INTERVISTA di Loris Campetti Fonte: ilmanifestoIntervista.
«Saltare un giro è possibile». Il referendum? «Non ho firmato quello che vuole il ritorno al Mattarellum, meglio il proporzionale» Contro il processo autoritario e i diktat della Bce, perché saltare su un convoglio di governo se non puoi cambiare la direzione? Fuori dal recinto, la rivolta è un'opportunità. Parla Fausto Bertinotti I governi contestati dal basso sono anche delegittimati dai poter finanziari
La metafora di Bertinotti che più colpisce è quella del treno: «L'idea di salire su un treno in corsa pensando di poterlo guidare o almeno di poterne cambiare la direzione è destinata al fallimento. E sai perché? Perché la locomotiva marcia su binari fissi, al massimo puoi cambiarne la velocità». Traduzione: se resti dentro il recinto costruito dai nuovi poteri che hanno seppellito la politica e gli stati, in cui puoi solo confermare le ricette «oggettive» liberiste, non cambierai un bel niente, semplicemente verrai tu stesso sussunto dal pensiero unico. Al massimo potrai provare a introdurre «elementi di giustizia sociale» dentro un meccanismo comunque immodificabile, e diventerai un oggetto della rivoluzione passiva in atto».
Il patto con Bertinotti è chiaro: nessuna polemica diretta con la sinistra - nelle sue forme date, politiche e sociali - di cui intervistatore e intervistato sono in qualche misura parte. Già dire sinistra è complicato. Una volta si parlava delle «due sinistre», ma anche questa definizione è obsoleta, «sotterrata da quello straordinario sommovimento di agosto che ha reso visibile anche ai cechi il mutamento radicale di scenario». Chi non è sordo al rumore di uno scricchiolio diventato terremoto non può pensare di rispondere con i fondamentali classici del Novecento. Fausto Bertinotti ha lanciato un sasso nello stagno con il suo editoriale «L'opportunità della rivolta» su Alternative per il socialismo, pubblicato in parte dal manifesto e leggibile in toto sul nostro sito www.ilmanifesto.it. Dal magma della sinistra extraparlamentare, forse è meglio chiamarla così, sono schizzate critiche dure: questa è antipolitica, si rimuove il problema del governo; o, al contrario, «noi l'avevamo già detto, quindi avevamo ragione», e anche riflessioni più serie. Certo è che Fausto, extraparlamentare fino a un certo punto essendo presidente della Fondazione della Camera, si riaffaccia prepotentemente sulla scena con una nuova, «discontinuità».
Ne parliamo senza nominare Nichi Vendola né Paolo Ferrero, senza fermarci sul patto Bersani-Di Pietro-Vendola, sul Nuovo Ulivo che non convince Fausto, come non lo convince, da buon proporzionalista, il referendum per il ritorno al mattarellum. «Proviamo ad approfondire», dice.
La pubblicazione della lettera della Bce al governo italiano, e la sua assunzione prima da Letta e poi da Bersani, rafforzano le tua provocazione: abbattere il recinto in cui le ricette degli organismi finanziari e bancari diventano «oggettive», «ineludibili» e «rovesciare il tavolo». Vuoi spiegarti meglio?
Il mese di agosto è stato, più che rivelatore, uno spartiacque. Molti di noi avevano già visto in controluce e quel che avveniva attraverso il prisma Marchionne: com'era avvenuto nell'80 ai cancelli di Mirafiori, a Pomigliano si stava rimodellando l'Italia. Le istituzioni europee e mondiali riescono a imporre a tutti i governi sudditi la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, il nuovo dogma. L'avevano scritto economisti apertamente di sinistra, da Bellofiore a Halevi, ma anche keynesiani. Inascoltati, come nella denuncia del tentativo di annichilimento del sindacato fino alla cancellazione del diritto di sciopero. Persino l'accademia economica e quella giuslavorista - penso ai limpidi articoli di Romagnoli sul manifesto - non scuotono i guru delle politiche economiche. La Bce scopre il gioco, si impossessa del sistema di relazioni sindacali e delle dinamiche salariali e le stravolge per gestire le possibilità aperte dalla perdita dei diritti. Per uno con la mia storia è il rovesciamento di un principio basato sul contratto nazionale come dominus assoluto e su una contrattazione pensata come espansiva, e a livello decentrato come leva per rimettere in discussione i rapporti di classe. Sarà un caso se lo Statuto dei lavoratori è arrivato dopo il contratto nazionale dei metalmeccanici? Sul lavoro, condivido le tesi di Romagnoli: c'è un'eccedenza che è la dignità di chi lavora che dev'essere tutelata da leggi, Statuti, Costituzioni, argini rispetto al mare in piena che riduce la contrattazione a olio d'ingranaggio della produttività. La Bce va fuori dal suo tracciato, dalla stabilità monetaria e usa il debito pubblico per rivesciare la lotta di classe.
Cos'è diventata la democrazia delegata?
Siamo passati dallo svuotamento della democrazia diretta da parte del governo e del parlamento alla loro trasformazione in proconsoli di un'oligarchia che poggia il suo potere sull'autorità monetaria. Si definiscono «condizioni necessitate», incontestabili se vuoi stare nella politica e nel momento in cui stai a questi diktat sei omologato. Maggioranze e opposizioni concordano, come in Spagna, nell'assunzione acritica del pareggio di bilancio e trasformano in regola il caso eccezionale. Non ti ricorda gli esegeti di Marchionne a Pomigliano? Si rinuncia a esercitare una politica anticiclica con una politica pubblica di spesa per l'occupazione, quando persino nelle fasi di crescita la disoccupazione diventa strutturale. La politica è ormai impermeabile non solo ai movimenti e alle lotte sociali ma persino all'accademia. I governi sono tutti dislocati sulla stessa dimensione, da un socialista dignitoso come Papandreu in là. In Francia e in Germania in odore di cambiamento, dove si era aperta una seria discussione, i segnali positivi contro il liberismo stanno svanendo. O vogliamo parlare di Letta e di chi sposa la Bce?
Stiamo parlando di una tendenza o di nuovo ordine già definito?
A meno di una netta rottura la tendenza si tramuta in pensiero unico, la crisi democratica e della politica procede in un contesto di mancanza di autonomia. Eppure emergono, qua e là esplodono manifestazioni consistenti che denunciano una crisi di consenso a questo ordine. In Italia in forme molteplici, com'è nella sua storia. Ma guarda all'insieme dell'Occidente, alla Gran Bretagna, alla Grecia, alla Spagna, o al Cile e ora persino agli Stati uniti.
«Tutto il mondo sta esplodendo, dall'Angola alla Palestina», si cantava il secolo scorso. Oggi potremmo persino aggiungere Israele. Non staremo esagerando nella lettura delle rivolte?
Io parlo di indignazione e rivolte, le istituzioni sono contestate dal basso e delegittimate dall'alto dalle organizzazioni finanziarie. Se fossimo stati senza governo, come in Belgio, neanche ce ne saremmo accorti. Se la discriminante è la lettera della Bce, non possono non crescere collera e antipolitica e fa capolino il «partito borghese». La politica reagisce arroccandosi, i governi provano a portare le opposizioni nel recinto.
Questo ragionamento non rischia di sfociare nell'antipolitica?
È vero l'opposto. La scelta di entrare nel recinto che può segnare la morte della politica. Io non credo all'arroccamento, al minoritarismo di chi vuole costruire un soggetto antagonista che si chiama fuori alzando la bandierina antisistema. La dimensione di scala è essenziale, devi porti il problema di incidere sulle scelte rompendo il recinto che non è altro dalla zona rossa, non con i black bloc, semmai con le nuove forme che a Genova erano rappresentate dalle tute bianche e dalle suore. Per abbattere il recinto e liberare la politica serve potenza politica e sociale. Non puoi rifiutare da solo la lettera della Bce, devi fare connessioni, costruire coalizioni sociali e per farlo devi respirare lo spirito di rivolta.
La rivolta è un termine associato alla violenza, almeno lo era nel secolo scorso quando si cantava «chi ha esitato questa volta lotterà con noi domani». Che ne è della tua svolta di Venezia contro la violenza?
Resta la scelta della non violenza, soprattutto dentro una stagione di rivolta. La discontinuità è nella fase. Nel Novecento l'idea portante era l'emancipazione del movimento operaio attraverso la rivoluzione, e i partiti e i sindacati erano gli agenti di quell'idea. Il mondo è cambiato sotto i nostri piedi: partiti e sindacati non sono più motori del cambiamento, la democrazia è negata e il campo del rifiuto ha preso le movenze della rivolta. Un'opportunità, e noi dobbiamo andare a quella scuola. La scelta di Venezia era figlia della convinzione che il movimento da solo non ce l'avrebbe fatta da solo ma si immaginava un'Europa diversa, in cui fosse possibile una pervasività dei movimenti verso le istituzioni. Abbiamo sbagliato, o comunque oggi viviamo un'altra stagione.
Una stagione segnata dalla crisi della politica e in essa della forma partito. Da dove si riparte?
Non dalla politica data, dalle forme esistenti dove il morto mangia il vivo. Penso che un'ipotesi di cambiamento si possa costruire fuori dal recinto. Siamo ben oltre la crisi della forma partito, restano soltanto i comitati elettorali. Ti chiedo: quali sono stati gli appuntamenti importanti di questa fase? Io penso subito alla manifestazione della Fiom del 16 ottobre 2010, alla protesta di tanti soggetti sociali, comunque allo sciopero generale della Cgil e in avanti vedo le manifestazioni in mezzo mondo degli indignati del 15 ottobre. Mi interessa l'esperienza di Uniti per l'alternativa per il suo lavoro di raccordo di culture ed esperienze diverse in cui il movimento operaio si incrocia con altri movimenti trovando terreni comuni di lavoro e di lotta nel contratto dei metalmeccanici e nel salario sociale. Ma mi interessano anche altre storie e altre esperienze. Certo, le alleanze sono importanti, ma chiediamoci su quale terreno costruirle. Pensa al mondo cattolico che vive una grande difficoltà: solo chi è malato di politicismo può pensare a un fronte politico e non sociale. Io ho in mente una coalizione socio-politico-culturale.
Metti in conto la possibilità, o l'opportunità che la sinistra, quella «neoidentitaria» e quella delle primarie, salti un giro?
È possibile. Mi limito a dire che non dobbiamo farci accecare dallo specchietto per le allodole: se salti sul treno non puoi deciderne la direzione perché quel treno ha delle rotaie precise su cui viaggiare. Al massimo puoi modificarne la velocità.
Questo ragionamento ne trascina un altro: come valuti il referendum elettorale?
Io ho firmato il primo, quello lasciato cadere, e non quello che vuole il ritorno al mattarellum. Meglio il proporzionale che il tentativo di salire sul treno del maggioritario in nome delle primarie che non cambierebbero comunque né il macchinista, né la direzione del treno.
Ma insomma, dobbiamo o no mandare a casa Berlusconi?
Certo, che domanda. Ora che la sua storia finisce, però, resta comunque la prigione della centralità assoluta del sistema elettorale pensato solo in funzione dell'accesso al governo. Non ho molto da aggiungere alle cose scritte da Gianni Ferrara sul manifesto. Affrontiamo il cuore dei problemi. Faccio un esempio: oggi è centrale l'unità o la democrazia sindacale? Da questo punto di vista ritengo la Fiom un investimento per noi, per il futuro.
A queste posizioni radicali sei arrivato in forza della tua esperienza come presidente della Camera?
Da quella postazione ho visto la fine della teoria delle due sinistre, e insieme lo svuotamento di senso del parlamento, anche grazie al proliferare dei decreti legge e dei voti di fiducia. Il parlamento è diventato cassa di risonanza del governo. Se invece vuoi sapere se una certa distanza dai luoghi del potere aiuta la riflessione autonoma, la risposta è sì.
Se tornassi indietro ingaggeresti ancora una battaglia per fare il presidente della camera, e non magari il ministro del lavoro?
Potrei risponderti che quella scelta atteneva alle propensioni personali. Preferisco però risponderti che non sono un uomo di governo. Se devo ripensare alla mia vita non posso che ripensarmi sindacalista.
«Saltare un giro è possibile». Il referendum? «Non ho firmato quello che vuole il ritorno al Mattarellum, meglio il proporzionale» Contro il processo autoritario e i diktat della Bce, perché saltare su un convoglio di governo se non puoi cambiare la direzione? Fuori dal recinto, la rivolta è un'opportunità. Parla Fausto Bertinotti I governi contestati dal basso sono anche delegittimati dai poter finanziari
La metafora di Bertinotti che più colpisce è quella del treno: «L'idea di salire su un treno in corsa pensando di poterlo guidare o almeno di poterne cambiare la direzione è destinata al fallimento. E sai perché? Perché la locomotiva marcia su binari fissi, al massimo puoi cambiarne la velocità». Traduzione: se resti dentro il recinto costruito dai nuovi poteri che hanno seppellito la politica e gli stati, in cui puoi solo confermare le ricette «oggettive» liberiste, non cambierai un bel niente, semplicemente verrai tu stesso sussunto dal pensiero unico. Al massimo potrai provare a introdurre «elementi di giustizia sociale» dentro un meccanismo comunque immodificabile, e diventerai un oggetto della rivoluzione passiva in atto».
Il patto con Bertinotti è chiaro: nessuna polemica diretta con la sinistra - nelle sue forme date, politiche e sociali - di cui intervistatore e intervistato sono in qualche misura parte. Già dire sinistra è complicato. Una volta si parlava delle «due sinistre», ma anche questa definizione è obsoleta, «sotterrata da quello straordinario sommovimento di agosto che ha reso visibile anche ai cechi il mutamento radicale di scenario». Chi non è sordo al rumore di uno scricchiolio diventato terremoto non può pensare di rispondere con i fondamentali classici del Novecento. Fausto Bertinotti ha lanciato un sasso nello stagno con il suo editoriale «L'opportunità della rivolta» su Alternative per il socialismo, pubblicato in parte dal manifesto e leggibile in toto sul nostro sito www.ilmanifesto.it. Dal magma della sinistra extraparlamentare, forse è meglio chiamarla così, sono schizzate critiche dure: questa è antipolitica, si rimuove il problema del governo; o, al contrario, «noi l'avevamo già detto, quindi avevamo ragione», e anche riflessioni più serie. Certo è che Fausto, extraparlamentare fino a un certo punto essendo presidente della Fondazione della Camera, si riaffaccia prepotentemente sulla scena con una nuova, «discontinuità».
Ne parliamo senza nominare Nichi Vendola né Paolo Ferrero, senza fermarci sul patto Bersani-Di Pietro-Vendola, sul Nuovo Ulivo che non convince Fausto, come non lo convince, da buon proporzionalista, il referendum per il ritorno al mattarellum. «Proviamo ad approfondire», dice.
La pubblicazione della lettera della Bce al governo italiano, e la sua assunzione prima da Letta e poi da Bersani, rafforzano le tua provocazione: abbattere il recinto in cui le ricette degli organismi finanziari e bancari diventano «oggettive», «ineludibili» e «rovesciare il tavolo». Vuoi spiegarti meglio?
Il mese di agosto è stato, più che rivelatore, uno spartiacque. Molti di noi avevano già visto in controluce e quel che avveniva attraverso il prisma Marchionne: com'era avvenuto nell'80 ai cancelli di Mirafiori, a Pomigliano si stava rimodellando l'Italia. Le istituzioni europee e mondiali riescono a imporre a tutti i governi sudditi la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, il nuovo dogma. L'avevano scritto economisti apertamente di sinistra, da Bellofiore a Halevi, ma anche keynesiani. Inascoltati, come nella denuncia del tentativo di annichilimento del sindacato fino alla cancellazione del diritto di sciopero. Persino l'accademia economica e quella giuslavorista - penso ai limpidi articoli di Romagnoli sul manifesto - non scuotono i guru delle politiche economiche. La Bce scopre il gioco, si impossessa del sistema di relazioni sindacali e delle dinamiche salariali e le stravolge per gestire le possibilità aperte dalla perdita dei diritti. Per uno con la mia storia è il rovesciamento di un principio basato sul contratto nazionale come dominus assoluto e su una contrattazione pensata come espansiva, e a livello decentrato come leva per rimettere in discussione i rapporti di classe. Sarà un caso se lo Statuto dei lavoratori è arrivato dopo il contratto nazionale dei metalmeccanici? Sul lavoro, condivido le tesi di Romagnoli: c'è un'eccedenza che è la dignità di chi lavora che dev'essere tutelata da leggi, Statuti, Costituzioni, argini rispetto al mare in piena che riduce la contrattazione a olio d'ingranaggio della produttività. La Bce va fuori dal suo tracciato, dalla stabilità monetaria e usa il debito pubblico per rivesciare la lotta di classe.
Cos'è diventata la democrazia delegata?
Siamo passati dallo svuotamento della democrazia diretta da parte del governo e del parlamento alla loro trasformazione in proconsoli di un'oligarchia che poggia il suo potere sull'autorità monetaria. Si definiscono «condizioni necessitate», incontestabili se vuoi stare nella politica e nel momento in cui stai a questi diktat sei omologato. Maggioranze e opposizioni concordano, come in Spagna, nell'assunzione acritica del pareggio di bilancio e trasformano in regola il caso eccezionale. Non ti ricorda gli esegeti di Marchionne a Pomigliano? Si rinuncia a esercitare una politica anticiclica con una politica pubblica di spesa per l'occupazione, quando persino nelle fasi di crescita la disoccupazione diventa strutturale. La politica è ormai impermeabile non solo ai movimenti e alle lotte sociali ma persino all'accademia. I governi sono tutti dislocati sulla stessa dimensione, da un socialista dignitoso come Papandreu in là. In Francia e in Germania in odore di cambiamento, dove si era aperta una seria discussione, i segnali positivi contro il liberismo stanno svanendo. O vogliamo parlare di Letta e di chi sposa la Bce?
Stiamo parlando di una tendenza o di nuovo ordine già definito?
A meno di una netta rottura la tendenza si tramuta in pensiero unico, la crisi democratica e della politica procede in un contesto di mancanza di autonomia. Eppure emergono, qua e là esplodono manifestazioni consistenti che denunciano una crisi di consenso a questo ordine. In Italia in forme molteplici, com'è nella sua storia. Ma guarda all'insieme dell'Occidente, alla Gran Bretagna, alla Grecia, alla Spagna, o al Cile e ora persino agli Stati uniti.
«Tutto il mondo sta esplodendo, dall'Angola alla Palestina», si cantava il secolo scorso. Oggi potremmo persino aggiungere Israele. Non staremo esagerando nella lettura delle rivolte?
Io parlo di indignazione e rivolte, le istituzioni sono contestate dal basso e delegittimate dall'alto dalle organizzazioni finanziarie. Se fossimo stati senza governo, come in Belgio, neanche ce ne saremmo accorti. Se la discriminante è la lettera della Bce, non possono non crescere collera e antipolitica e fa capolino il «partito borghese». La politica reagisce arroccandosi, i governi provano a portare le opposizioni nel recinto.
Questo ragionamento non rischia di sfociare nell'antipolitica?
È vero l'opposto. La scelta di entrare nel recinto che può segnare la morte della politica. Io non credo all'arroccamento, al minoritarismo di chi vuole costruire un soggetto antagonista che si chiama fuori alzando la bandierina antisistema. La dimensione di scala è essenziale, devi porti il problema di incidere sulle scelte rompendo il recinto che non è altro dalla zona rossa, non con i black bloc, semmai con le nuove forme che a Genova erano rappresentate dalle tute bianche e dalle suore. Per abbattere il recinto e liberare la politica serve potenza politica e sociale. Non puoi rifiutare da solo la lettera della Bce, devi fare connessioni, costruire coalizioni sociali e per farlo devi respirare lo spirito di rivolta.
La rivolta è un termine associato alla violenza, almeno lo era nel secolo scorso quando si cantava «chi ha esitato questa volta lotterà con noi domani». Che ne è della tua svolta di Venezia contro la violenza?
Resta la scelta della non violenza, soprattutto dentro una stagione di rivolta. La discontinuità è nella fase. Nel Novecento l'idea portante era l'emancipazione del movimento operaio attraverso la rivoluzione, e i partiti e i sindacati erano gli agenti di quell'idea. Il mondo è cambiato sotto i nostri piedi: partiti e sindacati non sono più motori del cambiamento, la democrazia è negata e il campo del rifiuto ha preso le movenze della rivolta. Un'opportunità, e noi dobbiamo andare a quella scuola. La scelta di Venezia era figlia della convinzione che il movimento da solo non ce l'avrebbe fatta da solo ma si immaginava un'Europa diversa, in cui fosse possibile una pervasività dei movimenti verso le istituzioni. Abbiamo sbagliato, o comunque oggi viviamo un'altra stagione.
Una stagione segnata dalla crisi della politica e in essa della forma partito. Da dove si riparte?
Non dalla politica data, dalle forme esistenti dove il morto mangia il vivo. Penso che un'ipotesi di cambiamento si possa costruire fuori dal recinto. Siamo ben oltre la crisi della forma partito, restano soltanto i comitati elettorali. Ti chiedo: quali sono stati gli appuntamenti importanti di questa fase? Io penso subito alla manifestazione della Fiom del 16 ottobre 2010, alla protesta di tanti soggetti sociali, comunque allo sciopero generale della Cgil e in avanti vedo le manifestazioni in mezzo mondo degli indignati del 15 ottobre. Mi interessa l'esperienza di Uniti per l'alternativa per il suo lavoro di raccordo di culture ed esperienze diverse in cui il movimento operaio si incrocia con altri movimenti trovando terreni comuni di lavoro e di lotta nel contratto dei metalmeccanici e nel salario sociale. Ma mi interessano anche altre storie e altre esperienze. Certo, le alleanze sono importanti, ma chiediamoci su quale terreno costruirle. Pensa al mondo cattolico che vive una grande difficoltà: solo chi è malato di politicismo può pensare a un fronte politico e non sociale. Io ho in mente una coalizione socio-politico-culturale.
Metti in conto la possibilità, o l'opportunità che la sinistra, quella «neoidentitaria» e quella delle primarie, salti un giro?
È possibile. Mi limito a dire che non dobbiamo farci accecare dallo specchietto per le allodole: se salti sul treno non puoi deciderne la direzione perché quel treno ha delle rotaie precise su cui viaggiare. Al massimo puoi modificarne la velocità.
Questo ragionamento ne trascina un altro: come valuti il referendum elettorale?
Io ho firmato il primo, quello lasciato cadere, e non quello che vuole il ritorno al mattarellum. Meglio il proporzionale che il tentativo di salire sul treno del maggioritario in nome delle primarie che non cambierebbero comunque né il macchinista, né la direzione del treno.
Ma insomma, dobbiamo o no mandare a casa Berlusconi?
Certo, che domanda. Ora che la sua storia finisce, però, resta comunque la prigione della centralità assoluta del sistema elettorale pensato solo in funzione dell'accesso al governo. Non ho molto da aggiungere alle cose scritte da Gianni Ferrara sul manifesto. Affrontiamo il cuore dei problemi. Faccio un esempio: oggi è centrale l'unità o la democrazia sindacale? Da questo punto di vista ritengo la Fiom un investimento per noi, per il futuro.
A queste posizioni radicali sei arrivato in forza della tua esperienza come presidente della Camera?
Da quella postazione ho visto la fine della teoria delle due sinistre, e insieme lo svuotamento di senso del parlamento, anche grazie al proliferare dei decreti legge e dei voti di fiducia. Il parlamento è diventato cassa di risonanza del governo. Se invece vuoi sapere se una certa distanza dai luoghi del potere aiuta la riflessione autonoma, la risposta è sì.
Se tornassi indietro ingaggeresti ancora una battaglia per fare il presidente della camera, e non magari il ministro del lavoro?
Potrei risponderti che quella scelta atteneva alle propensioni personali. Preferisco però risponderti che non sono un uomo di governo. Se devo ripensare alla mia vita non posso che ripensarmi sindacalista.
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