Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 12 gennaio 2013

Rodotà: “Il Reddito di cittadinanza è un diritto universale”

conversazione con Stefano Rodotà di Roberto Ciccarelli, da il manifesto, 12 gennaio 2013
«In Europa - sostiene Stefano Rodotà, uno dei giuristi italiani che hanno partecipato alla scrittura della Carta di Nizza e autore del recentissimo "Il diritto di avere diritti" - siamo di fronte ad un mutamento strutturale che spinge qualcuno ad adoperarsi per azzerare completamente i diritti sociali, espellere progressivamente i cittadini dalla cittadinanza e far ritornare il lavoro addirittura a prima di Locke. Per accedere ai beni fondamentali della vita come l'istruzione o la salute, dobbiamo passare per il mercato e acquistare servizi o prestazioni. Il reddito universale di cittadinanza è il tentativo di reagire al ritorno a questa idea di cittadinanza censitaria».

Il reddito di cittadinanza, dunque, non il «salario minimo sociale e legale» chiesto dal presidente uscente dell'Eurogruppo Jean-Claude Juncker. Come spiega questa dichiarazione?Juncker ha mostrato più volte un'attenzione rispetto ad una fase nella quale debbono essere ripensati una serie di strumenti anche partendo da una riflessione più profonda sulla dimensione dei diritti. A parte la sua citazione di Marx, credo che la sua dichiarazione dovrebbe essere valutata alla luce dell'articolo 34 della Carta dei diritti fondamentali. In una delle sue carte fondative l'Ue si impegna a riconoscere il diritto all'assistenza sociale e abitativa e a garantire un'esistenza dignitosa ai cittadini. C'è un'assonanza molto forte con uno dei più belli articoli della nostra Costituzione, il 36. Considerati insieme, questi articoli offrono una chiave per considerare il reddito fuori dalla prospettiva riduzionistica con la quale di solito viene considerata. Diversamente dall'approccio del salario minimo, o di quello del «reddito di sopravvivenza» di cui parla Monti nella sua agenda, il reddito non può essere considerato solo come uno strumento di lotta contro la marginalità. In Europa non c'è solo la povertà crescente. Io credo che oggi la lotta all'esclusione sociale passi attraverso l'adozione del reddito di cittadinanza.

Riesce ancora a mantenere una fiducia ammirevole nelle istituzioni europee e a non considerarle solo come l'emanazione diretta della Bce o della volontà tedesca di imporre politiche anti-inflattive e di rigore nei bilanci pubblici. Come mai?Ma perché l'Europa non può essere ridotta solo alle politiche dell'economia che assorbe tutte le altre dimensioni. Non è possibile ricordarsi degli aspetti virtuosi dell'Europa solo quando interviene per sanzionare i licenziamenti di Pomigliano oppure la legge italiana sul testamento biologico e dimenticarli quando impone di considerare l'economia come il Vangelo, con questa idea di mercato naturalizzato. L'Europa è un campo di battaglia. Io stesso ricordo la fatica di introdurre nella Carta di Nizza i principi di solidarietà e uguaglianza che prima mancavano.

Susanna Camusso (Cgil) sembra avere tutt'altra idea sulla proposta di Juncker e ha escluso il «salario minimo» perché danneggerebbe la contrattazione nazionale. Come lo spiega?Capisco la sua volontà di salvaguardare la dimensione contrattuale, ma la trasformazione strutturale che viviamo ci obbliga ad andare oltre questo orizzonte. Il tema capitale e ineludibile è il reddito universale di cittadinanza. Martedì 15 a Roma presentiamo il libro Reddito minimo garantito del Basic Income Network dove discuteremo anche le proposte di Tito Boeri e Pietro Garibaldi, persone tutt'altro che ascrivibili ad un'orizzonte estremista. Il reddito è uno strumento fondamentale per razionalizzare un sistema altamente disfunzionale e sgangherato come quello italiano sulle protezioni sociali. Nei primi giorni di governo l'aveva citato anche Elsa Fornero, poi ha abbandonato questa prospettiva.

LA CRISI A PERDERE DEI CITTADINI E QUELLA A VINCERE DELLE BANCHE

    di Luigi Pandolfi - lavorincorsoasinistra -

La campagna elettorale sta entrando nel vivo, ma, com’era facile prevedere, visti gli attori in campo, i temi veri, quelli che afferiscono al futuro del paese ed alla sua capacità di vincere le sfide che ha davanti, rimangono inspiegabilmente sullo sfondo.
E tra i temi veri, vale la pena ricordarlo, c’è quello che riguarda i nostri impegni con l’Unione europea e le sue strutture tecnico-finanziarie. Insieme a quello, correlato, della compatibilità del nostro diritto al futuro con le scelte finora compiute sul terreno della costruzione dell’Europa monetaria.
Nel luglio del 2012 il nostro Parlamento ha ratificato, in un clima che potremmo definire inerziale, due importanti trattati, quello sul Fiscal compact e quello sul Meccanismo Europeo di Stabilità (MES).
Il primo impegna il nostro paese a ridurre il debito pubblico nei prossimi venti anni, fino a portarlo entro la soglia stabilita dal Trattato di Maastricht ( 60% del PIL). Considerato che il debito italiano ammonta ormai a circa 2000 miliardi di Euro, che in rapporto al prodotto interno fa il 127%, per raggiungere l’obiettivo del trattato bisognerà rastrellare circa 900 miliardi di Euro in venti anni, 50 ogni anno, 150 milioni ogni giorno.
Il secondo è riferito invece all’istituzione del cosiddetto “Fondo salva stati”, un plafone di 650 miliardi di Euro che l’Europa metterebbe a disposizione, previa accettazione di vincoli draconiani dal lato della riduzione della spesa sociale, dei paesi a rischio bancarotta. Chi alimenterà questo portafoglio? Gli stati membri, in rapporto alla loro ricchezza (PIL). L’Italia ha dovuto sottoscrivere quote per il 18% dell’intero capitale, per un importo di circa 125 miliardi di Euro, da versare in 5 anni.
La prima domanda che sorge snocciolando queste cifre è questa: dove prenderà i soldi il nostro paese per onorare questi impegni? Stiamo parlando infatti di cifre vertiginose, tanto grandi da apparire immediatamente incompatibili con le disponibilità finanziare dello Stato, specie in questa fase etichettata con la parola “crisi”.
Evidentemente,come il governo dei professori ci ha anticipato, una parte dei quattrini necessari per “stare in Europa” dovrà venire da una contrazione significativa della spesa sociale e da un inasprimento generalizzato della pressione fiscale, diretta ed indiretta. Ergo, meno servizi e tutele per i cittadini, meno stato sociale, più tasse. Con tutte le conseguenze, in termini di recessione economica e di crescita della povertà, che una simile spirale porta inevitabilmente con sé.
Ma questo non sarà sufficiente, perché oltre una certa soglia, nei tagli al welfare, non si potrà andare, pena l’annientamento della nostra società. E questo il Meccanismo di stabilità l’ha previsto, stabilendo che i paesi membri, per finanziare il “Fondo salva stati” potranno fare nuovo debito pubblico.
Ricapitoliamo. La crisi in atto è sta battezzata come “crisi del debito”. Quotidianamente i mass media ci informano che la stabilità finanziaria dell’Europa passa attraverso il controllo e la riduzione dei debiti sovrani degli stati membri. E in questa direzione andrebbero sia l’obbligo del pareggio di bilancio, peraltro costituzionalizzato, sia le clausole del Fiscal compact appena richiamate. In Italia ciò sarebbe maggiormente rilevante a causa dell’enorme debito accumulato negli anni ed al suo peso in rapporto alla ricchezza nazionale (PIL). Tutto chiaro? Tutto lineare? Nemmeno per sogno.
Proprio il meccanismo principe della stabilità finanziaria europea, il MES, messo in piedi per non far fallire gli stati membri dell’Unione con più alto e tortuoso debito pubblico, prevede che quest’ultimo si può nondimeno aumentare per riempire le sue casse.
C’entra qualcosa tutto ciò col fatto che il debito pubblico italiano negli ultimi mesi ha subìto un’impennata turbinante, portandosi al di sopra dei 2000 miliardi di Euro? Certo che c’entra.
Come dimostrano le stime della Banca d’Italia, all’inizio del 2012 il debito pubblico italiano era poco sopra i 1.900 miliardi di Euro. Oggi siamo a circa 2020 miliardi di Euro. Nei 120 miliardi di differenza ci sono anche i versamenti che il paese ha fatto al “Fondo salva stati”. Una contraddizione gigantesca: si strangola l’economia con misure di austerità per uscire dalla “crisi del debito”, e, nello stesso tempo, quest’ultimo lievita a dismisura, anche per effetto delle stesse strategie volte a ridurne la consistenza. C’è una logica in tutto ciò? Apparentemente no. Se diamo però un’occhiata a quello che è accaduto in quest’ultimo anno sul versante della (cosiddetta) lotta alla speculazione qualche spiraglio di luce inizia ad aprirsi.
Nel mese di dicembre del 2011, quando i venti della speculazione soffiavano particolarmente forti, la Bce ha accordato a 523 banche private europee finanziamenti per circa 500 miliardi di Euro, ad un tasso fisso agevolato del 1%. Una cifra enorme, con la quale le banche hanno, prevalentemente, acquistato titoli di Stato, ad un rendimento fino al 5-6 %.
Se guardiamo al nostro paese, i dati della Banca d’Italia a tal riguardo parlano chiarissimo: a cavallo tra il 2011 e la fine di gennaio del 2012, quindi immediatamente dopo l’asta della Bce del 21 dicembre, le banche italiane hanno acquistato BTp e ed altri titoli affini per un importo di circa 30 miliardi di Euro, passando, in termini di portafoglio complessivo, da 209 miliardi a 237 in un solo mese.
Una cosa simile si è verificata anche qualche mese dopo, a seguito della seconda asta della Bce, nel mese di febbraio del 2012, con la quale sono stati assegnati ben 530 miliardi di Euro a 800 banche europee. E siamo a 1000 miliardi in tre mesi! Un importo pari alla metà del nostro gigantesco debito pubblico.
Capito? La giostra europea funziona più o meno così: lo Stato si svena verso l’Europa, tassando i propri cittadini, tagliando servizi, cancellando diritti, emettendo nuovi titoli del debito pubblico; l’Europa, a sua volta, prende questi soldi e li dà a banche private, che hanno perso liquidità per proprie imprese finanziarie fallimentari, quasi a gratis; le banche, prendono questi soldi, e cosa fanno? Aprono il portafoglio e finanziano le imprese? No, li prestano agli stati comprando il loro debito, ad un tasso di interesse 4-5 volte superiore a quello con cui li hanno ricevuti. I soldi, insomma, sono sempre gli stessi, ma in questo gioco incredibile c’è, ovviamente, chi vince e chi perde. I primi si chiamano banche e speculatori finanziari, i secondi cittadini d’Europa.
In questo quadro l’obiettivo della riduzione del debito, e quello del pareggio di bilancio, più che il fine costituiscono il mezzo attraverso il quale si finanzia la speculazione finanziaria. C’è “crisi” si dice, ma nella “crisi” qualcuno ci sta guadagnando. E questo qualcuno si chiama “banche”. Solo quelle italiane, nell’anno che è appena trascorso, avrebbero guadagnato, investendo i soldi ricevuti dalla Bce, più di 15 miliardi di Euro.
I conti tornano. E quelle cose che più indietro potevano apparire contraddittorie, in questa nuova ottica si ripresentano in tutta la loro coerenza. Intanto la politica italiana, con poche eccezioni, continua a trastullarsi nel suo teatrino. Tanto del nostro destino se ne occupano altrove.

L’unica cosa che non si taglia in Grecia

L'unica cosa che non si taglia in Grecia
- ilpostit -
Perché uno dei paesi più colpiti dalla crisi è quello che spende di più in Europa per gli armamenti, il secondo dopo gli Stati Uniti tra i paesi della NATO
La crisi economica dell’eurozona e le conseguenti misure di austerità adottate dai governi negli ultimi anni hanno avuto ripercussioni anche sulla NATO, tanto da spingere il segretario generale Anders Fogh Rasmussen a rilanciare in diverse occasioni la necessità di un incremento della spesa militare da parte dei paesi alleati. A novembre 2012, durante l’Assemblea parlamentare della NATO svoltasi a Praga, Rasmussen ha spiegato che soltanto due paesi europei dell’alleanza spendono al momento più del 2 per cento del loro Prodotto Interno Lordo per la difesa: uno di questi due paesi è la Grecia. Ed è singolare, visto che la Grecia più di tutti gli altri paesi della NATO ha dovuto sottoporsi a tagli durissimi su quasi ogni capitolo della sua spesa pubblica. Quasi, appunto.
(Chi spende di più per la difesa?)
In Grecia la terribile crisi finanziaria e le pesanti misure di austerità concordate dal governo con il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Centrale Europea e l’Unione Europea in cambio di due prestiti internazionali hanno causato negli ultimi due anni un forte contenimento dei conti pubblici, con tagli drastici alle pensioni, alla salute, ai trasporti e all’istruzione. L’unico settore a non aver subito un ridimensionamento netto è stato proprio quello della difesa, passando dal rappresentare il 3 per cento del PIL nel 2008 al 2,1 per cento del PIL dello scorso anno. “In termini relativi le spese per la difesa sono state ridotte, ma il budget a disposizione delle forze armate è ancora molto alto ed è stato largamente risparmiato dalla durezza dei tagli imposti alla classe media”, ha detto al New York Times Alexander S. Kritikos, docente greco di economia a Berlino.
I quasi 10 miliardi di euro che il governo greco ha speso nel 2012 per i propri armamenti rendono la Grecia il secondo paese dopo gli Stati Uniti, tra i 27 della NATO, a spendere di più in proporzione per le proprie forze armate. Il 73 per cento del budget serve a coprire i costi del personale (una delle percentuali più alte tra i paesi alleati), per un esercito che però impiega soltanto 10 (dieci) soldati nella missione in Afghanistan (a fronte di 102.011 totali, provenienti da 50 paesi) e 118 soldati nella missione in Kosovo.
Secondo alcuni analisti il budget per la difesa greco è alto per alcuni motivi storici: l’influenza delle forze armate in un paese che è stato governato a lungo da una giunta militare e il pericolo percepito dalla vicina Turchia, nonostante il miglioramento dei rapporti diplomatici degli ultimi anni, su cui le società produttrici di armi hanno sempre fatto leva. Un altro motivo per giustificare i costi altissimi della difesa potrebbe essere il rischio di mandare a casa migliaia di giovani soldati che andrebbero a incrementare il numero di disoccupati, già tra i più alti in Europa.
Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), un istituto internazionale indipendente col compito di condurre ricerche scientifiche in materia di conflitti e cooperazione, nel 2010 i maggiori beneficiari della spesa greca per la difesa sono stati gli Stati Uniti, che hanno fornito alla Grecia il 42 per cento delle armi, seguiti dalla Germania e dalla Francia, proprio i due più influenti paesi europei nonché i principali contribuenti del fondo di stabilità comunitario.
(Da dove vengono i guai della Grecia)
Questa contraddizione è stata notata più volte, e nel 2010 un articolo sul Wall Street Journal aveva detto persino che Francia e Germania avessero imposto l’acquisto di sottomarini, navi, elicotteri e carri armati come condizione per sbloccare il piano di aiuti alla Grecia: non emersero prove e i governi smentirono rapidamente queste voci. Quello che è noto è che dal 2004 al 2009, durante il governo di Kostas Karamanlis, del partito di centrodestra Nuova Democrazia, la Grecia acquistò dalla Germania 170 carri armati panzer Leopard per 1,7 miliardi di euro e 223 cannoni dismessi dalla Bundeswehr, la Difesa tedesca. Prima della fine del suo mandato Karamanlis ordinò anche 4 sottomarini prodotti dalla ThyssenKrupp. Il successore di Karamanlis, il socialista Papandreou, congelò l’acquisto e rifiutò di farseli consegnare: dopo aver ordinato una perizia tecnica sui sottomarini, che evidenziò problemi strutturali, a marzo del 2011 fu costretto a trovare un accordo che impose l’acquisto di due sottomarini al prezzo di 1,3 miliardi di euro e di altri 223 carri armati panzer per 403 milioni di euro.

L’Italia nella rotta d’Europa

di Claudio Gnesutta , Mario Pianta - sbilanciamoci -
La rotta d’Italia passa per l’Europa. Il nuovo governo si dovrà scontrare con Berlino e Bruxelles, ma ci sono spazi di manovra e alleanze possibili per politiche espansive e limiti alla finanza. L’obiettivo è cambiare la rotta di un’Europa che va verso una grande depressione
La politica del prossimo governo italiano sarà fortemente condizionata dal quadro europeo. Pesa la recessione che potrebbe colpire l’insieme dell’eurozona anche nel 2013, dopo la caduta dell’economia nel 2012. Pesa l’imposizione di politiche di austerità, specie nei paesi della periferia europea, più colpita dalla crisi del debito pubblico, che hanno portato a un circolo vizioso di recessione, peggioramento delle condizioni finanziarie e del rapporto debito/Pil, imposizione di ulteriori misure di austerità. Pesa un insieme di trattati e norme che ha istituzionalizzato una visione neoliberista dell’integrazione europea – la libertà di movimento dei capitali, delle merci e delle imprese innanzi tutto – e ha reso impossibile prendere le misure economiche necessarie per affrontare la crisi attuale. Dal Trattato di Maastricht del 1992, al Patto di stabilità e crescita, fino alle misure di governance economica del “six pack” e del “two pack”, e al Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance che comprende il “Fiscal compact”, votato nel 2012, ci sono vent’anni di decisioni che riducono l’intervento pubblico e le possibilità di manovre fiscali per rilanciare l’economia, che pongono limiti alla spesa pubblica e alla politica della domanda, spingono per minori imposte, premono per ridurre le tutele del lavoro e i salari; allo stesso tempo le politiche europee hanno liberalizzato l’azione della finanza, ridotto le regole per le imprese, spinto alla privatizzazione di attività pubbliche. Tutte queste misure hanno sottratto autonomia alle politiche nazionali senza introdurre nuovi meccanismi di controllo democratico sulle politiche economiche a livello europeo.
L’Italia è stata particolarmente colpita da questo contesto europeo. Con il governo Berlusconi, la debolezza politica ed economica del paese in Europa ha lasciato mano libera alla gestione della crisi da parte della coppia Merkel-Sarkozy; l’Italia non ha saputo condizionare le politiche europee e si è trovata esposta agli attacchi speculativi contro il debito pubblico iniziati nell’estate 2011. Gli stessi poteri europei – la Banca centrale europea (Bce), la Commissione, il governo della Germania – hanno favorito l’arrivo del “governo tecnico” di Mario Monti con le sue politiche di austerità. Oggi vogliono una continuazione dell’”agenda Monti” che aggraverebbe i problemi del paese.
Si tratta di una rotta sbagliata per l’Europa e disastrosa per l’Italia. L’abbiamo argomentato con la discussione sulla “rotta d’Europa” aperta su sbilanciamoci.info da Rossana Rossanda nell’estate 2011, con una serie di ebook[1] e di incontri internazionali - dal Parlamento europeo a Firenze 10+10 – che hanno portato a una larga convergenza tra reti di esperti e di movimenti nelle valutazioni su come far cambiare rotta all’Europa.[2]
Le proposte principali – riassunte nel primo documento della Rete europea degli economisti progressisti – chiedono di rovesciare le politiche di austerità e cancellare le pericolose limitazioni imposte dal “fiscal compact”; di ridurre le diseguaglianze, tassare la ricchezza e tutelare il lavoro; di fare della Banca Centrale Europea un prestatore di ultima istanza per il debito pubblico, introducendo una responsabilità comune dell’Eurozona; di ridimensionare la finanza, avviare una transizione ecologica ed estendere la democrazia a tutti i livelli in Europa.
Come possono entrare queste elaborazioni e queste proposte alternative nel dibattito sulle elezioni in Italia? Innanzi tutto devono fornire il quadro di riferimento entro il quale collocare il dibattito elettorale. L’”agenda Monti” non è una politica obbligata, ci sono alternative anche all’interno delle regole attuali dell’Unione monetaria e i vincoli europei possono essere modificati dall’azione della politica. Inoltre, le alternative discusse a scala europea sono essenziali per sostenere gli spazi per politiche di cambiamento in Italia.

La rotta d'Italia

di redazione di Sbilanciamoci.info
Le cose da fare nei primi cento giorni
Se la rotta deve cambiare, nei primi cento giorni di nuovo governo ci sono quattro cose da fare subito: meno armi più scuole, dai soldi sporchi lavori verdi, un fisco contro le disuguaglianze, il lavoro da tutelare. E una da fare prima: cittadinanza per chi nasce da noi
Il 2012 è stato un annus horribilis per l’Italia e per gran parte dell’Europa, e il 2013 si preannuncia non molto migliore. Le elezioni, ancora segnate da una grandissima incertezza, aprono la possibilità di un successo del centro-sinistra e Pierluigi Bersani potrebbe trovarsi a essere il prossimo presidente del consiglio. Sarà molto difficile governare un’Italia in rotta, con una pessima situazione economica, sociale, politica; sembra quasi che lo spazio politico per il centro-sinistra si apra solo quando i “poteri forti” del paese non sanno più come uscire dai gravi problemi accumulati nel tempo. Anche l’Europa e i mercati finanziari – Financial Times e Economist compresi – sembrano accettare la possibilità dell’arrivo al potere del centro-sinistra.
I primi cento giorni di un nuovo governo sono considerati una prova importante per l’indirizzo dell’insieme della legislatura; si tratta di affrontare l’emergenza economica e finanziaria e, allo stesso tempo, di introdurre elementi di cambiamento – concreti e visibili – che diano da subito il segnale che si cerca di uscire dalla recessione, di rovesciare le disuguaglianze, di riportare un po’ di giustizia economica e sociale, di rilanciare la democrazia: che si vuole aprire una nuova epoca, dare una nuova rotta all’Italia.
Si tratta di una sfida complessa, come insegna l’esperienza francese. Nelle primissime settimane dopo l’investitura di François Hollande alla presidenza, il nuovo governo ha preso decisioni sostanzialmente “di sinistra”, conformi al programma a suo tempo pubblicato. Ma poi la sua azione è sembrata impantanarsi o volgere verso linee più moderate; il fatto è che anche il paese nostro vicino si trova di fronte ad una situazione piena di problemi e di contraddizioni, dalla quale il “riformismo morbido” dei socialisti (non molto discosto da quello del Pd) trova molte difficoltà a districarsi.
È quindi importante, in caso di vittoria del centro-sinistra alle elezioni del 24-25 febbraio 2013 – che le prime settimane di governo siano segnate da alcune decisioni forti, capaci di segnalare il “cambio di rotta” di cui l’Italia ha bisogno, ma allo stesso tempo fattibili sul piano politico e capaci di offrire risultati concreti nell’immediato. Una sorta di antipasto necessario, rispetto a un programma complessivo di medio periodo, quale può essere quello tracciato nella nostra confrofinanziaria. Ecco quindi cinque proposte per le prime settimane di governo che potrebbero dare il segno dell’azione dell’esecutivo e infondere qualche entusiasmo in quella parte del paese che non attende altro che di vedere finalmente un cambiamento di rotta.
Pierluigi Bersani ha detto nel dicembre scorso che la prima decisione che prenderà, se sarà eletto, sarà quella di dare la cittadinanza italiana ai figli degli immigrati che sono nati nel nostro paese. Questo sarebbe certamente un ottimo inizio. Un programma semplicissimo, riassumibile in una frase: chi nasce in Italia è italiano. I dettagli tecnici della proposta sono pronti, messi nero su bianco (e portati in parlamento, nella vecchia legislatura) dalla campagna L'Italia sono anch'io. Qui ci interessa spiegare perché è importante che sia questa la prima cosa nuova che vede la luce. Sarebbe una scelta giusta, civile, di grande valore democratico e culturale, un'inversione radicale rispetto alle politiche escludenti e discriminatorie prevalse sino ad oggi, e darebbe un segnale di cambiamento molto forte verso quel principio di eguaglianza che negli ultimi anni è stato così duramente calpestato. L’art. 3 della Costituzione afferma che tutte le persone hanno pari dignità sociale e sono uguali di fronte alla legge, impegnando lo stato a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Una nuova legge sulla cittadinanza ci incamminerebbe tutti verso la costruzione di una società più giusta, aperta, inclusiva e solidale piuttosto che ripiegata su stessa, competitiva, individualistica, rancorosa ed escludente. Si tratta tra l’altro di una riforma a costo zero, anzi potrebbe anche avere un saldo positivo, contribuendo a contenere la spesa per la pubblica amministrazione, grazie alla diminuzione del numero di pratiche di rinnovo del permesso di soggiorno che ne conseguirebbe.

Ancora una volta, la barbarie

gengis_khan_Augusto Illuminati
Oddio, ancora gli invocati barbari di Verlaine e Kavafis, di nuovo un elogio benjaminiano della barbarie? Non preoccupatevi, è solo un riflesso involontario, l’impulso a vomitare quando vi ficcate un dito in gola. Il dito o l’intera mano in questione è l’imperversare del termine civico o civile, variamente associato a “lista”, “scelta”, “società” o “rivoluzione”, che ammorba il dibattito pre-elettorale italiano. Non diamone, per carità, la colpa a Hegel o Koselleck. Lo sappiamo che bürgerliche Gesellschaft contiene quell’ambiguità per cui bürgerliche significa allo stesso tempo “civile” e “borghese”, ci rendiamo conto che l’opposizione impolitica liberale all’assolutismo, passando per salotti, giornali, massoneria e opinione pubblica, si è installata al vertice della società politica e a sua volta ha chiuso la porta ad altri strati emergenti.
Mica stiamo a pettinare i concetti o a inseguire sui tetti il tacchino della civiltà. Però quel civico-civile, versione urbanizzata dell’antipolitica urlata a 5 stelle, ci sa di fregatura, mischia giustizialismo ed elitarismo, si colloca oltre destra e sinistra, antepone la criminalità dei mafiosi e degli evasori fiscali al normale e legale sfruttamento di classe, mette in mano l’Italia a un ceto di tecnici o di magistrati, la cui personale correttezza (ma ci sono anche Casini e Fini con parenti al seguito, tanto per non far nomi) non garantisce l’imparzialità sociale, ci accontentiamo di poco.
Nessun elogio dell’incivile-barbarico, allora, della pancia o delle curve, ma cosa sta alla radice del fastidio per le litanie sulla società civile? Innanzi tutto il disgusto per l’ipocrisia dell’operazione. Invece di cambiare il ceto politico o di mettere in questione la stessa categoria di rappresentanza, di regola l’appello al civico-civile è un modo di parare le critiche della cosiddetta antipolitica, affiancando una lista di eminenti esponenti (cattolici e bancari) della suddetta società civile ai più malfamati arnesi della politica politicante (la Scelta civica di Monti, correntemente soprannominata Scelta cinica, affiancata a Udc e Fli), oppure addizionando ai rappresentanti di un altro e forse miglior settore i più o meno presentabili segretari di piccoli partiti al momento extra-parlamentari o in via di diventarlo, come nel caso di Rivoluzione (che parola grossa) civile, versione benintenzionata e sfigata dell’impettito Centro tecno-senatoriale. Ah, veder sfilare les grands Barbares blancs…
Poi la bizzarria di affidare l’immaginaria complessità compositiva della società civile – plurale, differente, variegata, wow! – a un Capo, un Nome, un Calato dall’Alto (Quirinale o Guatemala che sia, sebbene in notorio contrasto), prendendo sul serio l’indicazione (costituzionalmente nulla) del leader sulle schede. M5S, per non farsi mancare niente, ha addirittura una coppia: l’imam comico sul proscenio, Grillo, e l’imam nascosto dai lunghi capelli, Casaleggio, segreto ma non troppo. C’è quasi da congratularsi con la sobrietà dell’inventore della personalizzazione, Berlusconi, che finge di allontanare dalle labbra il calice amaro della premiership, e di Bersani che si limita a buttar lì un po’ di società civile assortita (filosofe e filosofi, commercianti, economisti liberali ecc.) senza troppo mettersi in mostra, secondo la regola del vantaggio.
Anche perché aveva già dato (e preso) nella brillante sceneggiata delle primarie. Il paradosso è duplice: 1) più la rappresentanza è in crisi e il ceto politico sputtanato, più si concentra in una persona, 2) più a comandare sono i mercati finanziari e anonimi organismi sovranazionali, più si enfatizza un inesistente decisionismo individuale, il Capo che però deve obbedire all’Europa o alla Bce o ad altri capi sovraordinati, si chiamino Obama o Merkel. Ahimé, è scesa la notte e i barbari non sono arrivati, peccato erano una qualche soluzione, giatí enúktose k’oi bárbaroi den elthan… oi ánthropoi autoí esan mia kapia lusis.
Andiamo allora alla radice, la società civile. Non perdiamo tempo con le versioni circensi a destra (Samorè, Briatore, Minetti…) ma pure a sinistra (appena uscito l’on. Calearo, arriva niente meno che l’assessore siciliano Zichichi), e contempliamone la componente più seriosa: benefattori, finanzieri, imprenditori, magistrati ecc. Si tratta dell’ultima e degradata versione del popolo sovrano di un tempo, cui viene restituita una pretesa di rappresentanza, proprio nel momento in cui il vero potere sta abbandonando la logica della rappresentanza a favore di un esercizio tecno-elitario. Una copertura simbolica con cui i veri padroni (Marchionne, Passera, perfino l’umbratile Montezemolo) non si sporcano le mani, dove invece si affollano faccendieri di ogni tipo, brave persone che “lavorano nel sociale”, intellettuali assortiti, tanti volenterosi cattolici e operatori intermedi della governance.
Pastori in rappresentanza del gregge, anzi addobbati in pelli di pecora per la gestione molecolare e mediatica della democrazia del pubblico – per usare una definizione che comprende varie sfumature di populismo e de-autorizzazione o espropriazione dei soggetti politici. In conclusione, repulsione e diffidenza per il termine hanno buone ragioni e suggeriscono una presa di distanza, l’avvio di una ricerca costruttiva su quanto si colloca al di là del civico-civile e del popolare, su una democrazia del comune ben differente dalla democrazia del pubblico.

venerdì 11 gennaio 2013

Il migliore dei governi possibili?

- lundici -
La Conferenza di Jalta (o Yalta) fu un vertice tenuto nel febbraio del 1945 a pochi mesi dal termine della seconda guerra mondiale, nell’omonima città sovietica, i cui protagonisti tre protagonisti furono Roosevelt, Churchill e Stalin, capi dei governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e dell’Unione Sovietica.
In effetti, così come l’assetto dell’Europa sancito al vertice del 1945 fu il risultato della contrapposizione tra le democrazie anglosassoni e il comunismo sovietico, allo stesso modo la Costituzione italiana del 1948 scaturì dall’”incontro” tra i due grandi blocchi del dell’epoca a cui corrispondevano: la Democrazia Cristiana (DC) e il Partito Comunista Italiano (PCI).
Certamente il lavoro dei costituenti fu più “creativo” e fecondo, e permise di includere nella carta costituzionale le tradizioni, istanze e impronte politiche e sociali dell’intera Italia antifascista. Tuttavia Jalta ebbe un profondo peso sulle vicende politiche italiane dei decenni successivi, possiamo affermare fino ad oggi…
L’ordine geo-politico di Jalta fu diligentemente mantenuto per quarant’anni da entrambi i blocchi: né gli USA, né l’URSS (Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche) si adoperarono seriamente per sovvertirlo. Ne è una prova la sostanziale inazione del blocco occidentale di fronte alle rivolte anti-sovietiche di Ungheria (1956) e Cecoslovacchia (1968), ed anche in occasione della stessa caduta del muro di Berlino (1989).
L’Europa divisa in due dal 1945 al 1989: in blu le nazioni fedeli agli USA, in rosso l’Unione Sovietica e paesi alleati. In grigio i paesi formalmente neutrali.
Nella spartizione dell’Europa, l’Italia finì nella sfera d’influenza statunitense, costituendone la situazione più “spinosa” e delicata. In Italia, infatti, esisteva il più forte partito comunista europeo che, pur rimanendo sempre all’opposizione, durante i trent’anni successivi alla fine della guerra sfiorò stabilmente il 40% dei voti, minacciando la supremazia democristiana che garantiva la fedeltà agli USA.
La situazione politica italiana, che rispecchiava in scala minore la divisione del mondo in due fazioni, determinò una situazione per cui chi non voleva i comunisti al potere votava DC, anche se non vi si identificava in toto, e viceversa. Un equilibrio bloccato, asfittico, asfissiante e pericolosamente delicato.
Dopo vent’anni di governi democristiani e i primi “esperimenti” di centro-sinistra con l’ingresso dei socialisti al governo, a cavallo tra anni ’60 e ’70, la situazione si fece assai “calda”: formazioni di estrema sinistra sparavano in strada, mentre bombe sui treni e nelle stazioni causavano paura e confusione, funzionali al mantenimento dello status quo.
Nel settembre 1973, in Cile, un terribile golpe militare, “non ostacolato” dagli USA, mise fine ad un governo di sinistra legittimamente eletto. Il messaggio era chiaro: se anche in Italia il partito comunista fosse andato al potere democraticamente, “certi poteri” non gli avrebbero poi consentito di governare. Un colpo di stato in Italia non era un’eventualità così remota in quegli anni.
Spari per le strade di Milano nel 1977
Di fronte a questo segnale, vasti settori dell’estrema sinistra italiana conclusero che era inutile illudersi di conquistare e mantenere il potere per via democratica e tanto valeva imbracciare le armi e darsi alla lotta armata. Allo stesso modo, dall’altra parte, la prospettiva di vedere i comunisti al governo, spinse parti del centro-destra a rinsaldare l’alleanza con gli USA e “tapparsi il naso” o addirittura lavorare per soluzioni e pratiche non esattamente democratiche. L’italiano equilibrio di Jalta era più in discussione che mai.

“Servizio Pubblico” un corno!

 
BerlusconiSantoro
di Emiliano Brancaccio
Silvio Berlusconi poteva essere attaccato per avere impresso una tremenda accelerazione ai processi di precarizzazione del mercato del lavoro italiano; per aver contribuito più di altri al depotenziamento della contrattazione nazionale sui salari; per avere assecondato un micidiale regresso culturale, oltre che giuridico, nel campo dei diritti civili; più in generale, per esser stato convinto propugnatore di una visione aziendale e quindi autoritaria dello Stato. Poteva esser messo sul banco degli imputati politici per avere ridotto la politica industriale nazionale a una scassata congerie di prebende, lassismo fiscale, riduzione dei controlli sulla sicurezza del lavoro. Poteva essere accusato di aver contribuito in modo decisivo al dilagare di una concezione magliara delle relazioni sociali, affettive e sessuali. Berlusconi, insomma, poteva essere presentato come la più fedele incarnazione di un capitalismo nazionale imbolsito, retrivo, perennemente tentato dalla logica della reazione: l’arrocco di un Gulliver monopolista sostenuto da una invereconda miriade di lillipuziani proprietari.

Nel corso della trasmissione Servizio Pubblico andata in onda stasera, si poteva fare questo ed altro. Ed invece, oltre ad assistere ad una impolitica requisitoria di Marco Travaglio, ci siamo trovati al cospetto di un Michele Santoro impacciato, non competente, disperatamente aggrappato alle smorfiette di disappunto della signora Merkel nel tentativo di dimostrare la questione a suo avviso decisiva: che Berlusconi, agli occhi di chi oggi comanda nell’Unione europea, sarebbe impresentabile. Nel caos di una trasmissione nella quale giornalisti con una preparazione improvvisata si baloccavano con le sequenze macroeconomiche che descrivono la crisi europea, abbiamo persino avuto, sia pure solo per un lunghissimo attimo, la terrificante sensazione che Berlusconi fosse il savio in mezzo agli stolti.
L’apoteosi l’abbiamo raggiunta quando il Caimano, in un modo sia pur pedestre, ha tentato di spiegare quel che gli economisti di professione sanno bene, e che il Fondo Monetario Internazionale e Bankitalia hanno riconosciuto da tempo: che il debito pubblico non è affatto la causa principale dell’andamento dello spread sui tassi d’interesse; e che la determinante prioritaria di quell’andamento risiede nella probabilità di deflagrazione dell’eurozona, che non è stata scongiurata e che le politiche di austerity non riducono ma accrescono. Ma mettere in discussione il mantra del debito pubblico deve esser parso all’ignaro Santoro una vera bestemmia, e un’occasione da non perdere per mandare al rogo l’eretico. Il penoso risultato è che il conduttore progressista ha fatto la figura del frate domenicano Tommaso Caccini, mentre il più celebre narratore nostrano di stantie barzellette anni ’50 si è trovato nel comodo ruolo dell’epigono di Galileo Galilei.
Servizio Pubblico un corno, dunque. C’era quasi da rimpiangere i banali errori contenuti nelle pillole di economia pre-keynesiana sparse nella trasmissione che giorni fa Piero Angela ha dedicato alla crisi. La verità è che, consapevoli o meno che siano, le cosiddette avanguardie del giornalismo progressista nazionale appaiono oggi affezionate all’ideologia dominante persino più delle istituzioni che quella stessa ideologia, anni fa, avevano contribuito a edificare. Un altro dei segni di questo nostro tempo funesto

Cremaschi: caro Ingroia, la vera mafia è quella di Bruxelles

- informarexresistere -

Caro Ingroia, l’antimafia non basta: perché oggi il vero nemico che ci minaccia è molto più pericoloso del potere delle cosche, persino di quelle che si infiltrano nell’economia fino ad avvelenarla. Deve cadere il Muro di Bruxelles, quello che ricatta i popoli dell’Eurozona sulla base dei diktat emanati dalle oligarchie finanziarie, ordini firmati da tecnocrati non eletti da nessuno, a cui – grazie all’attuale personale politico – siamo costretti a sottometterci, per fare la stessa fine della Grecia. Dopo i “garanti” dei movimenti firmatari dell’appello “Cambiare si può”, anche l’ex leader della Fiom Giorgio Cremaschi, vicino ai No-Tav e promotore del Comitato No-Debito e del “No-Monti Day”, prende le distanze dalla lista “arancione” capeggiata da Antonio Ingroia, ipotetico leader del “quarto polo”, sul quale confluiscono i partiti di Di Pietro, Ferrero e Diliberto, insieme ai Verdi di Bonelli.
«Siccome non son mai stato una vittima del nuovo in politica, di quel nuovismo attraverso il quale si sono perpetuate da trent’anni le stesse politiche e le stesse classi dirigenti – premette Cremaschi, in un intervento su “Micromega” – non mi scandalizza che la lista del cosiddetto quarto polo sia diventata l’ennesima lista personale, ove il leader è la sostanza della proposta, né mi sconvolge che i partiti siano alla fine l’architrave della lista». I partiti esistono da sempre, aggiunge Cremaschi, e chi li rifiuta «semplicemente ne sta fondando un altro». Quello che non convince, della coalizione Ingroia, è «l’ordine delle priorità e il messaggio di fondo del programma annunciato dal suo leader», secondo cui l’Italia sarebbe un paese devastato dalla corruzione e dalle mafie, grazie al ruolo attivo di una parte della “casta”, cioè i berlusconiani, e il silenzio-assenso di una componente più debole e subalterna, che va da Monti al Pd.
Secondo Ingroia, a quanto pare, una lotta vera alle mafie e alla corruzione finora non si è fatta per colpa di questa classe politica, e il paese ne paga i costi con la crisi economica. Ergo: mettere al governo una classe dirigente che distrugga davvero le mafie è la necessaria condizione di giustizia per una possibile ripresa economica, non “pagata” dai più poveri. Intendiamoci, ammette Cremaschi: «Il peso della corruzione, dell’evasione fiscale, della criminalità nella nostra economia è da tempo documentato». Tuttavia, aggiunge l’ex dirigente sindacale, «non mi pare che questo possa essere sufficiente a motivare una lista alternativa ai principali schieramenti ed in particolare a Monti», che peraltro «su questo terreno ha nella sua agenda temi e proposte molto vicine a quelle di Ingroia». Anche Monti, infatti, «mette al centro del suo programma liberista l’idea che in Italia una buona economia emergerà dalla distruzione dell’economia corporativa e criminale». E non a caso, dice Cremaschi, il premier “tecnico” «individua in Marchionne l’esempio imprenditoriale da esaltare sulla via delle “riforme”». Curioso: già di per sé, «il liberismo è spesso criminale per i suoi risultati sociali». Nonostante ciò, chi lo propugna può persino «proporsi di combattere l’economia criminale».
«Naturalmente – continua l’ex dirigente Fiom – Monti mette al primo posto della sua agenda la politica di austerità, così come viene definita dai vincoli del Fiscal Compact, del pareggio costituzionale di bilancio, dei trattati europei». La lotta alla criminalità economica e mafiosa sarebbe ancora più stimolata da questi vincoli, perché essi ci imporrebbero di trovare lì i soldi che servono per lo “sviluppo”. Se Ingroia afferma di combattere il montismo, «perché allora non contesta questo punto che è il punto cardine di esso? Perché nel suo discorso d’investitura è assente la critica ai vincoli europei e del capitalismo internazionale, quello formalmente onesto?». Il guaio è che Ingroia, probabilmente, è davvero convinto che la questione sociale ed economica sia solo «una derivata della questione criminale», e Giorgio Cremaschiche quindi «basti essere rigorosi davvero e non a parole, per creare le condizioni economiche per la giustizia e lo sviluppo». Magari fosse così.
«Per affrontare questa crisi economica da una punto di vista alternativo a quello di Monti – afferma Cremaschi – si deve programmare un gigantesco intervento pubblico nell’economia e la rottura di tutti i vincoli europei: o si segue questa strada oppure ci si deve affidare al mercato». Non è un caso che il Pd sia spiazzato dalla candidatura di Monti, «perché ha sinora sostenuto unapolitica di mercato e non ha alcun programma realmente alternativo ad essa». Una politica del pubblico e dell’eguaglianza sociale richiede un forte controllo democratico sull’economia, sottolinea Cremaschi. «E qui diventa decisiva la lotta a mafie e corruzione: perché il liberismo si è sempre alimentato con il corrompimento della classe politica». Infatti, «tutto il sistema delle partecipazioni statali è stato privatizzato sventolando le tangenti e le mazzette dei manager pubblici e dei politici che li controllavano: è lì che è nata l’egemonia, anche a sinistra, dell’ideologia del mercato come antidoto alla corruzione». Come diceva Brecht, «è più profittevole fondare una banca che rapinarla».
Nella crisi attuale, continua Cremaschi, la priorità è la lotta alla disoccupazione e al super-sfruttamento del lavoro e dell’ambiente. «Questa la può fare davvero solo il pubblico, e per questo il potere pubblico dev’essere liberato dalla criminalità e dalla corruzione». Allo Stato di domani, alternativo all’attuale fantasma finanziario costretto a obbedire a Bruxelles, occorre affidare «una nuova politica economica e sociale». L’alternativa a Monti «nasce dalla rottura con le politiche liberiste europee e con quella economia criminale amministrata dalla Troika internazionale che ha distrutto la Grecia, dove oggi trionfa l’economia illegale». La questione sociale comanda sulla lotta alla criminalità e non viceversa, insiste Cremaschi. «Questa è la differenza di fondo tra la lotta alle mafie dei liberali onesti e quella del movimento operaio socialista e comunista: una differenza ancora più vera oggi, se davvero ci si vuol collocare su un fronte alternativo a tutto il quadro politico liberista dominante».

Fonte: http://www.libreidee.org/2013/01/cremaschi-caro-ingroia-la-vera-mafia-e-quella-di-bruxelles

Tratto da: Cremaschi: caro Ingroia, la vera mafia è quella di Bruxelles | Informare per Resistere http://www.informarexresistere.fr/2013/01/10/cremaschi-caro-ingroia-la-vera-mafia-e-quella-di-bruxelles/#ixzz2Hh7riiq6
- Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario!

"Se anche la parola riformismo viene usata in modo disonesto"

Fonte: liberazione | Autore: angelo d'orsi
          
Di “manomissione delle parole” si sta parlando da qualche tempo: ricordo un recente libro di Gianrico Carofiglio a cura di Margherita Losacco così intitolato, per esempio. Ma io stesso ne ho variamente discorso in saggi e articoli, tanto evidente e insieme sfrontato il fenomeno, entrato in fase acuta a partire dal passaggio tra gli anni ’80 e ’90, e accentuato con la dissoluzione del PCI e la famigerata “discesa in campo” del Cavaliere. Il crollo del Muro, innescò la corsa verso le nuove mirabolanti mete del liberalismo, identificato semplicisticamente col liberismo. Berlusconi cominciò disinvoltamente a rovesciare il senso delle parole, nel vortice della sua azione dirompente, davanti alla quale i suoi avversari usarono il suo stesso lessico: e fu una corsa forsennata verso l’abisso politico, nel quale vennero triturati i concetti, sviliti i valori, manomesse, appunto, le parole.
Il termine chiave, in tale contesto fu “riforme” con i suoi derivati riformismo e riformista. Peraltro il contesto era europeo: riformisti divennero gli anticomunisti, chiamati anche “democratici”, o “liberali”. Riformisti furono dal 1989 in poi tutti coloro che volevano sia riformare il sistema socialista, sia, prevalentemente, coloro che semplicemente intendevano cancellare il socialismo, e le sue realizzazioni a favore delle classi proletarie.
Ma da dove deriva il termine? Di origine religiosa (nasce nell’ambito del dibattito e poi dello scontro suscitato dalla “Riforma” di Lutero, nel XVI secolo), trasmigrò verso l’universo politico nel Settecento (alludendo soprattutto a un riformismo cosiddetto “dall’alto”, da parte di capi politici che volevano in qualche modo prevenire eventi rivoluzionari, concedendo qualcosa ai ceti popolari). La Bastiglia, la madre di tutte le rivoluzioni, il 14 luglio 1789, fece comprendere che chi stava in basso non poteva accontentarsi delle briciole offerte da chi dominava. Fu però soprattutto tra fine Ottocento e i primi anni Venti del sec. XX che il dibattito fra riformisti e rivoluzionari divenne intenso.
Già nel 1899, riprendendo un testo di Engels del 1895 (l’anno stesso in cui il grande sodale di Marx morì), che aveva sostenuto che sarebbe stato possibile giungere al socialismo, anche attraverso le vie parlamentari, Eduard Bernstein avviò la stagione del “revisionismo marxista”, identificandolo nel riformismo politico: egli proclamò che per lui “il fine non era nulla”, mentre “il movimento tutto”. Ossia, non aveva intenzione di attendere che spuntasse il “sol dell’avvenire”, la società socialista, ma gli interessava migliorare subito le condizioni di vita e lavoro delle classi proletarie. Gli replicarono gli “ortodossi”, ossia coloro che erano convinti che la rottura rivoluzionaria fosse inevitabile: il dibattito divenne via via più infuocato, con scambi di accuse reciproche. Il riformismo, imbevuto della cultura del positivismo, dell’idea che le società potessero avere una naturale evoluzione proprio come gli organismi viventi, significò evoluzionismo, ossia gradualismo: si potevano ottenere risultati importanti per i ceti subalterni con la politica dei piccoli passi, con riforme, con cambiamenti graduali. Principio respinto dai marxisti fedeli all’analisi di Marx.
Ciononostante a lungo riformisti e rivoluzionari furono uniti dal punto d’arrivo: il socialismo. La discussione divenne scontro, e si arrivò a scissioni a catena nel movimento socialista.
Eppure, a guardare indietro, anche i riformisti più incalliti ci appaiono portatori di grandi visioni, oltre che perlopiù di una nobiltà d’animo ammirevole. Volevano davvero il “riscatto degli umili” come allora usava dire.
Il riformismo visse in Italia una nuova importante stagione con il primo Centrosinistra, tra la fine anni ’50 e la fine dei ’60 del Novecento. Figure come Giacomo Brodolini (a cui si deve lo Statuto dei Lavoratori) o Fernando Santi, per citarne solo due, brillano tuttora come stelle ahinoi dimenticate nel firmamento della politica dalla parte dei subalterni.
Oggi la parola riformismo appare non solo stravolta ma disonestamente usata, eppure tranquillamente accolta nella discussione pubblica. E non si contrappone più a rivoluzionarismo (ogni lemma legato alla parola maledetta “rivoluzione” è pressoché scomparso dalla comunicazione politica, e ringraziamo De Magistris e Ingroia per averla reintrodotta con il bell’attributo “civile”, altrimenti sarebbe appalto della sedicente “rivoluzione delle camicie verdi”, che richiama tanto la “rivoluzione delle camicie nere” di 90 anni fa…). Riformista si proclama Bersani, ma anche Monti; riformista continua a sbraitare di essere il solito Berlusconi. E ultrariformisti sono quei bei tomi dei leghisti “padani”. I quali, tanto per dire, oggi non esitano a invocare come “riforma” la reintroduzione della gabbie salariali cancellate proprio da Brodolini negli anni Sessanta!
Oggi, insomma, il riformismo è una grottesca bandiera della destra. Sono circa tre decenni del resto che la destra è “in movimento”, è all’attacco: la sinistra dunque è schiacciata nell’alveo del “conservatorismo” : invece di farsi trascinare nella corsa verso il “novitismo” dei sedicenti riformisti, ci si può attestare sulla barricata della difesa dei valori e dei beni pubblici, dalla Costituzione, alla Scuola, al paesaggio, ai diritti del lavoro, dei migranti e così via. E da quella barricata ripartire con un’azione incisiva, a tutto campo, senza paura delle etichette. Ci chiamano conservatori? Ebbene sia! A chi usa quest’accusa, replichiamo che esiste un conservatorismo degli interessi (di cui oggi Monti e Berlusconi sono rappresentanti diversi, ma uniti, con pericolosi cedimenti in quella direzione del PD), e un conservatorismo dei valori: noi dobbiamo essere gli alfieri di questo conservatorismo, e metterlo in movimento, trasformandolo in principio guida di un’azione che ridia dignità alla sinistra e un progetto politico e sociale al Paese.

giovedì 10 gennaio 2013

Austerità, Blanchard fa l’autocritica



Fonte: sbilanciamoci
        “Uno stupefacente mea culpa da parte del capo economista del Fondo Monetario Internazionale”. Non lascia spazio a dubbi il titolo dell'articolo pubblicato la scorsa settimana dal Washington Post . Cos'è successo? In buona sostanza uno studio appena pubblicato dal FMI – Olivier Blanchard and Daniel Leigh in the study Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers (IMF WP/13/1) – riconosce che i piani di austerità proposti, o meglio imposti, a mezza Europa negli ultimi anni sono un danno per l'economia e l'occupazione. Peggio ancora, non funzionano nemmeno per rimettere a posto i conti pubblici, ovvero per diminuire il famigerato rapporto tra debito pubblico e PIL, vero e proprio faro che guida le scelte politiche di tutti i Paesi occidentali.
Cerchiamo di capire meglio. Dimentichiamoci per un momento che la crisi è stata causata da una gigantesca finanza privata fuori controllo, e non certo dalla finanza pubblica. Ammettiamo che siano adesso gli Stati a dovere rimettere a posto i conti pubblici, e non delle banche private sommerse di titoli tossici e che continuano a lavorare con leve finanziarie degne di avventurieri da casinò. Supponiamo anche che lo stato di salute di un Paese vada valutato in base al rapporto tra debito pubblico e PIL e non al benessere dei cittadini o al tasso di disoccupazione, tanto per fare un paio di esempi.
Anche partendo da queste ipotesi, in realtà ampiamente criticabili se non completamente false, fino a oggi il FMI ha segnalato che la strada maestra per ridurre il rapporto debito/PIL era una sola: piani di austerità, tagli alla spesa pubblica, smantellamento del welfare. Analizziamo questo rapporto. Se si taglia la spesa pubblica, a parità di entrate diminuisce il deficit e quindi il debito pubblico. C'è però una difficoltà: tagliare la spesa pubblica vuole dire meno investimenti, meno denaro per i dipendenti pubblici, meno servizi e via discorrendo, ovvero una diminuzione del PIL. Da un lato quindi i piani di austerità fanno calare il numeratore, dall'altro però cala anche il denominatore.
Non c'è problema, sosteneva il FMI. Abbiamo fatto i conti, e il debito diminuisce più rapidamente del PIL. Nel complesso, quindi, il rapporto debito/PIL migliora. Certo, la ricchezza diminuisce, tagli al welfare significano meno risorse proprio per le classi più deboli, aumenterà la disoccupazione, nel breve si rischia di acuire una recessione già in atto. E' però un prezzo da pagare. Nel suo insieme, lo Stato di salute del Paese migliorerà.
E invece no. L'ultimo studio del FMI segnala che tagliando la spesa pubblica il PIL diminuisce più rapidamente di quanto non diminuisca il debito. Il rapporto continua a peggiorare. I piani di austerità non solo sono devastanti dal punto di vista sociale, ma sono nocivi anche da quello macroeconomico.
E allora siamo sicuri che “non ci sono alternative”? Forse sarebbe il caso di ridiscutere alla base le ricette di politica economica, secondo almeno due direzioni. Da un lato porre un freno a un casinò finanziario di dimensioni decine di volte superiori a quelle dell'economia reale. Chi crea instabilità e rischia di trascinare nuovamente il mondo nel baratro, come avvenuto unicamente sei anni fa, non è l'Italia con un rapporto debito/PIL al 120% ma alcuni dei maggiori gruppi bancari del mondo – gli stessi responsabili della crisi del 2007 – con leve finanziarie di 40 a uno, ovvero con attivi finanziari pari al 4.000% del loro patrimonio. A chi dovrebbe essere imposto un controllo ferreo? Chi dovrebbe applicare severi piani di austerità?
Dall'altra parte, occorre un radicale cambiamento di rotta anche nelle politiche economiche pubbliche. Redistribuzione del reddito, un diverso sistema fiscale, un diverso utilizzo della spesa pubblica. In pratica le proposte sostenute da anni dalla campagna Sbilanciamoci! che nel suo ultimo rapporto mostra come un percorso differente sarebbe perfettamente possibile.
Oggi anche il FMI ammette di avere completamente sbagliato le sue previsioni (un’analisi delle previsioni sbagliate è nell’articolo di Mario Pianta “Economia europea, sono pessime quelle previsioni”, http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Economia-europea-sono-pessime-quelle-previsioni-16018). In Italia abbiamo appena vissuto un anno di governo che ha fatto dei piani di austerità il proprio credo e unica bussola. All'inizio della campagna elettorale, tanto chi ha guidato l'esecutivo quanto chi lo ha sostenuto in Parlamento dovrebbero forse iniziare con un analogo mea culpa, per poi proporre ricette di politica economica radicalmente differenti. Se persino il FMI ha chiesto scusa, forse possono farlo anche i politici di casa nostra.

Ma l’Agenda Monti è davvero così diversa dalla Carta dei Progressisti?

di Alfonso Gianni - sinistrainrete -

L’antivigilia di Natale ha portato nuove certezze agli italiani. Finalmente si è capito, punto per punto, in cosa consiste la celebre “agenda Monti” di cui tutti parlavano da alcuni mesi. L’ha pubblicata lo stesso Presidente del Consiglio dimissionario nel suo sito, in versione integrale. Si tratta di 25 pagine, ma non particolarmente dense. Alcuni sostengono che gliela abbia scritta Ichino. Questa sarebbe la causa della miniscissione dal Pd capitanata dal senatore. Se è vero non deve essersi sforzato molto: la parte sul lavoro non fa altro che ribadire perentoriamente che “non si può fare marcia indietro” rispetto alle riforme Fornero e al di là di frasi di circostanza si annuncia una drastica semplificazione normativa in materia di lavoro. Il progetto di legge Ichino, appunto.

A guardare bene, separato il loglio dal grano, non vi è poi tanta differenza fra questa “agenda” e la Carta di intenti dei progressisti e democratici. Anzi su qualche questione Monti appare persino più ardito. Ad esempio per quanto riguarda il welfare propone di generalizzare il “reddito minimo di sostentamento”, una sorta di reddito di cittadinanza, del quale la Carta di intenti non fa minimo cenno. Non vi è da stupirsi per almeno due ragioni. La prima è che questa misura era raccomandata dal parlamento europeo in una risoluzione assunta più di un anno fa come misura di contenimento della povertà e di facilitazione per trovare lavoro. Per quanto il Parlamento europeo abbia poteri solo virtuali, qualcuno prima o poi qualcosa la doveva pur dire.

Ma vi è un altro ben più sostanziale motivo. Anche Milton Friedman considerava compatibili con il suo impianto liberista forme di reddito di cittadinanza. Il suo ragionamento era semplice: essendo, secondo lui, la piena occupazione difficile da realizzarsi e in ogni caso non desiderabile, bisognava pur farsi carico di coloro che rimanevano inevitabilmente esclusi dal mondo del lavoro senza dargli pretesti per imbarazzanti sollevazioni sociali. Meglio quindi distribuire un po’ di reddito che non offrire occasioni lavorative a tutti, perché il lavoro è un diritto che a sua volta ne crea e ne amplia altri e il tutto finisce per minacciare la tranquillità delle classi dirigenti, come annotava Kalecki in un famoso articolo dei primi anni settanta.

L’agenda Monti appare quindi come l’ultima versione della teoria “dell’austerità espansiva”, fastidioso ossimoro ormai criticato persino dal Fondo monetario internazionale. Se si vuole andare al sodo, il documento montiano può ridursi ai pochi e lapidari punti del secondo capitolo che si aprono con l’affermazione “che non si può seriamente pensare che la crescita si faccia creando altri debiti”. In base a questa indimostrabile affermazione, Monti trae la conseguenza che bisogna attuare in modo rigoroso il pareggio di bilancio, seguire pedissequamente la road map tracciata dal fiscal compact, dismettere il patrimonio pubblico destinando i proventi “integralmente” alla riduzione dello stock del debito pubblico.

Qui il punto di incrocio, almeno sulle prime due decisive questioni, con la Carta d’intenti è evidente. Quest’ultima nelle battute finali (quelle che contano di più, come più volte ha detto anche esplicitamente il segretario Bersani) ribadisce la necessità di “assicurare la lealtà istituzionale agli impegni internazionali e ai trattati sottoscritti dal nostro Paese, fino alla verifica operativa e all’eventuale rinegoziazione degli stessi in accordo con gli altri governi”, senza però assumersi l’impegno di promuovere o sollecitare quest’ultima. Infatti Bersani in una recente intervista al Financial Times afferma di non avere alcuna intenzione di rinegoziare il fiscal compact, anzi di essere d’accordo con il ministro delle Finanze tedesco nel rafforzarlo ulteriormente costruendo un organo di controllori autorizzati a mettere il naso nella formazione del bilancio di ogni singolo paese membro della Ue.

Che la si guardi da una parte o dall’altra la situazione ci appare quindi bloccata. A decidere sono le nuove normative europee qualunque sia il governo in carica. Monti con la sua agenda non fa altro che metterlo in evidenza. Come ricordava qualche settimana Carlo Bastasin editorialista del Sole 24 Ore “un governo post-Monti dovrebbe comportarsi più o meno allo stesso modo del governo attuale”. Anzi “qualsiasi sarà il prossimo governo rischia di avere ancora meno margine di manovra” di quello appena defunto.

La pubblicazione dell’agenda Monti fa dunque ulteriore chiarezza su un punto, per chi non l’avesse ancora compreso o facesse finta: la ricusazione del fiscal compact – su cui costruire da subito alleanze concrete con i paesi mediterranei e tutti quelli in difficoltà nella Ue – è la vera discriminante programmatica su cui si giocano le prossime elezioni. E’ l’unica possibilità per ridare un senso alla politica, che consiste nello scegliere fra strade diverse e possibili. Altrimenti ce ne è una sola, quella già decisa a Bruxelles, quella che ci fa dire, dati alla mano, che l’Europa più che vittima della crisi lo è delle proprie politiche. Di questo bisognerebbe discutere – e difatti di questo si parla nei movimenti e nella sinistra in Europa -, invece di perdersi in discussioni astratte e vuote sul fatto se sia meglio stare al governo o all’opposizione, dando la sensazione di essere come l’ubriaco della barzelletta che cerca le chiavi perdute sotto il lampione semplicemente perché lì c’è luce.

Queste erano le osservazioni che sono andato facendo con sempre maggiore intensità dentro Sel, la comunità politica nella quale ho militato (non la chiamo partito, perché il primo a negare che lo sia o che lo debba essere è il suo leader). Debbo prendere atto che non hanno avuto successo. Sel ha finito per stringere un’alleanza che la subordina ai trattati vigenti e alle decisioni che a maggioranza verranno prese nei gruppi parlamentari. E’ ovvio che il pallino resta in mano al Pd. Ma soprattutto Sel ha messo da parte quello che pure era un impegno derivante dai documenti congressuali, ovvero la costruzione di una forza di sinistra autonoma, per quanto non isolazionista o testimoniale. Necessita perciò trovare altre strade, per quanto esse siano difficili e tutt’altro che sicure, rese ancora più ardue dall’incombenza della scadenza elettorale, con la consapevolezza che lasciare una comunità politica che si è contribuito a costruire fin dal suo inizio porta anche il segno di una sconfitta personale. Riconoscerla è già un passo avanti

Bussole impazzite

di Sandro Moiso - sinistrainrete -

When you live out here in the middle of nowhere, it’s easy to get lost” (John Mellencamp)

L’avevamo annunciato qualche tempo fa che l’unica alternativa al governo Monti sarebbe stato un Monti bis. Previsione fin troppo facile, considerati gli sponsor nazionali ed internazionali dell’operazione. La diretta discesa in campo del salvatore della patria, però, sembra aver comportato alcuni problemi gestionali e logistici per quei partiti che sull’agenda Monti avevano cercato di ricostruire la loro credibilità politica ed istituzionale.

In particolare per il PD.
Anche questo era stato previsto nell’articolo pubblicato su queste pagine il 16 ottobre scorso (Dove stiamo andando), ovvero che il PD potesse essere vittima della stessa politica contraddittoria (“liberale” e di “sinistra”) che ha costituito il suo marchio di fabbrica negli ultimi vent’anni (indipendentemente dalla sigla utilizzata). Sicuro del trionfo del progetto liberal-riformista fino a pochi giorni prima della discesa in campo del professore, oggi Bersani si trova a fare i conti con la necessità di delineare meglio i caratteri del proprio progetto, ormai in nulla dissimile da quello proposto dall’economista bocconiano.
Per continuare a galleggiare nell’area di governo il partito della piadina romagnola dovrà liberarsi di ogni “copertura” a sinistra (Fiom) e rilanciare, come era facilmente prevedibile, il sindaco di Firenze a discapito dei “giovani turchi” di Fassina. Sì, lo so, vi sto annoiando con considerazioni sulle vicende di personaggi vicini alla nullità politica ed umana, d’altra parte questo è tutto ciò che il tempo attuale produce in Italia.
L’aggressività del grigio automa della finanza, però, nasconde non tanto un attacco alla sinistra (Monti non è così prevenuto o ingenuo da credere veramente che nel PD o in Sel vi sia anche solo il più pallido riflesso di una posizione di sinistra, anche soltanto riformista), quanto un più ampio attacco al sistema democratico-parlamentare italiano. Le lezioni valgono per tutti e l’invito a silenziare vale anche per il PDL e tutti gli altri.
Certo non ci strapperemo le vesti per questo, considerato che una delle pagine più belle della storia del Novecento è costituita, per chi scrive, dallo scioglimento della “democratica” Duma russa da parte degli “autoritari” marinai con la stella rossa nel novembre del 1917. No, in quel sistema non c’è nulla da difendere e non occorre abbassarsi al livello del populismo grillino per rilevarne la corruzione, l’inefficienza e la sostanziale inutilità, anche formale.
Il problema è chiedersi perché questo accade oggi, ad opera di uno “stimato” professore e del suo clan di ferventi sostenitori del liberismo più sfrenato e del predominio del settore finanziario su tutti gli altri settori dell’economia capitalistica.

Eppure tutto era già scritto, a partire dall’autentico colpo di stato in guanti bianchi che ha visto nell’autunno del 2011 la sostituzione autoritaria di un governo di allegri pirati e bucanieri con quello dell’autorità vera: quella delle banche e del sistema monetario e finanziario internazionale.

Un po’ come dire: “E’ finita l’era di Capitan Kidd, adesso entra in campo l’impero!
Sappiamo tutti, infatti, quanto fu grande l’importanza della pirateria per la nascita e lo sviluppo del capitalismo inglese o del capitalismo tout-court. Adam Smith, che di queste cose si intendeva, vedeva nel pirata il prototipo dell’autentico self-made man. Però, una volta demolita la potenza spagnola e portoghese sui mari, intervenne l’autorità della monarchia inglese con il suo esercito e la sua marina militare per garantire continuità e direzione all’accumulazione originaria. Impiccando, prima di tutto, il povero Kidd*.
La massa di fessi che nell'autunno del 2011 salutò festosamente l’arrivo dei Professori proprio non seppe vedere, grazie soprattutto ai buoni auspici del PD, che un famigerato corsaro veniva sostituito da una macchina da guerra anti-proletaria e spietata che non avrebbe più concesso favori di nessun genere né agli elettori né, tanto meno, ai lavoratori. I briganti di strada venivano sostituiti dalle unità speciali delle SS naziste. Nel giubilo popolare e nel trionfo del masochismo divenuto pratica di massa.

mercoledì 9 gennaio 2013

I mali del comunismo

Fonte: liberazione.it | Autore: Maria. R. Calderoni
       
Ne hanno dette tante - piccole, grandi, mostruose, esilaranti, imbecilli, feroci, ridicole, strane, fantasiose, persino divertenti - sul comunismo e sui comunisti medesimi. Un elenco infinito (già ai tempi di Marx, con tutta quella «vecchia Europa» in subbuglio armato...), una vera antologia da guiness.
Mangiano i bambini. Mangiano i Bot. Fanno abbeverare i cavalli in San Pietro. Praticano il libero amore. Tolgono i figli alle famiglie e li danno allo Stato. Non credono ai miracoli. Dicono che la religione è l'oppio dei popoli. Sono senza Dio. Sono senza patria. Aboliscono le scuole private. Aboliscono la proprietà privata. Dicono che il sesso non è peccato. Hanno il Kgb. Hanno il conformismo. Non hanno il consumismo. Non comprano le borse di Hermés. Non hanno il libero pensiero. Non hanno la libertà. Hanno dato i missili a Fidel Castro. Hanno la nomenklatura. Hanno il realismo socialista. Fanno film come La Corazzata Potemkin.
In un volume intitolato "Il libro nero del comunismo" non si finisce più di apprenderne di cotte e di crude. 770pagine filate equamente suddivise tra «Crimini Terrore Repressione», mica noccioline. Per dire: il Grande Terrore, il Sistema dei campi di concentramento, le Purghe, la Tattica del colpo su colpo, l'Assassinio come metodo di governo, il gulag, il Genocidio, Stalin, Lenin...
Insomma, di tutto. Ma che tre donne comuniste camuffate da giudici si mettessero insieme per scucire dalle tasche di Berlusconi 200mila euro al giorno sotto forma di alimenti da devolvere alla Veronica sua ex moglie, inaudito, tra i mali del comunismo questo nessuno al mondo l'aveva sentito mai!

Twitta Gramsci, la polizia l'accusa: «Istighi alla violenza»

La ragazza, che fa parte del movimento degli Indignados, sarebbe stata interrogata a Madrid. La solidarietà su Twitter
MADRID
Twitta Gramsci, la polizia l'accusa:
«Istighi alla violenza»
La ragazza, che fa parte del movimento degli Indignados, sarebbe stata interrogata a Madrid. La solidarietà su Twitter
Pippi Calzelunghe, la foto del profilo di Almu MonteroPippi Calzelunghe, la foto del profilo di Almu Montero
Twitta Antonio Gramsci e viene accusata di incitamento alla violenza. La vicenda riguarda un'esponente madrilena del Movimento 15 M (gli «indignados») che sarebbe stata denunciata dalla polizia postale spagnola per aver postato su Twitter dall'account @almu_en_lucha una frase del pensatore politico, Antonio Gramsci, tra i principali intellettuali marxisti del secolo scorso e tra i fondatori del Partito comunista italiano. Ecco la frase incriminata: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza». Gramsci fu a lungo imprigionato dal fascismo per le sue idee e la passione politica, e processato con le accuse di «attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all'odio di classe». La frase che è valsa le accuse ad Almu Montero (questo il suo nome su Facebook) fu scritta da Gramsci su L'Ordine Nuovo, giornale del partito socialista, nel numero del 1° maggio del 1919
LE PROTESTE - La vicenda della studentessa spagnola di comunicazione è rimbalzata sul sito di microblogging e sui social network. Dalla Spagna all'Italia. E non solo. In poche ore la ragazza ha ricevuto centinaia di messaggi di solidarietà. «È una vergogna, siamo di nuovo sotto il fascismo», scrive qualcuno. «Ci accusano perché siamo scesi in piazza a manifestare il nostro dissenso», è il grido di qualcun altro. Poi arrivano anche le minacce e gli insulti degli esponenti di destra. La ragazza, secondo quanto riportato da forum e blog, è stata costretta a recarsi all’Audiencia Nacional di Madrid – un tribunale speciale – per rispondere ad un interrogatorio. Anche settimanali e quotidiani riportano la vicenda. Scrive lei stessa, sempre su Twitter: «Mi accusano di scrivere messaggi violenti, tra cui quello in cui cito Gramsci. È ridicolo». Ad Almu sarebbero stati mostrati come prova dei suoi presunti appelli alla violenza a mezzo Twitter proprio alcune citazioni di un intellettuale le cui opere sono testi di studio ed esame nelle università di mezzo mondo.
TREND TOPIC - In Spagna in poche ore #Gramsci è diventato uno dei trending topic di Twitter. Al momento Almu sta ancora mantenendo l'anonimato e non esce allo scoperto. Ma in Spagna è da tempo che la polizia controlla il movimento degli indignados, nato in seguito alla crisi economica che ha dato vita a una larga mobilitazione di protesta pacifica dal basso contro il governo spagnolo. Le proteste sono iniziate il 15 maggio 2011 in occasione delle elezioni amministrative.

Mobile User Objective System (MUOS). Ora è un obbligo!

 

muos-damageIl Fatto Quotidiano.
Non so quanti sanno cosa sia il Muos. E’ una base militare americana (non della Nato), sistemata illegalmente in mezzo a una riserva naturale, a due passi da Niscemi, Sicilia.
Segretissima. Enorme. Si vedono antenne altissime di diversi tipi. I tecnici del Politecnico di Torino, chiamati dall’Amministrazione comunale di Niscemi, hanno valutato i rischi per le popolazioni circostanti. Il rapporto è, a dir poco inquietante.
Ma più inquietante è scoprire che tutto il Muos è un’arma strategica offensiva di nuovo tipo, che fa parte di un sistema di basi analoghe, sparse in diversi continenti, collegate a un sistema di satelliti geostazionari che consentono agli Stati Uniti d’America, senza alcun controllo da parte italiana, di condurre azioni di rilevazione, controllo, guida di droni, possibili e multiple azioni di disturbo e di offesa verso terzi.
Studi sull’impatto delle onde irraggiate da quelle antenne, eseguiti da due aziende americane, Analytical Graphics Inc. (sede a Exton , Pennsylvania), e Maxim Systems (San Diego, California), dicono che “le fortissime emissioni elettromagnetiche possono avviare la detonazione degli ordigni” a bordo di aerei militari.
Infine (ma l’elenco sarebbe lungo) si hanno molte ragioni per concludere che le antenne e le parabole del Muos hanno stretti legami con l’ultra-segreto programma “Haarp” (High frequency Active Auroral Reseach Program) che dal 1994 la Us Air Force e la Us Navy conducono a partire dalla base di Gakona, in Alaska. Programma che il Parlamento Europeo ha definito pericoloso per l’ambiente e per l’uomo, chiedendo agli Stati Uniti di sospenderlo. Richiesta ignorata sia dal governo americano che dalla Commissione Europea.
Chi ha preso la decisione di fare la base, in Italia, in Sicilia? Storia oscurissima, cominciata nel 2005. Fino a che la Regione Siciliana, sollecitata dalla gente, non ha cercato, confusamente, di fermare la faccenda. Per essere poi costretta a rimangiarsi tutto. Fino al recente sequestro della base da parte della magistratura. Anche questa volta subito cancellato dalle “istanze superiori”. Insomma questa base non si tocca. Il Parlamento non ne ha mai discusso.
NOMUOS-COMUNICATOMa è sorto un movimento di protesta, che sta assumendo proporzioni importanti. E allora, a camere chiuse, ecco che la ministra Cancellieri formalizza la decisione del Governo, definendo il Muos “sito di interesse strategico per la difesa militare della nazione e dei nostri alleati. Cosa c’entri la difesa militare della nostra nazione in un dispositivo aggressivo lo sa solo la Cancellieri, anzi probabilmente nemmeno lei. Gli alleati sono uno solo, gli Usa. L’intimazione è rivolta al nuovo presidente della Regione Siciliana Rosario Crocetta: che non si faccia venire strane idee!
L’avvertimento è chiaro ed è erga omnes: “Non sono accettabili comportamenti che impediscano l’attuazione delle esigenze di difesa nazionale e la libera circolazione connessa a tali esigenze, tutelate dalla Costituzione”. Monti, come i precedenti governi di centrodestra e centrosinistra, dopo avere violato lo spirito della Costituzione in diversi punti e dopo averla fatta modificare (pareggio in bilancio e fiscal compact) mediante un Parlamento prono, si ricorda della Costituzione in questa specifica e molto particolare situazione.
In questo modo si vuole impedire alle popolazioni di difendersi. Anche se le si mette, a loro insaputa, in un forno a micro e macro onde in cui cuoceranno insieme ai loro figli (la Costituzione considera fondamentale il diritto alla salute). Oltre a divenire il bersaglio preliminare di ogni futuro conflitto.
Io penso che questa base la si debba chiudere e mi impegno personalmente in questo senso. Penso che il diritto costituzionale sia dalla parte della sovranità popolare, non dalla parte degli espropriatori della democrazia e della ricchezza che siedono nel Palazzo.
In ogni assemblea cui partecipo, dovunque vado, ripeto che il Parlamento italiano prossimo venturo dovrebbe dichiarare, nella sua prima seduta, che l’Italia non parteciperà più a nessuna azione o missione militare fuori dai suoi confini. Che lo dichiari preliminarmente, impegnando il Governo a rispettare la sua deliberazione. Il Muos è arma di aggressione e non soltanto di difesa. E non è sotto il controllo delle leggi e delle autorità italiane. Come tale dev’essere dichiarato illegittimo e chiuso.
Naturalmente io penso che l’Italia debba uscire dalla Nato, poiché non abbiamo nemici che non siano le catastrofi naturali che si abbatteranno su di noi insieme alla crescita del Prodotto interno lordo (finché ce ne sarà). E dunque che non si debbano comprare altri caccia bombardieri e altri sommergibili, che serviranno solo a farci diventare bersagli in guerre che è ormai impossibile vincere.

L'aumento della disoccupazione non sono un fallimento del governo Monti.

   


Cosi la Fornero ed ha ragione!
Gli obbiettivi e i compiti che il governo passato, quello da poco dimissionato e quello che verrà, sono proprio quelli che , specialmente il primo governo Monti, ha raggiunto. La Fornero ,che in questo è stata in prima linea, ha ragione! La crescente disoccupazione,la cancellazione del welfare, il far diventare istituzionale e quindi legge la cancellazione dei diritti , la flessibilità e la precarietà del lavoro era ed è funzionale al nuovo modello di sviluppo che il capitalismo sta per mettere in atto, è funzionale alla finarizzazione del capitale. Questi passi diventeranno stabili e funzionali nella soxietà in preparazione.
Quando si dice che nulla, passata la crisi, sarà più come prima ci si riferisce appunto a questo. Il tipo d'uomo della nuova società e il nuovo lavoratore sarà l'uomo nuovo della nuova società Così come con l'avvento del fordismo si creò e si modellò la società e il nuovo lavoratore parcellizzato e ripetitivo.
A ogni modello di sviluppo deve corrispondere un modello di società e di tipo d'uomo e di lavoratore funzionale ad esso. E sopratutto il modello di sviluppo deve poter svilupparsi con il consenso e il coinvolgimento del tipo di uomo e di lavoratore.
La sussunzione al capitale.
La sovrastruttura ( per dirla in termini marxisti) deve essere funzionale alla struttura della società. E uno degli strumenti per poter avere il consenso è creare lo spauracchio, l'uomo nero che deve poter incutere paura e prospettive ancora più nere di quelle che si attraversa nel presente. Nei secoli passati e nei passaggi decisivi del capitalismo questo si otteneva con la militarizzazione, I militari al potere , il golpe cruento e violento, il braccio armato del capitale, insieme al nemico esterno, agli ebrei, ai cosacchi del Don, ai barbari, ecc ecc .Oggi ai militari si è sostituito la persuasione più o meno occulta dei mass media ( televisione e internet ( leggi twetter, blog, news) ) insieme alla repressione delle "forze dell'ordine"( vedi il reato di devastazione e saccheggio o i fatti di Genova 2001) .
Ma non basta più!
Occorre un nemico esterno, l'uomo nero, invisibile e incontrollabile, che non si vede , ma che colpisce in maniera irrazionale e apparentemente inspiegabile, in modo da addossare le colpe delle nostre pene presenti di volta in volta a quello che in quel momento rappresenta un ostacolo per il raggiungimento degli obbiettivi. Oggi questo si chiama Spread insieme ad un organismo a noi soprannaturale e quasi divino e irraggiungibile l'Europa e i Mercati. Essi devono apparire come la santa trinità uno e trino , e tutti dobbiamo chinare il capo. Insieme malefici e benevoli in funzione dei nostri comportamenti . Il governo Monti , con i suoi ministri, e quelli che verranno, sono solo sacerdoti di questa nostra nuova divinità al cui altare si deve sacrificare noi lavoratori ( anzi proletari nel suo termine originale ed etimologico) , vittime sacrificali. Le loro arti e magie a noi devono apparire come miracolosi e salvifici. Ah se non ci fossero stati loro di certo le divinità a noi ostili ci avrebbero annientati, Ma il rischio è stato allontanato ,ma non ancora debellato. Abbiamo ancora bisogno di loro e dei sacrifici che ancora ci chiederanno E in mancanza di una controprova e sopratutto in mancanza di una spiegazione razionale e scientifica di come operano queste divinità a noi non resta che affidarci a loro sacerdoti e alle loro arti! Sono e saranno loro gli intermediari e i traduttori della volontà della Santa Trinità!
Ecco perché la sacerdotessa Fornero, la sacra vestale, la favorita del capo santone Monti, ha ragione!

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