti. Secondo i calcoli di Gsee la disoccupazione sfiorerà il 30% il 2012: un dato terribile, perché il numero dei disoccupati sarà più alto di quello della gente che lavora» Per Gablilis «ormai c'è uno slogan che unisce tutti, compresi i sindacalisti socialisti nei sindacati: questo governo di deve dimettere».
La Gsee sembra aver sposato la linea della disobbedienza civile contro il pagamento delle inique tasse e ora collabora con il movimento «Non pago-Non pago», mentre la nascita del Comitato di coordinamento di statali, settore privato e studenti può creare le condizioni per l'unificazione del movimento di protesta e lo scontro frontale con il governo e la troika della Ue. Papandreou cercherà nel consiglio di ministri di oggi di convincere l'opinione pubblica che lui «ha salvato la patria» con i suoi viaggi a Berlino e Parigi, ma anche tra i suoi fedelissimi appaiono le prime crepe. Tra il governo e la società, pur così distanti, esiste una convinzione comune: la vera crisi non è ancora cominciata.

MICHAEL MOORE: LE MIE NOTTI CON GLI INDIGNATI

MICHAEL MOORE - la Repubblica | 02 Ottobre 2011
Fonte: dirittiglobali
Io tra gli indignati di Liberty Plaza vi imbrogliano, ora diciamo basta. New York ha otto milioni di abitanti: un milione vive in povertà. È una vergogna e la gente non ne può più. Stavolta si tratta dei nostri figli che non possono andare al college. È in gioco il posto di lavoro. È questa la posta in palio. Ho deciso di impegnarmi. Questa adesso è la nostra missione: impegnarci
NEW York ha otto milioni di persone: e un milione vive in povertà. È una vergogna. Eppure il sistema non si ferma qui.
Non importa quanta vergogna possiamo provare: la macchina va avanti - per fare altri soldi. Per trovare nuovi modi di imbrogliare la gente che lavora. Nuovi modi per accaparrarsi le pensioni: di rubare ancora di più. Ma qualcosa sta succedendo a Liberty Plaza.
Sono stato a Liberty Plaza per un paio di notti. E ci tornerò. Sapete? Stanno facendo un gran lavoro laggiù. E stanno ricevendo sempre più sostegno. L´altra notte il sindacato dei ferrotranvieri - gli autisti di bus, gli autisti della metropolitana - ha votato con entusiasmo per sostenere la protesta. Tre giorni fa 700 piloti di linea - soprattutto United e Continental - hanno marciato su Wall Street. Non so se avete avuto modo di vedere queste cose nei tg. So bene com´è andata la copertura fin qui: vi hanno mostrato pochi hippy che picchiavano duro sui tamburi - le cose tipiche che cerca la stampa. Per carità: che Dio benedica gli hippy che picchiano sui tamburi! Ma c´è una ragione per cui "loro" vogliono farci vedere solo questo. E allora ve lo dico io che cosa ho visto in quella piazza. Ho visto i giovani. Ho visto gli anziani. Ho visto la gente di tutti i tipi e di tutti i colori e di ogni religione. Ho visto anche la gente che vota per Ron Paul (il candidato presidenziale ultraconservatore che vuole abolire la Banca centrale). Voglio dire: è un gruppo di gente davvero assortita. Ci stanno le infermiere in quella piazza. Ci stanno gli insegnanti in quella piazza. Gente di ogni tipo.
the american spring

domenica 2 ottobre 2011

Assemblea Noi il Debito non lo paghiamo.

Alternativa Ribelle, 15 ottobre. Siamo un esercito di sognatori: per questo siamo invincibili.

ottobre 2, 2011 simone.oggionni
Quello che segue è il testo dell’appello che promuoviamo come Alternativa Ribelle (e quindi come Giovani Comunisti e Fgci) in vista del 15 ottobre e che è stato pubblicato quest’oggi sul manifesto. Come ho già scritto, il nostro ruolo diventa determinante. Non è presunzione, ma la consapevolezza che Berlusconi non se ne andrà mai senza la lotta, il protagonismo dei movimenti, della sinistra politica e sociale. E lo stesso discorso vale per la crisi economica e per tutte le classi dirigenti che con le loro politiche neo-liberiste la crisi l’hanno prodotta e la crisi inevitabilmente la riprodurranno se saranno di nuovo messe nelle condizioni di governare. Va fermata la crisi e vanno fermate queste classi dirigenti. Con l’unico strumento che abbiamo: la lotta. Certo è – e questo è il contributo che stiamo dando, concretamente, in tutti i luoghi del movimento – che non basta declamare questi obiettivi o sparlarla grossa, perché non è detto che più grossa la spari e più sei ascoltato. Bisogna costruire, pazientemente, una massa critica in grado di incidere e vincere, con un lavoro egemonico e di costruzione del consenso che ha tempi lunghi ma non per questo è meno urgente. In questo sta il valore assoluto dell’unità, da perseguire tanto a livello sociale quanto a livello politico, riconnettendo tra loro le tante espressioni e soggettività di questa sinistra così divisa e debole. Il 15 ottobre sarà utile se avrà queste caratteristiche, se si inserirà veramente dentro un contesto di lotta europea e internazionale e si trasformerà, nel nostro Paese, in un grande appuntamento di massa e unitario della sinistra anti-liberista. Possiamo farcela, dipende da tutti noi. (Simone Oggionni)
Il 15 ottobre anche noi saremo in piazza con gli “indignati” d’Europa:
indignati come chi subisce un torto e vuole giustizia, indignati come chi è stato derubato in modo sistematico da chi tiene i cordoni della Borsa, muove i fili invisibili della Banche e occupa le stanze dei bottoni.
Ci hanno cresciuto nel culto di un sistema economico che ci chiedeva flessibilità, “spirito d’impresa” e sacrifici promettendo ricchezza. Siamo diventati precari, apprendisti sfruttati, stagisti non pagati, studenti universitari vessati da tasse sempre più alte e finanziamenti sempre più bassi. Abbiamo comprato i loro prodotti, rinunciato a mutui e pensioni. Abbiamo perso diritti sul lavoro conquistati con anni di lotte dai nostri nonni e dai nostri padri. Non abbiamo rappresentanza nel Parlamento, complice una politica che si è ripiegata nel suo fortino, per rappresentare interessi ben precisi.
E ora che questo sistema improntato al “produci-consuma-crepa”crolla come un gigante dai piedi d’argilla per la sua incapacità di stare in piedi, nonostante le molte ingiustizie su cui negli anni si era puntellato, gli stessi che ci hanno condotti verso il baratro vogliono che paghiamo ancora.
Quando alzavamo la voce, dicendo che oltre che ingiusto questo sistema era sbagliato, iniquo e irrazionale, ci chiamavano cassandre. E come la Cassandra del mito classico avevamo ragione.
La nostra è una indignazione non autosufficiente, che parte da lontano, attraversa Genova dal 2001 al 2011, e non finisce.
La nostra indignazione percorre gli stessi sentieri di chi vuole costruire un’alternativa, di chi sa che questo non è il solo modo di far andare le cose. Noi ne conosciamo uno più giusto ed equo, abbiamo proposte e pretendiamo di essere ascoltati.
Scenderemo in piazza il 15 ottobre perché in Parlamento si discute di dove e come prendere i soldi ma nessuno contesta per cosa si devono usare. Noi pensiamo che “tranquillizzare i mercati” sia un tributo di sangue ad una divinità malevola, una ricetta impiegata troppe volte in passato e che non risolve il problema.
Noi crediamo che i soldi vadano presi dove ce ne sono, da chi finora ha pagato poco o nulla. Con l’istituzione della patrimoniale, una lotta vera all’evasione fiscale nelle sue diverse forme, con la tassazione delle rendite finanziarie. Noi crediamo che i soldi vadano tolti, per esempio, alle scuole private, alla Chiesa Cattolica, alle spese militari, al finanziamento sistematico alla cultura del profitto, dell’impresa, della religione, della guerra e della morte.
Dobbiamo investire su una società dei saperi, sulla ricerca, sull’istruzione, e non regredire in un regime dello sfruttamento, di un capitalismo “straccione”, dell’Europa delle banche e della finanza.
Il 15 ottobre manifesteremo perché il destino dello stato sociale e della qualità della vita nel nostro Paese nei prossimi anni sta per essere determinato da organismi sovranazionali e lobby economiche che nessuno ha eletto.
Siamo un paese commissariato e sull’orlo del baratro, e vogliamo riprenderci la democrazia che ci è stata espropriata da questa destra antirepubblicana, clericale ed eversiva.
Il 15 ottobre manifesteremo perché dietro alla manovra Sacconi c’è la cancellazione di fatto di ogni garanzia sui contratti di lavoro nel nostro Paese e lo smantellamento dello Statuto dei Lavoratori (compreso l’articolo 18 che gli italiani hanno già difeso in passato) e quindi la Costituzione. Questo è un golpe e noi non lo accetteremo.
Ci stanno rubando il futuro, ed il 15 ottobre saremo in piazza perché non siamo ancora rassegnati: chi tiene in mano le redini del Paese lo sta distruggendo e spetta a noi salvarlo.
Al fianco della FIOM, della CGIL, di tutto il mondo del lavoro, dei precari, delle associazioni, degli studenti, insieme al Coordinamento 15 ottobre chiederemo il blocco della manovra e le dimissioni di un governo incapace e classista che ruba ai poveri per dare ai ricchi, che sta conducendo una generazione sull’orlo del baratro.
Ci riprendiamo la piazza in una grande giornata di mobilitazione dell’opposizione sociale che sia il battesimo del fuoco di un fronte compatto, unitario e aperto a chiunque abbia in mente un’altra manovra, un’altra idea di società, un altro mondo possibile.
Siamo un esercito di sognatori, e per questo siamo invincibili.

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