Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Francobolllo
Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Europa, SVEGLIA !!
sabato 10 novembre 2012
Autore: Vittorio Bonanni - ombrerosse -
Una cura ricostituente, una ventata di creatività, un andare oltre i soliti schemi e le solite divisioni che hanno caratterizzato e continuano a rendere difficile la vita della sinistra d’alternativa. Chiamiamolo come ci pare ma questo appello “Cambiare si può! Noi ci siamo”, firmato da decine e decine di esponenti del mondo della cultura, del sindacato, dell’associazionismo, era proprio quello che ci voleva in un momento, tanto per cambiare, difficile per chi sta a sinistra del Pd, schiacciato tra la scelta di Sel di collocarsi nella Carta d’Intenti di Bersani, i grillini e il rischio astensionismo. Senza dimenticare il grave strappo all’interno della Federazione della Sinistra, con la decisione di Diliberto, Salvi e Patta di allearsi con Bersani e non partecipare al No Monti Day. Insomma, diciamo pure: ci voleva! Anche se con la consapevolezza che, pur avendo ora una marcia in più, la strada resta ancora in salita, da prima ridotta per utilizzare ancora un gergo automobilistico. A differenza delle paginette condivise dal Pd, da Sel e dal Psi di Nencini, il testo di “Cambiare si può”, i cui primi firmatari sono il sociologo Luciano Gallino, il magistrato Livio Pepino del Gruppo Abele, lo storico Marco Revelli, il vicepresidente di Libera Don Cozzi, Antonio Di Luca, operaio Fiom di Pomigliano, iscritto a Rifondazione e Chiara Sasso, coordinatrice Rete dei Comuni Solidali, prende nettamente di petto un modello sociale-europeo schiacciato sulle compatibilità economico-finanziarie che non lascia alcuno spazio ad una ripresa della politica, della quale farebbero volentieri a meno i padroni del Vecchio continente. Una netta presa di posizione dunque contro l’agenda Monti.
Parlavamo delle difficoltà. Il primo dicembre è già previsto un incontro importante tra gli autori di questo appello, e chi lo sta sostenendo come Rifondazione Comunista e il sindaco di Napoli De Magistris. Ma che cosa succederà ora? Si riuscirà ad arrivare ad una lista comune da proporre alle elezioni? E quali ostacoli si potranno incontrare in un ambiente che ha troppo spesso privilegiato lo scontro (vedi le tante, troppe scissioni che si sono verificate all’interno del Prc) piuttosto che valorizzare le affinità? Ne abbiamo parlato appunto con alcuni dei sostenitori di questa “Carta d’Intenti” di sinistra. «Il rapporto tra questo appello e i suoi firmatari con le altre forze della sinistra – dice Livio Pepino, magistrato e responsabile delle edizioni Gruppo Abele – lo vedo insieme di alternativa e di necessità. Mi spiego meglio. Io credo che l’esperienza di queste ultime elezioni siciliane dimostri che quella modalità che le forze di sinistra hanno scelto per essere elettoralmente presenti si sia rivelato fallimentare. Non intercettano più un bisogno, un elettorato e dunque bisogna trovare delle forme nuove che, pur non cedendo alla demagogia dei più giovani e dei rottamatori, aiutino a capire che o si cambia anche il modo di porsi di fronte all’elettorato o, al contrario, non si va da nessuna parte».
Parlavamo delle difficoltà. Il primo dicembre è già previsto un incontro importante tra gli autori di questo appello, e chi lo sta sostenendo come Rifondazione Comunista e il sindaco di Napoli De Magistris. Ma che cosa succederà ora? Si riuscirà ad arrivare ad una lista comune da proporre alle elezioni? E quali ostacoli si potranno incontrare in un ambiente che ha troppo spesso privilegiato lo scontro (vedi le tante, troppe scissioni che si sono verificate all’interno del Prc) piuttosto che valorizzare le affinità? Ne abbiamo parlato appunto con alcuni dei sostenitori di questa “Carta d’Intenti” di sinistra. «Il rapporto tra questo appello e i suoi firmatari con le altre forze della sinistra – dice Livio Pepino, magistrato e responsabile delle edizioni Gruppo Abele – lo vedo insieme di alternativa e di necessità. Mi spiego meglio. Io credo che l’esperienza di queste ultime elezioni siciliane dimostri che quella modalità che le forze di sinistra hanno scelto per essere elettoralmente presenti si sia rivelato fallimentare. Non intercettano più un bisogno, un elettorato e dunque bisogna trovare delle forme nuove che, pur non cedendo alla demagogia dei più giovani e dei rottamatori, aiutino a capire che o si cambia anche il modo di porsi di fronte all’elettorato o, al contrario, non si va da nessuna parte».
Il caso Di Pietro, depurato dalle balle e dalle inesattezze
Due pesi e due Schifani
Dopo Servizio Pubblico si chiude il caso Di Pietro che, depurato dalle balle e dalle inesattezze che l'hanno costellato, si riduce ad alcune sconvolgenti scoperte (peraltro note da anni):
nel 1995 una ricca signora donò 1 miliardo di lire per sostenere l'allora pm in aspettativa, bersagliato da processi infondati a Brescia su denuncia di alcuni amici di B.; la stessa cifra fu donata a Prodi che, diversamente da Di Pietro, era già in politica; Di Pietro usò la donazione personale in parte acquistando una casa a Busto Arsizio, dove poi tenne le prime riunioni della nascente Idv, in parte per metterla in piedi, finanziata com'era dalle sue tasche e da contributi spontanei (l'Idv entrò in Parlamento solo nel 2006); la prima Idv era controllata da un'associazione omonima formata da Di Pietro, dalla moglie e da un paio di fedelissimi, per evitare (in pieno regime berlusconiano) che qualche infiltrato scalasse il partito; nel 2009 l'Idv cambiò statuto e si aprì a una gestione più collegiale; in un paio di casi Di Pietro affittò propri immobili al partito, a canoni ribassati rispetto a quelli di mercato, una volta in seguito a un improvviso sfratto; nel suo appartamento romano furono ricavate due stanze per l'amministrazione Idv, tinteggiate e ammobiliate con fondi del partito (7 mila euro ), dopodiché il mobilio fu trasferito nella nuova e più ampia sede.
Per aver manipolato ad arte queste vicende, insinuando un uso personale di fondi pubblici, il Giornale e le sue fonti (riproposte senza prese di distanze da Report) sono stati condannati tre volte dal Tribunale civile di Monza a risarcire Di Pietro con 344 mila euro per le falsità e le diffamazioni subìte.
Motivo: “Il postulato di fondo è la presunta commistione tra il patrimonio immobiliare personale di Di Pietro e quello del partito Idv… che – nonostante l'archiviazione del procedimento penale che si è occupato della questione – viene comunque prospettata quale congettura sottesa agli interrogativi del giornalista, all'evidente scopo di screditare la credibilità e l'immagine del leader” con “volute inesattezze e reticenze, così da accreditare la tesi del giornalista che, interrogandosi sulle proprietà immobiliari di Di Pietro e dei suoi familiari ('Ma quante case ha l'onorevole Di Pietro? E con quali soldi le ha comprate?') in rapporto ai redditi dallo stesso dichiarati e al patrimonio della società immobiliare di sua proprietà (Antocri)... intende chiaramente alimentare il dubbio che gli acquisti siano frutto di un illecito storno per fini privati dei fondi del partito e quindi anche dei rimborsi elettorali”.
Il Tribunale di Roma, archiviando analoghe denunce dell'ex dipietrista Di Domenico, ha stabilito che “anche in punto di fatto, prim'ancora che nella loro rilevanza giuridica, i sospetti avanzati in merito alle citate operazioni dell'avv. Di Domenico sono risultati infondati”, “non essendo in alcun modo emerso che Di Pietro ebbe a trarre personale vantaggio dalle operazioni ai danni del partito”. Di queste sentenze nessuno dei censori di Di Pietro ha tenuto conto. Ma ora hanno la grande occasione per riscattarsi: riservare lo stesso trattamento ad altri politici. Per esempio Renato Schifani. Non per motivi penali (la Procura di Palermo chiede l'archiviazione dell'indagine per mafia). Ma morali, se è vero che – come anticipato dalla Stampa – i pm confermano i suoi rapporti con uomini di mafia. E da ieri anche per motivi politici: il noto statista ha dichiarato che per la legge elettorale “ce la sto mettendo tutta, altrimenti Grillo dal 30 va all'80%”. Viva la faccia: la seconda carica dello Stato confessa che la legge elettorale serve a impedire a una lista di vincere le elezioni.
Si attendono con ansia indignati commenti e reportage dei censori di Di Pietro. Anche per sfuggire a un fastidioso sospetto, ben descritto a suo tempo da Longanesi: “Credono che la morale sia il finale delle favole”.
Di Marco Travaglio
nel 1995 una ricca signora donò 1 miliardo di lire per sostenere l'allora pm in aspettativa, bersagliato da processi infondati a Brescia su denuncia di alcuni amici di B.; la stessa cifra fu donata a Prodi che, diversamente da Di Pietro, era già in politica; Di Pietro usò la donazione personale in parte acquistando una casa a Busto Arsizio, dove poi tenne le prime riunioni della nascente Idv, in parte per metterla in piedi, finanziata com'era dalle sue tasche e da contributi spontanei (l'Idv entrò in Parlamento solo nel 2006); la prima Idv era controllata da un'associazione omonima formata da Di Pietro, dalla moglie e da un paio di fedelissimi, per evitare (in pieno regime berlusconiano) che qualche infiltrato scalasse il partito; nel 2009 l'Idv cambiò statuto e si aprì a una gestione più collegiale; in un paio di casi Di Pietro affittò propri immobili al partito, a canoni ribassati rispetto a quelli di mercato, una volta in seguito a un improvviso sfratto; nel suo appartamento romano furono ricavate due stanze per l'amministrazione Idv, tinteggiate e ammobiliate con fondi del partito (7 mila euro ), dopodiché il mobilio fu trasferito nella nuova e più ampia sede.
Per aver manipolato ad arte queste vicende, insinuando un uso personale di fondi pubblici, il Giornale e le sue fonti (riproposte senza prese di distanze da Report) sono stati condannati tre volte dal Tribunale civile di Monza a risarcire Di Pietro con 344 mila euro per le falsità e le diffamazioni subìte.
Motivo: “Il postulato di fondo è la presunta commistione tra il patrimonio immobiliare personale di Di Pietro e quello del partito Idv… che – nonostante l'archiviazione del procedimento penale che si è occupato della questione – viene comunque prospettata quale congettura sottesa agli interrogativi del giornalista, all'evidente scopo di screditare la credibilità e l'immagine del leader” con “volute inesattezze e reticenze, così da accreditare la tesi del giornalista che, interrogandosi sulle proprietà immobiliari di Di Pietro e dei suoi familiari ('Ma quante case ha l'onorevole Di Pietro? E con quali soldi le ha comprate?') in rapporto ai redditi dallo stesso dichiarati e al patrimonio della società immobiliare di sua proprietà (Antocri)... intende chiaramente alimentare il dubbio che gli acquisti siano frutto di un illecito storno per fini privati dei fondi del partito e quindi anche dei rimborsi elettorali”.
Il Tribunale di Roma, archiviando analoghe denunce dell'ex dipietrista Di Domenico, ha stabilito che “anche in punto di fatto, prim'ancora che nella loro rilevanza giuridica, i sospetti avanzati in merito alle citate operazioni dell'avv. Di Domenico sono risultati infondati”, “non essendo in alcun modo emerso che Di Pietro ebbe a trarre personale vantaggio dalle operazioni ai danni del partito”. Di queste sentenze nessuno dei censori di Di Pietro ha tenuto conto. Ma ora hanno la grande occasione per riscattarsi: riservare lo stesso trattamento ad altri politici. Per esempio Renato Schifani. Non per motivi penali (la Procura di Palermo chiede l'archiviazione dell'indagine per mafia). Ma morali, se è vero che – come anticipato dalla Stampa – i pm confermano i suoi rapporti con uomini di mafia. E da ieri anche per motivi politici: il noto statista ha dichiarato che per la legge elettorale “ce la sto mettendo tutta, altrimenti Grillo dal 30 va all'80%”. Viva la faccia: la seconda carica dello Stato confessa che la legge elettorale serve a impedire a una lista di vincere le elezioni.
Si attendono con ansia indignati commenti e reportage dei censori di Di Pietro. Anche per sfuggire a un fastidioso sospetto, ben descritto a suo tempo da Longanesi: “Credono che la morale sia il finale delle favole”.
Di Marco Travaglio
L’Euro non come moneta unica ma come moneta comune
Christian Marazzi - sinistrainrete -
Intervento al convegno L'Europa verso la catastrofe?
Interverrò brevemente e direttamente in merito di quanto Klaus Busch ha, secondo me, realisticamente posto come problema, come dilemma, diciamo, come un rompicapo e cioè il fatto che l’euro sin dalla sua nascita è stata una costruzione monetaria, come dire, acefala. E di fatto ha funzionato come un veicolo di approfondimento delle divergenze all’interno della zona dell’euro fra paesi, diciamo, votati all’esportazione e paesi specializzati soprattutto in settori non esportabili, servizi. E che però proprio nella misura in cui ha portato alla situazione che conosciamo, rende addirittura difficile l’ipotesi di un suo superamento, di una uscita da questa moneta, da questa pseudo moneta che tanti problemi complicati sta creando e che è destinata a creare nel prossimo futuro.
Allora io sono d’accordo sulle difficoltà politiche di mobilitazione su un terreno che sia anche minimamente riformista, insomma. Le difficoltà dell’euro si ripercuotono anche sul piano interno degli stati membri e quindi anche dei movimenti. Ci sarà un passaggio, che credo sia essenziale, a maggio a Francoforte, ad una dimensione, ad un livello transnazionale che mi sembra assolutamente corretto e indispensabile, ma allo stesso tempo difficile. Questo vale anche se vogliamo ragionare, per esempio, sui punti messi a programma da Busch, e cioè una spinta in direzione della crescita. L’idea di instaurare gli eurobonds, queste obbligazioni di mutualizzazione del debito, del finanziamento del debito, le politiche di coordinamento dei salari, della spesa pubblica. Un governo comune dunque, e poi questo asse, che ora asse tanto non è, perché mi sembra che sia centrato prevalentemente sulla Germania. Poi da ultimo la regolazione dei mercati. Credo che questo però ci inviti ad essere piuttosto precisi su cosa sia l’euro e soprattutto quali siano i margini di riforma che l’euro concede o lascia anche solo intravedere. Ecco, io penso che qui si debba essere piuttosto chiari sul fatto che l’euro è la quintessenza di quello che i teorici neoclassici, i monetaristi, hanno da sempre teorizzato. Ricordo che l’euro di fatto è una specie di traduzione pratica delle teorie di Robert Mundell, scritte appunto alla fine degli anni sessanta, primi anni settanta, ed è una costruzione pratica, una traduzione pratica di una concezione della moneta per la quale la libera concorrenza, la libertà di movimento dei capitali, insomma, la dinamica dei prezzi esclude la necessità, il bisogno di una politica monetaria indipendente. Quindi da questo punto di vista c’è una coerenza, secondo me, perfetta nell’euro in quanto moneta diciamo “monetarista”, secondo i precetti e la teoria della moneta, della teoria monetaria neoclassica. Questo ha portato di fatto, in questo ultimo decennio, a pagare, a verificare tutta una serie di conseguenze di questo agire. Vorrei ricordare anche che questa concezione della moneta, per certi versi e paradossalmente, oggi scopriamo che ha pesato anche sulla sinistra. Per esempio, penso alle teorie basate sull’essenzialismo della moneta di Michel Aglietta e André Orléan, che vedevano (ma oggi si ricredono) nella moneta, nella sua centralità la possibilità tutto sommato di omogeneizzare ciò che in origine era eterogeneo, cioè di portare attraverso l’agire della moneta a superare queste divergenze su vari piani salariali, di produttività, di spese pubbliche. Ecco questo si è rivelato un approccio, una visione sbagliata. Noi sappiamo che negli ultimi dieci anni queste divergenze sono aumentate, pensate soltanto a cosa è successo ai bilanci commerciali, per esempio, dei vari stati del nord e del sud della zona euro che han visto veramente la forbice aprirsi ancora di più. Perché dico questo? Perché se vogliamo ragionare in termini di riforma dobbiamo in un certo senso prendere di petto la questione.
Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere
Riccardo Bellofiore - sinistrainrete -
Intervento al convegno L'Europa verso la catastrofe?
Come hanno detto i relatori che mi hanno preceduto, la situazione in cui viviamo è una situazione invernale, gelida. Penso che alcuni di voi, certamente i più anziani come me, abbiano visto il film Frankenstein Junior e quindi si ricorderanno la scena in cui il giovane Frankenstein e il gobbo Igor vanno a scavare in un cimitero per esumare il cadavere del mostro e Frankenstein jr dice “che lavoro schifoso” e Igor risponde “potrebbe andare peggio”. Frankenstein jr chiede “come?” e Igor risponde “potrebbe piovere”. Subito si sentono tuoni e inizia una pioggia violenta. Questa è la situazione in cui sono convinto da tempo che ci troviamo a vivere. E in effetti ho intitolato “Potrebbe piovere” uno scritto ormai di due dicembre fa firmato con Joseph Halevi.
Cercherò di rispondere alle sollecitazioni avanzate da Raparelli e Casarini, oltre che dai relatori che mi hanno preceduto. Non è facile da farsi in così breve tempo. Cercherò sostanzialmente di svolgere tre argomenti, dandovi soltanto una sorta di schema di un ragionamento possibile. Primo: cercherò di chiedermi in che tipo di crisi del capitalismo globale ci troviamo, e su questo sarò veramente telegrafico. Dopo, cercherò di discutere dell’euro, dell’euro così come si è costruito nella realtà, non come spesso ce lo raccontiamo, e del tipo di crisi dell’euro e dell’Europa che viviamo adesso. In terzo luogo, cercherò di entrare nel terreno di discussione, complicato, delle possibili politiche economiche, e di qui svolgerò alcune considerazioni politiche. Sarò estremamente schematico. Chi fosse interessato trova lo sviluppo del ragionamento in due libretti che ho pubblicato recentemente [n.d.r. La crisi capitalistica, la barbarie che avanza e La crisi globale, l’Europa, l’euro, la sinistra, editi entrambi da Asterios, Trieste, nel 2012].
Mi capiterà di incrociare argomenti che non sono solo a questo tavolo ma che sono anche abituali nelle discussioni della sinistra … Non sono abituato a fare nomi, ma a fare cognomi, quindi spero che nessuno se la prenda. E inizierò dicendo che sostanzialmente a sinistra due mi sembra che siano le interpretazioni della crisi più diffuse. La prima è quella marxista ‘ortodossa’: vivremmo l’ennesima manifestazione della caduta tendenziale del saggio di profitto nella forma classica consegnataci dalla tradizione. In Italia chi ha sostenuto questa tesi con più rigore è Vladimiro Giacchè: uno degli interpreti più interessanti sia di questo filone che della crisi attuale più in generale. L’altra interpretazione che vi ricordo è un’interpretazione che sta all’incrocio delle problematiche keynesiane e conflittualiste/neoricardiane – una lettura a mio avviso più keynesiana e neoricardiana che marxista, in realtà. Mi riferisco la all’idea che noi vivremmo la crisi di ‘un mondo di bassi salari’. E’ a ben vedere un’interpretazione sottoconsumista. L’interprete migliore di questa linea in Italia è probabilmente Emiliano Brancaccio.
Sia l’una che l’altra lettura della crisi sostanzialmente interpretano gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, fino alla crisi dal 2007 in poi, come la crisi di un capitalismo ‘stagnazionista’, intrappolato nella stagnazione da decenni. Credo che questo sia riduttivo, e in verità probabilmente falso. Ci sono state grandi ondate di cambiamento su scala globale, viviamo la crisi di un capitalismo dagli aspetti fortemente dinamici. Questo non nega che nel mondo ci siano state aree del capitalismo sviluppato, in parte l’Europa, e senz’altro il Giappone, che hanno avuto decenni di stagnazione, in particolare dagli inizi degli anni ‘90. Il mio atteggiamento è piuttosto di capire le contraddizioni di questo capitalismo, del capitalismo che è stato chiamato troppo genericamente un capitalismo ‘neoliberista’, e dagli economisti borghesi come il capitalismo della Grande Moderazione. Voglio capire le contraddizioni specifiche di questo capitalismo, le ragioni della sua crisi, non del capitalismo in generale. Peraltro penso che su questo Christian Marazzi possa essere d’accordo con me, cioè che si debba tenere conto del fatto che il capitalismo che abbiamo alle spalle (almeno dagli anni ’80 in poi) è stato trainato dalla finanza, e che sia stato un capitalismo con capacità di creazione di consenso, di creazione di ricchezza, di creazione di rendita. Semmai, rispetto all’interpretazione di Christian Marazzi quale lui l’ha disegnata con grande intelligenza prima della crisi recente, penso che lui, come molti, abbia forse sovrastimato la sostenibilità nel tempo di questo capitalismo, penso in particolare al suo libro edito da Bollati Boringhieri qualche anno fa, Il denaro va.
Appunto: che tipo di capitalismo è stato? Anche se la ridurrò a poche frasi, devo prenderla da molto lontano, dalla fine dell’800. Il capitalismo attraversa delle ‘grandi crisi’, delle crisi ‘sistemiche’ (che non sono certo il ‘crollo’). A fine ‘800 ha vissuto quella che quando studiavo veniva detta la Grande Depressione (e oggi come la Lunga Depressione). Quella crisi, in effetti, si spiega benissimo con la caduta tendenziale del saggio di profitto, proprio secondo la teoria di Marx, cioè come dovuta all’aumento della composizione di capitale. Negli anni ’30 del ‘900 ha poi vissuto una crisi tipica da mancata ‘realizzazione’ del plusvalore, quella che riduttivamente viene descritta come una crisi da ‘sottoconsumo’, la crisi che John Kenneth Galbraith ha descritto in un libro meritatamente famoso come il Grande Crollo.
venerdì 9 novembre 2012
DRONE
Without
pilot without morals without dignity
"the
toddlers adore me…I remind them the kites of their dreams"
Grecia, i sacrifici per il terzo prestito della Troika. Ma la Casta è salva
Tra le misure approvate, taglio dei bonus extra per i dipendenti pubblici e abolizione delle pensioni di parlamentari e autorità comunali che hanno già concluso il mandato. Chi è al potere adesso, al contrario, continuerà ad usufruire del cumulo di più pensioni
di Francesco De Palo |
Adesso arriva il difficile. Sono le prime parole del premier conservatore Antonis Samaras all’uscita dal parlamento ateniese dopo il voto che, per soli due sì, ha dato il via libera alla misura (la terza in tre anni) della troika che comporterà tagli da 18,5 miliardi di euro entro il 2016, per ottenere l’ennesimo prestito ponte da 31 miliardi, ma salverà le pensioni della casta ellenica, dal momento che i tagli saranno per coloro che saranno eletti alle prossime elezioni.
Mentre su piazza Syntagma si stava spegnendo la guerriglia urbana che ha portato a violenti scontri tra i centomila manifestanti e le forze dell’ordine, con lancio di molotov e gas lacrimogeni, poco prima di mezzanotte una maggioranza risicatissima (servivano 151 sì) fa passare i desiderata di Bce, Ue e Fmi con 153 voti a favore, (conservatori e socialisti), contrari 128 (le opposizioni di Syriza, comunisti del Kke, Indipendenti di destra, Alba dorata e Verdi), e 18 astenuti. Ovvero i deputati del Dimar di Fotis Kouvellis, nell’occhio del ciclone, dal momento che da un lato sostengono la maggioranza di Samaras e Venizelos (con la velata promessa per il leader della sinistra democratica di essere promosso vicepremier) dall’altro non hanno votato in aula. Hanno votato “no” anche alcuni deputati della maggioranza, tra Nea Dimokratia e Pasok e sono stati subito espulsi dai due partiti, come il presidente della Camera ha annunciato un minuto dopo la votazione.
Sette le fughe dal campo del “sì”: Kozani, Kasapidis Koutsoukos, Bolaris, Gerekou, Kassis e Skandalidis. La seduta del parlamento ellenico è durata 14 ore e più volte interrotta non solo dall’acceso dibattito in un’aula trasformata in un vero e proprio bazar, ma anche a causa della votazione per appello nominale sulla costituzionalità del memorandum (respinta) invocata dal Syriza di Tsipras, dal momento che il piano incide sui diritti costituzionali dei lavoratori. Attimi di tensione quando il deputato del Syriza Lafazanis ha preso la parola urlando contro lo speaker della Camera dal momento che all’esterno del parlamento manifestavano anche i dipendenti della Camera stessa che saranno interessati dai tagli, con una carenza di personale proprio all’interno dell’Aula al momento di verbalizzare i voti. Hanno votato, anche se non presenti e in virtù di un non meglio precisato articolo 70 comma A, anche quattro deputati sottosegretari che erano in missione all’estero. Per tutta la durata della votazione sui social network si è scatenata la solidarietà degli altri cittadini europei (francesi, spagnoli, italiani, portoghesi) ai centomila manifestanti che si trovavano in piazza Syntagma, eletta simbolo di resistenza e che sarà luogo ideale per la mobilitazione europea del prossimo 14 novembre quando sciopereranno in contemporanea tutte le altre capitali “Piggs”.
Ma ecco cosa prevede il pacchetto approvato: via tutti i bonus extra per pensionati e dipendenti statali; pensioni giù del 25%, al pari degli stipendi speciali (meno 27%) per polizia, magistratura, militari, personale medico degli ospedali statali, docenti universitari, diplomatici; licenziamento di 45mila statali in tre anni (i primi duemila già entro gennaio); eliminazione della previdenza sociale sostituita da una sorta di indennità calcolata in base al reddito; innalzata fino a 67 (di due anni) l’età pensionabile, abolite le pensioni di parlamentari e autorità comunali ma solo quelli eletti d’ora in poi, facendo salva la casta che fino a oggi ha governato e che continuerà ad usufruire del cumulo di più pensioni; un piano di privatizzazioni che sta facendo discutere dal momento che un gigante pubblici come l’Opap (il totocalcio ellenico) che ha un giro d’affari da 300 milioni annui, è stato messo sul mercato per appena cento milioni di euro. E che ha provocato la dura reazione anche da parte del mondo culturale del paese.
Questa mattina il celebre compositore Mikis Teodorakis dal canale privato Antenna si è scagliato contro una “classe dirigente inetta che ha svenduto il paese”, mentre “non una parola hanno speso sui giacimenti di petrolio, di metano e di oro che abbondano in Grecia, da Creta alla penisola calcidica e di cui nessuno si è occupato con una politica veramente nazionale”. Alludendo al fatto che quelle risorse saranno da oggi in poi ad appannaggio del “conquistatore straniero”. E se il premier ribadisce che la Grecia con quel voto ha fatto “un grande e decisivo passo verso la guarigione”, Teodorakis replica che il passo conduce invece verso il baratro. E domenica notte si replica: all’ordine del giorno il voto sul bilancio dello stato.
giovedì 8 novembre 2012
14 novembre, l’Europa in piazza contro il massacro sociale
GIORGIO CREMASCHI –
E così tra il fumo dei lacrimogeni e delle bombe carta il parlamento greco ha approvato la nuova quota di tagli sociali, imposta dagli usurai della troika europea per concedere un po’ di crediti.
Con questa nuova rata l’insieme dei tagli alla spesa pubblica imposta da tutti, ripeto tutti, i governi della Unione Europea ammonta al 40% del pil greco. Come se da noi l’insieme delle manovre decise dai governi Berlusconi e Monti avesse tagliato oltre 600 miliardi di euro. Finora siamo ad un quarto di tale cifra e già le province annunciano che spegneranno il riscaldamento nelle scuole.
Immaginiamo dunque quale sia la condizione materiale del popolo greco, anche se facciamo fatica solo a concepirla perché quel paese, per restare nell’Europa dell’austerità, delle banche e dell’euro, sta uscendo dall’Europa dei diritti sociali e precipita in quella che una volta veniva chiamata la condizione del terzo mondo.
Quanti anziani, quanti bambini, quante donne, quanti poveri vedranno degradare le loro condizioni di vita fino a mettere a rischio la vita stessa, per la cancellazione di quel sistema di protezione che – dalla scuola, alla sanità, alle pensioni, ai contratti, alle tutele contro i licenziamenti – ha fatto faticosamente uscire dal medio evo questo nostro piccolo continente? Fu la vittoria contro il fascismo a costruire in Europa lo stato sociale e sono la destra liberista e la sinistra inutile e smemorata a demolirlo.
Da noi il regime dell’informazione tira un sospiro di sollievo bipartizan perché il parlamento greco ha messo sul lastrico altri milioni di persone: qui da noi tutto questo non è neanche degno di discussione, da noi si litiga su legge elettorale e primarie.
Già, le primarie del centrosinistra ove tutti i candidati sono impegnati a rispettare il fiscal compact e quei trattati europei grazie ai quali la Grecia viene distrutta, primarie ove si chiede a chi va votare di vigilare perché quei candidati mantengano quegli impegni.
Non so in quale percentuale, ma la responsabilità del massacro greco – attribuito quanto spetta al governo di quel paese, a Draghi, a Merkel e a Hollande – tocca anche a Monti, a Berlusconi, a Bersani e a chi accetta i vincoli europei.
Il popolo greco subisce danni e vittime paragonabili a quelli di una guerra e questo è un crimine e chi lo compie è un criminale.
Si può essere criminali perché si fa consapevolmente del male, oppure perché non ci si oppone a esso per opportunismo, paura, ignoranza. Ma resta il fatto che i crimini ci sono e i criminali sono tra noi.
Il 14 novembre ci sarà una prima giornata di lotta europea. È un appuntamento importante, giustamente fatto proprio dagli indignados spagnoli e dal No Monti Day, nonostante che la piattaforma ufficiale della confederazione sindacale europea sia totalmente subalterna alla criminalità economica. Noi andremo in piazza contro tutte le complicità verso il massacro della Grecia e di tutta l’Europa.
Giorgio Cremaschi
(8 novembre 2012)
Obama
Obama, la partita dell'economia - fonte -
Pubblicato Giovedì, 08 Novembre
di Vladimiro Giacchè
Si direbbe che per una volta i mercati finanziari siano stati coerenti.
Wall Street aveva generosamente finanziato la campagna elettorale di Mitt Romney, e ha dato il benvenuto alla vittoria di Obama con perdite intorno al 2 per cento. Ma sarebbe semplicistico ridurre queste reazioni a semplice partigianeria.
Gli occhi degli investitori sono rivolti al cosiddetto “fiscal cliff” (“dirupo fiscale”), os- sia ai 607 miliardi di dollari di aumenti di tasse e tagli di spese che scatteranno automaticamente a gennaio se repubblicani e democratici non saranno riusciti a trovare un accordo sulle misure da prendere per affrontare il problema del debito pubblico, che ha raggiunto la cifra impressionante di 16.200 miliardi di dollari.
Si direbbe che per una volta i mercati finanziari siano stati coerenti.
Wall Street aveva generosamente finanziato la campagna elettorale di Mitt Romney, e ha dato il benvenuto alla vittoria di Obama con perdite intorno al 2 per cento. Ma sarebbe semplicistico ridurre queste reazioni a semplice partigianeria.
Gli occhi degli investitori sono rivolti al cosiddetto “fiscal cliff” (“dirupo fiscale”), os- sia ai 607 miliardi di dollari di aumenti di tasse e tagli di spese che scatteranno automaticamente a gennaio se repubblicani e democratici non saranno riusciti a trovare un accordo sulle misure da prendere per affrontare il problema del debito pubblico, che ha raggiunto la cifra impressionante di 16.200 miliardi di dollari.
I democratici puntano soprattutto sull’aumento delle tasse ai ricchi, mentre i repubblicani preferiscono tagliare le spese socia- li. Quello che preoccupa e` la prospettiva di uno stallo. Cosa tutt’altro che improbabile, se si considera che alla Camera la maggioranza e` saldamente nelle mani dei repubblicani. Questo potrebbe comportare una replica del film gia` visto nell’agosto del 2011, allorche´ il mancato accordo tra democratici e repubblicani sulle politiche di bilancio indusse Standard & Poor’s ad abbassare il rating degli Stati Uniti sotto la tripla A, per la prima volta nella storia. Allora la cosa non ebbe conseguenze gravi sui titoli di Stato statunitensi soprattutto grazie all’acutizzarsi della crisi del debito in Europa, che convinse molti investitori a considerare nonostante tutto il dollaro e i titoli di Stato Usa come il porto piu` sicuro.
Anche ieri i titoli di Stato statunitensi a due, dieci e trenta anni sono stati generosamente comprati. Perche´ anche questa volta i maggiori problemi sembrano provenire dall’Europa: in Germania ordinativi e produzione industriale sono caduti a settembre, rispettivamente, del 3,3 e dell’1,8 per cento. E` ormai molto probabile una recessione anche in Germania: il degno corona- mento della politica di austerity depressiva imposta ai paesi dell’eurozona, che costituiscono il mercato di sbocco del 40 per cento dell’export tedesco.
Da questo punto di vista la politica seguita in questi anni da Obama appare senz’altro piu` lungimirante. Ma e` pur vero che, anche se il mercato immobiliare da` qualche timido segno di ripresa e l’economia statunitense quest’anno crescera` del 2 per cento, la situazione resta tutt’altro che esaltante: nonostante una politica monetaria eccezionalmente espansiva (da quattro anni i tassi sono negativi in termini reali) e salvataggi su larga scala di imprese finanziarie e manifatturiere, in questi anni e` stata distrutta molta capacita` produttiva (la produzione e` inferiore ai livelli pre-crisi), gli in- vestimenti delle imprese sono insoddisfacenti, il ritmo di riassorbimento della disoccupazione e` il peggiore dalla crisi del 1929 in poi, i salari continuano a calare, e sono oltre 45 milioni i cittadini statunitensi che ricevono sussidi pubblici per acquista- re generi alimentari (i cosiddetti “Food Stamps”).
La vera sfida che sta di fronte a Obama e` questa: come invertire la tendenza al declino industriale e ridurre livelli di disuguaglianza che sono ai massimi dagli anni Venti del secolo scorso. Negli ultimi decenni, negli Stati Uniti come in Europa, e` stata molto in voga la favola secondo cui soltanto bassi livelli di tassazione delle imprese e dei cittadini piu` ricchi garantirebbero un buon tasso di investimenti e di crescita economi- ca.
Recentemente questa teoria e` stata smentita da uno studio, scritto da Thomas Hungerford per il Centro Ricerche del Congresso americano, il quale ha dimostrato, dati alla mano, che basse tasse alle imprese hanno poco a che fare con investimenti e crescita, e molto a che fare, invece, con la polarizzazione della ricchezza . Nell ’ immediato dopoguerra, quando l’aliquota marginale piu` elevata era al 90 per cento (!), il tasso di crescita annuo era del 4,2 per cento.
Negli anni Duemila, con l’aliquota piu` elevata scesa al 35 per cento, la crescita non e` stata superiore all’1,7 per cento. La cosa interessante e` che questo studio e` circolato come un samizdat, in quanto i repubblicani ne hanno chiesto e ottenuto il ritiro da parte del Centro.
Speriamo che Obama sia riuscito a leggerlo lo stesso.
Pubblico - 08.11.12Anche ieri i titoli di Stato statunitensi a due, dieci e trenta anni sono stati generosamente comprati. Perche´ anche questa volta i maggiori problemi sembrano provenire dall’Europa: in Germania ordinativi e produzione industriale sono caduti a settembre, rispettivamente, del 3,3 e dell’1,8 per cento. E` ormai molto probabile una recessione anche in Germania: il degno corona- mento della politica di austerity depressiva imposta ai paesi dell’eurozona, che costituiscono il mercato di sbocco del 40 per cento dell’export tedesco.
Da questo punto di vista la politica seguita in questi anni da Obama appare senz’altro piu` lungimirante. Ma e` pur vero che, anche se il mercato immobiliare da` qualche timido segno di ripresa e l’economia statunitense quest’anno crescera` del 2 per cento, la situazione resta tutt’altro che esaltante: nonostante una politica monetaria eccezionalmente espansiva (da quattro anni i tassi sono negativi in termini reali) e salvataggi su larga scala di imprese finanziarie e manifatturiere, in questi anni e` stata distrutta molta capacita` produttiva (la produzione e` inferiore ai livelli pre-crisi), gli in- vestimenti delle imprese sono insoddisfacenti, il ritmo di riassorbimento della disoccupazione e` il peggiore dalla crisi del 1929 in poi, i salari continuano a calare, e sono oltre 45 milioni i cittadini statunitensi che ricevono sussidi pubblici per acquista- re generi alimentari (i cosiddetti “Food Stamps”).
La vera sfida che sta di fronte a Obama e` questa: come invertire la tendenza al declino industriale e ridurre livelli di disuguaglianza che sono ai massimi dagli anni Venti del secolo scorso. Negli ultimi decenni, negli Stati Uniti come in Europa, e` stata molto in voga la favola secondo cui soltanto bassi livelli di tassazione delle imprese e dei cittadini piu` ricchi garantirebbero un buon tasso di investimenti e di crescita economi- ca.
Recentemente questa teoria e` stata smentita da uno studio, scritto da Thomas Hungerford per il Centro Ricerche del Congresso americano, il quale ha dimostrato, dati alla mano, che basse tasse alle imprese hanno poco a che fare con investimenti e crescita, e molto a che fare, invece, con la polarizzazione della ricchezza . Nell ’ immediato dopoguerra, quando l’aliquota marginale piu` elevata era al 90 per cento (!), il tasso di crescita annuo era del 4,2 per cento.
Negli anni Duemila, con l’aliquota piu` elevata scesa al 35 per cento, la crescita non e` stata superiore all’1,7 per cento. La cosa interessante e` che questo studio e` circolato come un samizdat, in quanto i repubblicani ne hanno chiesto e ottenuto il ritiro da parte del Centro.
Speriamo che Obama sia riuscito a leggerlo lo stesso.
Un'alternativa possibile tra Grillo e il Pd
Fonte: micromega
Un manifesto aperto a movimenti ed associazioni, appoggiati dai sindaci, per preparare una lista che coaguli le forze contro Monti. Un polo di una sinistra non allineata che potrebbe vedere l'impegno in prima persona degli "arancioni" e di Luigi De Magistris. È la proposta di "Cambiare si può", il coordinamento di cittadini cui hanno aderito, tra gli altri, Luciano Gallino, Marco Revelli, don Andrea Gallo, Moni Ovadia, Paul Ginsborg, Sabina Guzzanti, Vittorio Agnoletto, Ugo Mattei.
Pubblichiamo qui il testo dell'appello lanciato oggi sul sito cambiaresipuo.net.CAMBIARE SI PUÒ! Per una presenza elettorale alternativa alle elezioni politiche del 2013
Il sistema sta andando in pezzi. Le differenze economiche e sociali crescono, le disonestà individuali o di gruppi sono diventate corruzione del sistema, la distanza tra stato e società e tra organi rappresentativi e cittadini non è mai stata così elevata. La possibilità di contare e di decidere sulla propria vita e sul proprio futuro è quotidianamente frustrata da decisioni verticistiche e incontrollabili. Così lo stesso desiderio di partecipazione politica si affievolisce, riducendosi a esplosioni di rabbia, alla fuga dal voto o all’adesione a proposte populiste (egualmente presenti dentro e fuori le forze politiche tradizionali). Prevale l’idea che non ci sia più nulla da fare perché ogni scelta è obbligata e «imposta dall'Europa» (cioè dai mercati). Il modello sociale europeo è cancellato dalle compatibilità economico-finanziarie in una concezione dell’economia che non lascia spazio alla politica.
Questa posizione è stata da tempo abbracciata dal Partito democratico e si è tradotta nell’appoggio senza se e senza ma al governo Monti, nel concorso all’approvazione del cosiddetto patto fiscale e della modifica costituzionale sul pareggio di bilancio, nel contributo alla riduzione delle tutele del lavoro, nel sostegno alle grandi opere, nel frequente aggiramento dell’esito referendario in favore dell’acqua pubblica. È una prospettiva nella quale si è inserito, da ultimo, il gruppo dirigente di Sel con la scelta di partecipare alle primarie, in una alleanza che ne sancisce la subalternità al Partito democratico (a prescindere dallo stesso esito delle primarie). Dall’altra parte c’è la posizione del Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, che, pur partendo da una condivisibile critica radicale di questa classe politica e di questi partiti, non offre risposte sul piano della democrazia costituzionale e di una diversa uscita dalla crisi in atto.
A fronte di ciò non è più possibile stare a guardare o limitarsi alla critica. L’attuale pensiero unico e il conseguente orizzonte politico sono modificabili. Esiste un'alternativa forte, sobria e convincente alla politica liberista che, in tutta Europa, sta distruggendo il tessuto sociale senza dare soluzione a una crisi che non accenna a diminuire nonostante le rassicurazioni di facciata.
È un’alternativa che si fonda sulle promesse di civiltà contenute nella nostra Carta fondamentale: la Costituzione stabilisce che tutti i cittadini hanno diritto al lavoro e, in quanto lavoratori, a una retribuzione sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa: noi vogliamo che questi principi siano attuati e posti a base delle politiche economiche e sociali. È un’alternativa che esprime una cultura politica nuova, che si prende cura degli altri e rifiuta il leaderismo, che parla il linguaggio della vita della persone e non quello degli apparati, che include nelle discussioni e decisioni pubbliche la cittadinanza attiva.
Pubblichiamo qui il testo dell'appello lanciato oggi sul sito cambiaresipuo.net.CAMBIARE SI PUÒ! Per una presenza elettorale alternativa alle elezioni politiche del 2013
Il sistema sta andando in pezzi. Le differenze economiche e sociali crescono, le disonestà individuali o di gruppi sono diventate corruzione del sistema, la distanza tra stato e società e tra organi rappresentativi e cittadini non è mai stata così elevata. La possibilità di contare e di decidere sulla propria vita e sul proprio futuro è quotidianamente frustrata da decisioni verticistiche e incontrollabili. Così lo stesso desiderio di partecipazione politica si affievolisce, riducendosi a esplosioni di rabbia, alla fuga dal voto o all’adesione a proposte populiste (egualmente presenti dentro e fuori le forze politiche tradizionali). Prevale l’idea che non ci sia più nulla da fare perché ogni scelta è obbligata e «imposta dall'Europa» (cioè dai mercati). Il modello sociale europeo è cancellato dalle compatibilità economico-finanziarie in una concezione dell’economia che non lascia spazio alla politica.
Questa posizione è stata da tempo abbracciata dal Partito democratico e si è tradotta nell’appoggio senza se e senza ma al governo Monti, nel concorso all’approvazione del cosiddetto patto fiscale e della modifica costituzionale sul pareggio di bilancio, nel contributo alla riduzione delle tutele del lavoro, nel sostegno alle grandi opere, nel frequente aggiramento dell’esito referendario in favore dell’acqua pubblica. È una prospettiva nella quale si è inserito, da ultimo, il gruppo dirigente di Sel con la scelta di partecipare alle primarie, in una alleanza che ne sancisce la subalternità al Partito democratico (a prescindere dallo stesso esito delle primarie). Dall’altra parte c’è la posizione del Movimento 5 stelle di Beppe Grillo, che, pur partendo da una condivisibile critica radicale di questa classe politica e di questi partiti, non offre risposte sul piano della democrazia costituzionale e di una diversa uscita dalla crisi in atto.
A fronte di ciò non è più possibile stare a guardare o limitarsi alla critica. L’attuale pensiero unico e il conseguente orizzonte politico sono modificabili. Esiste un'alternativa forte, sobria e convincente alla politica liberista che, in tutta Europa, sta distruggendo il tessuto sociale senza dare soluzione a una crisi che non accenna a diminuire nonostante le rassicurazioni di facciata.
È un’alternativa che si fonda sulle promesse di civiltà contenute nella nostra Carta fondamentale: la Costituzione stabilisce che tutti i cittadini hanno diritto al lavoro e, in quanto lavoratori, a una retribuzione sufficiente ad assicurare un’esistenza libera e dignitosa: noi vogliamo che questi principi siano attuati e posti a base delle politiche economiche e sociali. È un’alternativa che esprime una cultura politica nuova, che si prende cura degli altri e rifiuta il leaderismo, che parla il linguaggio della vita della persone e non quello degli apparati, che include nelle discussioni e decisioni pubbliche la cittadinanza attiva.
Come aprire una breccia nella muraglia liberista
Fonte: Sbilanciamoci.it | Autore: Rossana Rossanda
Le attuali politiche dell’Europa sono indifendibili, un’altra rotta è obbligatoria. Come passare dalla protesta alla proposta e all’unione su una politica diversa. Vero antidoto all’astensione e al grillismo.
Da quando ci siamo trovati, e felicemente, a Firenze il 9 dicembre 2011 al Forum su “La via d’uscita” molto tempo è passato, e pare più lungo per l’infittirsi delle strette dell’“austerità” seguite in Europa dopo la crisi del 2008. La spinta dei movimenti non solo non si è affievolita, al contrario, anche se, come osserva Donatella Della Porta, la loro seconda ondata ha un carattere più nazionale, forse di minor respiro della prima, altermondialista.
Da quando ci siamo trovati, e felicemente, a Firenze il 9 dicembre 2011 al Forum su “La via d’uscita” molto tempo è passato, e pare più lungo per l’infittirsi delle strette dell’“austerità” seguite in Europa dopo la crisi del 2008. La spinta dei movimenti non solo non si è affievolita, al contrario, anche se, come osserva Donatella Della Porta, la loro seconda ondata ha un carattere più nazionale, forse di minor respiro della prima, altermondialista.
Ma è importante che sempre più spesso si passi dalla protesta alla proposta, dal generoso ma irrealistico “Non pagheremo la vostra crisi”, che stiamo pagando tutti i giorni, al “come è possibile una politica diversa”.
I poteri forti e le istituzioni sembrano i soli a non sentire questa voce, quando non tentano di azzittirla come in Grecia e in Spagna; e continuano a seguire la strada liberista, accumulando il peso della crisi sulle spalle dei paesi meno ricchi e delle classi subalterne. È una strada crudele e senza sbocco, come si sgolano a ripetere non dei marxisti di ferro, ma studiosi come Krugman e Stiglitz, cui si aggiunge qualche voce anche nostra, come Luciano Gallino o Guido Rossi. Il Portogallo, la Spagna, l’Italia e, più drammaticamente, la Grecia sono entrati o stanno entrando in recessione, la crescita non decolla, mentre aumenta (da noi di quattro punti) il debito per pagare il debito, senza che si veda un lumicino di ripresa, checché ne dica Mario Monti.
In Francia gli attacchi al governo Hollande e ai suoi modesti ritocchi, fatti o annunciati, alla fiscalità dei più abbienti hanno sollevato una inedita gazzarra della destra e di tutte le tv e dei grandi giornali, che impressiona anche l’opinione comune (“se il governo li tassa, si capisce che vadano fuori dal nostro paese”, sento sussurrare da poveri e povere diavole al mercato). Sempre in Francia chiude o delocalizza un’impresa alla settimana, la previsione di crescita è stata ridotta dallo 0,8 allo 0,2, grandinano i tagli sui servizi pubblici (escluse educazione e sanità), i disoccupati hanno superato i tre milioni, cioè il 10 per cento delle forze di lavoro, e non cessano di salire.
In Europa i disoccupati sono quasi 26 milioni, senza contare – vero e proprio imbroglio – i milioni di precari, ”occupati” per i pochi giorni al mese o all’anno (Gallino, Fumagalli). Se la Bce è riuscita a bloccare gli eccessi della speculazione finanziaria sui paesi indebitati, le condizioni che vengono loro fatte diventano estreme, e il tentativo è di sottoporne ogni spesa a un controllo ed eventuale veto del vertice dei più forti. Le resistenze dei paesi del virtuoso nord nei confronti del sud “cicala” dimostrano quanto sia esile la solidarietà continentale; appena l’euro sembra in salvo non si nasconde l’intenzione di arrivare a un’Europa a due velocità.
mercoledì 7 novembre 2012
Mai più figli di troika
di Luciano Vasapollo - sinistrainrete -
Tutto quello che appare come qualcosa di nuovo, come il possibile default di vari paesi europei, ma addirittura degli stessi USA, in realtà vede l’origine dal 1971 con la fine degli Accordi di Bretton Woods. Da tale data gli Usa decidono in base al loro potere politico e militare di imporre il proprio modello di sviluppo basato sull’import attraverso l’indebitamento, facendo così pagare il costo agli altri: debito privato, debito pubblico, e consumo sostenuto dal mix tra debito interno ed esterno, avendo molto deboli i cosiddetti fondamentali macroeconomici e una economia reale che già da allora mostrava alcuni caratteri tipici della crisi strutturale.Già a partire dagli anni ‘80 si era verificato in Europa, anche se in maniera diversificata nei differenti paesi, un vero e proprio intenso processo di privatizzazione, con l’intento di ridimensionare la presenza pubblica nell’intero sistema produttivo. Le azioni dei Governi di questi anni confermano la volontà di attuare un programma completo di dismissione delle aziende pubbliche, con la motivazione ufficiale di risolvere i problemi produttivi ed economici.
A ciò hanno fatto eccezione alcuni paesi, ad esempio la Francia e in parte la Germania, che hanno difeso la presenza pubblica nei settori strategici, strutturando in tal modo un modello produttivo più forte ed equilibrato nella competizione globale, più centrato sull’export.
Questo processo si è avviato in concomitanza alla costituzione del Mercato Unico Europeo (1992) e poi dell’Unione Europea con i pesanti sacrifici imposti al mondo del lavoro.
Dopo la caduta del muro di Berlino si apre una fase di guida unipolare del mondo basata sullo strapotere politico e militare USA, che con l’imposizione dell’acquisto dei propri titoli del debito imponevano il sostenimento della loro crescita basata sull’import e sull’economia di guerra a varie caratterizzazioni.
E’ così che si apre la fase che a suo tempo definimmo non di globalizzazione ma di competizione globale, centrata sullo scontro politico-economico fra il modello importatore degli americani ma con l’Europa che cerca i suoi spazi di affermazione economica puntando sul ruolo internazionale, con una forte posizione di esportatore svolto dalla Germania. Lo stesso modello di economia basata sull’esport viene realizzato dalla Cina, che grazie ai suoi avanzi nella bilancia dei pagamenti decide di diventare il maggior compratore del debito statunitense.
Il modello tira e ovviamente accade che le banche tedesche e lo Stato cinese acquistano i titoli degli USA e, in parte, anche degli altri membri dell’Europa che devono subire lo strapotere tedesco. Su tale scenario macroeconomico si realizza la costruzione dell’Unione Europea come nuovo polo imperialista che, pur mancando di grande forza interna politica e militare, impone la logica economica-finanziaria con guida tedesca.
Ne segue che la stessa costruzione dell’Europolo, basata sui parametri di Maastricht, altro non rappresenta che la definizione di uno scenario di un confronto aperto e diretto dei paesi nordeuropei alla partecipazione da protagonisti a quella economia globalizzata che misura lo scontro per la definizione delle aree di influenza e di dominio delle tre ipotesi liberiste: quella statunitense, quella giapponese-asiatica e quella europea guidata dall’asse franco-tedesco[1]. Così si fa più aspra e diretta la competizione globale alla ricerca della centralizzazione della ricchezza in poche mani, con scenari sempre più frequenti di guerra economica- finanziaria, guerra commerciale, guerra sociale verso le classi subalterne e guerra militare espansionista per la conquista e il dominio sulle risorse energetiche sempre più scarse per sostenere i ritmi del processo di accumulazione internazionale .
martedì 6 novembre 2012
Piccola guida all’autodistruzione post-comunista
Matteo Pucciarelli - sinistrainrete -
Dove vi eravate persi? Al 1991? O al 2008? No perché riannodare i fili non è facile. Ma questo post dimostrerà che niente è impossibile. Certo, a furia di scissioni e giravolte è rimasta solo la casa del popolo dell’Ardenza e la salma di Lenin, ma comunque sia un giorno lo vedremo sorgere questo benedetto sol dell’avvenire. Basta solo aspettare.Allora, in Italia fino al 1991 c’erano due partiti comunisti: il Pci (una corazzata vera) e Dp (piccola ma agguerrita). Poi il Pci capì che non era più comunista e diventò Pds. Ma siccome non tutti nel Pci volevano essere altro, insieme a quelli di Dp fecero il Prc. Più tardi i comunisti del Prc si divisero in due: quelli che non ci stavano più ad allearsi con gli ex comunisti del Pds e quelli che invece pensavano che invece no, bisognava stare insieme con gli ex comunisti anche a costo di rompere con quelli sempre tali. Così nacque il Pdci.
Il Prc era forte, ma non era un partito di massa. Si accontentava di rappresentare quelli dei centri sociali che alla fin fine tanto comunisti non sono, i giovani fricchettoni e gli ex rivoluzionari con giacche di velluto. Il Pdci era più piccolo, ma compensava con seggi e assessorati, più o meno uno ogni tre iscritti. Gli operai intanto cominciavano a votare Lega.
Poi comunque anche il Prc cambiò idea e decise che ci si poteva alleare con gli ex comunisti dei Ds (il Pds era cambiato in Ds, la “p” dava noia), e quindi si ritrovarono tutti insieme a litigare in un canaio chiamato Unione. L’Unione prese meno voti del centrodestra ma vinse lo stesso, e il capo del Prc diventò presidente della Camera e salutò calorosamente gli operai, che però da tempo si sentivano rappresentati da altri; ma pazienza, se proprio dobbiamo dirla anche il capo del Prc preferiva altre frequentazioni.
Andò che l’Unione non resse, i comunisti sia del Prc che del Pdci furono costretti a votare provvedimenti tutto fuorché comunisti e non contento, alla fine, un altro ex comunista disse che alle prossime elezioni basta coi comunisti rompicoglioni. Infatti il governo cadde e i comunisti – loro malgrado – finalmente si ritrovarono uniti. Si aggiunsero altri ex comunisti dei Ds che pensavano fosse necessario stare insieme coi comunisti anche a costo di lasciare gli altri ex comunisti. Fu un disastro. I comunisti restarono fuori dal parlamento.
Allora parecchi comunisti del Prc – che anni prima non volevano stare con gli ex comunisti e che per quello erano incazzati a morte con quelli del Pdci che invece erano nati apposta – pensarono che fosse importare ricominciare ad avvicinarsi agli ex comunisti del Pd ex Ds (rimessa dentro la “p”, fuori la scomodissima “s”) e siccome volevano unire la sinistra si scissero e fondarono Sel, diventando pure loro ex comunisti. I comunisti del Prc rimasti tali insieme agli altri del Pdci decisero che almeno i comunisti dovevano stare insieme per cui diedero vita alla Fds. La Fds chiedeva l’unità con i vecchi compagni di Sel ma Sel la voleva con i vecchissimi compagni del Pd.
Siamo a oggi. Pd e Sel si uniscono in una coalizione e la Fds resta fuori. Ma il Pdci che chiedeva l’unità dei comunisti pensa che prima sia necessaria l’unità con gli ex comunisti di Pd e Sel e allora probabilmente la Fds scomparirà e il socialismo resta lo slogan buono per parlarci addosso e insomma stasera fa caldo per essere a ottobre e a me fa male la testa e sinceramente a starvi dietro a tutti quanti si diventa scemi.
Il vuoto d’Europa, la politica che non c’è
di Mario Pianta -sbilanciamoci -
A cinque anni dall’inizio della crisi, dov’è l’Europa? Istituzioni, politici e sindacati non riescono a pensare in un orizzonte europeo e lasciano il campo allo strapotere della Germania, che aggrava la crisi e cancella la democrazia. I movimenti che verranno a Firenze 10+10 propongono un cambio di rotta
Il Parlamento europeo boccia la Banca centrale europea non per la sua politica che protegge la finanza e aggrava la crisi, ma perché non trova una donna da inserire del Comitato esecutivo (il voto è solo consultivo). I sindacati di Grecia, Spagna e Portogallo convocano uno sciopero generale comune contro le politiche di austerità il 14 novembre e i sindacati italiani e europei restano in silenzio. I partiti socialisti e democratici di Francia, Italia e Germania vanno alle elezioni – tenute sei mesi fa a Parigi, tra cinque mesi da noi, tra un anno a Berlino – senza una posizione comune su Fiscal compact, eurobond e come uscire dalla recessione.
Dov’è l’Europa? Se guardiamo alle istituzioni, alla politica e al sindacato, il vuoto è impressionante. Subalterni al “pensiero unico” della finanza, ripiegati sulle convenienze elettorali di casa propria, i politici europei hanno disertato le loro responsabilità. Senza combattere, hanno lasciato il campo ad Angela Merkel e al protettorato tedesco sul continente che – alleato con la Banca Centrale Europea – da tre anni salva le banche e condanna alla depressione tutti gli altri, rafforza la Germania e sprofonda nella disperazione la periferia dell’Europa.
A cinque anni dallo scoppio della crisi finanziaria, le istituzioni europee sono sempre più parte del problema e non della soluzione. Hanno imposto un Trattato di stabilità (il Fiscal compact) che è tanto folle da essere (speriamo) irrealizzabile: pareggio di bilancio in costituzione, azzeramento del deficit pubblico, rimborso in vent’anni del debito pubblico che supera il 60% del Pil. Hanno affrontato la speculazione contro i paesi fragili regalando 1000 miliardi di euro alle banche che speculavano e messo in piedi un Meccanismo europeo di stabilità che non ha risorse per stabilizzare nulla. Impongono tagli di spesa, dei salari e dell’occupazione in Grecia, Portogallo e Spagna che portano i disoccupati al 25%, distruggono il welfare e la sanità, creano povertà di massa.
Manifestazioni ad Atene e Lisbona, indignados a Madrid, piccoli gruppi di Occupy a Londra e Francoforte, proteste frammentate in Italia e Francia sono state le reazioni di questi anni. Significative, ma inadeguate, queste risposte sociali si presentano ancora senza un orizzonte comune, senza una rete organizzativa europea, senza un’alternativa per il post-liberismo.
La politica istituzionale ha risposto con grande lentezza. A Parigi ha vinto François Hollande con l’alleanza socialisti-verdi, ma i cambiamenti stentano a vedersi; in Grecia la sinistra radicale di Syriza è balzata in avanti ma resta opposizione; in Olanda la spinta di socialdemocratici e socialisti ha comunque portato a una grande coalizione con i liberali. Il cambiamento di rotta dell’Europa non è nell’agenda dei governi e stenta a venire da processi elettorali ancorati a dinamiche strettamente nazionali.
Il paradosso di cinque anni di crisi drammatica senza proteste generalizzate e senza cambiamento politico significativo ha tre ragioni di fondo. La prima è l’opacità del potere in Europa. Manca una Costituzione, strutture “visibili” con responsabilità politiche, il potere ha una natura “dispersa” tra vertici del Consiglio europeo, direttive della Commissione, “indipendenza” della Bce, la voce grossa di Berlino e il potere dei tecnocrati. Tutto ciò rende difficile concentrare la protesta, fermare le decisioni, cambiare le politiche.
La seconda ragione è la tragica mancanza di democrazia in Europa. I capi di governo che decidono tutto – e lasciano che a decidere siano i più forti –, un Parlamento con poteri ridotti, partiti inesistenti a scala europea, autorità non legittimate dal voto dei cittadini e che rispondono soprattutto alle lobby delle imprese. In queste condizioni, anche quando l’opposizione alle politiche europee diventa maggioranza, come si può affermare in un sistema politico senza democrazia?
La terza ragione è l’assenza di uno spazio pubblico europeo, che apra discussioni e deliberazioni comuni, su problemi e soluzioni pensate a scala dell’Europa. Nemmeno la crisi ha fatto emergere un’opinione pubblica europea; l’azione della società civile è rimasta a scala nazionale; sindacati e movimenti hanno dato la priorità alle lotte di resistenza contro gli effetti della crisi; l’Europa non è (ancora) diventata l’orizzonte comune necessario per sconfiggere finanza e neoliberismo.
Eppure, tra il 1999 e il 2006 la critica della globalizzazione neoliberista era diventata la bandiera comune dei movimenti di tutto il mondo, con i Forum sociali mondiali iniziati a Porto Alegre e il primo Forum sociale europeo tenuto nel 2002 a Firenze, con grandi mobilitazioni transnazionali, contro la liberalizzazione di commercio, finanza e investimenti, per la cancellazione del debito del terzo mondo, la Tobin tax, il diritto ai farmaci, la protezione dell’ambiente. Una stagione che ha cambiato il modo di vedere la globalizzazione e organizzare la protesta, ed è riuscita a cambiare alcune politiche concrete: la notizia più recente è che la tassa sulle transazioni finanziarie sarà introdotta da 13 paesi europei.
La crisi ha rotto quest’orizzonte transnazionale e frammentato le mobilitazioni. La politica nazionale ha monopolizzato le energie, chiuso il dibattito in un quadro inadeguato, disperso i movimenti, stretto la società all’interno di dinamiche elettorali che non possono far altro che registrare l’ascesa di disaffezione e populismo. Ma un’occasione per uscire da questa stretta e ricostruire un orizzonte europeo c’è: a Firenze, dall’8 all’11 novembre, migliaia di persone da tutta Europa saranno all’incontro “Firenze 10+10” che chiede un’altra Europa, adesso.
Si metteranno in comune le analisi su quanto è successo, le esperienze costruite dal basso, le proposte su come far cambiare rotta all’Europa. Si intrecceranno i risultati del lavoro di reti sociali e sindacali, di gruppi di economisti e associazioni, l’esperienza di “Un’altra strada per l’Europa”, il forum al Parlamento europeo del 28 giugno scorso che ha messo a confronto movimenti e politici europei su economia e democrazia, con un documento finale che chiede di legare le mani alla finanza, risolvere il problema del debito con una responsabilità comune dell'eurozona, rovesciare le politiche di austerità, tutelare il lavoro, un new deal verde e una vera democrazia in Europa. Queste e molte altre le proposte che emergeranno a Firenze, per far cambiare rotta a un’Europa andata fuori strada. Prima che sia troppo tardi.
Dov’è l’Europa? Se guardiamo alle istituzioni, alla politica e al sindacato, il vuoto è impressionante. Subalterni al “pensiero unico” della finanza, ripiegati sulle convenienze elettorali di casa propria, i politici europei hanno disertato le loro responsabilità. Senza combattere, hanno lasciato il campo ad Angela Merkel e al protettorato tedesco sul continente che – alleato con la Banca Centrale Europea – da tre anni salva le banche e condanna alla depressione tutti gli altri, rafforza la Germania e sprofonda nella disperazione la periferia dell’Europa.
A cinque anni dallo scoppio della crisi finanziaria, le istituzioni europee sono sempre più parte del problema e non della soluzione. Hanno imposto un Trattato di stabilità (il Fiscal compact) che è tanto folle da essere (speriamo) irrealizzabile: pareggio di bilancio in costituzione, azzeramento del deficit pubblico, rimborso in vent’anni del debito pubblico che supera il 60% del Pil. Hanno affrontato la speculazione contro i paesi fragili regalando 1000 miliardi di euro alle banche che speculavano e messo in piedi un Meccanismo europeo di stabilità che non ha risorse per stabilizzare nulla. Impongono tagli di spesa, dei salari e dell’occupazione in Grecia, Portogallo e Spagna che portano i disoccupati al 25%, distruggono il welfare e la sanità, creano povertà di massa.
Manifestazioni ad Atene e Lisbona, indignados a Madrid, piccoli gruppi di Occupy a Londra e Francoforte, proteste frammentate in Italia e Francia sono state le reazioni di questi anni. Significative, ma inadeguate, queste risposte sociali si presentano ancora senza un orizzonte comune, senza una rete organizzativa europea, senza un’alternativa per il post-liberismo.
La politica istituzionale ha risposto con grande lentezza. A Parigi ha vinto François Hollande con l’alleanza socialisti-verdi, ma i cambiamenti stentano a vedersi; in Grecia la sinistra radicale di Syriza è balzata in avanti ma resta opposizione; in Olanda la spinta di socialdemocratici e socialisti ha comunque portato a una grande coalizione con i liberali. Il cambiamento di rotta dell’Europa non è nell’agenda dei governi e stenta a venire da processi elettorali ancorati a dinamiche strettamente nazionali.
Il paradosso di cinque anni di crisi drammatica senza proteste generalizzate e senza cambiamento politico significativo ha tre ragioni di fondo. La prima è l’opacità del potere in Europa. Manca una Costituzione, strutture “visibili” con responsabilità politiche, il potere ha una natura “dispersa” tra vertici del Consiglio europeo, direttive della Commissione, “indipendenza” della Bce, la voce grossa di Berlino e il potere dei tecnocrati. Tutto ciò rende difficile concentrare la protesta, fermare le decisioni, cambiare le politiche.
La seconda ragione è la tragica mancanza di democrazia in Europa. I capi di governo che decidono tutto – e lasciano che a decidere siano i più forti –, un Parlamento con poteri ridotti, partiti inesistenti a scala europea, autorità non legittimate dal voto dei cittadini e che rispondono soprattutto alle lobby delle imprese. In queste condizioni, anche quando l’opposizione alle politiche europee diventa maggioranza, come si può affermare in un sistema politico senza democrazia?
La terza ragione è l’assenza di uno spazio pubblico europeo, che apra discussioni e deliberazioni comuni, su problemi e soluzioni pensate a scala dell’Europa. Nemmeno la crisi ha fatto emergere un’opinione pubblica europea; l’azione della società civile è rimasta a scala nazionale; sindacati e movimenti hanno dato la priorità alle lotte di resistenza contro gli effetti della crisi; l’Europa non è (ancora) diventata l’orizzonte comune necessario per sconfiggere finanza e neoliberismo.
Eppure, tra il 1999 e il 2006 la critica della globalizzazione neoliberista era diventata la bandiera comune dei movimenti di tutto il mondo, con i Forum sociali mondiali iniziati a Porto Alegre e il primo Forum sociale europeo tenuto nel 2002 a Firenze, con grandi mobilitazioni transnazionali, contro la liberalizzazione di commercio, finanza e investimenti, per la cancellazione del debito del terzo mondo, la Tobin tax, il diritto ai farmaci, la protezione dell’ambiente. Una stagione che ha cambiato il modo di vedere la globalizzazione e organizzare la protesta, ed è riuscita a cambiare alcune politiche concrete: la notizia più recente è che la tassa sulle transazioni finanziarie sarà introdotta da 13 paesi europei.
La crisi ha rotto quest’orizzonte transnazionale e frammentato le mobilitazioni. La politica nazionale ha monopolizzato le energie, chiuso il dibattito in un quadro inadeguato, disperso i movimenti, stretto la società all’interno di dinamiche elettorali che non possono far altro che registrare l’ascesa di disaffezione e populismo. Ma un’occasione per uscire da questa stretta e ricostruire un orizzonte europeo c’è: a Firenze, dall’8 all’11 novembre, migliaia di persone da tutta Europa saranno all’incontro “Firenze 10+10” che chiede un’altra Europa, adesso.
Si metteranno in comune le analisi su quanto è successo, le esperienze costruite dal basso, le proposte su come far cambiare rotta all’Europa. Si intrecceranno i risultati del lavoro di reti sociali e sindacali, di gruppi di economisti e associazioni, l’esperienza di “Un’altra strada per l’Europa”, il forum al Parlamento europeo del 28 giugno scorso che ha messo a confronto movimenti e politici europei su economia e democrazia, con un documento finale che chiede di legare le mani alla finanza, risolvere il problema del debito con una responsabilità comune dell'eurozona, rovesciare le politiche di austerità, tutelare il lavoro, un new deal verde e una vera democrazia in Europa. Queste e molte altre le proposte che emergeranno a Firenze, per far cambiare rotta a un’Europa andata fuori strada. Prima che sia troppo tardi.
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Europa da slegare. Il Trattato impossibile, le politiche necessarie
di Economistes atterrés , Sbilanciamoci!
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Lavoro coordinato da Benjamin Coriat, Thomas Coutrot, Dany Lang, Henri Sterdyniak
Presentazione di Armanda Cetrulo e Leonardo Madio
Postfazione di Guglielmo Ragozzino
Indice
Introduzione
Premessa. Perché un nuovo trattato?
PARTE I Un patto per l’austerità perpetua
Il Patto di stabilità e crescita è un fallimento…
…Il patto fiscale li radicalizza
Una macchina taglia debiti… che il debito lo fa aumentare
Un “coordinamento” che fa sprofondare l’Europa nel baratro
Gli inquietanti e insondabili misteri del “deficit strutturale”
Il risultato del progetto neoliberista
PARTE II Un patto contro la democrazia
Resuscitare la “comunità di stabilità di bilancio”
La sfiducia istituzionalizzata
Coercizione automatica
Governance: sovrapporre l’opacità all’opacità
PARTE III Un patto che conduce all’implosione dell’Europa
Mes e Tscg: trattati gemelli
Il Mes conferma che i debiti pubblici sono lasciati nelle mani degli speculatori
Una “solidarietà” condizionata alle nuove avanzate dello smantellamento dello Stato sociale
Il canto del cigno dell’ordo-liberismo
La “svalutazione interna” nuova variabile dell’aggiustamento
PARTE IV Un patto irriformabile
La “crescita” liberista
Rilancio europeo: strumenti rachitici
Il miraggio delle euro-obbligazioni
Un illusorio patto per la crescita
Unione bancaria: la fuga in avanti
La Bce prende le redini
La disciplina di bilancio, sì… ma al servizio dei popoli
Conclusioni
Appendice 1 Il mistero del deficit strutturale
Appendice 2 Dal Patto di stabilità al Trattato per la stabilità, il coordinamento e la governance
Un riassunto storico
1° pilastro: L’indipendenza della Bce
2° Pilastro: Il Patto di stabilità e crescita
3° pilastro: I programmi di riforme strutturali
Appendice 3 I diversi strati del “nuovo” dispositivo di governance dell’Unione europea
A. Il semestre europeo
B) Le sei Direttive (ovvero 6-Pack)
C) Le due direttive (“2 Pack”)
D) Il Patto per l’euro plus
Appendice 4 La vera “regola d’oro delle finanze pubbliche”
La cieca obbedienza d’Italia di Guglielmo Ragozzino
05/11/2012
Il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance è l’ultimo arrivato tra gli accordi europei. Vuole mettere sotto controllo i conti pubblici, impone il pareggio di bilancio e il rimborso di parte del debito pubblico. Voluto dalla Germania, è un Trattato che non può funzionare e condanna l’Europa alla depressione. Va cancellato al più presto
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Presentazione di Armanda Cetrulo e Leonardo Madio
Postfazione di Guglielmo Ragozzino
Indice
Introduzione
Premessa. Perché un nuovo trattato?
PARTE I Un patto per l’austerità perpetua
Il Patto di stabilità e crescita è un fallimento…
…Il patto fiscale li radicalizza
Una macchina taglia debiti… che il debito lo fa aumentare
Un “coordinamento” che fa sprofondare l’Europa nel baratro
Gli inquietanti e insondabili misteri del “deficit strutturale”
Il risultato del progetto neoliberista
PARTE II Un patto contro la democrazia
Resuscitare la “comunità di stabilità di bilancio”
La sfiducia istituzionalizzata
Coercizione automatica
Governance: sovrapporre l’opacità all’opacità
PARTE III Un patto che conduce all’implosione dell’Europa
Mes e Tscg: trattati gemelli
Il Mes conferma che i debiti pubblici sono lasciati nelle mani degli speculatori
Una “solidarietà” condizionata alle nuove avanzate dello smantellamento dello Stato sociale
Il canto del cigno dell’ordo-liberismo
La “svalutazione interna” nuova variabile dell’aggiustamento
PARTE IV Un patto irriformabile
La “crescita” liberista
Rilancio europeo: strumenti rachitici
Il miraggio delle euro-obbligazioni
Un illusorio patto per la crescita
Unione bancaria: la fuga in avanti
La Bce prende le redini
La disciplina di bilancio, sì… ma al servizio dei popoli
Conclusioni
Appendice 1 Il mistero del deficit strutturale
Appendice 2 Dal Patto di stabilità al Trattato per la stabilità, il coordinamento e la governance
Un riassunto storico
1° pilastro: L’indipendenza della Bce
2° Pilastro: Il Patto di stabilità e crescita
3° pilastro: I programmi di riforme strutturali
Appendice 3 I diversi strati del “nuovo” dispositivo di governance dell’Unione europea
A. Il semestre europeo
B) Le sei Direttive (ovvero 6-Pack)
C) Le due direttive (“2 Pack”)
D) Il Patto per l’euro plus
Appendice 4 La vera “regola d’oro delle finanze pubbliche”
La cieca obbedienza d’Italia di Guglielmo Ragozzino
Grecia, sciopero di 48 ore contro il rush finale del pacchetto di austerità
Autore: fabrizio salvatori - controlacrisi -
I Greci incrociano le braccia a partire da stamattina per uno sciopero generale di 48 ore contro il nuovo pacchetto di misure di austerità che dovrà essere votato domani dal Parlamento.
Nel centro di Atene sono previste numerose manifestazioni di protesta, che nelle occasioni precedenti si sono sempre concluse con scontri, anche violenti, davanti ai palazzi delle istituzioni. Ieri nella capitale e nelle altre città si erano già fermati i trasporti pubblici, taxi compresi. Oggi si associano anche i marittimi e i controllori di volo per tre ore. Scioperano anche i giornalisti, mentre gli ospedali garantiranno solo i servizi di emergenza. Il pacchetto di tagli previsto dal governo di Atene dovrebbe portare a un risparmio di 13,5 miliardi di euro entro il 2016. L'approvazione di questo pacchetto e della legge di bilancio 2013, che sarà sottoposta al voto domenica, sono due passaggi chiave per sbloccare la tranche di aiuti da 31,5 miliardi di euro da parte dell'Fmi e dell'Unione europea.Il pacchetto, secondo la maggior parte degli osservatori politici, dovrebbe essere approvato con una risicata maggioranza che - grazie a defezioni e franchi tiratori -potrebbe pericolosamente ridursi addirittura tra i 157 e i 153 voti (la maggioranza e' di 151 voti su 300 seggi). Sulla carta il governo Samaras (sostenuto da Nea Dimokratia del premier, dal socialista Pasok guidato da Evangelos Venizelos e da Sinistra Democratica (Di.Mar) di Fotis Kouvelis) dispone di 176 seggi. I 16 deputati del Di.Mar hanno gia' fatto sapere che saranno in aula pero' si asterranno dal voto. Nea Dimokratia ha 127 deputati che votano compatti, ma quasi la meta' dei 33 parlamentari del Pasok la scorsa settimana si e' ammutinata e ha votato contro un ddl per la privatizzazione delle aziende statali. Venizelos, che appoggia le misure di austerita' anche se contrarie all'ideologia del suo partito, ha minacciato che espellera' dal Pasok coloro che voteranno contro il pacchetto. Secondo i giornali dovrebbero essere 26 i deputati del Pasok che approveranno il pacchetto di austerita', ma ripensamenti e sorprese sono sempre possibili. Samaras, dal canto suo, continua a promettere che queste misure - che si aggiungono alla serie cominciata nel 2010 e che ha prodotto oltre due milioni di disoccupati e la chiusura di circa 68.000 piccole e medie aziende - saranno le ultime ma sono ormai in molti a non credergli. "E' piu' facile credere a Babbo Natale che credere che queste saranno davvero le ultime", ha commentato scettico Euclid Tsakalotos, deputato del partito Syriza.
Nel centro di Atene sono previste numerose manifestazioni di protesta, che nelle occasioni precedenti si sono sempre concluse con scontri, anche violenti, davanti ai palazzi delle istituzioni. Ieri nella capitale e nelle altre città si erano già fermati i trasporti pubblici, taxi compresi. Oggi si associano anche i marittimi e i controllori di volo per tre ore. Scioperano anche i giornalisti, mentre gli ospedali garantiranno solo i servizi di emergenza. Il pacchetto di tagli previsto dal governo di Atene dovrebbe portare a un risparmio di 13,5 miliardi di euro entro il 2016. L'approvazione di questo pacchetto e della legge di bilancio 2013, che sarà sottoposta al voto domenica, sono due passaggi chiave per sbloccare la tranche di aiuti da 31,5 miliardi di euro da parte dell'Fmi e dell'Unione europea.Il pacchetto, secondo la maggior parte degli osservatori politici, dovrebbe essere approvato con una risicata maggioranza che - grazie a defezioni e franchi tiratori -potrebbe pericolosamente ridursi addirittura tra i 157 e i 153 voti (la maggioranza e' di 151 voti su 300 seggi). Sulla carta il governo Samaras (sostenuto da Nea Dimokratia del premier, dal socialista Pasok guidato da Evangelos Venizelos e da Sinistra Democratica (Di.Mar) di Fotis Kouvelis) dispone di 176 seggi. I 16 deputati del Di.Mar hanno gia' fatto sapere che saranno in aula pero' si asterranno dal voto. Nea Dimokratia ha 127 deputati che votano compatti, ma quasi la meta' dei 33 parlamentari del Pasok la scorsa settimana si e' ammutinata e ha votato contro un ddl per la privatizzazione delle aziende statali. Venizelos, che appoggia le misure di austerita' anche se contrarie all'ideologia del suo partito, ha minacciato che espellera' dal Pasok coloro che voteranno contro il pacchetto. Secondo i giornali dovrebbero essere 26 i deputati del Pasok che approveranno il pacchetto di austerita', ma ripensamenti e sorprese sono sempre possibili. Samaras, dal canto suo, continua a promettere che queste misure - che si aggiungono alla serie cominciata nel 2010 e che ha prodotto oltre due milioni di disoccupati e la chiusura di circa 68.000 piccole e medie aziende - saranno le ultime ma sono ormai in molti a non credergli. "E' piu' facile credere a Babbo Natale che credere che queste saranno davvero le ultime", ha commentato scettico Euclid Tsakalotos, deputato del partito Syriza.
14 novembre: farsi valere in massa e non retrocedere
novembre 5, 2012 @ connessioniprecarie →
di CHRISTOS GIOVANOPOULOS –
∫connessioni precarie ha chiesto a Christos Giovanopoulos del collettivo Dikaioma di Atene un intervento per contribuire al dibattito sulla situazione europea in vista del prossimo 14 novembre. Non si tratta di una semplice corrispondenza, ma dell’inizio di un dialogo che speriamo costante per costruire connessioni sullo sciopero e contro la crisi.
Il 14 novembre sarà un giorno importante. Siamo nel pieno di una crisi che, nonostante gli usi e abusi del riferimento alla governance, non accenna a trovare un governo credibile. Eppure le misure prese in continuazione contro la crisi pretendono di governare milioni di persone in vista di un futuro costantemente posticipato. Il 14 novembre migliaia di uomini e di donne sono intenzionati a scioperare per dimostrare che non vogliono essere trattati come gli effetti collaterali della crisi.
Preparare questa scadenza significa per noi riflettere sulla situazione che la rende una necessità impellente e quasi irrinunciabile. L’urgenza della situazione è enorme e ormai quasi intollerabile. Eppure questo non basta. Il 14 novembre la Grecia sarà uno dei luoghi più rilevanti d’Europa. In Grecia l’urgenza delle cose è ormai oltre ogni limite immaginabile solo qualche anno fa. Eppure, nonostante tutto questo, in Grecia come altrove, fatica a consolidarsi un’opposizione sociale che si traduca in organizzazione complessiva delle differenze che stanno maturando dentro la crisi. Il mirato e sistematico impoverimento della società greca avviene dentro un quadro noto, eppure spesso trascurato. L’intervento di Christos restituisce questo quadro con i suoi contorni nitidi e agghiaccianti. In Grecia il depauperamento delle risorse individuali e collettive è funzionale alla creazione di una disponibilità generalizzata a farsi sfruttare. In queste condizioni è quasi superfluo parlare di processi di precarizzazione. Quando la precarietà diventa la forma generale dello sfruttamento capitalistico, essa non è più qualcosa cui si possa porre un rimedio particolare. Non è un’eccezione, ma la regola. Essa non è solo il modo per mettere al lavoro alcuni individui, ma la soluzione per ristrutturare intere società, per inserirle – magari come Free Economic Zones – dentro lo spazio europeo nella società mondo globale. Qui l’espropriazione materiale si trasforma direttamente in spossessamento politico, nell’impossibilità di decidere in misura anche minima sulla propria esistenza.
Eppure non c’è nessuna nostalgia per la perduta sovranità dello Stato. C’è la constatazione della minaccia presente alla possibilità di decidere collettivamente. Quella doppia espropriazione mostra che nessuna mistica dei territori ci salverà. I territori sono attraversati da contraddizioni profonde. Mentre sono costretti a difendere la riproduzione della vita immediata, in Grecia come in Spagna e in Italia, i territori sono attraversati da processi che non iniziano né si concludono al loro interno. Di fronte a queste contraddizioni laceranti emerge l’immane inerzia della politica rappresentativa che promette di ristabilire l’unità politica anche dove ormai è impossibile. Da questo punto di vista “Alba dorata” è solo l’estrema espressione di quella politica. Essa promette non solo di imporre con la forza l’unità politica, ma anche di ristabilire l’omogeneità sociale, eliminando tutti i nemici interni, primi fra tutti i migranti. La forza di inerzia della politica rappresentativa non è però un problema greco. Essa è per tutti noi un pezzo importante del problema politico collettivo di organizzare risposte contro la coazione all’unità con cui si vuole governare la crisi.
Il 14 novembre migliaia di donne e di uomini si faranno valere in massa dentro a questa situazione. Nonostante l’ambiguità delle convocazioni sindacali, la loro scarsa credibilità, la disillusione che, in Grecia come altrove, potrà pesare su quella giornata, il 14 novembre può essere una situazione di massa che mostra la forma europea del nostro problema, ma non la sua soluzione immediata. Eppure sarà il giorno per farci valere in massa e non retrocedere, sapendo che non è una giornata, non è un evento, che potrà risolvere il nostro problema; sapendo però che proprio con la sua dimensione di massa il 14 novembre può dare una forma diversa al nostro problema. La rivoluzione non è dietro l’angolo, scrive saggiamente Christos. Eppure questa affermazione non deve essere presa come un cedimento alla terribile violenza della situazione. Con i compagni greci noi sappiamo che tutto ciò che ci manca per svoltare l’angolo non ci sarà regalato dalla situazione. Prima e dopo il 14 novembre quello che ci serve per uscire dall’angolo dobbiamo mettercelo noi.
lunedì 5 novembre 2012
Grecia in vendita.
Patrimonio all’incanto
(fonte, Eureka di Novembre)
Una serie di spiagge, il
secondo casinò del
Paese, uffici pubblici, varie
autostrade. E diversi
aeroporti, fra cui quello
internazionale
di Atene, più il quartier
generale della polizia
nella capitale. Tutto in
vendita. Tutto in via di
privatizzazione. La crisi
della Grecia passa
anche attraverso l'Hellenic
Republic asset development
fund (www.hraf.gr), lo
strumento attraverso
cui Atene sta cercando di
piazzare i
propri gioielli. Ed è una
costante corsa al
ribasso. Se oltre un anno fa
l'obiettivo era
quello di raccogliere circa
50 miliardi di euro
dal 2012 al 2015, nello
scorso agosto le stime
sono state più che dimezzate.
Se va bene, si
rastrelleranno circa 19
miliardi di euro. In realtà,
è possibile che il fondo ne
ottenga anche
di meno.
Chi non ha mai sognato di
possedere una
penisola paradisiaca come
quella di Astir Vuliagmenis?
O chi non ha mai desiderato
diventare
un magnate dei casinò? Ora si
può.
Basta venire ad Atene e
rivolgersi al fondo di
privatizzazione degli asset pubblici.
Il dottor Robin Hood
L'ospedale Didymóteicho di Evros, agosto 2012
- presseurop -
I tagli imposti dai creditori internazionali hanno privato migliaia di greci della copertura sanitaria e dell'accesso ai farmaci. Una rete clandestina di medici cerca di alleviare una situazione sempre più disperata.
Dato che è il primario del reparto di oncologia più grande di tutta la Grecia, il dottor Kostas Syrigos pensava di aver visto di tutto, ma non era affatto pronto al caso di Elena, una signora disoccupata alla quale era stato diagnosticato un tumore alla mammella un anno prima. A quel punto il cancro era ormai diventato grande quanto un’arancia, e aveva lacerato l’epidermide, lasciando una piaga che la signora drenava con semplici fazzolettini di carta.
“Quando l’abbiamo visitata siamo rimasti senza parole”, ha detto Syrigos, primario del reparto di oncologia dell’ospedale Sotiria nel centro di Atene. “Siamo scoppiati tutti in lacrime. Una situazione del genere la si legge soltanto sui libri, ma non capita di averla sotto gli occhi, almeno finora. Chiunque si ammalasse in questo paese è stato sempre curato”.
La vita in Grecia è cambiata radicalmente da quando è cominciata la crisi del debito, ma sono pochi gli ambiti che più del settore sanitario evidenziano come il cambiamento è stato enorme. Fino a poco tempo fa, la Grecia aveva il tipico sistema sanitario: chi perdeva il posto di lavoro godeva per un anno dell’assistenza sanitaria e dei sussidi di disoccupazione, ma nel caso in cui non potesse permetterselo era curato in ospedale anche al termine di queste indennità.
Le cose sono cambiate nel luglio 2011, quando la Grecia ha firmato un altro patto per ottenere un prestito da altri paesi e scongiurare il collasso economico. In base all’accordo, quando i sussidi finiscono i greci devono pagare le cure di tasca propria.
Circa la metà dei disoccupati greci a lungo termine, complessivamente 1,2 milioni di persone, è privo di assicurazione sanitaria. Si tratta di un numero che dovrebbe aumentare di molto, dato che il paese ha un tasso di disoccupazione del 25 per cento e un’economia agonizzante: così afferma Savas Robolis, direttore dell’Istituto del lavoro della confederazione generale dei lavoratori greci.
I cambiamenti stanno costringendo un numero crescente di persone a cercare assistenza al di fuori del sistema sanitario tradizionale. Elena, per esempio, è stata indirizzata al dottor Syrigos dai medici di un movimento clandestino che è nato in questo paese per curare chi non ha l’assicurazione medica. “Oggi in Grecia disoccupazione significa morte”, dice Syrigos, un uomo imponente e austero che si ammorbidisce quando parla dei malati di cancro.
Gli sviluppi sono del tutti inediti per i greci, e forse anche per l’Europa. Il cambiamento è particolarmente impressionante nella cura dei tumori, che comporta trattamenti lunghi e costosi. Quando si diagnostica un tumore a chi non è assicurato, dice Syrigos, “il sistema molto semplicemente lo ignora: non può avere accesso alla chemioterapia, all’intervento chirurgico e neppure ai farmaci”.
“Quando l’abbiamo visitata siamo rimasti senza parole”, ha detto Syrigos, primario del reparto di oncologia dell’ospedale Sotiria nel centro di Atene. “Siamo scoppiati tutti in lacrime. Una situazione del genere la si legge soltanto sui libri, ma non capita di averla sotto gli occhi, almeno finora. Chiunque si ammalasse in questo paese è stato sempre curato”.
La vita in Grecia è cambiata radicalmente da quando è cominciata la crisi del debito, ma sono pochi gli ambiti che più del settore sanitario evidenziano come il cambiamento è stato enorme. Fino a poco tempo fa, la Grecia aveva il tipico sistema sanitario: chi perdeva il posto di lavoro godeva per un anno dell’assistenza sanitaria e dei sussidi di disoccupazione, ma nel caso in cui non potesse permetterselo era curato in ospedale anche al termine di queste indennità.
Le cose sono cambiate nel luglio 2011, quando la Grecia ha firmato un altro patto per ottenere un prestito da altri paesi e scongiurare il collasso economico. In base all’accordo, quando i sussidi finiscono i greci devono pagare le cure di tasca propria.
Circa la metà dei disoccupati greci a lungo termine, complessivamente 1,2 milioni di persone, è privo di assicurazione sanitaria. Si tratta di un numero che dovrebbe aumentare di molto, dato che il paese ha un tasso di disoccupazione del 25 per cento e un’economia agonizzante: così afferma Savas Robolis, direttore dell’Istituto del lavoro della confederazione generale dei lavoratori greci.
I cambiamenti stanno costringendo un numero crescente di persone a cercare assistenza al di fuori del sistema sanitario tradizionale. Elena, per esempio, è stata indirizzata al dottor Syrigos dai medici di un movimento clandestino che è nato in questo paese per curare chi non ha l’assicurazione medica. “Oggi in Grecia disoccupazione significa morte”, dice Syrigos, un uomo imponente e austero che si ammorbidisce quando parla dei malati di cancro.
Gli sviluppi sono del tutti inediti per i greci, e forse anche per l’Europa. Il cambiamento è particolarmente impressionante nella cura dei tumori, che comporta trattamenti lunghi e costosi. Quando si diagnostica un tumore a chi non è assicurato, dice Syrigos, “il sistema molto semplicemente lo ignora: non può avere accesso alla chemioterapia, all’intervento chirurgico e neppure ai farmaci”.
domenica 4 novembre 2012
Usa 2012, i 'dark money' che finanziano la campagna: ''E' riciclaggio di denaro''
- antimafiaduemila -
di Marco Quarantelli - 1° novembre 2012
Si tratta di denaro gestito da gruppi no profit che non hanno l'obbligo di fornire i nomi dei donatori. La maggior parte è usata dai repubblicani contro Obama. Per il governatore della California è un metodo per riciclare profitti illeciti.
“Segui il denaro”, consigliava 40 anni fa Gola Profonda a Carl Bernstein e Bob Woodward del Washington Post che indagavano sul Watergate. Nell’America di oggi, in questa campagna elettorale impregnata di veleni e miliardi, esiste una grossa fetta del denaro che gravita attorno ai due candidati impossibile da seguire: è un fiume di soldi di cui non si conosce la provenienza. In America li chiamano dark money, sono i finanziamenti gestiti da gruppi no profit che non hanno l’obbligo di fornire i nomi dei donatori e la scorsa settimana hanno superato quota 200 milioni di dollari: nel 2000 non arrivavano a 5 milioni. Tranne le organizzazioni che li hanno raccolti, nessuno sa da dove arrivino, neanche lo Stato ha il diritto di saperlo: “Non è altro che riciclaggio di denaro”, ha detto il 23 ottobre Jerry Brown, governatore della California.
Per la maggior parte sono manovrati da gruppi repubblicani e vengono spesi per demolire Barack Obama a suon di spot televisivi. La legge le classifica come 501(c)(4) e le considera “social welfare organizations“. Il Congresso le creò un secolo fa per “promuovere il benessere sociale”. Per questo anche se maneggiano milioni, l’Internal Revenue Service permette loro di non pagare le tasse. Non potrebbero fare attività politica, ma sotto elezioni si trasformano in macchine da guerra: raccolgono vagonate di soldi senza rivelare i nomi di chi li ha donati e li investono per questo o quel candidato. Pozzi neri in cui viene convogliato denaro di dubbia provenienza, che viene poi reinvestito in politica. La più potente è Crossroads Gps, fondata da Karl Rove, stratega politico e storico braccio destro di George W. Bush: ha riempito le tv di feroci spot anti-Obama spendendo da sola 42 milioni. Poi ci sono Americans for Prosperity con 33 milioni e U.S. Chamber of Commerce, a quota 17. Anche queste repubblicane. La fetta è grossa.
Sulla torta di un miliardo di dollari spesi nella campagna da organizzazioni esterne ai due partiti, i dark money sono 200 milioni: più di quanto speso dalle 501(c)(4) negli ultimi 20 anni. Un cannone finanziario che spara quasi a senso unico, utilizzato soprattutto dai repubblicani per demolire i democratici. Il potenziale impatto sul voto è evidente. Secondo i dati elaborati da Opensecrets-Center for Responsive Politics, organizzazione che tiene il conto dei finanziamenti delle campagne, l’88% di questi soldi è stato utilizzato per fare pubblicità negativa ad uno dei due schieramenti, l’83% di questi come bocca di fuoco per attaccare Obama e il suo partito: per gli spot contro il presidente sono stati stati spesi 74 milioni, cifra 14 volte superiore a quella spesa per attaccare Romney (5,1 milioni). Otto dei 10 candidati più bersagliati sono democratici. “Da dove arriva questo denaro?”. La domanda l’ha posta, tra i pochissimi, Jerry Brown, governatore della California, il 20 ottobre a San Francisco.
Tre giorni prima Americans for Responsible Leadership, oscura 501(c)(4) dell’Arizona, aveva donato 11 milioni allo Small Business Action Committee PAC, che si oppone alla riforma delle tasse voluta da Brown, racconta il Wall Street Journal. “Un comitato che mobilita all’improvviso 11 milioni – ha detto – ha il dovere di dire dove li ha presi. Dall’estero? E’ illegale. Dal terrorismo? E’ illegale”. Poi le accuse: “Questo è riciclaggio di denaro. Sapete cos’è? Lo fai quando hai tra le mani una cosa sporca di cui ti vergogni o vuoi nascondere: ci butti sopra del cloro e strofini finché non torna pulita. Lo stesso – ha concluso Brown – fanno i depositari dei più grandi interessi finanziari, le più potenti corporazioni e le personalità che hanno il potere di muovere 11 milioni di dollari come se nulla fosse”. Hanno soldi e potere e i loro tentacoli vanno oltre la campagna elettorale. Possono piegare ai loro interessi la legge e spingono perché il cono d’ombra si allarghi.
In Montana American Tradition Partnership, gruppo di pressione che promuove lo sfruttamento delle risorse naturali (petrolio, gas, metallo) è riuscita a bloccare la legge anticorruzione: il provvedimento impediva alle 501(c)(4) di finanziare direttamente la campagna di un candidato e l’organizzazione l’ha impugnato affermando che il principio è inconstituzionale. A giugno la Corte Suprema, a maggioranza repubblicana, le ha dato ragione e ha sospeso la legge. L’ennesima vittoria di una 501(c)(4), l’ennesima luce spenta sulla trasparenza dei finanziamenti. Entro il 2014 molte di loro dovranno fornire cifre su come hanno speso il loro denaro in queste elezioni. Ma non rivelare dove hanno preso quei soldi.
Tratto da: ilfattoquotidiano.it
Si tratta di denaro gestito da gruppi no profit che non hanno l'obbligo di fornire i nomi dei donatori. La maggior parte è usata dai repubblicani contro Obama. Per il governatore della California è un metodo per riciclare profitti illeciti.
“Segui il denaro”, consigliava 40 anni fa Gola Profonda a Carl Bernstein e Bob Woodward del Washington Post che indagavano sul Watergate. Nell’America di oggi, in questa campagna elettorale impregnata di veleni e miliardi, esiste una grossa fetta del denaro che gravita attorno ai due candidati impossibile da seguire: è un fiume di soldi di cui non si conosce la provenienza. In America li chiamano dark money, sono i finanziamenti gestiti da gruppi no profit che non hanno l’obbligo di fornire i nomi dei donatori e la scorsa settimana hanno superato quota 200 milioni di dollari: nel 2000 non arrivavano a 5 milioni. Tranne le organizzazioni che li hanno raccolti, nessuno sa da dove arrivino, neanche lo Stato ha il diritto di saperlo: “Non è altro che riciclaggio di denaro”, ha detto il 23 ottobre Jerry Brown, governatore della California.
Per la maggior parte sono manovrati da gruppi repubblicani e vengono spesi per demolire Barack Obama a suon di spot televisivi. La legge le classifica come 501(c)(4) e le considera “social welfare organizations“. Il Congresso le creò un secolo fa per “promuovere il benessere sociale”. Per questo anche se maneggiano milioni, l’Internal Revenue Service permette loro di non pagare le tasse. Non potrebbero fare attività politica, ma sotto elezioni si trasformano in macchine da guerra: raccolgono vagonate di soldi senza rivelare i nomi di chi li ha donati e li investono per questo o quel candidato. Pozzi neri in cui viene convogliato denaro di dubbia provenienza, che viene poi reinvestito in politica. La più potente è Crossroads Gps, fondata da Karl Rove, stratega politico e storico braccio destro di George W. Bush: ha riempito le tv di feroci spot anti-Obama spendendo da sola 42 milioni. Poi ci sono Americans for Prosperity con 33 milioni e U.S. Chamber of Commerce, a quota 17. Anche queste repubblicane. La fetta è grossa.
Sulla torta di un miliardo di dollari spesi nella campagna da organizzazioni esterne ai due partiti, i dark money sono 200 milioni: più di quanto speso dalle 501(c)(4) negli ultimi 20 anni. Un cannone finanziario che spara quasi a senso unico, utilizzato soprattutto dai repubblicani per demolire i democratici. Il potenziale impatto sul voto è evidente. Secondo i dati elaborati da Opensecrets-Center for Responsive Politics, organizzazione che tiene il conto dei finanziamenti delle campagne, l’88% di questi soldi è stato utilizzato per fare pubblicità negativa ad uno dei due schieramenti, l’83% di questi come bocca di fuoco per attaccare Obama e il suo partito: per gli spot contro il presidente sono stati stati spesi 74 milioni, cifra 14 volte superiore a quella spesa per attaccare Romney (5,1 milioni). Otto dei 10 candidati più bersagliati sono democratici. “Da dove arriva questo denaro?”. La domanda l’ha posta, tra i pochissimi, Jerry Brown, governatore della California, il 20 ottobre a San Francisco.
Tre giorni prima Americans for Responsible Leadership, oscura 501(c)(4) dell’Arizona, aveva donato 11 milioni allo Small Business Action Committee PAC, che si oppone alla riforma delle tasse voluta da Brown, racconta il Wall Street Journal. “Un comitato che mobilita all’improvviso 11 milioni – ha detto – ha il dovere di dire dove li ha presi. Dall’estero? E’ illegale. Dal terrorismo? E’ illegale”. Poi le accuse: “Questo è riciclaggio di denaro. Sapete cos’è? Lo fai quando hai tra le mani una cosa sporca di cui ti vergogni o vuoi nascondere: ci butti sopra del cloro e strofini finché non torna pulita. Lo stesso – ha concluso Brown – fanno i depositari dei più grandi interessi finanziari, le più potenti corporazioni e le personalità che hanno il potere di muovere 11 milioni di dollari come se nulla fosse”. Hanno soldi e potere e i loro tentacoli vanno oltre la campagna elettorale. Possono piegare ai loro interessi la legge e spingono perché il cono d’ombra si allarghi.
In Montana American Tradition Partnership, gruppo di pressione che promuove lo sfruttamento delle risorse naturali (petrolio, gas, metallo) è riuscita a bloccare la legge anticorruzione: il provvedimento impediva alle 501(c)(4) di finanziare direttamente la campagna di un candidato e l’organizzazione l’ha impugnato affermando che il principio è inconstituzionale. A giugno la Corte Suprema, a maggioranza repubblicana, le ha dato ragione e ha sospeso la legge. L’ennesima vittoria di una 501(c)(4), l’ennesima luce spenta sulla trasparenza dei finanziamenti. Entro il 2014 molte di loro dovranno fornire cifre su come hanno speso il loro denaro in queste elezioni. Ma non rivelare dove hanno preso quei soldi.
Tratto da: ilfattoquotidiano.it
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