Fonte: micromega
Perché non farlo santo subito? I peana che hanno accompagnato la morte del guru della Apple, Steve Jobs, surclassano di gran lunga quelli che hanno salutato la dipartita di altri personaggi illustri negli ultimi decenni, con due sole eccezioni: le celebrazioni della fine di Diana d’Inghilterra e di papa Giovanni Paolo secondo.
Perché queste nuvole di incenso (un genio paragonabile a Leonardo, l’uomo che ha cambiato le nostre vite, l’ingegnere dei sogni e via di questo passo)? Perché quasi nessuno parla (e quando se ne parla lo si è fa in sordina, quasi vergognadosi di uscire dal coro) delle decine di operai della Foxconn che si sono suicidati per le spaventose condizioni di lavoro e di vita che hanno dovuto subire per rispettare gli obiettivi imposti dalla Apple ai propri subfornitori, dei danni ambientali provocati da questa impresa campione di stile ed eleganza, del fatto che il genio di Jobs non è stato certo quello dell’innovazione tecnologica (riconoscimento che spetterebbe piuttosto al suo ormai dimenticato socio, nonché cofondatore di Apple, Steve Wozniak), ma semmai quello di un abilissimo venditore e di uno spietato capitalista che ha retto con pugno di ferro il suo impero (“virtù” che condivide con personaggi quali Zuckerberg e Jeff Bezos)?
È successo perché Jobs rappresenta un simbolo, l’incarnazione vivente dello zeitgeist di un’epoca che sceglie i propri eroi fra i personaggi di successo (a prescindere da come questo sia stato ottenuto), fra i protagonisti di un turbocapitalismo fatto di finanza e tecnologie digitali che ha certamente cambiato le nostre vite, ma per la maggioranza le ha cambiate in peggio, visto che ha provocato crisi in cui ci dibattiamo dall’inizio del secolo, di un’era che ha addormentato le coscienze di cittadini e lavoratori trasformandoli in consumatori (o meglio, in prosumer che lavorano gratuitamente per le imprese ICT e dot.com, come le masse dei fan del marchio Apple iTunes ai quali è dovuta una considerevole percentuale del valore generato dall’industria di Cupertino).
Si adora Jobs in quanto consumatori, perché i suoi prodotti funzionano e hanno un design straordinario, perché rendono la vita comoda (a chi può permettersi i loro prezzi esorbitanti), allo stesso modo in cui si adora (chi ancora lo adora) Berlusconi perché si consumano le sue tv. Paragone irriverente? Irrispettoso accostamento fra un vero, grande innovatore e un guitto di provincia? Forse, ma non va dimenticato che entrambi sono stati a loro modo rivoluzionari e innovatori, e che innovazione è la parola magica con cui vengono legittimate le peggiori malefatte della cultura liberal liberista.
Sui media americani leggo che, finora, il contributo degli Afroamericani e dei Latinos al movimento Occupy Wall Street (l’unica vera, grande novità delle ultime settimane, quella di un popolo che si sta svegliando e comincia a ribellarsi contro chi lo sta riducendo in miseria), mentre tutti insistono sul fatto che i ribelli impugnano come armi gli ultimi ritrovati della tecnologia digitale (fra cui, si presume, molti portano il marchio Apple, prediletto dalla sinistra “creativa”).
C’è da sperare che ne facciano buon uso, senza indulgere nel culto del “divo” Jobs, e che trovino il modo di unirsi alle moltitudini che non possono permettersi tecnologie modaiole.
Carlo Formenti
(7 ottobre 2011)
Perché non farlo santo subito? I peana che hanno accompagnato la morte del guru della Apple, Steve Jobs, surclassano di gran lunga quelli che hanno salutato la dipartita di altri personaggi illustri negli ultimi decenni, con due sole eccezioni: le celebrazioni della fine di Diana d’Inghilterra e di papa Giovanni Paolo secondo.
Perché queste nuvole di incenso (un genio paragonabile a Leonardo, l’uomo che ha cambiato le nostre vite, l’ingegnere dei sogni e via di questo passo)? Perché quasi nessuno parla (e quando se ne parla lo si è fa in sordina, quasi vergognadosi di uscire dal coro) delle decine di operai della Foxconn che si sono suicidati per le spaventose condizioni di lavoro e di vita che hanno dovuto subire per rispettare gli obiettivi imposti dalla Apple ai propri subfornitori, dei danni ambientali provocati da questa impresa campione di stile ed eleganza, del fatto che il genio di Jobs non è stato certo quello dell’innovazione tecnologica (riconoscimento che spetterebbe piuttosto al suo ormai dimenticato socio, nonché cofondatore di Apple, Steve Wozniak), ma semmai quello di un abilissimo venditore e di uno spietato capitalista che ha retto con pugno di ferro il suo impero (“virtù” che condivide con personaggi quali Zuckerberg e Jeff Bezos)?
È successo perché Jobs rappresenta un simbolo, l’incarnazione vivente dello zeitgeist di un’epoca che sceglie i propri eroi fra i personaggi di successo (a prescindere da come questo sia stato ottenuto), fra i protagonisti di un turbocapitalismo fatto di finanza e tecnologie digitali che ha certamente cambiato le nostre vite, ma per la maggioranza le ha cambiate in peggio, visto che ha provocato crisi in cui ci dibattiamo dall’inizio del secolo, di un’era che ha addormentato le coscienze di cittadini e lavoratori trasformandoli in consumatori (o meglio, in prosumer che lavorano gratuitamente per le imprese ICT e dot.com, come le masse dei fan del marchio Apple iTunes ai quali è dovuta una considerevole percentuale del valore generato dall’industria di Cupertino).
Si adora Jobs in quanto consumatori, perché i suoi prodotti funzionano e hanno un design straordinario, perché rendono la vita comoda (a chi può permettersi i loro prezzi esorbitanti), allo stesso modo in cui si adora (chi ancora lo adora) Berlusconi perché si consumano le sue tv. Paragone irriverente? Irrispettoso accostamento fra un vero, grande innovatore e un guitto di provincia? Forse, ma non va dimenticato che entrambi sono stati a loro modo rivoluzionari e innovatori, e che innovazione è la parola magica con cui vengono legittimate le peggiori malefatte della cultura liberal liberista.
Sui media americani leggo che, finora, il contributo degli Afroamericani e dei Latinos al movimento Occupy Wall Street (l’unica vera, grande novità delle ultime settimane, quella di un popolo che si sta svegliando e comincia a ribellarsi contro chi lo sta riducendo in miseria), mentre tutti insistono sul fatto che i ribelli impugnano come armi gli ultimi ritrovati della tecnologia digitale (fra cui, si presume, molti portano il marchio Apple, prediletto dalla sinistra “creativa”).
C’è da sperare che ne facciano buon uso, senza indulgere nel culto del “divo” Jobs, e che trovino il modo di unirsi alle moltitudini che non possono permettersi tecnologie modaiole.
Carlo Formenti
(7 ottobre 2011)
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