Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 26 gennaio 2013

Rivoluzione Civile, oltre le elezioni

- lavorincorsoasinistra - 26 gennaio 2013        

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Una visione particolarmente caricaturale di Rivoluzione Civile, ovviamente confezionata e fatta circolare dai suoi numerosi nemici politici, è quella che vorrebbe far passare tale formazione per una sorta di taxi d’emergenza su cui si sono affrettati a salire esponenti di forze politiche tra loro irriducibilmente diverse, animate solo dall’intento di salvare la pelle politicamente parlando e di riguadagnare qualche poltrona.
Vero è che le elezioni si avvicinano e che tutte le argomentazioni, anche le più scorrette, sembrano essere ammesse, mentre si arroventa il clima della campagna elettorale. Ma questa visione è destituita a ben vedere del minimo fondamento.
Tu sei buono e ti tirano le pietre, sei cattivo e ti tirano le pietre, cantava Antoine. Così è per le forze della sinistra: se si dividono vengono giustamente bollate come litigiose e perdenti, se si unificano, come nel caso di Rivoluzione civile, deve essere necessariamente per qualche scopo poco nobile e senza alcuna prospettiva.
Bisogna invece sostenere con energia e coerenza che questa unificazione è stato un fatto positivo, anche perché ha posto le premesse di un futuro sviluppo di un gruppo parlamentare e di un’aggregazione politica unitaria di opposizione e alternativa, della quale l’Italia ha bisogno come dell’aria per respirare.
Gli anni difficili e tormentati da cui proveniamo non possono peraltro non aver aperto gli occhi a tutti o quasi gli italiani. Mostrando loro le bassezze del signor BungaBunga che ha tentato di trasformare quello che resta dello Stato italiano in una sua personale macchina di arricchimento e ha sfidato in modo arrogante ogni regola nella speranza di poter godere dell’impunità più o meno assoluta che deriva dal potere. Ma anche, la via senza uscita del montismo, contrassegnato dall’intento di salvaguardare gli equilibri e le strutture di potere esistente e dall’illusione di superare la crisi e rilanciare l’economia senza mettere mano ai privilegi reali e alle ricchezze esagerate della parte più ricca della nostra società. Ma anche la sostanziale acquiescenza a tali scelte da parte del Pd, per quanto si agiti e si sbracci oggi il buon Nichi nel lodevole intento di trascinare via tale partito dal mortifero abbraccio con i montiani, oramai elevati a loro volta a partito.
Accà nisciuno è fesso, dicono a Napoli. E questo viene voglia di ripetere vedendo Bersani che scopre improvvisamente i danni del montismo sulla questione degli esodati o si trasforma di colpo in nemico degli F-35.
di Fabio Marcelli – Il Fatto Quotidiano
Non di sceneggiate preelettorali abbiamo bisogno, ma di una forza che sappia mettere in mdo coerente le questioni fondamentali, difesa intransigente della Costituzione, pace, lavoro, ambiente, legalità, al centro dell’agenda politica. Per questo è nata Rivoluzione civile.
In un’intervista che mi è stata fatta a seguito della mia decisione di accettare la mia candidatura nelle liste di tale formazione, ho sostenuto quanto segue:
“Penso in effetti che sia necessario tentare di riappropriarsi della sfera politica a partire dalle esigenze del 90% della società che è escluso dai circoli del potere. In questi anni le varie esperienze che ho fatto, come cittadino, come giurista, come ricercatore, mi portano a ritenere necessario un luogo di elaborazione e di difesa degli interessi diffusi all’insegna di politiche nuove non subalterne agli interessi dominanti. Ho voluto essere dentro Rivoluzione civile per verificare fino in fondo la fattibilità di questa prospettiva, che a mio avviso è l’unica oggi praticabile per cambiare le cose. Ben al di là della scadenza elettorale che ha posto peraltro alcune urgenze oggettive cui si è cercato di far fronte nel migliore dei modi possibili date le circostanze”.
E’ punto che vale la pena di riaffermare. C’è gran parte della società che si trova oggi priva di rappresentanza politica per l’impossibilità di riconoscersi nelle scelte sbagliate fatte dalla maggioranza stragrande della classe politica uscente. Semplificando, potremmo dire che al 90% della società corrisponde ben meno del 10% dello sciagurato Parlamento che ci avviamo fortunatamente a sostituire il 24 e 25 febbraio.
Rivoluzione civile nasce dall’intento di dare rappresentanza a questo 90% ma a tale fine va progettato un lavoro di lunga durata di cui le prossime elezioni costituiranno solo la prima tappa.
Voglio aggiungere che un intento analogo è espresso, sia pure su di un terreno diverso, dall’Associazione dei giuristi democratici. Si presenta alle prossime elezioni al collegio di Piemonte per Rivoluzione civile il presidente dei giuristi democratici, Roberto Lamacchia, che potrà portare in Parlamento le ragioni di una lotta ultradecennale per la giustizia sua personale e dell’associazione che rappresenta. Ricordo poi una nostra prestigiosa iscritta, la costituzionalista Marilisa D’Amico, di cui è noto l’impegno per i diritti civili, che si presenta invece nelle file del Pd a Milano. E vari altri che si candidano ancora con Rivoluzione civile, e con SEL. A testimonianza di un impegno dei giuristi democratici che aspira a unificare, sulle questioni concrete, le migliori energie del Parlamento che ci accingiamo ad eleggere. Convergendo in questo con Rivoluzione Civile e chiunque altro voglia battere le strade difficili ma necessarie dell’alternativa sui vari piani.

Tra Vendola e Ingroia. La sinistra che manca

26 gennaio 2013- Fonte: lavorincorsoasinistra -

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di Davide Nota su gli Altri
Forse ha ragione chi sostiene che questa sia una fase della storia in cui non è possibile fare una vera militanza di sinistra, in Europa, se non nelle forme dell’avanguardia culturale e della testimonianza di una irriducibilità della vita e del sogno contro lo spleen del dogma, dell’eternamente uguale, della nevrotica alternanza tra “peggio moderato” e “peggio estremo”.
Testimonianza, sì, compito generoso di chi sa che le provviste serviranno per il domani, quando noi non ci saremo.
Certo, come scrive Don DeLillo “sono i desideri su vasta scala a fare la Storia”. Di fronte alla grande mareggiata i testimoni vengono spazzati via contro gli scogli o respinti sulle aride spiagge dell’esilio ininfluente. È ciò che Vendola definisce: “scalare la montagna, per cantare alla luna”. È vero? Sì, è vero.
“Ma è anche vero che la testimonianza individuale è la premessa logica e storica delle successive aggregazioni vincenti.” (Costanzo Preve).
Come si risolve questo paradosso, della necessità storica di una sinistra di lotta e di utopia che non saboti la necessità contingente di una squadra che vada al governo, anche in posizioni di compromesso, per difendere i diritti dei senza diritto e dei mai difesi?
È possibile scegliere l’una cosa e l’altra? Scalare la montagna e “volere la luna”, senza servire alla reazione tecnocratica?
E viceversa è possibile ricoprire incarichi governativi senza per questo dover sabotare l’importanza di una lotta che trascenda e che contesti, anche, i limiti tecnici che ogni azione governativa necessariamente implica?
O la contingenza burocratica deve per forza soffocare tutto il pensiero, coprendo ogni orizzonte di speranza?
Il nostro è un paese allucinatorio, dove le ali estreme che il potere vuole “silenziare” sono quelle che propongono l’ovvio, soluzioni di civiltà condivisa che dovrebbero essere date a priori, mentre “riformista” è chi chiede l’abrogazione delle riforme più avanzate del Novecento in termini di diritti sociali e sul lavoro, che sono sempre diritti individuali perché consentono al lavoratore di essere considerato un uomo e non un ruolo.
Dire che un individuo non vive per lavorare ma lavora per vivere, dire che se il lavoro non serve la libertà la democrazia non ha più senso ed è una finzione, dovrebbe essere ovvio.
Ma nello spleen d’Italia l’ovvio è una preoccupante minaccia bolscevica e si organizzano congiure per evitare che il Partito Democratico, cioè un partito liberale di centro con una componente di minoranza socialdemocratica, possa vincere le elezioni senza il cappio al collo del commissario tecnico, e cioè della destra europea.
Se pure è vero che questa è la norma di un Paese schiacciato da dieci anni di guerra civile e da trent’anni di mobbing televisivo, siamo sicuri che sia giusto ed utile assecondare questa torsione ideologica della realtà?
Negli ultimi cinque anni ho creduto molto, per sete di nuova militanza e per fede, anche, nei confronti di una promessa nata a vent’anni per le strade di Genova e di Firenze, a quel progetto di aggiornamento radicale dei linguaggi e delle filosofie di riferimento del marxismo europeo ai paradigmi del Duemila e della società liquida, e quindi alla proposta del Movimento per la Sinistra guidato da Nichi Vendola.
La complessità biografica dell’uomo incarnava simbolicamente il senso di una nuova storia, dove il conflitto tra contraddizioni lasciava posto alla stratificazione di diversità. Era il diritto poetico alla molteplicità, l’eresia di Pasolini che finalmente trovava voce pubblica e orgogliosa. Ne fui entusiasta.
Le strade dei Social forum di pochi anni prima pulsavano di questa nuova vita così come la realtà plurale della strada, la linfa vitale del vero quotidiano, comunicava questo punto di vista inedito di sincretismo tra le più importanti culture popolari del secolo da poco scorso: il cristianesimo, il socialismo e la rivendicazione libertaria del diritto individuale.
Una nuova visione avrebbe potuto servire una vasta unità? Gli ultimi, le immense moltitudini del margine, i noi-tutti abitanti di quest’unica e indistinta periferia sociale e esistenziale schiacciata dal capitale che muore, il mondo dei precari, il popolo delle partite iva, non stavamo aspettando solamente un cenno per guardarci negli occhi? Un codice condiviso per riconoscerci?
Poi accade lentamente questo, che il Movimento per la Sinistra diventa SEL e che SEL diventa una specie di brand in cui una dirigenza politica precostituita si organizza una campagna elettorale per entrare in parlamento come propaggine della corrente socialdemocratica del PD.
Qualcuno inizia anche a formulare ipotesi di unità in vista di un prossimo ingresso, auspicato e previsto, nel PSE.

Dalla fine delle sinistre nazionali ai movimenti sovversivi per l’Europa

di TONI NEGRI - uninomade -
 
I. Quando si dice globalizzazione dei mercati si intende che con essa vanno imponenti limiti alla sovranità dello Stato-nazione. Il fatto di non aver compreso la globalizzazione come un fenomeno irreversibile costituisce l’errore essenziale delle sinistre nazionali nell’Europa occidentale.
Fino alla caduta dell’Unione Sovietica la leadership americana consistette nel combinare, prudentemente ma con continuità, le specificità nazionali dei paesi compresi nelle alleanze occidentali (e nella Nato soprattutto) e la continuità dell’imperialismo classico, raggruppandoli dentro un dispositivo di antagonismo con il mondo del “socialismo reale”. Dal 1989 in poi, crollato il mondo sovietico, allo hard power della potenza americana si è man mano sostituito il soft power dei mercati: la libertà dei commerci e la moneta hanno subordinato, in quanto strumenti di comando, il potere militare e di polizia internazionale – il potere finanziario e la gestione autoritaria dell’opinione pubblica hanno d’altra parte costituito il campo sul quale soprattutto si è esercitata la nuova impresa politica di sostegno alla politica dei mercati. Il neoliberalismo si è fortemente organizzato a livello globale, gestisce l’attuale crisi economica e sociale a proprio vantaggio avendo verosimilmente davanti a se un orizzonte radioso…. A meno di rotture rivoluzionarie, non essendo immaginabile una trasformazione democratica e pacifica degli attuali ordinamenti politici del neoliberalismo sull’orizzonte globale.
Di contro, al rafforzamento del sistema capitalistico nella forma neoliberale, lo sbandamento delle forze politiche della sinistra dopo ’89 è stato massiccio. Accanto alle forze dogmatiche che, nella fedeltà a forme ideologiche arcaiche, rinunciavano ad ogni comprensione della lotta di classe in un mondo profondamente rinnovato dalla globalizzazione e dalle trasformazioni del modo di produrre, si è creata allora una nuova corrente di pensiero e di azioni socialiste che, nel tentativo di mediare con la novità della situazione, l’hanno spinto invece fino a punte estreme di alleanza con il neoliberalismo.
I processi di unificazione del continente europeo e gli istituti nei quali viene sviluppandosi la discussione sulla costituzione europea, hanno costituito un luogo esemplare del vuoto e dell’impotenza politica della sinistra, sia di quella “terza via” blairiana (il cui orientamento si è presto identificato con le pulsioni più forti ad una strutturazione politica dell’Unione europea a carattere neoliberale) sia, al contrario, di quei gruppi che hanno nascosto, dietro il rifiuto dell’unità e dello sviluppo delle istituzioni europee, la loro incapacità di costruire una linea alternativa a quella neoliberale: ciò avrebbe significato mettere in discussione lo Stato-nazione, il diritto pubblico nazionale ed il sistema amministrativo della modernità capitalista. Il fallimento di queste forze, prese nel loro insieme, è stato gigantesco.
Se vogliamo procedere nella discussione, chiediamoci dunque quali siano le condizioni teoriche e politiche che possono permettere di riaprire una prospettiva di lotta sul realistico terreno della costruzione sovversiva di un’Europa unita. È una questione posta oggi dai movimenti che stanno imparando a lottare contro la crisi sul livello europeo.
II. In cosa consiste il capitalismo finanziario e/o biopolitico? Consiste nella sussunzione della società, anzi, della vita stessa, sotto il dominio del capitale, senza alcun residuo. Come si esercita il comando dei mercati sulla struttura della società, oggi? Non posso evidentemente fermarmi troppo su questo punto. Basta dire che il comando funziona attraverso un uso invasivo del controllo monetario, indirizzato all’accumulazione della rendita finanziaria. Essa riorganizza i rapporti produttivi e riproduttivi secondo schemi di approfondimento – talora di vera e propria restaurazione – di rapporti di sfruttamento. L’azione dei mercati finanziari privilegia (per la sua valorizzazione) le industrie della produzione dell’uomo per l’uomo, cioè il welfare, servizi produttivi metropolitani, ivi compresi quelli informatici, ecc. – e le industrie estrattive, energetiche, ecologiche e di agrobusiness. Si tratta di una nuova figura dell’“accumulazione originaria” nella quale l’appropriazione capitalista si applica allo sfruttamento del bios – umano e naturale – alla captazione del valore espresso da un’intera società. Una prima definizione di “comune” (così come proposto dai movimenti) sembra così esser stata qui formulata: nel rovesciamento di quel campo dello sfruttamento.
A noi interessa a studiare le contraddizioni che su quel terreno, spesso caotico, dell’attacco neoliberale, sono stati evidenziate dai movimenti. Sono contraddizioni difficilmente superabili, che il potere tende a trattenere in una governance eccezionale, in un governo di emergenza di lunga durata, per ristrutturare l’intera società. Ma osserviamo da subito la serie di paradossi che questa governance si trova ad agire.

venerdì 25 gennaio 2013

Davos, l'oscar della vergogna va alla Shell

Fonte: il manifesto | Autore: Luca Manes   
 
«E il Public Eye Award va... alla Shell!». Per la seconda volta da quando è stato istituito, l'oscar della peggior multinazionale del mondo se l'è aggiudicato la compagnia petrolifera anglo-olandese. Un «risultato» giunto dopo un serrato testa a testa con la banca d'affari statunitense Goldman Sachs, che ha finito per conquistare il «riconoscimento» speciale della giuria.

È dal 2000 che Greenpeace Svizzera e Berne Declaration, in concomitanza con il World Economic Forum di Davos, danno la possibilità di votare a tutti gli abitanti del pianeta sul sito web del singolare «concorso» quella che per loro è la corporation che, con il suo operato, maggiormente ha contribuito a distruggere l'ambiente e/o causare impatti devastanti sulle popolazioni locali.

Tra le sette aziende in nomination, la Shell ha avuto il sopravvento «grazie» alla lunga scia di inquinamento e disastri che si lasciano dietro le sue attività di estrazione del petrolio. Ora l'azienda sta investendo miliardi di euro per bucherellare i fondali artici, non senza problemi e difficoltà di natura tecnica, tanto che l'amministrazione Obama sta valutando se confermare o meno le licenze di esplorazione, mentre il mondo della finanza teme che l'investimento sia troppo rischioso per essere giustificato. Come se non bastasse, la compagnia con sede a l'Aja si è già buttata a capofitto sull'affare delle cosiddette fonti non convenzionali. È presente in Canada, nella regione dell'Alberta, dove l'estrazione delle sabbie bituminose ha sconquassato una larga fetta del territorio, mentre è notizia degli ultimi giorni la firma di un un contratto multi-miliardario con il governo ucraino per lo sfruttamento del gas di scisto.
Ma la Shell è famosa soprattutto per le malefatte nel Delta del Niger, dove anche secondo un rapporto delle Nazioni Unite dell'agosto del 2011 avrebbe il dovere di ripulire le tante lordure combinate in decenni di attività. Per gli esperti dell'Onu, solo per bonificare la parte del Delta del Niger abitata dagli Ogoni - la popolazione del grande scrittore e attivista Ken Saro Wiwa, trucidato nel 1995 - ci vorrebbero 30 anni e decine di miliardi. La Shell per il momento non si è assunta le sue responsabilità e, così come le altre compagnie presenti in loco, tra cui l'italiana Eni, continua a praticare il gas flaring. Ovvero il bruciare in torcia il gas connesso al processo d'estrazione del greggio, che in teoria in Nigeria sarebbe illegale in base a un provvedimento normativo del 1979.

Detto del pessimo record ambientale della oil corporation anglo-olandese, va detto che neanche le altre «concorrenti» erano da meno.

Insieme all'anima nera della finanza internazionale, la Goldman Sachs, troviamo la Lonmin, l'azienda del settore minerario assurta alla cronache internazionali la scorsa estate per il dramma di Marikana, allorché 44 minatori furono uccisi dalle forze dell'ordine sudafricane chiamate in causa dalla stessa Lonmin per sedare le proteste contro le pessime condizioni lavorative.

In nomination c'erano anche la francese Alstom, «specializzata» in corruzione, la Coal India, che con i suoi 400 milioni di tonnellate di carbone estratti l'anno (il 90 per cento della produzione del Paese asiatico) contribuisce non poco al dramma dei cambiamenti climatici e la compagnia britannica di sicurezza privata G4S, che «pare» sia abbastanza esperta di violazioni dei diritti umani e delle regole più basilari del diritto internazionale, essendo presente in ben 125 Paesi del globo).

Dulcis in fundo - si fa per dire - la Repower, società che giocava in casa, visto che è svizzera, ma che nella nostra Calabria vuole costruire insieme alla multi-utility italiana Hera la centrale a carbone di Saline Joniche. Poco importa che praticamente tutta la popolazione locale sia contraria e che il progetto avrà impatti devastanti - oltre a «incastonarsi» in un contesto dove la criminalità organizzata la fa da padrone.
Nota a margine. Nella sala dove si è tenuta la «premiazione», a pochi passi dalla sede del World Economic Forum, non era presente nessun esponente delle azienda nominate. Ma non perché avessero deciso di snobbare il premio...

Ingroia scrive agli iscritti Cgil: "Io non invitato. Ecco cosa avrei detto"

Camusso presenta Piano del Lavoro.
 
“Care amiche e amici della Cgil, vi scrivo per riassumere ciò che avrei detto se fossi stato invitato ad intervenire alla vostra conferenza sul programma, al pari degli altri candidati per la Presidenza del Consiglio”. E’ quanto afferma, in una lettera aperta agli iscritti della Cgil, il leader di Rivoluzione Civile, Antonio Ingroia. “Rivoluzione Civile – Lista Ingroia – aggiunge – ha ben chiaro chi sono gli avversari da battere con il voto: Berlusconi, cioè la destra caciarona e impresentabile, e Mario Monti, rappresentante numero uno di quei professori in loden che hanno deciso la drammatica controriforma delle pensioni. Quella ‘destra perbene’ ha colpito in maniera pesantissima tutti i lavoratori e i pensionati, ma soprattutto le donne, ha creato la tragedia sociale degli esodati, ha cancellato l'art.18 ha confermato e aggravato tutte le forme di precariato. In compenso, non ha saputo mettere in campo alcun intervento che incidesse sulle fasce privilegiate, sulla Casta politica, sugli immensi sprechi ben esemplificati dalle auto blu o dalla pletora di consigli d'amministrazione clientelari. Soprattutto, non ha fatto nulla, zero assoluto, quanto a politiche industriali di ampio respiro. Invece mai come in questo momento, nel cuore della crisi, è urgente che ci sia un governo capace di offrire al Paese un indirizzo lungimirante sui settori strategici.

Sui capitoli da cui dipende la qualità della vita e il futuro del Paese - sanità, scuola, università, ricerca – la continuità tra i governi Berlusconi e Monti è totale. Continuano i tagli lineari, le privatizzazioni striscianti, la totale precarietà. In questa plumbea cornice si sono moltiplicati attacchi sempre più profondi contro i diritti e le libertà dei lavoratori. Siamo di fronte a un assedio che sta progressivamente riportando la condizione dei lavoratori e lo stato delle relazioni industriali indietro di un secolo e oltre. Il punto fondamentale, per me e per il mio programma politico, è invece – continua Ingroia – la piena e totale applicazione della Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza, prima di tutto in materia di libertà civili e sindacali. Ritengo fondamentale e imprescindibile la libertà per i lavoratori di votare sempre gli accordi che li riguardano, di votare sempre i propri rappresentanti e di potersi di iscrivere liberamente al sindacato che vogliono. La storia della Cgil è stata attraversata da discriminazioni e persecuzioni, ma alla fine ha saputo sempre sconfiggerle. Ha combattuto il regime fascista, ha ricostruito l’Italia con la spinta di Giuseppe Di Vittorio, ha emancipato la dignità di chi lavora con Bruno Trentin, ha battuto Berlusconi quando Sergio Cofferati vinse la battaglia per impedire la cancellazione dell’art. 18. Quelli che allora erano in piazza con voi e con noi, hanno votato oggi, senza batter ciglio, quell'eliminazione dell’art. 18 che non era riuscita 10 anni fa.

È dunque per me un impegno di grande valore democratico quello di assumere nel nostro programma l’approvazione di una legge per la democrazia e la rappresentanza nei luoghi di lavoro e la cancellazione delle leggi Fornero sui licenziamenti e sulle pensioni. Ci impegniamo – prosegue la lettera – a combattere la precarietà cancellando le oltre 40 forme di contratto precario per i giovani considerando l’apprendistato come il vero contratto di inizio lavoro. Riteniamo utile, in questa fase di transizione, garantire un reddito minimo almeno per i periodi di vuoto retributivo e previdenziale. Oggi, come anche i dati della Cgil dimostrano, è possibile una scelta alternativa a quella di Berlusconi e Monti. Noi lavoriamo per questo: per un governo di centrosinistra che rompa con le logiche monetariste del fiscal compact, con quelle devastanti della guerra e degli armamenti, con un modello di sviluppo che distrugge l’ambiente e la salute dei cittadini mentre ignora i diritti umani fondamentali. Tutto questo, però, non può essere fatto a braccetto con chi quei modelli sciagurati li ha teorizzati, perseguiti e praticati, come Berlusconi e Monti.

Proprio perché noi siamo disponibili alla costruzione di questa alternativa di governo, ma siamo altrettanto fermamente indisponibili a ogni accordo con chi persegue politiche opposte alle nostre, Rivoluzione Civile rappresenta oggi il vero voto utile per impedire che si realizzi il progetto sciagurato, già annunciato e temo per molti versi già deciso, di un governo Pd-Monti.

Non è questione di pregiudiziali ideologiche ma di scelte pragmatiche e concrete. Noi lavoriamo per l’unità del mondo del lavoro: la destra di Berlusconi e Monti si è adoperata e promette di adoperarsi ancor più in futuro per dividere e per isolare le forze sindacali che non accettano le loro condizioni. La destra italiana ha usato la crisi per distruggere il Contratto Nazionale, abolire l'art. 18, cancellare i diritti minimi per i giovani, abbattere le libertà dentro e fuori i luoghi di lavoro. Noi vogliamo marciare in direzione opposta. E l’autonomia dei sindacati dai partiti e dai governi è un valore da conquistare e da rispettare. Di tutto questo – conclude Ingroia – mi sarebbe piaciuto discutere con voi, ma sono sicuro che non mancheranno altre occasioni di incontro con i pensionati e poi nelle scuole, negli ospedali, nelle fabbriche, dove ogni giorno lavorate garantendo il funzionamento dell’Italia. L'obiettivo comune è quello di restituire al lavoro tutto il valore, tutta la dignità e tutta la libertà necessaria per portare il Paese fuori dalle secche della recessione e della depressione”.

Antonio Ingroia

Banca d’Italia: i tagli portano la recessione

di Mario Pianta
La Banca d’Italia vede un 2013 di recessione e corregge l’ottimismo passato, teme la disoccupazione e ammette che l’austerità peggiora la finanza pubblica. Tre notizie importanti per la campagna elettorale
Meno uno percento. La notizia è che per Banca d’Italia l’economia del paese sarà in recessione anche nel 2013, in un’eurozona senza ripresa, col prodotto in calo anche negli ultimi tre mesi. In Italia la disoccupazione – ora all’11,1% – salirà al 12%. Il rapporto debito/Pil – ora al 126% – continuerà a peggiorare nel 2013 e potrà ridursi solo dal 2014. Ma le vere notizie, dietro questi dati sono altre.
La prima è che Banca d’Italia impara a correggere le previsioni sbagliate (prima, per il 2013 prevedeva un calo di appeno lo 0,2%). La Banca centrale europea ha sbagliato finora tre previsioni su quattro e c’è voluto il risveglio keynesiano di Olivier Blanchard, capo-economista del Fondo monetario, per ricordare ai banchieri che l’austerità provoca recessione. Ma questa non è solo una caduta del reddito. In Italia il Pil è sceso nel 2012 (-2,1% per Banca d’Italia, -2,4% per il governo), era stagnante nel 2010-2011, era caduto del 5,1% nel 2009 e dell’1,2% nel 2008. Questa è una depressione. Secondo Confindustria la produzione industriale nel dicembre 2012 è del 25% inferiore al livello pre-crisi dell’aprile 2008: in questi cinque anni un quarto della capacità produttiva del paese è andata perduta.
La seconda notizia è il collasso del lavoro. Oggi i disoccupati sono 2,8 milioni, a cui si deve aggiungere l’equivalente di 520 mila persone in cassa integrazione a zero ore nel 2012, e un milione e mezzo di persone in cerca di lavoro ma “scoraggiate”, che scivolano fuori dalla definizione di disoccupati. In tutto arriviamo al 18%, più di un italiano su sei. E sappiamo che il 37% dei giovani non lavorano e che, tra coloro che un lavoro ce l’hanno, ci sono quattro milioni di lavoratori precari, quasi un dipendente su quattro. Banca d’Italia ci dice che tutto questo è destinato a peggiorare ancora.
La terza notizia è che Banca d’Italia ammette che le politiche realizzate per ridurre deficit e debito pubblico non possono funzionare. L’anno scorso il deficit netto è stato del 3% del Pil, contro il 3,9% del 2011. Ma nel 2011-2012 sono state effettuate dai governi Berlusconi e Monti cinque manovre fiscali, per un totale di 120 miliardi di euro. Tutto questo è riuscito a migliorare solo di poche briciole il saldo, ma ha aggravato la caduta del Pil: con il Pil che cade, la finanza pubblica non può migliorare.
Banca d’Italia spera che nella seconda metà del 2013 la caduta del prodotto possa fermarsi grazie a una ripresa di investimenti e export. Ma quali imprese investono quando perdono un quarto della produzione? E nel 2013 (e dopo) peserà l’effetto delle manovre del governo Monti che tagliano la spesa pubblica per molte decine di miliardi. La domanda continuerà a cadere e, senza domanda, – lo sanno tutti ormai - il prodotto non cresce. Solo un drastico cambio di rotta può farci uscire dalla crisi, cambiando la traiettoria di uno sviluppo ingiusto e insostenibile.
Sembrano notizie di rilievo. Chissà perché la campagna elettorale non se ne occupa.

La politica per cambiare. A partire dai contenuti

di Giulio Marcon

La rotta d'Italia. Le prossime elezioni possono essere un'occasione di cambiamento. I margini sono stretti, le difficoltà molte e, per chi è legato alla “politica dal basso”, sarebbe sbagliato affrontare questa sfida appiattiti sulla realpolitik da un lato, o chiusi in una logica di autoreferenzialità dall’altro

 
Bisogna guardare al merito dei problemi e alle strade che si possono percorrere per cambiare. La drammaticità della crisi italiana ed europea (nel 2013 in gran parte dei paesi europei, tra cui l'Italia, cade il reddito, aumenta il debito, crescono disoccupazione e povertà) richiama tutti a misurarsi con un programma di cambiamento possibile. Queste elezioni sono il varco possibile di un cambio di rotta. Si potrebbe essere pessimisti: in Olanda, dopo la speranza di uno spostamento a sinistra, c'è una “grande coalizione” tra liberali e socialdemocratici, e lo stesso potrebbe succedere in Germania a settembre; in Francia, Hollande sembra aver esaurito la sua spinta propulsiva. L'Italia potrebbe non sfuggire alla medesima sorte, consegnando l'Europa a una stagnazione politica e a una depressione economica che farebbe avvitare la crisi, anche quella sociale e politica, su se stessa. Eppure la partita è ancora aperta: se il centro-sinistra vincesse nettamente alla Camera e anche al Senato (e se Sel, la sinistra del-centro sinistra, ottenesse un buon risultato), conquistandosi l'autosufficienza politica e numerica, allora sarebbe possibile – con tutte le difficoltà e strettoie immaginabili – cambiare strada rispetto al passato. E sarebbe importante, allora, che anche chi non si riconosce in quella coalizione vedesse in questo risultato una discontinuità importante, da valutare senza preclusioni.
Naturalmente c'è il merito delle scelte che anche un centro-sinistra vincente dovrebbe affrontare e da cui non potrebbe sfuggire: il contesto e i vincoli europei, le politiche restrittive e di bilancio fin qui imperanti, la questione del debito pubblico. Difficoltà che non impedirebbero tuttavia di sperimentare politiche diverse, come quelle che propongono i socialdemocratici tedeschi (allentamento dell’austerità) o il sindacato europeo (politiche espansive e di intervento pubblico). Si aprirebbe uno spazio politico di iniziativa niente affatto scontato. Nulla di tutto accadrebbe se vincesse il centro-destra o se dal voto uscisse uno stallo, con il centro-sinistra costretto a venire a patti con Monti e i centristi. E per questo non è utile continuare a evocare (quasi a spingerlo) il Pd nelle braccia di Monti, sperando di conquistare qualche voto di opposizione in più. La radicalità politica e la forza dei movimenti devono essere usate contro le derive moderate di una parte della coalizione e per mettere al centro la via d'uscita a sinistra della crisi, sostituendo alla “Agenda Monti”, un'agenda del lavoro, dei diritti, dell'ambiente.
Sappiamo bene che la politica di governo si muove su un piano diverso dalle campagne dei movimenti. Anche un governo nelle migliori condizioni possibili – con un centro-sinistra autosufficiente – sarebbe costretto a molte mediazioni (anche al ribasso) rispetto alle politiche per il cambiamento per cui ci battiamo. Per questo occorre tenere alta una mobilitazione sociale e sindacale, capace di spingere le politiche verso la nostra Agenda del cambiamento che ha come priorità una grande politica per il lavoro e la riconversione ecologica dell'economia; la redistribuzione di reddito e ricchezza con un fisco che colpisca profitti e patrimoni, e non il lavoro; la riduzione del ruolo della finanza; la difesa del welfare e dei diritti.

Decrescita

10 consigli per liberarci dal consumismo e muoverci verso la decrescita

Dalla televisione al telefonino, dall'automobile ai voli aerei, dalla grande distribuzione al consumo di carne. Bruno Clémentine e Vincent Cheynet hanno provato a stilare una lista (aperta) di consigli per liberarci dai condizionamenti che ci costringono ancora nella società dei consumi.

di Redazione - 12 Agosto 2011

televisioni
Il primo portatore di condizionamenti è la televisione. La nostra prima scelta sarà di liberarcene
1. Liberarsi dalla televisione
Per entrare nella decrescita, la prima tappa è prendere coscienza dei propri condizionamenti. Il primo portatore di condizionamenti è la televisione. La nostra prima scelta sarà di liberarcene. Così come la società dei consumi riduce l’uomo alla sua dimensione economica – consumatore -, la televisione riduce l’informazione alla superficie, l’immagine.
Media della passività, quindi della sottomissione, non smette di far regredire gli individui. Per sua natura, la televisione richiede la rapidità, non tollera i discorsi approfonditi. La televisione inquina al momento della sua produzione, durante l’utilizzo e poi come rifiuto.
Noi le preferiamo la nostra vita interiore, la creatività, imparare a fare musica, fare ed assistere a spettacoli viventi... Per tenerci informati abbiamo delle scelte: la radio, la lettura, il teatro, il cinema, incontrare gente, ecc.
2. Liberarsi dall’automobile
Più che un oggetto, l’automobile è il simbolo della società dei consumi. Riservata al 20% degli abitanti della terra, i più ricchi, porta inesorabilmente al suicidio ecologico per la distruzione delle risorse naturali (necessarie per la sua produzione) o per i diversi tipi di inquinamento tra cui l’aumento dell’effetto serra. L’automobile provoca guerre per il petrolio di cui l’ultima per data è il conflitto iracheno. L’automobile porta anche come conseguenza una guerra sociale che provoca un morto ogni ora solamente in Francia. L’automobile è uno dei flagelli ecologici e sociali del nostro tempo.
Noi le preferiamo: il rifiuto dell’ipermobilità. La volontà di abitare vicino al luogo di lavoro. Camminare a piedi, andare in bicicletta, prendere il treno, utilizzare i trasporti collettivi.
cellulari
Il telefonino è un falso bisogno creato apposta dalla pubblicità
3. Liberarsi dal telefonino
Il sistema genera dei bisogni che diventano delle dipendenze. Ciò che è artificiale diventa naturale. Come numero di oggetti della società dei consumi, il telefonino è un falso bisogno creato apposta dalla pubblicità. “Con la telefonia mobile, siete mobilitabili in un istante”. Assieme al telefonino butteremo via i forni a micro-onde, le falciatrici a motore, e tutti gli oggetti inutili della società dei consumi.
Noi preferiamo al telefonino la posta, la parola, ma soprattutto cercheremo di vivere per noi stessi invece di cercare di riempire il vuoto esistenziale con degli oggetti.

giovedì 24 gennaio 2013

Ancora tensioni e potreste alla Foxconn, migliaia in sciopero a Pechino

Fonte: rassegna   
Un migliaio di operai della Foxconn , gruppo taiwanese che assembla tra l'altro iPad e iPhone, ha incrociato le braccia in una fabbrica alla periferia di Pechino contro la mancata distribuzione delle tredicesime alla vigila delle festività per il nuovo anno cinese. Secondo il sito web della Radio Nazionale Cinese, lo sciopero è iniziato lo scorso 22 gennaio, giorno in cui i lavoratori riuniti nella mensa e poi si sono rifiutati di tornare alla catena di montaggio, chiedendo un incontro con la direzione.

La protesta si è protratta fino a tarda notte e alcune foto sono state poi diffuse su Weibo e altre piattaforme di social media. Secondo l'emittente di Honk Kong Phoenix Tv, un gran numero di agenti di polizia è stato inviato per sorvegliare la situazione e prevenire che la protesta si allargasse. Non è chiaro se ci sia stato un accordo tra direzione e lavoratori.

La Foxconn è una delle principali produttrici mondiali di componenti per i computer. La fabbrica di Pechino produce soprattutto per la Nokia e ha quasi diecimila dipendenti. In tutta la Cina la Foxconn ha decine di fabbriche che impiegano centinaia di migliaia di operai . In genere si tratta di giovani immigrati dalle regioni più povere della Cina che hanno turni di 12-13 ore e vivono nei complessi residenziali costruiti dalla stessa impresa a ridosso delle sue fabbriche.

Il guadagno medio si aggira intorno ai 200-250 euro al mese. Nel 2010 e 2011 la multinazionale è diventata nota in tutto il mondo dopo un'ondata di suicidi tra i suoi dipendenti in una fabbrica nel sud della Cina che sono stati attribuiti alle difficili condizioni di vita e di lavoro nelle sue fabbriche.

C’E’ CHI SALVA LE BANCHE E CHI DIFENDE I CITTADINI

24 gennaio 2013- Fonte        

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Quando i nodi vengono al pettine diventa difficile nascondere le responsabilità che ciascuno ha avuto in una specifica vicenda. Sicuramente torbida è la vicenda che vede come protagonista “Monte dei Paschi di Siena”, la banca “amica” del Pd aiutata dal Governo Monti con un regalo di ben 4 miliardi di euro. Tutto ovviamente, con sostegno bipartisan. Tutto, ancora una volta,
alle spalle dei cittadini italiani che, come sempre, ci rimettono di tasca propria. Infatti quei 4 miliardi di euro sono stati presi direttamente dai proventi derivanti dall’Imu, l’odiata e salatissima tassa sulla casa (assolutamente non progressiva e che tutela i ricchi). Queste le parole di Antonio Ingroia in proposito: “Se ci fossi stato io certamente non avrei dato soldi alle banche, bisogna salvaguardare gli italiani”. Ha poi aggiunto: “Mi preoccupo certo dei lavoratori, ma mi preoccupo
anche di tutti quelli che a causa delle banche non ce la fanno, mi riferisco alle piccole e medie imprese, quante ne sono fallite?”. A proposito di voto utile, c’è anche da dire che “Rivoluzione Civile” è favorevole a una tassa patrimoniale sui grandi patrimoni. Giudicate voi.

La speculazione sui titoli tossici? Sta continuando come prima. Ecco i dati

Autore: fabio sebastiani   - controlacrisi -
Warren Buffett gia' nel 2002, nella tradizionale lettera agli azionisti di Berkshire Hathaway, definiva i derivati "un'arma di distruzione di massa". Una sintesi davvero eccellente che mette a nudo da una parte la voracità della speculazione e, dall’altra, la natura intimamente distruttiva del capitalismo il quale, giunto a certi picchi di sviluppo, deve per forza di cose distruggere pezzi delle forze produttive per far ripartire il ciclo. Prima questa funzione era assolta dalle guerre mondiali. Un’arma di distruzione di massa perfettamente funzionale, quindi. Sembrerà strano ma di derivati “si continua a morire”.I dati piu' recenti sono quelli dell'Office of the Comptroller of the Currency, l'agenzia federale del governo Usa che regola e vigila su tutte le banche nazionali e le filiali di banche estere presenti negli Stati Uniti. Nel terzo trimestre 2012, scrive l'Occ, il totale dei contratti sui derivati stipulati dalle principali 25 societa' americane e' tornato ad aumentare dopo una serie di cali consecutivi, per un totale che supera i 227 mila miliardi di dollari.Una somma che e', tanto per dare un'idea, 15 volte il debito pubblico americano, oppure piu' di 3 volte il Pil complessivo di tutti i paesi del mondo. Una esposizione, peraltro assai limitata, visto che le 4 banche piu' grandi ne controllano il 96%: la sola JP Morgan Chase detiene derivati per 71mila miliardi, pari al Pil del mondo. A livello globale, poi, le stime del mercato dei derivati vanno dai 400 ai 500 mila miliardi di dollari. Facile intuire come il minimo 'inceppamento' in questo meccanismo finanziario possa avere conseguenze devastanti per l'economia di qualsiasi paese.
Alla indecente abbuffata non è estraneo il nostro paese. Appena due giorni fa Borsa Italiana ha battezzato Agrex, un nuovo segmento di derivati destinato ai futures sul grano duro e che punta a 'coprire' gli operatori da variazioni indesiderate
Tecnicamente parlando, come spiegano i manuali di economia, i derivati sono strumenti finanziari contraddistinti da: 1) un valore che varia al variare di un'attivita' sottostante con un legame tra i due prezzi fissato da complessi (e discussi) algoritmi matematici; 2) una necessita' di capitale iniziale nullo o molto piccolo; 3) una regolazione in una data futura. Tutte caratteristiche che possono consentire la generazione di enormi profitti o gravissime perdite, a seconda dell'evoluzione del mercato: piu' o meno quanto avviene con una classica scommessa (la definizione piu' gentile utilizzata dai critici di questi strumenti). Solo che qui la posta in gioco e' enorme, e per certi versi incalcolabile. Ovviamente, questo giochino ha due effetti devastanti: il primo, diretto, sul settore economico legato ai prezzi in gioco, come il caso delle materie prime, perché ad un certo punto l’entità degli interessi coinvolti assume un peso rilevante sulle quotazioni. Basta guardare al ruolo dei futures nella determinazione del prezzo del petrolio. Secondo, quando i derivati diventano tossici i bilanci delle aziende e degli istituti di credito ne risentono in maniera spropositata rispetto ai loro asset e quasi sempre si apre la strada del fallimento. Terzo, quando questo fenomeno arriva in modo massiccio al sistema bancario di fatto blocca il flusso del credito.
Per ora Stati Uniti ed Europa sono riusciti a definire nuove normative anti-crisi per regolamentare in particolare i mercati dei derivati over-the-counter. La nuova disciplina europea prevede che i derivati Otc vengano obbligatoriamente scambiati attraverso le cosiddette "casse di compensazione", con una controparte centrale (Ccp) tra venditore e acquirente che si assume il rischio di insolvenza di una delle controparti e in questo modo ne riduca il potenziale 'effetto domino'.
Ma sono regole che hanno costi pesanti per il sistema finanziario globale (fino a 6,7 miliardi di dollari) e che non piacciono alle multinazionali (tra cui Shell, Bp, Edf, Eon, Gazprom), che denunciano i rischi di aumento dell'inefficienza e quindi dei costi complessivi. I derivati, d'altronde, hanno sempre avuto grandi estimatori (nel 2005 nell'audizione al Congresso Usa per la sua nominaalla Fed lo stesso Bernanke si disse assolutamente "fiducioso" sulla tenuta di questo mercato) e molte amministrazioni pubbliche - anche nel nostro Paese - sono ricorse tranquillamente ai derivati per finanziarsi senza dover sottostare all'obbligo del pareggio di bilancio.
Una prassi che ha condotto - ancora una volta - a forti perdite ma, nel caso di Milano, anche alla condanna di quattro banche internazionali per truffa aggravata. Anche perche' - come ha spiegato il procuratore Alfredo Robledo i contratti con le amministrazioni pubbliche sono viziati da "un'asimmetria informativa, aggravata dal fatto che praticamente nessun Comune e' stato assistito da esperti indipendenti di matematica finanziaria".

Noi li espelliamo loro li picchiano

Fonte: il manifesto | Autore: Luca Fazio  
RESPINGIMENTI. Human Rights Watch denuncia lo scandalo dei migranti minorenni arrivati nei nostri porti e ricacciati in Grecia, dove sono maltrattati

MILANO. Se qualche anima bella non ha il coraggio di guardare la scena dei cani che sbranano uno schiavo «negro» nell'ultimo film di Tarantino ambientato nell'America razzista di 160 anni fa, può consolarsi immaginando la scena raccontata da un ragazzino afghano scoperto in un camion nel porto di Patrasso (Grecia, settembre 2011). Si chiama Assad H. Non è un film. «Uno mi ha storto la mano dietro la schiena e l'altro ha lasciato la catena con cui teneva il cane e ha detto qualcosa al cane, che mi ha attaccato. Mentre l'altro ufficiale mi teneva. Ho pianto, i commandos mi hanno portato dietro i binari in modo che nessuno potesse vedermi, e mi hanno lasciato lì».
Anche Sadaat S, afghano, 16 anni, diverse volte ha provato a saltare su un camion per raggiungere l'Italia via mare. E ci riproverà ancora. «Molte volte cerco di andarmene, ma loro mi catturano. Mi hanno fatto male. Mi hanno messo in prigione. Cerco di salire dentro un camion. Non ho soldi per un trafficante. Alcuni dei miei amici hanno fatto la traversata... in un camion frigorifero con cibo e carne. Sono morti». Ahmed S., anche lui minorenne, lo scorso maggio era anche riuscito ad arrivare in Italia, ma lo hanno rispedito indietro. Sempre Patrasso. «Quando ci prendono vogliono la nostra Sim e allora me la sono nascosta bene in tasca. Così mi hanno fatto male, in tutti i modi, calci, pugni, su tutto il corpo. Questo è successo il giorno dopo il mio ritorno dall'Italia. Ero andato al porto per provarci di nuovo... Ora non ho i documenti con me. Ho paura della polizia, perché mi farà del male. Ci catturano all'interno del porto e se non c'è nessuno lì, ci fanno del male, del male sul serio».
Ogni anno migliaia di persone cercano di raggiungere l'Italia nascondendosi sulle navi che attraversano l'Adriatico, un numero superiore ai migranti che sbarcano o muoiono nel mare di Lampedusa. Sono di più, ma fanno meno notizia, e probabilmente molti ce la fanno. Tra i protagonisti di queste storie di ordinaria immigrazione ci sono anche bambini e adolescenti che scappano dalle guerre. Poi ci sono «i cattivi», le autorità greche: la Grecia, come ha certificato anche la Corte europea dei diritti dell'uomo, ha un sistema di asilo che non funziona caratterizzato da condizioni inumane e degradanti di detenzione, con una lunga teoria di violenze xenofobe già documentate. Infine, ci sono i «complici», cioé noi, le autorità italiane, che in violazione di tutte le leggi del diritto internazionale rispediscono in Grecia quasi tutti i richiedenti asilo che sbarcano sulle nostre coste. Bambini soli compresi. Senza controlli e senza tanti complimenti, anche se le leggi italiane proibiscono l'allontanamento immediato e senza riscontri di bambini migranti.
Non era ragionevole immaginarsi procedure diverse, ma adesso questa violazione di un diritto umano è documentata da un rapporto presentato da Human Rights Watch intitolato Restituiti al mittente: le riconsegne sommarie dall'Italia alla Grecia dei minori stranieri non accompagnati e degli adulti richiedenti asilo. L'associazione ne ha incontrari tredici. Si comporta così la polizia di frontiera dei porti di Ancona, Bari, Brindisi e Venezia, facendo finta di ignorare le condizioni spaventose che i migranti incontreranno in Grecia. L'associazione ha intervistato 29 persone, tra bambini e adulti, 20 dei quali «rispediti al mittente» nel 2012, durante il governo di Mario Monti, quello che aveva restituito la credibilità internazionale all'Italia.
Dopo aver rischiato la morte per soffocamento, o lesioni permanenti, nascondendosi nei camion o nelle intercapedini tra una merce e l'altra, i migranti «rispediti» solitamente vengono affidati ai comandanti dei traghetti commerciali e trascorrono altre ore di navigazione rinchiusi in celle improvvisate o nelle sale macchine, a volte ammanettati, nutriti alla meno peggio. Per legge, invece, il governo italiano dovrebbe disporre accertamenti per tutti coloro che affermano di essere minorenni, ma solo uno dei ragazzi intercettati da Human Right Watch ha detto di essere stato sottoposto a un controllo. Una radiografia al polso. «La maggior parte di quelli che abbiamo incontrato - spiega Alice Farmer - sono ragazzi afghani in fuga dai pericoli, dal conflitto e dalla povertà. L'Italia deve comportarsi responsabilmente verso questi bambini e garantirgli tutele adeguate a cui hanno diritto». Quasi inutile aggiungere, invece, che il diritto di asilo viene palesemente calpestato, per tutti, adulti compresi: nei porti le domande di asilo sostanzialmente non vengono prese in considerazione. La polizia di frontiera di Bari, per esempio, su 900 stranieri scoperti tra il gennaio 2011 e il giugno 2012 (più di 50 al mese) ha concesso solo 12 permessi. Quasi nessuno può testimoniare cosa avviene quando si scatena la caccia all'uomo nei porti italiani. Le ong sotto contratto per offrire servizi ai migranti scoperti di solito non possono nemmeno avvicinarsi. Significa che quasi nessuno viene informato sul suo diritto di presentare domanda di asilo. Non ci sono interpreti e molti sono costretti ad esprimersi a gesti davanti ai poliziotti.
Secondo Human Right Watch, la Corte europea dei diritti umani presto dovrebbe emettere una sentenza di condanna contro l'Italia proprio per i respingimenti verso la Grecia. Si tratta di un caso specifico che risale al 2009, quando Maroni era ministro degli Interni. Trentacinque persone, tra cui dieci bambini, sostengono che quel procedimento di espulsione fosse in violazione del loro diritto alla vita e alla protezione contro la tortura e i maltrattamenti. Ieri proprio il commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, ha ammonito l'Italia a non respingere i migranti in Grecia. «La Corte di Strasburgo - ha aggiunto - nel 2011 ha già condannato uno stato, il Belgio, per il rinvio automatico di un migrante che chiedeva asilo in Grecia, dato che il sistema di asilo di questo paese è fortemente deficitario. L'Italia deve fare la sua parte per assicurare che le richieste di asilo fatte dai migranti siano attentamente esaminate», perché «i respingimenti automatici sono incompatibili con la protezione dei diritti umani»

Razzismo, la Grecia è in crisi anche di diritti

Fonte: il manifesto 
ATENE Dal muro di Evros all'operazione «Xenios Zeus», violenze all'ordine del giorno
Nel gennaio del 2011 una sentenza della Corte di Strasburgo diede un quadro chiaro sulle politiche dell'immigrazione della Grecia dichiarando che la Repubblica ellenica viola l'articolo 3 della Convenzione europea sui diritti dell'Uomo infliggendo ai migranti e ai richiedenti asilo trattamenti inumani e degradanti.
Evros o l'accesso dalle isole dell'Egeo, Atene e poi Patrasso, fino ai porti italiani dell'Adriatico per poi essere respinti indietro, il Mediterraneo è diventato un trappola per migranti e la Grecia, tra centri di detenzione e squadracce razziste animate dai militanti xenofobi di Alba dorata, spesso è la gabbia definitiva.
La prima tappa, per molti già la fine di ogni speranza, per anni è stata lungo il fiume Evros che separa la Grecia dalla Turchia nel nord del Paese. Ora, da quando il muro di 6.000 metri cubi di cemento, 800 tonnellate di acciaio, 370 chilometri di filo spinato (costato ben 3,2 milioni di euro) divide la frontiera, l'afflusso di migranti (provenienti soprattutto dal Maghreb, dall'Iraq, Afghanistan, Iran, Pakistan e dalla Siria) si è spostato attraverso le isole dell'Egeo orientale dai confini più labili. Oggi Pashalis Syritoudis, il capo della polizia di Orestiadas (città al confine nord-est della Grecia) può annunciare con soddisfazione che l'arrivo di migranti irregolari al confine terrestre con la Turchia si è praticamente arrestato.
Il viaggio per mare o per terra è solo una parte dell'incubo, perché una volta messo piede sul suolo ellenico può accadere di essere arrestati e rinchiusi in centri di detenzione disumani, in celle minuscole dove mancano acqua calda ed elettricità. Dove violenze e soprusi della polizia costituiscono la realtà quotidiana. Difficile da lì contattare organizzazioni e avvocati, l'accesso alle procedure per la richiesta di asilo è di fatto negato. L'operazione di «pulizia» Xenios Zeus (beffardamente intitolata al dio greco dell'ospitalità), avviata a fine agosto, sta dando i suoi terribili frutti. E poco importa, denunciano Amnesty International, Human Rights Watch, l'Unhcr e Medici senza Frontiere, che le autorità elleniche violino il diritto internazionale arrestando anche soggetti appartenenti a categorie tutelate come i richiedenti asilo e i minori accompagnati. O che la polizia sbagli obiettivo picchiando selvaggiamente dei turisti scambiandoli per immigrati. È accaduto all'inizio di gennaio, lo ha denunciato la Bbc, e solo in quel caso sono arrivate delle scuse.
L'allarme razzismo nel Paese è altissimo, episodi di xenofobia sono all'ordine del giorno, in alcuni casi sono stati coinvolti deputati del partito dell'estrema destra Alba dorata, ma per l'Europa - che con imbarazzo bollò la costruzione del muro come «questione interna» - è prevalentemente un problema di flussi. È di pochi giorni fa l'appello lanciato dal presidente dell'assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa, Jean-Claude Mignon: l'Europa deve aiutare la Grecia a gestire il flusso di immigrati che continuano ad arrivare sul suo territorio - ha detto - «il continuo flusso di immigrati pone un serio problema ad Atene che si ritrova contemporaneamente a dover affrontare una crisi economica senza precedenti». Tutto qui.

Il baratro dell’economia liquida

Intervista a Christian Marazzi - uninomade - sinistrainrete -

Iniziamo dagli Stati Uniti. Tra la fine del 2012 e l’inizio del 2013, le cronache sono state dominate dal terrore del fiscal cliff e poi dall’accordo in extremis raggiunto da democratici e repubblicani, ancora una volta spaccati. Il debito pubblico americano è però sempre più grande e il baratro della recessione resta all’ordine del giorno. Cosa ci dice questa situazione sul prossimo futuro degli Stati Uniti e sull’amministrazione Obama, e quali conseguenze ha dal punto di vista globale?
Io sono abbastanza d’accordo con Nouriel Roubini che recentemente ha scritto un articolo sul Financial Times in cui sostiene che quella di Obama è una vittoria di Pirro. Ha certamente evitato il famoso baratro nell’immediato, fate conto che se non avessero trovato un accordo l’aumento delle tasse e il taglio automatico della spesa pubblica avrebbero avuto un impatto pari al 5% del Pil. Con questo accordo, la riduzione è stata attorno all’1,4 o 1,2%, effettivamente il rischio più immediato è stato evitato. Però quello che sosteneva Roubini, come sostengono tutti, è che questa cosa rimanda il baratro; oltretutto tra due mesi bisognerà trovare un accordo sull’aumento del tetto fiscale, il fiscal ceiling, per poter continuare a finanziare la spesa sociale e i tagli che comunque i repubblicani questa volta vogliono assolutamente strappare, pari a 110 miliardi di dollari.
É un serio problema che non sembra risolvibile e che ci porta a fare delle considerazioni più generali. Innanzitutto si conferma ciò che sosteniamo da tempo: nel capitalismo finanziario c’è poco spazio per le manovre che non siano di tipo finanziario e che siano invece di tipo keynesiano classico.
Il keynesismo finanziario è il modo nel quale si cerca di governare un capitalismo che non sembra politicamente governabile. Da una parte contiene delle grosse contraddizioni: si tenga conto che entro la fine dello scorso anno praticamente tutte le grandi banche centrali del mondo – la FED, la Banca d’Inghilterra, la Banca del Giappone e anche la BCE – hanno deciso di iniettare liquidità a più non posso. É impressionante la quantità di liquidità che queste banche stanno iniettando e continuano a iniettare per contenere o gestire queste contraddizioni, che sono quelle di un capitalismo nel quale la creazione di liquidità di moneta resta all’interno del circuito finanziario e non ricade sull’economia cosiddetta reale, non genera quella domanda necessaria per contenere la recessione che è comunque strisciante o reale come in Europa. Negli Stati Uniti non c’è recessione ma il tasso di crescita è tutto sommato contenuto per quanto riguarda, per esempio, la creazione di posti di lavoro. Abbiamo visto che sono stati creati in dicembre 155.000 posti di lavoro, però in realtà, secondo i calcoli degli analisti, ce ne vorrebbero il doppio mensilmente per poter ridurre il tasso di disoccupazione in modo significativo, forse anche di un punto e mezzo percentuale.
Quindi,questo è un capitalismo finanziario che cerca di risolvere finanziariamente le contraddizioni, che sono esattamente le contraddizioni generate dallo stesso capitalismo finanziario. La possiamo chiamare un’economia liquida, riprendendo l’espressione di Zygmunt Bauman, un’economia cioè dove si cerca non dico di uscire dalla recessione o da questa stagnazione, ma perlomeno di contenere quelle che sono le piaghe della povertà e della disoccupazione.

Potremmo dire che cercano di navigare a vista dentro la recessione, insomma…

Si naviga dentro la recessione e senza sapere dove si sta andando, perché questo è il vero problema. Cosa può succedere con questa andazzo, quali sono gli scenari? Vi è per prima cosa una grossa bolla che sta prendendo forma, nel senso che è una bolla non solo dei titoli obbligazionari, ma anche dei titoli azionari. Abbiamo visto una forte ripresa delle borse, ma basterà questo a ristabilire tassi di margine di profitto tali da rilanciare degli investimenti? A me per il momento non sembra, mi sembra solo che si stia assistendo ad un’inflazione di tipo borsistico-finanziario e quindi a delle bolle che sono il modo nel quale nel capitalismo finanziario si realizzano i profitti. Però, ripeto, sono dei profitti che non si traducono in termini di crescita, innovazione, creazione di posti di lavoro. Il problema è che qui la liquidità non si trasforma in capitale, resta rendita, con tutte le conseguenze del caso: per esempio, il capitalismo finanziario è fortemente impregnato di corruzione, proprio perché i rapporti sono quelli della rendita e non sono i rapporti tra capitale e lavoro. Quindi, come abbiamo già detto, la corruzione è consustanziale e strutturale, perciò la governance è impossibile secondo i canoni classici del capitalismo.

Israeli Election: Time to bin Left and Right Terminologies

Wednesday, January 23, 2013

Gilad Atzmon

By Gilad Atzmon
Most commentators on Israeli politics fail to see that notions of Left and Right are pretty much irrelevant to the understanding of Israeli politics. Israel defines itself as the Jewish State and, as the years pass, Israel does indeed become more and more Jewish. Naftali Bennett, who, for a while, appeared to be the rising star of the current election, realised this all too well. He re-invented Jewish Home, a political party that celebrates the Israeli aspiration to fulfill his or her true Jewish destiny – He promised his followers that they can live as chosen’s in their Jew-only state, regardless of ethical or moral concerns.
But then most, if not all, Jewish participants in the Israeli political game are committed to the β€˜Jewish State’ dream. Of course they differ on some minor practical and pragmatic issues, but on the basics, they clearly agree. Here is an old Israeli joke: β€˜an Israeli settler suggests to his lefty friend β€œNext summer we should put all Arabs on buses and get them out of our land”. Lefty: β€œOkay, but make sure the buses are air-conditioned.”

In Israel there are no hawks or doves. Instead, all we have is a mild debate between a few interpretations of Jewish tribalism, nationalism and supremacy. Some Jews want to be surrounded by towering ghetto walls – they like it, it’s cosy, it feels safe – others prefer to rely on the IDF power of deterrence. Some would support the excessive use White Phosphorous, others would like to see Iran wiped.

The assumption that there is political division in Israel is just a myth that the goyim are happy to buy into because it gives the impression of the possibility of political change and even spiritual transformation. But the grave truth is that, when it comes to the real fundamentals, Israelis are pretty much united: Labour leader Shelly Yachimovich and war criminal Tzipi Livni were both among those who rushed to support Netanyahu’s Operation Pillar of Cloud. Yair Lapid, the leader of the second biggest Israeli party, also identified as a centrist left, wouldn’t refuse a ministerial job by Benjamin Netanyahu. Meretz which, though a Zionist party, is the only Jewish party in Israel that has even a trace of ethical, universal thinking and values of equality, still comprises a mere 6 Knesset members out of 110 Jewish MKs.

So If we want to grasp Israeli politics, we need to bin our 19th century archaic terminologies of Left and Right and start to dig into the real culture and ideology that drives the Jewish State. Israel, with not a single Jewish party that encompasses empathy towards Palestinians in its political agenda, defies the very notion of universal equality. It is concerned solely with the interests of the chosen people and the results of the Israeli election confirms this. All we see is a vacuous competition between different Judeo-centric narratives.

The Wandering Who? A Study Of Jewish Identity Politics, the lobby, the power and Jewish 'progressive' spin in particular

mercoledì 23 gennaio 2013

Le buone ragioni di rivoluzione civile

Alberto Burgio - sinistrainrete -


Se c'è un elemento caratteristico dell'attuale fase politica, questo è la potenza determinante del sistema mediatico. L'Italia, l'Europa, tutto il mondo capitalistico sono nella morsa di una crisi che sta scomponendo le società. Da una parte, la povertà vera. Strutturale, dilagante, senza prospettive di riscatto. Dall'altra, la concentrazione in poche mani di ricchezze immense, intraducibili in misure concrete. In mezzo, aree sociali precarizzate, che vedono messi a rischio i fondamenti stessi della propria condizione di vita: il reddito, l'occupazione, i diritti essenziali.

Ma se il quadro è di per sé limpido nella sua violenza, l'opinione pubblica non riesce a farsene un'immagine chiara, e non sa intravedere vie d'uscita. Oscilla tra angosce apocalittiche e attese fideistiche di uomini provvidenziali (si pensi alla santificazione di Monti al momento della sua incoronazione), appesa alla girandola di numeri che le viene quotidianamente propinata. Lo spread, gli indici di Borsa, i tassi di cambio, numeri magici della cabala postmoderna. Quando diciamo che il 99% è contro uno stato di cose voluto dall'1%, ci raccontiamo una favola. Bella, ma, come ogni favola, ingannevole. Di certo la stragrande maggioranza è scontenta e spaventata, ma è anche confusa e disorientata. E non sa a che santo votarsi.

La cifra del nostro tempo è questa: la cattura cognitiva dei corpi sociali, imprigionati in una gabbia - davvero un pensiero unico - che ne deforma la visuale, impedendo loro di vedere la situazione in cui si trovano. Non c'è discorso più pertinente di quello che fa Gramsci, nei primi anni Trenta, a proposito dell'«egemonia» come potente strumento di direzione politica. Nella consapevolezza - tratta appunto dalla gestione totalitaria dei mezzi d'informazione - che la produzione di un'immagine univoca della realtà e il convergente occultamento di aspetti rilevanti sono strumenti-chiave dell'organizzazione del consenso «spontaneo» e del controllo autoritario della società.

Ora chiediamoci: tale stato di cose incide nella situazione politica italiana di questi giorni? Influisce sulla campagna elettorale in vista del voto politico del 24 febbraio? Incide eccome. A tal punto che soltanto muovendo da questa premessa sembra possibile capire la posta in gioco nelle elezioni.

Proviamo a dirla così, con una semplificazione che aiuta a cogliere il punto: sotto gli occhi degli italiani viene quotidianamente squadernato un ricco catalogo di banalità utili ad accreditare l'idea che le maggiori coalizioni politiche (i tre poli, di centrosinistra, centro e centrodestra) divergano tra loro in modo significativo.

L'attenzione pubblica è deviata con cura verso questioni di dettaglio (dalle regole delle primarie all'interscambio trasformistico tra l'uno e l'altro polo), mentre si nasconde che in queste elezioni è in gioco la vita stessa - l'occupazione, il reddito, la salute, l'istruzione - di decine di milioni di cittadini. Agli italiani è così impedito di vedere l'essenziale: il fatto che tutte le maggiori forze politiche concordano sulla lettura della crisi e sulle ricette per affrontarla. E che per questa ragione esse hanno convintamente sostenuto Monti per oltre un anno, rivendicando come necessarie misure che hanno esasperato le ingiustizie (tagliando pensioni, salari e servizi), colpito diritti (l'articolo 18), depresso l'economia e aggravato la situazione debitoria del paese, senza scalfire di un millimetro rendite e grandi patrimoni (anzi, procurando loro ulteriori benefici).

Non è forse così? Del centrodestra e del Terzo polo lo sappiamo sin troppo bene. Con una mano demagogicamente deprecano le conseguenze della crisi (è necessario lisciare il pelo all'elettorato), con l'altra arraffano i dividendi delle politiche di «austerità»: l'anarchia del mercato, lo strapotere dell'impresa, la libertà di evadere o eludere il fisco, la privatizzazione delle risorse e delle istituzioni - non ultime le scuole, tanto care al Vaticano, che in queste elezioni gioca un ruolo determinante a sostegno di Monti e del fido Casini. E il centrosinistra? Diciamo le cose come stanno: non è lo stesso Bersani a ripetere, un giorno sì e l'altro pure, che austerità e rigore non si toccano, salvo farfugliare che cercherà di ridurre il tasso di iniquità delle decisioni di Monti (sino a ieri in predicato di atterrare sul Colle col suo beneplacito)? Il Pd non considera forse irrinunciabili le norme - dal pareggio di bilancio al fiscal compact - che daranno al prossimo governo, chiunque lo dirigerà, un alibi di ferro per perseverare nella macelleria sociale? Il segretario democratico non vede nel «libero mercato» la panacea per la fantomatica crescita? Non proclama che l'articolo 18 va bene così come l'ha conciato la professoressa Fornero? E non definisce con orgoglio il proprio partito come il più europeista, il che non significa soltanto Maastricht e Lisbona, ma anche Merkel, Barroso e la dittatura del debito? Quanto a Sel, la firma in calce alla carta d'intenti ha messo in mora ogni buon proposito e riduce le parole del suo leader a un fiato di voce. Sel si è impegnata a seguire le decisioni del Pd e i suoi dirigenti sanno che al dunque dovranno attenervisi. Per disciplina e «senso di responsabilità».

Bilancio di fine anno: verso lo stato di crisi permanente

di Andrea Fumagalli - sinistrainrete -

Il 2012 si chiude per l’Italia con un bilancio economico disastroso. Come ampiamente prevedibile, le politiche di austerity si sono rilevate un’autentica “macelleria sociale”. Per quanto possa valere come indicatore, il Pil si contrarrà a fine anno di oltre il 2,5%. Ciò significa che per raggiungere i livelli di ricchezza pre-crisi, ovvero della metà 2007, bisognerà attendere come minimo una decina d’anni a patto che l’economia cresca ad un saggio dell’1,5% annuo (fatto assai improbabile, visto che le previsioni per il 2013 vedono ancora un segno negativo). A fronte di un tasso d’inflazione medio del 3% annuo (con punte del 4,3% per quanto riguarda i beni di prima necessità), le retribuzioni sono mediamente aumentate di solo la metà, con un ulteriore perdita del potere d’acquisto dei redditi da lavoro. Il tasso di disoccupazione “ufficiale” ha superato l’11%; quello reale (tenendo conto anche dei cd. lavoratori scoraggiati, dei cassa integrati e dei sottoccupati involontari) supera il 20% e va aumentando[1]. Il numero dei precari – secondo gli ultimi dati della CGIA di Mestre[2]– è arrivato ad oltre 3,5 milioni, nonostante che sia stato il non rinnovo dei contratti precari ad alimentare prevalentemente la disoccupazione (in particolar modo, quella giovanile). Nel frattempo, è stata varata la riforma Fornero del mercato del lavoro, che allenta le garanzie dell’art. 18 (garanzie comunque già del tutto insufficienti e facilmente eludibili) e istituzionalizza la precarietà come rapporto tipico di lavoro grazie alla liberalizzazione dei contratti a termine. A partire dal 1 gennaio diventa poi operativo l’allungamento dell’età pensionabile, con effetti deleteri sul turn-over generazionale in un contesto che vede il tasso di disoccupazione giovanile superare il 37% con punte del 50% nel Mezzogiorno. Persino gli arrivi dei migranti si sono ridotti per le minor opportunità di lavoro, anche se in nero e con paghe da fame.
Non può stupire, data questa situazione, che il consumo si sia ridotto ai minimi termini con un calo di quasi il 3% (peggior dato dal dopoguerra) e la propensione al risparmio si è ulteriormente ridotta con effetti negativi sul livello della domanda interna.
Cinque leggi finanziarie negli ultimi 16 mesi – per una manovra complessiva di 100 miliardi di euro nel nome della “necessaria austerity”– hanno prodotto un calo della domanda interna senza precedenti. Il potere d’acquisto delle famiglie (dati Istat novembre 2012) è calato del 5,2%. L’export si è ridotto di quasi il 7% (sempre dati Istat, fine ottobre 2012) a causa della recessione europea. Nonostante l’introduzione di nuove tasse (Imu e aumento Iva), le entrate fiscali, pur in aumento, non sono state in grado di compensare la caduta del Pil e l’aumento della spesa per interessi. Pur in presenza di un avanzo primario, il rapporto deficit/Pil non calerà sotto il 3% (stime Ocse di fine novembre 2012) e il rapporto debito/Pil ha superato la soglia del 125%, la più alta dall’inizio della crisi. Inoltre tale incremento della pressione fiscale ha avuto effetti regressivi, colpendo ulteriormente le fasce della popolazione con reddito minore e maggiore propensione al consumo. Nonostante che nell’ultimo mese, come effetto della discesa in campo di Monti, dell’accordo del Congresso Usa sul “Fiscal Cliff” e dell’aumento dei tassi tedeschi, lo spread sia ritornato sotto i 300 punti e le borse abbiamo ripreso un minimo di fiato, i tassi d’interesse rimangono eccessivamente elevati (mediamente oltre il 6%), soprattutto se si considera che il tasso europeo di rifinanziamento (il cd. tasso refi) della BCE si attesta allo 0,75% e il tasso Euribor è intorno allo 0,54%. Il fatto che i tassi d’interessi sui debiti e sui crediti (finanziamenti al consumo, alle imprese, mutui, titoli) siano circa tra 8 e 10 volte superiori ci dice che la BCE non è più in grado di controllare gli stessi tassi d’interesse, evidenziando in tal modo la sua totale subordinazione alle logiche dominanti nei mercati finanziari (altro che autonomia e indipendenza delle Banche Centrali!).

Chi paga la crisi e chi ci guadagna

Fonte: www.economiaepolitca.it | Autore: Luigi Pandolfi
       
La campagna elettorale sta entrando nel vivo, ma, com’era facile prevedere, visti gli attori in campo, i temi veri, quelli che afferiscono al futuro del paese ed alla sua capacità di vincere le sfide che ha davanti, rimangono inspiegabilmente sullo sfondo.

E tra i temi veri, vale la pena ricordarlo, c’è quello che riguarda i nostri impegni con l’Unione europea e le sue strutture tecnico-finanziarie. Insieme a quello, correlato, della compatibilità del nostro diritto al futuro con le scelte finora compiute sul terreno della costruzione dell’Europa monetaria.

Nel luglio del 2012 il nostro Parlamento ha ratificato, in un clima che potremmo definire inerziale, due importanti trattati, quello sul Fiscal compact e quello sul Meccanismo Europeo di Stabilità (MES).

Il primo impegna il nostro paese a ridurre il debito pubblico nei prossimi venti anni, fino a portarlo entro la soglia stabilita dal Trattato di Maastricht (60% del PIL). Considerato che il debito italiano ammonta ormai a circa 2000 miliardi di Euro, che in rapporto al prodotto interno fa il 127%, per raggiungere l’obiettivo del trattato bisognerà rastrellare circa 900 miliardi di Euro in venti anni, 50 ogni anno, 150 milioni ogni giorno.

Il secondo è riferito invece all’istituzione del cosiddetto “Fondo salva stati”, un plafone di 650 miliardi di Euro che l’Europa metterebbe a disposizione, previa accettazione di vincoli draconiani dal lato della riduzione della spesa, dei paesi a rischio bancarotta. Chi alimenterà questo portafoglio? Gli stati membri, in rapporto alla loro ricchezza (PIL). L’Italia ha dovuto sottoscrivere quote per il 18% dell’intero capitale, per un importo di circa 125 miliardi di Euro, da versare in 5 anni.

La prima domanda che sorge snocciolando queste cifre è questa: dove prenderà i soldi il nostro paese per onorare questi impegni? Stiamo parlando infatti di cifre vertiginose, tanto grandi da apparire immediatamente incompatibili con le disponibilità finanziare dello Stato, specie in questa fase etichettata con la parola “crisi”.

Evidentemente,come il governo dei professori ci ha anticipato, una parte dei quattrini necessari per “stare in Europa” dovrà venire da una contrazione significativa della spesa e da un inasprimento generalizzato della pressione fiscale, diretta ed indiretta. Ergo, meno servizi e tutele per i cittadini, meno stato sociale, più tasse. Con tutte le conseguenze, in termini di recessione economica e di crescita della povertà, che una simile spirale porta inevitabilmente con sé.

Ma questo non sarà sufficiente, perché oltre una certa soglia, nei tagli al welfare, non si potrà andare, pena l’annientamento della nostra società. E questo il Meccanismo di stabilità l’ha previsto, stabilendo che i paesi membri, per finanziare il “Fondo salva stati” potranno fare nuovo debito pubblico.

Ricapitoliamo. La crisi in atto è sta battezzata come “crisi del debito”. Quotidianamente i mass media ci informano che la stabilità finanziaria dell’Europa passa attraverso il controllo e la riduzione dei debiti sovrani degli stati membri. E in questa direzione andrebbero sia l’obbligo del pareggio di bilancio, peraltro costituzionalizzato, sia le clausole del Fiscal compact appena richiamate. In Italia ciò sarebbe maggiormente rilevante a causa dell’enorme debito accumulato negli anni ed al suo peso in rapporto alla ricchezza nazionale (PIL). Tutto chiaro? Tutto lineare? Nemmeno per sogno.

Proprio il meccanismo principe della stabilità finanziaria europea, il MES, messo in piedi per non far fallire gli stati membri dell’Unione con più alto e tortuoso debito pubblico, prevede che quest’ultimo si può nondimeno aumentare per riempire le sue casse.

C’entra qualcosa tutto ciò col fatto che il debito pubblico italiano negli ultimi mesi ha subìto un’impennata turbinante, portandosi al di sopra dei 2000 miliardi di Euro? Certo che c’entra.

Come dimostrano le stime della Banca d’Italia, all’inizio del 2012 il debito pubblico italiano era poco sopra i 1.900 miliardi di Euro. Oggi siamo a circa 2020 miliardi di Euro. Nei 120 miliardi di differenza ci sono anche i versamenti che il paese ha fatto al “Fondo salva stati”. Una contraddizione gigantesca: si strangola l’economia con misure di austerità per uscire dalla “crisi del debito”, e, nello stesso tempo, quest’ultimo lievita a dismisura, anche per effetto delle stesse strategie volte a ridurne la consistenza. C’è una logica in tutto ciò? Apparentemente no. Se diamo però un’occhiata a quello che è accaduto in quest’ultimo anno sul versante della (cosiddetta) lotta alla speculazione qualche spiraglio di luce inizia ad aprirsi.

Nel mese di dicembre del 2011, quando i venti della speculazione soffiavano particolarmente forti, la Bce ha accordato a 523 banche private europee finanziamenti per circa 500 miliardi di Euro, ad un tasso fisso agevolato del 1%. Una cifra enorme, con la quale le banche hanno, prevalentemente, acquistato titoli di Stato, ad un rendimento fino al 5-6 %.

Se guardiamo al nostro paese, i dati della Banca d’Italia a tal riguardo parlano chiarissimo: a cavallo tra il 2011 e la fine di gennaio del 2012, quindi immediatamente dopo l’asta della Bce del 21 dicembre, le banche italiane hanno acquistato BTp e ed altri titoli affini per un importo di circa 30 miliardi di Euro, passando, in termini di portafoglio complessivo, da 209 miliardi a 237 in un solo mese.

Una cosa simile si è verificata anche qualche mese dopo, a seguito della seconda asta della Bce, nel mese di febbraio del 2012, con la quale sono stati assegnati ben 530 miliardi di Euro a 800 banche europee. E siamo a 1000 miliardi in tre mesi! Un importo pari alla metà del nostro gigantesco debito pubblico.

Capito? La giostra europea funziona più o meno così: lo Stato si svena verso l’Europa, tassando i propri cittadini, tagliando servizi, cancellando diritti, emettendo nuovi titoli del debito pubblico; l’Europa, a sua volta, prende questi soldi e li dà a banche private, che hanno perso liquidità per proprie imprese finanziarie fallimentari, quasi a gratis; le banche, prendono questi soldi, e cosa fanno? Aprono il portafoglio e finanziano le imprese? No, li prestano agli stati comprando il loro debito, ad un tasso di interesse 4-5 volte superiore a quello con cui li hanno ricevuti. I soldi, insomma, sono sempre gli stessi, ma in questo gioco incredibile c’è, ovviamente, chi vince e chi perde. I primi si chiamano banche e speculatori finanziari, i secondi cittadini d’Europa.

In questo quadro l’obiettivo della riduzione del debito, e quello del pareggio di bilancio, più che il fine costituiscono il mezzo attraverso il quale si finanzia la speculazione finanziaria. C’è “crisi” si dice, ma nella “crisi” qualcuno ci sta guadagnando. E questo qualcuno si chiama “banche”. Solo quelle italiane, nell’anno che è appena trascorso, avrebbero guadagnato, investendo i soldi ricevuti dalla Bce, più di 15 miliardi di Euro.

I conti tornano. E quelle cose che più indietro potevano apparire contraddittorie, in questa nuova ottica si ripresentano in tutta la loro coerenza. Intanto la politica italiana continua a trastullarsi nel suo teatrino. Tanto del nostro destino se ne occupano altrove.

La struttura segreta del Vaticano


Immobili a Londra con i soldi di Mussolini

Una società off-shore custodisce un patrimonio da circa 650 milioni di euro. Per conto della Santa Sede, che ha raggranellato prestigiosi locali ed edifici nella capitale britannica. Grazie ai soldi che Mussolini diede al papato con i Patti Lateranensi

 - larepubblica -
LONDRA - A chi appartiene il locale che ospita la gioielleria Bulgari a Bond street, più esclusiva via dello shopping nella capitale britannica? E di chi è l'edificio in cui ha sede la Altium Capital, una delle più ricche banche di investimenti di Londra, all'angolo super chic tra St. James Square e Pall Mall, la strada dei club per gentiluomini? La risposta alle due domande è la stessa: il proprietario è il Vaticano. Ma nessuno lo sa, perché i due investimenti fanno parte di un segretissimo impero immobiliare costruito nel corso del tempo dalla Santa Sede, attualmente nascosto dietro un'anonima società off-shore che rifiuta di identificare il vero possessore di un portfolio da 500 milioni di sterline, circa 650 milioni di euro. E come è nata questa attività commerciale dello Stato della Chiesa? Con i soldi che Benito Mussolini diede in contanti al papato, in cambio del riconoscimento del suo regime fascista, nel 1929, con i Patti Lateranensi.

A rivelare questo storia è il Guardian, con uno scoop che oggi occupa l'intera terza pagina. Il quotidiano londinese ha messo tre reporter sulle tracce di questo tesoro immobiliare del Vaticano ed è rimasto sorpreso, nel corso della sua inchiesta, dallo sforzo fatto dalla Santa Sede per mantenere l'assoluta segretezza sui suoi legami con la British Grolux Investment Ltd, la società formalmente titolare di tale cospicuo investimento internazionale. Due autorevoli banchieri inglesi, entrambi cattolici, John Varley e Robin
Herbert, hanno rifiutato di divulgare alcunché e di rispondere alle domande del giornale in merito al vero intestatario della società.

Ma il Guardian è riuscito a scoprirlo lo stesso attraverso ricerche negli archivi di Stato, da cui è emerso non solo il legame con il Vaticano ma anche una storia più torbida che affonda nel passato. Il controllo della società inglese è di un'altra società, chiamata Profima, con sede presso la banca JP Morgan a New York e formata in Svizzera. I documenti d'archivio rivelano che la Profima appartiene al Vaticano sin dalla seconda guerra mondiale, quando i servizi segreti britannici la accusarono di "attività contrarie agli interessi degli Alleati". In particolare le accuse erano rivolte al finanziere del papa, Bernardino Nogara, l'uomo che aveva preso il controllo di un capitale di 65 milioni di euro (al valore attuale) ottenuto dalla Santa Sede in contanti, da parte di Mussolini, come contraccambio per il riconoscimento dello stato fascista, fin dai primi anni Trenta. Il Guardian ha chiesto commenti sulle sue rivelazioni all'ufficio del Nunzio Apostolico a Londra, ma ha ottenuto soltanto un "no comment" da un portavoce.
(22 gennaio 2013)

martedì 22 gennaio 2013

Il Financial Times: “Monti inadatto a guidare l’Italia”

ft-montidi Keynes Blog / Financial Times.
- megachip -
Monti aveva sostenuto che la sua “salita” in campo serviva a togliere l’Italia dalle mani degli incapaci. Ma il Financial Times la pensa in modo diametralmente opposto. Secondo l’editorialista del Financial Times Wolfgang Munchau, il governo Monti è uno dei governi europei che ha sottovalutato il prevedibile impatto dell’austerità: se la crisi finanziaria sembra essersi affievolita, la crisi economica è in deciso peggioramento, l’economia italiana dopo un decennio di crescita quasi nulla indugia in una lunga e profonda recessione, con il credit crunch che peggiora, la disoccupazione che cresce, la produzione che cala, la fiducia delle imprese ai minimi.
In questa situazione, non diversamente dagli altri paesi periferici dell’eurozona, l’Italia si trova secondo Munchau davanti tre possibilità:
“La prima è quella di rimanere nell’euro e farsi carico da sola dell’intero aggiustamento. Con questo intendo sia l’aggiustamento economico, in termini di costi unitari del lavoro e inflazione, che l’aggiustamento fiscale. La seconda è quella di rimanere nella zona euro, a condizione di un aggiustamento condiviso tra paesi debitori e paesi creditori. La terza è quella di lasciare l’euro. I governi italiani uno dopo l’altro hanno praticato una quarta opzione – rimanere nell’euro, concentrarsi solo sul risanamento dei conti pubblici a breve termine e attendere.
La quarta opzione, la storia economica lo dimostra, alla lunga non conduce ad altro che a ritrovarsi di nuovo alle scelte evitate in passato.
Per Munchau la scelta migliore sarebbe la seconda, ma Mario Monti non ha opposto resistenza ad Angela Merkel. Ci sta provando Mariano Rajoy, il primo ministro spagnolo, che ha richiesto un aggiustamento simmetrico – ma è tardi, la Germania sta già pianificando il suo bilancio di austerità per il 2014 e tutte le decisioni politiche sono già prese: la seconda opzione non c’è più, sta svanendo lentamente.
Ed ecco le previsioni del Financial Times sulle elezioni italiane:
“Dove andrà l’Italia con le elezioni del mese prossimo? Da primo ministro, Mr Monti ha promesso riforme e ha finito per aumentare le tasse. Il suo governo ha cercato di introdurre riforme strutturali modeste, di scarso significato macroeconomio. Partito come leader di un governo tecnico, si è poi mostrato essere un duro operatore politico. La sua narrazione è che ha salvato l’Italia dal baratro, o piuttosto da Silvio Berlusconi, il suo predecessore. Il calo dei rendimenti dei titoli ha giocato un ruolo in questa narrativa, ma la maggior parte degli italiani sa che deve questo a un altro Mario – Draghi, il presidente della Banca Centrale Europea.
A sinistra, Pier Luigi Bersani, segretario generale del Partito Democratico, ha sostenuto l’austerità, ma di recente ha cercato di prendere le distanze da tali politiche. E’ stato anche esitante sulle riforme strutturali. I temi principali della sua campagna elettorale sono una tassa sul patrimonio [recentemente abbandonata, ndr] , la lotta contro l’evasione fiscale e il riciclaggio di denaro e i diritti dei gay. Lui dice che vuole che l’Italia rimanga nella zona euro. Vi è una minima probabilità che abbia più successo nel battersi con la Merkel perché è in una posizione migliore per collaborare con François Hollande, il presidente francese e collega socialista.
A destra, l’alleanza tra Berlusconi e la Lega Nord è indietro nei sondaggi ma sta facendo progressi. Fino ad ora, l’ex primo ministro ha fatto una buona campagna. Ha consegnato un messaggio anti-austerità che ha fatto vibrare le corde di un elettorato disilluso. Continua anche a criticare la Germania per la sua riluttanza ad accettare un eurobond e consentire alla BCE di acquistare incondizionatamente obbligazioni italiane.
Si potrebbe interpretare questo atteggiamento come l’opzione due: insistere su un aggiustamento simmetrico o uscire. Tuttavia, conosciamo Berlusconi fin troppo bene. E’ stato primo ministro abbastanza tempo per aver avuto la possibilità di fare simili proposte in precedenza. Per diventare credibile, dovrebbe presentare una strategia chiara che tracci le scelte in dettaglio. Sinora tutto quel che abbiamo sono solo slogan televisivi.
A giudicare dagli ultimi sondaggi, il risultato più probabile delle elezioni è la paralisi, forse sotto forma di una coalizione di centro-sinistra Bersani-Monti, possibilmente con una maggioranza di centro-destra nel senato, dove si applicano regole di voto diverse. Questo renderebbe tutti, più o meno, responsabili. Nessuno avrebbe il potere di attuare una politica. Ma ognuno avrebbe il diritto di porre il veto.
Se così fosse, l’Italia continuerebbe a tirare avanti, fingendo di aver scelto di rimanere nell’euro senza creare le condizioni per rendere l’adesione sostenibile. Nel frattempo, mi aspetterei che emerga un consenso politico anti-europeo che o otterrà una piena maggioranza alle elezioni successive o provocherà una crisi politica, con alla fine lo stesso effetto.
Quanto al signor Monti, la mia migliore ipotesi è che la storia gli assegnerà un ruolo simile a quello di Heinrich Brüning, cancelliere tedesco nel 1930-1932. Anche lui era parte di un consenso prevalente nell’establishment che non vi fosse alternativa all’austerità.
L’Italia ha ancora qualche strada aperta. Ma deve prenderla.”

(enfasi redazionali)
Tratto da: keynesblog.com, che ha ripreso con minimi adattamenti: Voci dall’Estero di Carmen Gallus.
Articolo originale di W.Munchau sul Financial Times: “Why Monti is not the right man to lead Italy“.

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