Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Francobolllo
Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Europa, SVEGLIA !!
sabato 1 ottobre 2011
Picco del petrolio. Shell: «Ci vorrebbero 4 Arabie Saudite in più entro 10 anni»
da Greenreport.it. Fonte: megachip
Il 21 settembre, Ed Crooks, US industry and energy editor del Financial Times, ha intervistato l'amministratore delegato della Shell, Peter Voser, e l'articolo che ne è venuto fuori (Shell chief warns of era of energy volatility) sembra una bomba a frammentazione per l'industria petrolifera e per la politica energetica mondiali.
Voser ha dichiarato: «La produzione dei campi esistenti declina del 5% all'anno, nella misura in cui le riserve si esauriscono, tanto che bisognerà che il mondo aggiunga l'equivalente di 4 Arabie Saudite o di 10 Mari del Nord nei prossimi dieci anni, solo per mantenere l'offerta al suo attuale livello,anche prima di un qualunque aumento della domanda».
Si tratta di circa 40 milioni di barili di greggio al giorno da mettere in produzione, cioè quasi la metà dell'attuale produzione mondiale di petrolio. Shell naturalmente non dice dove si potrà trovare tutto questo greggio così rapidamente e Voser sul Finacial Times dice solo che ci vorranno tra i 6 e gli 8 anni per sviluppare tutti i nuovi più importanti progetti petroliferi e gasieri, ma alla fine ammette che «Stiamo andando verso una volatilità inevitabile (...) dei prezzi dell'energia in generale» e che «Vedremo molto probabilmente comparire delle difficoltà nell'equilibrio offerta-domanda e quindi un aumento dei prezzi dell'energia a lungo termine. Penso che dobbiamo fare qualcosa». Ma probabilmente ci vorrà più di "qualcosa" per rimpiazzare 4 Arabie Saudite in 10 anni...
Il 21 settembre, Ed Crooks, US industry and energy editor del Financial Times, ha intervistato l'amministratore delegato della Shell, Peter Voser, e l'articolo che ne è venuto fuori (Shell chief warns of era of energy volatility) sembra una bomba a frammentazione per l'industria petrolifera e per la politica energetica mondiali.
Voser ha dichiarato: «La produzione dei campi esistenti declina del 5% all'anno, nella misura in cui le riserve si esauriscono, tanto che bisognerà che il mondo aggiunga l'equivalente di 4 Arabie Saudite o di 10 Mari del Nord nei prossimi dieci anni, solo per mantenere l'offerta al suo attuale livello,anche prima di un qualunque aumento della domanda».
Si tratta di circa 40 milioni di barili di greggio al giorno da mettere in produzione, cioè quasi la metà dell'attuale produzione mondiale di petrolio. Shell naturalmente non dice dove si potrà trovare tutto questo greggio così rapidamente e Voser sul Finacial Times dice solo che ci vorranno tra i 6 e gli 8 anni per sviluppare tutti i nuovi più importanti progetti petroliferi e gasieri, ma alla fine ammette che «Stiamo andando verso una volatilità inevitabile (...) dei prezzi dell'energia in generale» e che «Vedremo molto probabilmente comparire delle difficoltà nell'equilibrio offerta-domanda e quindi un aumento dei prezzi dell'energia a lungo termine. Penso che dobbiamo fare qualcosa». Ma probabilmente ci vorrà più di "qualcosa" per rimpiazzare 4 Arabie Saudite in 10 anni...
I buoni motivi per evitare il saccheggio.
di Ugo Mattei - il manifesto | 30 Settembre 2011.
Fonte: dirittiglobali
Quando lo Stato privatizza una ferrovia, una linea aerea, la sanità, l'università, un teatro pubblico o cerca di "vendersi" il patrimonio immobiliare (come fatto ieri da Tremonti e Berlusconi) esso espropria la comunità (ognun di noi pro quota) dei suoi beni comuni (proprietà comune), in modo esattamente analogo e speculare rispetto a ciò che succede quando si espropria una proprietà privata per costruire una strada o un'altra opera pubblica. Nel primo caso infatti si tratta di trasferimento immediato o graduale di un bene o di un servizio dal settore pubblico a quello privato (privatizzazione\liberalizzazione) mentre nel secondo caso il medesimo trasferimento (di una proprietà o di un'attività d'impresa) è dal privato al pubblico. In un processo di privatizzazione il governo cioè non vende quanto è suo ma al contrario quanto appartiene pro quota a ciascun componente della comunità, proprio come quando espropria un campo per costruire un'autostrada esso acquista (coattivamente) una proprietà che non è sua. Ciò significa che ogni processo di privatizzazione deciso dall'autorità politica attraverso il governo pro-tempore espropria ciascuno di noi della sua quota parte del bene comune espropriato, proprio come avviene nel caso dell'espropriazione di un bene privato. Tuttavia, mentre la tradizione costituzionale liberale tutela il proprietario privato nei confronti dell'autorità pubblica (Stato) attraverso l'indennizzo e richiede che una legge dichiari la pubblica necessità dell'espropriazione, nessuna tutela giuridica (men che meno costituzionale) esiste nei confronti dello Stato che trasferisce al privato beni della collettività (beni comuni) che non siano detenuti in proprietà privata.
Di ciò manca completamente la consapevolezza non solo a livello politico, visto che la privatizzazione è considerata un'opzione assolutamente libera e percorribile dal governo in carica per il sol fatto di esserlo (al seminario romano di ieri Tremonti e Letta si comportavano da "padroni" dei nostri beni) ma anche a livello degli operatori e teorici del diritto proprio per la mancanza di elaborazione teorica della nozione di bene comune. Questa asimmetria costituisce un anacronismo giuridico e politico che deve essere assolutamente superato, soprattutto in virtù del mutato rapporto di forza fra gli Stati ed i grandi soggetti economici privati transnazionali. Infatti, le conseguenze di questa asimmetria costituzionale si stanno provando devastanti. Consentire al governo in carica che vendere liberamente beni di tutti (beni comuni) per far fronte alle proprie necessità contingenti di politica economica, è sul piano costituzionale tanto irresponsabile quanto lo sarebbe sul piano familiare consentire al maggiordomo di vendere l'argenteria migliore per farsi carico della sua propria necessità di andare in vacanza.
Quando lo Stato privatizza una ferrovia, una linea aerea, la sanità, l'università, un teatro pubblico o cerca di "vendersi" il patrimonio immobiliare (come fatto ieri da Tremonti e Berlusconi) esso espropria la comunità (ognun di noi pro quota) dei suoi beni comuni (proprietà comune), in modo esattamente analogo e speculare rispetto a ciò che succede quando si espropria una proprietà privata per costruire una strada o un'altra opera pubblica. Nel primo caso infatti si tratta di trasferimento immediato o graduale di un bene o di un servizio dal settore pubblico a quello privato (privatizzazione\liberalizzazione) mentre nel secondo caso il medesimo trasferimento (di una proprietà o di un'attività d'impresa) è dal privato al pubblico. In un processo di privatizzazione il governo cioè non vende quanto è suo ma al contrario quanto appartiene pro quota a ciascun componente della comunità, proprio come quando espropria un campo per costruire un'autostrada esso acquista (coattivamente) una proprietà che non è sua. Ciò significa che ogni processo di privatizzazione deciso dall'autorità politica attraverso il governo pro-tempore espropria ciascuno di noi della sua quota parte del bene comune espropriato, proprio come avviene nel caso dell'espropriazione di un bene privato. Tuttavia, mentre la tradizione costituzionale liberale tutela il proprietario privato nei confronti dell'autorità pubblica (Stato) attraverso l'indennizzo e richiede che una legge dichiari la pubblica necessità dell'espropriazione, nessuna tutela giuridica (men che meno costituzionale) esiste nei confronti dello Stato che trasferisce al privato beni della collettività (beni comuni) che non siano detenuti in proprietà privata.
Di ciò manca completamente la consapevolezza non solo a livello politico, visto che la privatizzazione è considerata un'opzione assolutamente libera e percorribile dal governo in carica per il sol fatto di esserlo (al seminario romano di ieri Tremonti e Letta si comportavano da "padroni" dei nostri beni) ma anche a livello degli operatori e teorici del diritto proprio per la mancanza di elaborazione teorica della nozione di bene comune. Questa asimmetria costituisce un anacronismo giuridico e politico che deve essere assolutamente superato, soprattutto in virtù del mutato rapporto di forza fra gli Stati ed i grandi soggetti economici privati transnazionali. Infatti, le conseguenze di questa asimmetria costituzionale si stanno provando devastanti. Consentire al governo in carica che vendere liberamente beni di tutti (beni comuni) per far fronte alle proprie necessità contingenti di politica economica, è sul piano costituzionale tanto irresponsabile quanto lo sarebbe sul piano familiare consentire al maggiordomo di vendere l'argenteria migliore per farsi carico della sua propria necessità di andare in vacanza.
venerdì 30 settembre 2011
La bomba finanziaria dei broker “sinceri”
O gran bontà dei trader d’oggidì!
Spopola su YouTube il video della Bbc in cui tal Alessio Rastani, trader indipendente italo-persiano che opera soprattutto nel mercato Usa (soprannominato “Alessio, il trader sincero”), inanella follie con la faccia compunta di chi snocciola un rosario e la tenuta da magliaro griffato e bretelloni di un Gordon Gekko balzato fuori dal film Wall Street di Oliver Stone: “Nel giro di un anno milioni di persone perderanno tutto… a noi non interessa salvare l’economia, a noi interessa guadagnare… voglio dare un consiglio a tutti i telespettatori: preparatevi… A tutti quelli che sperano nei governi dico: i governi non governano il mondo, Goldman Sachs governa il mondo. E non gli interessa nulla dei pacchetti di salvataggio…”
Sembrerebbe uno scherzo, un Dottor Stranamore dell’età post atomica, che invece della bomba nucleare cavalca titoli azionari e valute. Eppure ci assicurano che l’Alessio vestito a festa non è uno scherzo, non è un travestimento di Neri Marcoré per far dispetto ai chierichetti bocconiani “della finanza che salva l’economia” alla Francesco Giavazzi o “mercatisti americanisti da centro sociale” alla Michele Boldrin. L’Alessio è solo uno che dice apertamente quanto pensano (e fanno) le torme di locuste che si stanno divorando l’umanità per fare soldi a palate.
Infatti va detto che, appena uscito il video in questione, si è subito gridato alla bufala. Ma la denuncia della bufala si è rivelata a sua volta una bufala, visto che l’autorevole rivista Forbes ha intervistato il buon Rastani, confermando trattarsi di un piccolo trader dalla bocca larga. Allora guardatevelo bene, questo pupazzo con detonatore incorporato, alacremente al lavoro per la catastrofe finale che – con noi – brucerà nell’olocausto tutti quei simboli pacchiani di status di cui i trader come lui sono avidi, pronti a commettere qualsivoglia nefandezza per procurarseli. In questa definitiva apoteosi cretina de “l’avido è bello“, che implode minacciandodi creare un immenso buco nero nel sistema solare.
Guardatelo bene, ma domandatevi anche chi ha dissigillato il vaso di Pandora da cui è balzato fuori il demone del cretinismo autodistruttivo incarnato in tipi come lui, manovalanza di quelli che si erano autonominati “Masters of Universe di Wall street”. Chi ha propagandato le pericolosissime scemenze che giustificano l’incoscienza accaparrativa, mettendo il mondo e l’umanità nelle mani di deficienti infantili e capricciosi.
Che l’umanità fosse affetta da ricorrenti ondate di infantilismo capriccioso già lo si sapeva. L’interminabile sequela di guerre per errore e che comunque si traducevano nell’esatto contrario di quanto avevano previsto i guerrafondai pasticcioni, la stracolma galleria di Signori del Mondo che si sono rivelati soltanto apprendisti stregoni (per di più maldestri), la collezione inguardabile di brutture consumate solo perché un qualche dio “lo voleva”, tutta questa spazzatura che chiamiamo Storia sta lì a ricordarcelo.
Però mai come in questo momento siamo stati nelle mani di decisori tanto invisibili e al tempo stesso così inadeguati. Gente che si presume “superclasse” e pensa solo, da perfetti incoscienti, ad imbarcarsi su una scialuppa di salvataggio superaccessoriata; portandosi dietro i tesori accumulati e lasciandosi dietro il deserto che loro stessi hanno creato. Sembra impossibile, eppure c’è perfino il solito think tank made in Usa che ha trovato la soluzione: se l’umanità si riducesse a 600 milioni (un sopravvissuto su dieci. Attendiamo di conoscere in base a quale criterio: decimazione? Sterilizzazione di massa? Che altro?) non esisterebbero più la questione energetica e neppure quella ambientale; il balletto incosciente sulla tolda del Titanic potrebbe continuare indisturbato chissà per quanto.
I fedeli di questa folle religione, tipo il trader italo-persiano narcisista e chiacchierone, ci confermano che gli adoratori deliranti del denaro sono solo l’altra faccia delle varie jihad terroristiche; i fanatici fondamentalisti di vario orientamento che (ancora una volta, senza rendersene conto) stanno facendo sinergia per massacrare quel che resta della Civiltà. È ben poco consolante pensare che finiranno a cuocere nel nostro stesso calderone. Questi incoscienti incommensurabili, che per giunta sono pure ridicoli. Come l’Alessio, trader sincero.
Spopola su YouTube il video della Bbc in cui tal Alessio Rastani, trader indipendente italo-persiano che opera soprattutto nel mercato Usa (soprannominato “Alessio, il trader sincero”), inanella follie con la faccia compunta di chi snocciola un rosario e la tenuta da magliaro griffato e bretelloni di un Gordon Gekko balzato fuori dal film Wall Street di Oliver Stone: “Nel giro di un anno milioni di persone perderanno tutto… a noi non interessa salvare l’economia, a noi interessa guadagnare… voglio dare un consiglio a tutti i telespettatori: preparatevi… A tutti quelli che sperano nei governi dico: i governi non governano il mondo, Goldman Sachs governa il mondo. E non gli interessa nulla dei pacchetti di salvataggio…”
Sembrerebbe uno scherzo, un Dottor Stranamore dell’età post atomica, che invece della bomba nucleare cavalca titoli azionari e valute. Eppure ci assicurano che l’Alessio vestito a festa non è uno scherzo, non è un travestimento di Neri Marcoré per far dispetto ai chierichetti bocconiani “della finanza che salva l’economia” alla Francesco Giavazzi o “mercatisti americanisti da centro sociale” alla Michele Boldrin. L’Alessio è solo uno che dice apertamente quanto pensano (e fanno) le torme di locuste che si stanno divorando l’umanità per fare soldi a palate.
Infatti va detto che, appena uscito il video in questione, si è subito gridato alla bufala. Ma la denuncia della bufala si è rivelata a sua volta una bufala, visto che l’autorevole rivista Forbes ha intervistato il buon Rastani, confermando trattarsi di un piccolo trader dalla bocca larga. Allora guardatevelo bene, questo pupazzo con detonatore incorporato, alacremente al lavoro per la catastrofe finale che – con noi – brucerà nell’olocausto tutti quei simboli pacchiani di status di cui i trader come lui sono avidi, pronti a commettere qualsivoglia nefandezza per procurarseli. In questa definitiva apoteosi cretina de “l’avido è bello“, che implode minacciandodi creare un immenso buco nero nel sistema solare.
Guardatelo bene, ma domandatevi anche chi ha dissigillato il vaso di Pandora da cui è balzato fuori il demone del cretinismo autodistruttivo incarnato in tipi come lui, manovalanza di quelli che si erano autonominati “Masters of Universe di Wall street”. Chi ha propagandato le pericolosissime scemenze che giustificano l’incoscienza accaparrativa, mettendo il mondo e l’umanità nelle mani di deficienti infantili e capricciosi.
Che l’umanità fosse affetta da ricorrenti ondate di infantilismo capriccioso già lo si sapeva. L’interminabile sequela di guerre per errore e che comunque si traducevano nell’esatto contrario di quanto avevano previsto i guerrafondai pasticcioni, la stracolma galleria di Signori del Mondo che si sono rivelati soltanto apprendisti stregoni (per di più maldestri), la collezione inguardabile di brutture consumate solo perché un qualche dio “lo voleva”, tutta questa spazzatura che chiamiamo Storia sta lì a ricordarcelo.
Però mai come in questo momento siamo stati nelle mani di decisori tanto invisibili e al tempo stesso così inadeguati. Gente che si presume “superclasse” e pensa solo, da perfetti incoscienti, ad imbarcarsi su una scialuppa di salvataggio superaccessoriata; portandosi dietro i tesori accumulati e lasciandosi dietro il deserto che loro stessi hanno creato. Sembra impossibile, eppure c’è perfino il solito think tank made in Usa che ha trovato la soluzione: se l’umanità si riducesse a 600 milioni (un sopravvissuto su dieci. Attendiamo di conoscere in base a quale criterio: decimazione? Sterilizzazione di massa? Che altro?) non esisterebbero più la questione energetica e neppure quella ambientale; il balletto incosciente sulla tolda del Titanic potrebbe continuare indisturbato chissà per quanto.
I fedeli di questa folle religione, tipo il trader italo-persiano narcisista e chiacchierone, ci confermano che gli adoratori deliranti del denaro sono solo l’altra faccia delle varie jihad terroristiche; i fanatici fondamentalisti di vario orientamento che (ancora una volta, senza rendersene conto) stanno facendo sinergia per massacrare quel che resta della Civiltà. È ben poco consolante pensare che finiranno a cuocere nel nostro stesso calderone. Questi incoscienti incommensurabili, che per giunta sono pure ridicoli. Come l’Alessio, trader sincero.
Invadere il campo per liberare la sinistra.
di Claudio Grassi
C’erano una volta due sinistre, una «radicale», intenzionata a cambiare la società, l’altra «moderata», desiderosa di governare la modernizzazione e limitarne i contraccolpi sui ceti deboli. Oggi questa parrebbe una fotografia ingiallita del tempo che fu. Di sinistra si direbbe esserne rimasta una sola, costituita dalle forze Invadere il campo per liberare la sinistra
che tre anni fa furono (non per caso) espulse dal parlamento. Dopo un trentennio di macelleria sociale e di privatizzazione della finanza pubblica è evidente a tutti che la «terza via» di blairiana memoria era una bufala. E che, quali che siano in teoria i margini per un governo temperato del neoliberismo, la sinistra moderata d’antan ha introiettato l’ideologia mercatista, secondo cui libertà di movimento dei capitali e precarietà del lavoro sono infallibili vettori di progresso.
Nell’ultimo quarto di secolo la sinistra moderata non è più stata una controparte del capitale, ma una sua forza di complemento. Questo in Europa non meno che negli Stati Uniti, considerato il ruolo svolto dall’élite del socialismo francese, alla guida del Fmi (Camdessus) e della Commissione europea (Delors e Lamy), nelle liberalizzazioni dei primi anni Ottanta. Di qui – per stare alla provincia italiana – la scelta di fondere in un partito «riformista», equidistante da capitale e lavoro, le maggiori forze politiche discendenti dai due partiti che nella prima Repubblica si combattevano sulla difesa o sul superamento del capitalismo. Di qui anche la ferma opzione del Pds e dei suoi eredi per il bipolarismo che, come insegna l’esperienza dei paesi anglosassoni, presuppone che entrambi i poli condividano le coordinate fondamentali della politica economica e sociale e cooperino per escludere le forze critiche dalle istituzioni rappresentative.
Ormai, dunque, sembrerebbe esserci una sola sinistra. Per ciò stesso costretta – parrebbe inevitabile dedurne – a far da sé, prendendo atto della distanza incolmabile che la separa da tutte le altre aree politiche. Invece le cose stanno esattamente all’opposto. Non perché non sia vero che nel Pd operano potenti spinte tese a trasformare il partito in una forza organicamente centrista, ma proprio per questo. La sinistra rischia effettivamente di ridursi alla sola ala «radicale». Ma, per paradossale che ciò possa apparire, proprio questa è la ragione per cui la strada del dialogo e dell’unità delle forze avverse al centrodestra è obbligata. Vediamo perché, partendo dalla configurazione delle forze politiche e dal loro rapporto con la società.
C’erano una volta due sinistre, una «radicale», intenzionata a cambiare la società, l’altra «moderata», desiderosa di governare la modernizzazione e limitarne i contraccolpi sui ceti deboli. Oggi questa parrebbe una fotografia ingiallita del tempo che fu. Di sinistra si direbbe esserne rimasta una sola, costituita dalle forze Invadere il campo per liberare la sinistra
che tre anni fa furono (non per caso) espulse dal parlamento. Dopo un trentennio di macelleria sociale e di privatizzazione della finanza pubblica è evidente a tutti che la «terza via» di blairiana memoria era una bufala. E che, quali che siano in teoria i margini per un governo temperato del neoliberismo, la sinistra moderata d’antan ha introiettato l’ideologia mercatista, secondo cui libertà di movimento dei capitali e precarietà del lavoro sono infallibili vettori di progresso.
Nell’ultimo quarto di secolo la sinistra moderata non è più stata una controparte del capitale, ma una sua forza di complemento. Questo in Europa non meno che negli Stati Uniti, considerato il ruolo svolto dall’élite del socialismo francese, alla guida del Fmi (Camdessus) e della Commissione europea (Delors e Lamy), nelle liberalizzazioni dei primi anni Ottanta. Di qui – per stare alla provincia italiana – la scelta di fondere in un partito «riformista», equidistante da capitale e lavoro, le maggiori forze politiche discendenti dai due partiti che nella prima Repubblica si combattevano sulla difesa o sul superamento del capitalismo. Di qui anche la ferma opzione del Pds e dei suoi eredi per il bipolarismo che, come insegna l’esperienza dei paesi anglosassoni, presuppone che entrambi i poli condividano le coordinate fondamentali della politica economica e sociale e cooperino per escludere le forze critiche dalle istituzioni rappresentative.
Ormai, dunque, sembrerebbe esserci una sola sinistra. Per ciò stesso costretta – parrebbe inevitabile dedurne – a far da sé, prendendo atto della distanza incolmabile che la separa da tutte le altre aree politiche. Invece le cose stanno esattamente all’opposto. Non perché non sia vero che nel Pd operano potenti spinte tese a trasformare il partito in una forza organicamente centrista, ma proprio per questo. La sinistra rischia effettivamente di ridursi alla sola ala «radicale». Ma, per paradossale che ciò possa apparire, proprio questa è la ragione per cui la strada del dialogo e dell’unità delle forze avverse al centrodestra è obbligata. Vediamo perché, partendo dalla configurazione delle forze politiche e dal loro rapporto con la società.
giovedì 29 settembre 2011
I vescovi e il governo. I cattolici del PdL paracult.
di Alessandro Robecchi. In ilmanifesto
Domanda. Ma se si mette un camaleonte su una tela scozzese, la povera bestia che fa, esplode? Chissà. E se si appoggiano i cattolici del PdL di traverso sulla severa censura del Cardinal Bagnasco e sulle porcate del loro padrone Silvio Berlusconi, che fanno, esplodono pure loro? Come coniugare spirito baciapile e difesa a oltranza del boss?
La tecnica è nota: fingere di non capire parole che pure sono chiarissime. Strepitoso Formigoni sul monito di Bagnasco: “E’ un messaggio indirizzato a tutti gli italiani, non a una singola persona”. Cult. Anzi, paracult. Poi chiosa, devotissimo: “Ognuno di noi deve chiedere perdono a Dio”. Ognuno chi? Ognuno che se ne sia “fatte” soltanto otto su undici? Ognuno accusato di aver pagato ragazzine minorenni? Precisare, prego. Si è spremuto le meningi anche Maurizio Sacconi (chissà che fatica!), prima di partorire pure lui e dire che le parole di Bagnasco “seppur legittime e comprensibili rischiano di venire strumentalizzate”. Poi, non sembrandogli abbastanza chiaro il concetto, aggiunge: “Nessuno può usare il monito di Bagnasco come una clava”. Premio speciale della giuria a Osvaldo Napoli che prima tira in ballo De Gasperi, chissà perché, e poi disvela il suo genio: “Ieri i vescovi non hanno criticato l’uomo Berlusconi e neppure il presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Hanno richiamato il ceto politico a comportamenti di sobrietà e al senso della misura: richiamo che vale per tutti”. Bingo. E’ una scemenza, ma pare funzioni. Dice Rotondi: “Quello del cardinale Angelo Bagnasco e’ un richiamo che riguarda tutti, il monito non va mai riferito ad una persona, e’ rivolto alla generalità dei cittadini”. Alla persona, peraltro, ci pensa lui e definisce Berlusconi un “santo puttaniere”. Incidente sul lavoro.
Dunque il coro dei cattolici del PdL pare unanime: il monito dei vescovi e le porcate conclamate di Silvio coincidono solo per una clamorosa coincidenza, tipo un sei al Superenalotto. E poteva il ministro Fitto tacere di fronte a un simile allineamento di pianeti? Certo che no, eccolo: “Il messaggio del cardinale Bagnasco e’ rivolto a tutti, strattonarlo da una o dall’altra politica è sbagliato e lo svilisce”. Appunto, lo svilisce. Per fortuna c’è Giuliano Ferrara, un altro politico della destra, pio, credente e tanto, tanto devoto, capace di spostare un po’ l’asse del discorso in una puntata di enorme spessore satirico di Radio Londra (lunedì sera) e in un pensoso fondo su Il Foglio di ieri. La sostanza comica è nota: i vescovi bacchettano Berlusconi, ma non prendono lezioni dai furibondi “laicisti” che vogliono preservativi, divorzio, aborto, pillole varie eccetera eccetera. Insomma, la trave è ancora nostra, mentre il pisello di Silvio sarebbe una pagliuzza (e qui il capo, francamente, potrebbe offendersi). La trovata comica non è granché e ricorda vecchie battute da avanspettacolo (“Razzista io? Parla lei che è negro!”). Per fortuna, come succede ai comici che hanno mestiere ma non testi adeguati, Ferrara si riscatta con una sapiente manipolazione del linguaggio. Ecco dunque, ad uso dei “laicisti”, dei miscredenti e degli appassionati dell’uso creativo del vocabolario, alcune delle locuzioni usate su vari palcoscenici dal nostro contorsionista preferito. Eh, sì, il nome della cosa non è secondario. Come chiama dunque Ferarra i festini del Capo? Vediamo. “Bisbocce”, ben trovata. “Festicciuole”, garbatamente démodé. “Propensione alla galanteria”, siamo al capolavoro. “Gioco non sempre troppo sottile e a sfondo sessuale tra uomo e donna”, qui gli è scappata un po’ la mano. “Gioco mondano”, giusto, ricomponiamoci. “Feste da ballo”, bravo. E che ballo, gente!
La tecnica è nota: fingere di non capire parole che pure sono chiarissime. Strepitoso Formigoni sul monito di Bagnasco: “E’ un messaggio indirizzato a tutti gli italiani, non a una singola persona”. Cult. Anzi, paracult. Poi chiosa, devotissimo: “Ognuno di noi deve chiedere perdono a Dio”. Ognuno chi? Ognuno che se ne sia “fatte” soltanto otto su undici? Ognuno accusato di aver pagato ragazzine minorenni? Precisare, prego. Si è spremuto le meningi anche Maurizio Sacconi (chissà che fatica!), prima di partorire pure lui e dire che le parole di Bagnasco “seppur legittime e comprensibili rischiano di venire strumentalizzate”. Poi, non sembrandogli abbastanza chiaro il concetto, aggiunge: “Nessuno può usare il monito di Bagnasco come una clava”. Premio speciale della giuria a Osvaldo Napoli che prima tira in ballo De Gasperi, chissà perché, e poi disvela il suo genio: “Ieri i vescovi non hanno criticato l’uomo Berlusconi e neppure il presidente del consiglio Silvio Berlusconi. Hanno richiamato il ceto politico a comportamenti di sobrietà e al senso della misura: richiamo che vale per tutti”. Bingo. E’ una scemenza, ma pare funzioni. Dice Rotondi: “Quello del cardinale Angelo Bagnasco e’ un richiamo che riguarda tutti, il monito non va mai riferito ad una persona, e’ rivolto alla generalità dei cittadini”. Alla persona, peraltro, ci pensa lui e definisce Berlusconi un “santo puttaniere”. Incidente sul lavoro.
Dunque il coro dei cattolici del PdL pare unanime: il monito dei vescovi e le porcate conclamate di Silvio coincidono solo per una clamorosa coincidenza, tipo un sei al Superenalotto. E poteva il ministro Fitto tacere di fronte a un simile allineamento di pianeti? Certo che no, eccolo: “Il messaggio del cardinale Bagnasco e’ rivolto a tutti, strattonarlo da una o dall’altra politica è sbagliato e lo svilisce”. Appunto, lo svilisce. Per fortuna c’è Giuliano Ferrara, un altro politico della destra, pio, credente e tanto, tanto devoto, capace di spostare un po’ l’asse del discorso in una puntata di enorme spessore satirico di Radio Londra (lunedì sera) e in un pensoso fondo su Il Foglio di ieri. La sostanza comica è nota: i vescovi bacchettano Berlusconi, ma non prendono lezioni dai furibondi “laicisti” che vogliono preservativi, divorzio, aborto, pillole varie eccetera eccetera. Insomma, la trave è ancora nostra, mentre il pisello di Silvio sarebbe una pagliuzza (e qui il capo, francamente, potrebbe offendersi). La trovata comica non è granché e ricorda vecchie battute da avanspettacolo (“Razzista io? Parla lei che è negro!”). Per fortuna, come succede ai comici che hanno mestiere ma non testi adeguati, Ferrara si riscatta con una sapiente manipolazione del linguaggio. Ecco dunque, ad uso dei “laicisti”, dei miscredenti e degli appassionati dell’uso creativo del vocabolario, alcune delle locuzioni usate su vari palcoscenici dal nostro contorsionista preferito. Eh, sì, il nome della cosa non è secondario. Come chiama dunque Ferarra i festini del Capo? Vediamo. “Bisbocce”, ben trovata. “Festicciuole”, garbatamente démodé. “Propensione alla galanteria”, siamo al capolavoro. “Gioco non sempre troppo sottile e a sfondo sessuale tra uomo e donna”, qui gli è scappata un po’ la mano. “Gioco mondano”, giusto, ricomponiamoci. “Feste da ballo”, bravo. E che ballo, gente!
Ecco la lettera dictat della Bce all'Italia.
Fonte: liberazione
Una lettera chiarissima, ultimativa, praticamente un diktat. La Bce (doppia firma di Jean Claude Trichet e Mario Draghi) ha indicato lo scorso 5 agosto al Governo italiano le cose da fare «con decreto legge e con ratifica parlamentare entro la fine di settembre 2011». Il Governo Berlusconi ha risposto sì, recependo con il decreto legge di agosto, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale lo scorso 16 settembre, molte delle indicazioni provenienti da Francoforte. Ecco, la lettera che è pubblicata integralmente dal Corriere della Sera:
''Caro Primo Ministro, Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorita' italiane per ristabilire la fiducia degli investitori. Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che ''tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali''. Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilita' di bilancio e alle riforme strutturali. Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti.
Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:
1.Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di piu' ed e' cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualita' dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano piu' adatti a sostenere la competitivita' delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro.
a) E' necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.
b) C'e' anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi piu' rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori piu' competitivi.
''Caro Primo Ministro, Il Consiglio direttivo della Banca centrale europea il 4 Agosto ha discusso la situazione nei mercati dei titoli di Stato italiani. Il Consiglio direttivo ritiene che sia necessaria un'azione pressante da parte delle autorita' italiane per ristabilire la fiducia degli investitori. Il vertice dei capi di Stato e di governo dell'area-euro del 21 luglio 2011 ha concluso che ''tutti i Paesi dell'euro riaffermano solennemente la loro determinazione inflessibile a onorare in pieno la loro individuale firma sovrana e tutti i loro impegni per condizioni di bilancio sostenibili e per le riforme strutturali''. Il Consiglio direttivo ritiene che l'Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilita' di bilancio e alle riforme strutturali. Il Governo italiano ha deciso di mirare al pareggio di bilancio nel 2014 e, a questo scopo, ha di recente introdotto un pacchetto di misure. Sono passi importanti, ma non sufficienti.
Nell'attuale situazione, riteniamo essenziali le seguenti misure:
1.Vediamo l'esigenza di misure significative per accrescere il potenziale di crescita. Alcune decisioni recenti prese dal Governo si muovono in questa direzione; altre misure sono in discussione con le parti sociali. Tuttavia, occorre fare di piu' ed e' cruciale muovere in questa direzione con decisione. Le sfide principali sono l'aumento della concorrenza, particolarmente nei servizi, il miglioramento della qualita' dei servizi pubblici e il ridisegno di sistemi regolatori e fiscali che siano piu' adatti a sostenere la competitivita' delle imprese e l'efficienza del mercato del lavoro.
a) E' necessaria una complessiva, radicale e credibile strategia di riforme, inclusa la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali. Questo dovrebbe applicarsi in particolare alla fornitura di servizi locali attraverso privatizzazioni su larga scala.
b) C'e' anche l'esigenza di riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d'impresa in modo da ritagliare i salari e le condizioni di lavoro alle esigenze specifiche delle aziende e rendendo questi accordi piu' rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione. L'accordo del 28 Giugno tra le principali sigle sindacali e le associazioni industriali si muove in questa direzione.
c) Dovrebbe essere adottata una accurata revisione delle norme che regolano l'assunzione e il licenziamento dei dipendenti, stabilendo un sistema di assicurazione dalla disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e verso i settori piu' competitivi.
Breve storiella del debito pubblico.
Fonte: militant
Come sappiamo già da mesi, alcuni paesi europei sono stati privati del loro potere politico di indirizzo economico, e sostituiti da strutture europee economico-finanziarie quali la Banca Centrale Europea, il famigerato Fondo Salva Stati (variante europea del Fondo Monetario Internazionale), nonché dalla stessa Unione Europea e dalla Banca Centrale Tedesca. Di fatto, parlare di commissariamento è fin troppo poco: quello che stanno vivendo i paesi più indebitati dell’eurozona ricalca alla perfezione ciò che hanno vissuto, nel corso dell’ottocento e del novecento, decine di paesi del secondo e terzo mondo, con l’FMI al posto del Fondo Salva Stati, la Banca mondiale al posto di quella europea e il governo statunitense al posto dell’Unione Europea. Tutti paesi che, di fronte ad un debito pubblico sempre più grande e col rischio dell’insolvenza, si affidavano a strutture finanziarie sovranazionali che ne determinavano le riforme, ne garantivano la solvibilità e ne indirizzavano le politiche economico-sociali. La storiella del debito, dunque, è abbastanza vecchia da poter essere presa a modello per capire cosa accadrà in Italia, ricordando anche cosa successe a qualche paese invaso dalle stesse cure che toccheranno a noi.
Prima di tutto, è stato preparato a dovere il terreno culturale su cui poi andare a intervenire. Si sono create le condizioni psicologiche che hanno portato la gente ad avere una fottuta paura del debito pubblico, così da vedere il ridimensionamento dello stesso come condizione imprescindibile per andare avanti. La storia è più o meno questa:
i mercati, che sono formati dalla massa di cittadini-risparmiatori che investono i propri risparmi nelle banche comprando obbligazioni o azioni delle società quotate in borsa, stanno portando un attacco speculativo verso i paesi indebitati vendendo le azioni o le obbligazioni di questi paesi, intimoriti dalla possibile insolvenza di questi paesi. Questi mercati, dunque, non sono altro che una sorta di opinione pubblica mondiale sui fatti economici, per cui se decidono di vendere determinate azioni o obbligazioni è perché non si fidano più della stabilità (=solvibilità) di ciò che hanno in portafoglio. Questa opinione pubblica è spaventata dall’enorme massa di debito di alcuni grandi paesi europei, dunque questo crollo di fiducia determina una fuga di capitali dai paesi indebitati. Quindi il vero motivo di questa sfiducia collettiva è, in fin dei conti, il debito pubblico. Cosa avrebbe prodotto questo debito pubblico? Il debito pubblico sarebbe il risultato di anni di gestione scellerata e spendacciona di questi stati, che nel corso del tempo avrebbero accumulato un debito nel confronti dei loro cittadini in virtù delle proprie politiche di sperpero di denaro pubblico, di salari troppo elevati, di pensioni troppo alte, di servizi pubblici garantiti e così via. Insomma, la soluzione dovrebbe essere quella di rientrare di questo debito riformando l’economia, abbattendo pezzi di stato sociale ormai non più proponibili perché sarebbe finito il tempo delle “vacche grasse”, in cui un po’ tutti abbiamo vissuto “al di sopra delle nostre possibilità”, mentre sarebbe giunta l’ora di “tirare la cinghia”. E’ ora di liberare l’economia dai lacci e laccioli che la imbrigliano, diminuendo la spesa statale, abbassando le tasse e così via, per far risalire finalmente la fiducia degli investitori internazionali nei nostri confronti così da generare di nuovo profitti e crescita economica. Torna, vero?
Questa, in linea di massima, la visione politica odierna di ciò che sta succedendo in Italia e nei paesi maggiormente indebitati. Bene, tutto questo è falso.
Come sappiamo già da mesi, alcuni paesi europei sono stati privati del loro potere politico di indirizzo economico, e sostituiti da strutture europee economico-finanziarie quali la Banca Centrale Europea, il famigerato Fondo Salva Stati (variante europea del Fondo Monetario Internazionale), nonché dalla stessa Unione Europea e dalla Banca Centrale Tedesca. Di fatto, parlare di commissariamento è fin troppo poco: quello che stanno vivendo i paesi più indebitati dell’eurozona ricalca alla perfezione ciò che hanno vissuto, nel corso dell’ottocento e del novecento, decine di paesi del secondo e terzo mondo, con l’FMI al posto del Fondo Salva Stati, la Banca mondiale al posto di quella europea e il governo statunitense al posto dell’Unione Europea. Tutti paesi che, di fronte ad un debito pubblico sempre più grande e col rischio dell’insolvenza, si affidavano a strutture finanziarie sovranazionali che ne determinavano le riforme, ne garantivano la solvibilità e ne indirizzavano le politiche economico-sociali. La storiella del debito, dunque, è abbastanza vecchia da poter essere presa a modello per capire cosa accadrà in Italia, ricordando anche cosa successe a qualche paese invaso dalle stesse cure che toccheranno a noi.
Prima di tutto, è stato preparato a dovere il terreno culturale su cui poi andare a intervenire. Si sono create le condizioni psicologiche che hanno portato la gente ad avere una fottuta paura del debito pubblico, così da vedere il ridimensionamento dello stesso come condizione imprescindibile per andare avanti. La storia è più o meno questa:
i mercati, che sono formati dalla massa di cittadini-risparmiatori che investono i propri risparmi nelle banche comprando obbligazioni o azioni delle società quotate in borsa, stanno portando un attacco speculativo verso i paesi indebitati vendendo le azioni o le obbligazioni di questi paesi, intimoriti dalla possibile insolvenza di questi paesi. Questi mercati, dunque, non sono altro che una sorta di opinione pubblica mondiale sui fatti economici, per cui se decidono di vendere determinate azioni o obbligazioni è perché non si fidano più della stabilità (=solvibilità) di ciò che hanno in portafoglio. Questa opinione pubblica è spaventata dall’enorme massa di debito di alcuni grandi paesi europei, dunque questo crollo di fiducia determina una fuga di capitali dai paesi indebitati. Quindi il vero motivo di questa sfiducia collettiva è, in fin dei conti, il debito pubblico. Cosa avrebbe prodotto questo debito pubblico? Il debito pubblico sarebbe il risultato di anni di gestione scellerata e spendacciona di questi stati, che nel corso del tempo avrebbero accumulato un debito nel confronti dei loro cittadini in virtù delle proprie politiche di sperpero di denaro pubblico, di salari troppo elevati, di pensioni troppo alte, di servizi pubblici garantiti e così via. Insomma, la soluzione dovrebbe essere quella di rientrare di questo debito riformando l’economia, abbattendo pezzi di stato sociale ormai non più proponibili perché sarebbe finito il tempo delle “vacche grasse”, in cui un po’ tutti abbiamo vissuto “al di sopra delle nostre possibilità”, mentre sarebbe giunta l’ora di “tirare la cinghia”. E’ ora di liberare l’economia dai lacci e laccioli che la imbrigliano, diminuendo la spesa statale, abbassando le tasse e così via, per far risalire finalmente la fiducia degli investitori internazionali nei nostri confronti così da generare di nuovo profitti e crescita economica. Torna, vero?
Questa, in linea di massima, la visione politica odierna di ciò che sta succedendo in Italia e nei paesi maggiormente indebitati. Bene, tutto questo è falso.
Il debutto europeo della Tobin Tax.
di Alfonso Gianni, 28 settembre 2011, Fonte: paneacqua
Politica Dopo circa quaranta anni da che il suo ideatore l'aveva avanzata, la tassazione sulle transazioni internazionali di capitali diventa una proposta della Commissione Europea. James Tobin, cui anni dopo venne consegnato un Nobel per l'economia, l'aveva formulata nel 1972, sviluppando un abbozzo del grande Keynes. Successivamente, in anni più recenti, quella proposta è diventata uno dei cavalli di battaglia dei movimenti altermondialisti, uno dei pilastri su cui potrebbe fondarsi "un altro mondo possibile"
A volte le buone idee finiscono per affermarsi. Certo ci vuole sempre molto tempo, spesso troppo. Non è così per quelle cattive che si impongono in fretta, quelle pessime addirittura in tempo reale. Dopo circa quaranta anni da che il suo ideatore l'aveva avanzata, la tassazione sulle transazioni internazionali di capitali diventa una proposta della Commissione Europea. James Tobin, cui anni dopo venne consegnato un Nobel per l'economia, l'aveva formulata nel 1972, sviluppando un abbozzo del grande Keynes. Successivamente, in anni più recenti, quella proposta è diventata uno dei cavalli di battaglia dei movimenti altermondialisti, uno dei pilastri su cui potrebbe fondarsi "un altro mondo possibile". Con maggiore esattezza e con buon senso delle proporzioni, la Tobin Tax venne definita un "granello di sabbia" lanciato negli ingranaggi del capitale. Così in effetti potrebbe funzionare, se le premesse avranno il dovuto seguito.
Infatti allo stato attuale delle cose non è possibile prevedere con esattezza quale sarà l'entità della tassa e soprattutto l'estensione della sua applicazione. Cominciando da quest'ultimo non secondario problema, è certo che, almeno per ora e per un tempo indefinito, il sogno che la Tobin Tax possa applicarsi a livello mondiale resterà tale. Gli Usa, ma anche alcuni paesi emergenti, e la Banca mondiale sono ferocemente contrari e tanto basta per escludere che nel prossimo G20 di Cannes del 3 e 4 novembre essa possa essere assunta a livello globale. A meno che le prese di posizione favorevoli alla Tobin Tax dei miliardari George Soros e Bill Gates facciano loro cambiare idea. Sarà già molto se la Ue potrà presentarsi con un'unica posizione a questo riguardo per quella data. Sarà decisivo l'esito della discussione che avverrà nella riunione di Ecofin, ovvero dei ministri finanziari europei, dell'imminente 4 ottobre. Alcuni paesi dei 27 sono contrari, tra cui la Gran Bretagna, l'Olanda e la Svezia. E' quindi possibile che la Tobin Tax faccia il suo esordio limitatamente ai paesi dell'Euro, ma sarebbe già un fatto di enorme portata.
Politica Dopo circa quaranta anni da che il suo ideatore l'aveva avanzata, la tassazione sulle transazioni internazionali di capitali diventa una proposta della Commissione Europea. James Tobin, cui anni dopo venne consegnato un Nobel per l'economia, l'aveva formulata nel 1972, sviluppando un abbozzo del grande Keynes. Successivamente, in anni più recenti, quella proposta è diventata uno dei cavalli di battaglia dei movimenti altermondialisti, uno dei pilastri su cui potrebbe fondarsi "un altro mondo possibile"
A volte le buone idee finiscono per affermarsi. Certo ci vuole sempre molto tempo, spesso troppo. Non è così per quelle cattive che si impongono in fretta, quelle pessime addirittura in tempo reale. Dopo circa quaranta anni da che il suo ideatore l'aveva avanzata, la tassazione sulle transazioni internazionali di capitali diventa una proposta della Commissione Europea. James Tobin, cui anni dopo venne consegnato un Nobel per l'economia, l'aveva formulata nel 1972, sviluppando un abbozzo del grande Keynes. Successivamente, in anni più recenti, quella proposta è diventata uno dei cavalli di battaglia dei movimenti altermondialisti, uno dei pilastri su cui potrebbe fondarsi "un altro mondo possibile". Con maggiore esattezza e con buon senso delle proporzioni, la Tobin Tax venne definita un "granello di sabbia" lanciato negli ingranaggi del capitale. Così in effetti potrebbe funzionare, se le premesse avranno il dovuto seguito.
Infatti allo stato attuale delle cose non è possibile prevedere con esattezza quale sarà l'entità della tassa e soprattutto l'estensione della sua applicazione. Cominciando da quest'ultimo non secondario problema, è certo che, almeno per ora e per un tempo indefinito, il sogno che la Tobin Tax possa applicarsi a livello mondiale resterà tale. Gli Usa, ma anche alcuni paesi emergenti, e la Banca mondiale sono ferocemente contrari e tanto basta per escludere che nel prossimo G20 di Cannes del 3 e 4 novembre essa possa essere assunta a livello globale. A meno che le prese di posizione favorevoli alla Tobin Tax dei miliardari George Soros e Bill Gates facciano loro cambiare idea. Sarà già molto se la Ue potrà presentarsi con un'unica posizione a questo riguardo per quella data. Sarà decisivo l'esito della discussione che avverrà nella riunione di Ecofin, ovvero dei ministri finanziari europei, dell'imminente 4 ottobre. Alcuni paesi dei 27 sono contrari, tra cui la Gran Bretagna, l'Olanda e la Svezia. E' quindi possibile che la Tobin Tax faccia il suo esordio limitatamente ai paesi dell'Euro, ma sarebbe già un fatto di enorme portata.
mercoledì 28 settembre 2011
Una crisi del capitalismo*
di Riccardo Bellofiore. Fonte: sinistrainrete
I. Un premier da ridere, un paese da compatire?
Marx ha scritto che la storia si ripete prima come tragedia e poi come farsa. Chi fosse curioso di come potrebbe ripetersi la terza volta, non ha che da guardare all’Italia: un paese dove l’opposizione più dura contro il governo viene - letteralmente– da comici (come Antonio Albanese o i due Guzzanti) o da vignettisti (come Altan o Bucchi). Negli ultimi tempi la realtà è stata però più inventiva della stessa satira. Questa patetica situazione ha d’altra parte distorto la maggior parte delle analisi della situazione economica e politica del paese: come se il problema vero dell’Italia fosse solo il suo primo ministro, distratto da sesso e processi.
L’Italia è nell’occhio del ciclone da quest’estate. Ma per capire la vera natura della crisi italiana è necessario osservarla nel contesto più ampio della crisi europea. Entrambe, ci viene detto, fanno parte di una più vasta crisi del debito sovrano. Ma le cose non stanno proprio così.
II. Dalla crisi europea alla crisi italiana
I limiti della zona euro sono ben noti. Anzitutto abbiamo una ‘moneta unica’ non sostenuta da una corrispondente sovranità politica: una moneta che non è una moneta. Quindi, c’è una Banca Centrale Europea che non agisce come prestatore di ultima istanza, e che non finanzia l’indebitamento dei governi: una banca centrale che si rifiuta di fare quello per cui le banche centrali sono nate.
Infine, siamo privi di un bilancio pubblico europeo degno di questo nome: un bilancio europeo dell’1% quando sarebbe necessario (almeno) il 10%. Gli errori della BCE, il suo ossessivo atteggiamento anti-inflazionistico e la sua propensione ad alzare il tasso di interesse al minimo cenno di aumento dei prezzi, quale che ne sia la causa, sono anch’essi sotto gli occhi di tutti: benché le si debba riconoscere un certo pragmatismo nel mezzo delle varie crisi dell’ultimo decennio. Il sogno neo-mercantilistico tedesco di fare profitti grazie ai disavanzi di conto corrente dell’Europa del Sud, imponendole però il vincolo del pareggio nel bilancio pubblico, beh quello appartiene più alla psichiatria che all’economia.
I. Un premier da ridere, un paese da compatire?
Marx ha scritto che la storia si ripete prima come tragedia e poi come farsa. Chi fosse curioso di come potrebbe ripetersi la terza volta, non ha che da guardare all’Italia: un paese dove l’opposizione più dura contro il governo viene - letteralmente– da comici (come Antonio Albanese o i due Guzzanti) o da vignettisti (come Altan o Bucchi). Negli ultimi tempi la realtà è stata però più inventiva della stessa satira. Questa patetica situazione ha d’altra parte distorto la maggior parte delle analisi della situazione economica e politica del paese: come se il problema vero dell’Italia fosse solo il suo primo ministro, distratto da sesso e processi.
L’Italia è nell’occhio del ciclone da quest’estate. Ma per capire la vera natura della crisi italiana è necessario osservarla nel contesto più ampio della crisi europea. Entrambe, ci viene detto, fanno parte di una più vasta crisi del debito sovrano. Ma le cose non stanno proprio così.
II. Dalla crisi europea alla crisi italiana
I limiti della zona euro sono ben noti. Anzitutto abbiamo una ‘moneta unica’ non sostenuta da una corrispondente sovranità politica: una moneta che non è una moneta. Quindi, c’è una Banca Centrale Europea che non agisce come prestatore di ultima istanza, e che non finanzia l’indebitamento dei governi: una banca centrale che si rifiuta di fare quello per cui le banche centrali sono nate.
Infine, siamo privi di un bilancio pubblico europeo degno di questo nome: un bilancio europeo dell’1% quando sarebbe necessario (almeno) il 10%. Gli errori della BCE, il suo ossessivo atteggiamento anti-inflazionistico e la sua propensione ad alzare il tasso di interesse al minimo cenno di aumento dei prezzi, quale che ne sia la causa, sono anch’essi sotto gli occhi di tutti: benché le si debba riconoscere un certo pragmatismo nel mezzo delle varie crisi dell’ultimo decennio. Il sogno neo-mercantilistico tedesco di fare profitti grazie ai disavanzi di conto corrente dell’Europa del Sud, imponendole però il vincolo del pareggio nel bilancio pubblico, beh quello appartiene più alla psichiatria che all’economia.
Eurocrisi, eurobond, lotta sul debito: un contributo al dibattito.
di Raffaele Sciortino. Fonte: infoaut
Dunque il contagio si diffonde. Con buona pace per chi si credeva in qualche modo immunizzato si è passati in poco tempo al default di fatto della Grecia, al rischio fallimento sui debiti sovrani di pesi medi come Spagna e Italia, ai dubbi sulla tenuta delle banche francesi e negli ultimi giorni a un principio di panico nelle borse. Ma col contagio, e relative manovre, si è anche iniziato a discutere di debito e default, e non solo tra gli “esperti”. Mentre dall’alto vengono riproposte le stesse ricette alla radice della crisi, in basso ci si inizia a interrogare non solo sui costi sociali dell’economia del debito ma anche su come si è prodotto, chi ci guadagna, dove ci sta portando, e qua e là affiora il dubbio se è giusto pagarlo o comunque se sostenerne i costi non significa alimentare il male piuttosto che guarirlo(1). Intanto sia l’euro che l’Unione europea, a differenza di un anno fa, appaiono oggi seriamente a rischio.
Proviamo allora a mettere a fuoco - sotto forma di ipotesi in sequenza - il quadro d’insieme in cui può darsi una lotta sul terreno del debito, non in generale ma dentro le molteplici linee di fuga e di scontro dell’attuale passaggio della crisi, come resistenza ma anche come potenziale prospettiva costituente.
1. L’epicentro della crisi globale restano gli States. L’incredibile iniezione di liquidità di questi anni da parte della Federal Reserve, da ultimo con il cosiddetto quantitative easing 2, se è servita a evitare fin qui un nuovo grande tracollo di borsa e fallimenti a catena nel sistema bancario statunitense zeppo di cattivi crediti, non è però stata in grado di rilanciare la ripresa produttiva e tanto meno i consumi. Il giochino riuscito a Bush dopo lo scoppio della bolla dot.com e sull’onda dell’undici settembre non è riuscito a Obama. Il punto è che nonostante l’accorciamento della leva finanziaria (deleveraging) dal fallimento della Lehman in poi c’è ancora troppo debito, a tutti i livelli: pubblico, federale statale municipale, e privato, finanza imprese famiglie! Con un debito così alto e diffuso niente ripresa, ma senza stimoli monetari, tassi sotto zero e dunque ulteriore indebitamento con l’estero i guai sarebbero ancora maggiori: ecco l’impasse che la Federal Reserve continua a spostare in avanti (2). L’amministrazione Obama arriva dunque a quella che potrebbe essere una seconda recessione, il temuto double dip, o comunque una stagnazione di fatto, con munizioni in gran parte già sparate mentre il clima politico interno volge al peggio, come si è visto dallo scontro sull’innalzamento della soglia del debito federale e dalla decisa virata obamiana verso una politica di tagli alla spesa sociale (maldestramente camuffata dalla “minaccia” di far pagare un tantino di più anche i ricchi).
Dunque il contagio si diffonde. Con buona pace per chi si credeva in qualche modo immunizzato si è passati in poco tempo al default di fatto della Grecia, al rischio fallimento sui debiti sovrani di pesi medi come Spagna e Italia, ai dubbi sulla tenuta delle banche francesi e negli ultimi giorni a un principio di panico nelle borse. Ma col contagio, e relative manovre, si è anche iniziato a discutere di debito e default, e non solo tra gli “esperti”. Mentre dall’alto vengono riproposte le stesse ricette alla radice della crisi, in basso ci si inizia a interrogare non solo sui costi sociali dell’economia del debito ma anche su come si è prodotto, chi ci guadagna, dove ci sta portando, e qua e là affiora il dubbio se è giusto pagarlo o comunque se sostenerne i costi non significa alimentare il male piuttosto che guarirlo(1). Intanto sia l’euro che l’Unione europea, a differenza di un anno fa, appaiono oggi seriamente a rischio.
Proviamo allora a mettere a fuoco - sotto forma di ipotesi in sequenza - il quadro d’insieme in cui può darsi una lotta sul terreno del debito, non in generale ma dentro le molteplici linee di fuga e di scontro dell’attuale passaggio della crisi, come resistenza ma anche come potenziale prospettiva costituente.
1. L’epicentro della crisi globale restano gli States. L’incredibile iniezione di liquidità di questi anni da parte della Federal Reserve, da ultimo con il cosiddetto quantitative easing 2, se è servita a evitare fin qui un nuovo grande tracollo di borsa e fallimenti a catena nel sistema bancario statunitense zeppo di cattivi crediti, non è però stata in grado di rilanciare la ripresa produttiva e tanto meno i consumi. Il giochino riuscito a Bush dopo lo scoppio della bolla dot.com e sull’onda dell’undici settembre non è riuscito a Obama. Il punto è che nonostante l’accorciamento della leva finanziaria (deleveraging) dal fallimento della Lehman in poi c’è ancora troppo debito, a tutti i livelli: pubblico, federale statale municipale, e privato, finanza imprese famiglie! Con un debito così alto e diffuso niente ripresa, ma senza stimoli monetari, tassi sotto zero e dunque ulteriore indebitamento con l’estero i guai sarebbero ancora maggiori: ecco l’impasse che la Federal Reserve continua a spostare in avanti (2). L’amministrazione Obama arriva dunque a quella che potrebbe essere una seconda recessione, il temuto double dip, o comunque una stagnazione di fatto, con munizioni in gran parte già sparate mentre il clima politico interno volge al peggio, come si è visto dallo scontro sull’innalzamento della soglia del debito federale e dalla decisa virata obamiana verso una politica di tagli alla spesa sociale (maldestramente camuffata dalla “minaccia” di far pagare un tantino di più anche i ricchi).
Beppe Grillo. Il culo al potere.
Fonte: beppegrilloblog
Basta, per favore basta con le presunte zoccole, i presunti maneggioni, i presunti favori, le alcove, le fotografie con i tanga, le tette e i fondoschiena. Vogliamo toglierci l'ex presidente del Consiglio dai coglioni? E' cosa buona e giusta, ma non c'è bisogno di trasformare l'Italia in una versione hard del Decamerone. Ogni giorno una nuova puntata a luci rosse. Per capire quale procura sta indagando (Lecce, Bari, Roma?) , su quali escort, e dove si trova (ma soprattutto chi è) Lavitola bisogna leggere il riassunto delle puntate precedenti. Altrimenti non è possibile capire nulla. Il premier ha indotto a mentire un testimone, si è scopato una minorenne, ha fatto la doccia dopo un amplesso, se ne è trombate otto in una volta? Pagine su pagine di intercettazioni e di ragazze mai condannate in tribunale, ma diventate puttane per diritto giornalistico. In caso di non colpevolezza, di mancanza di reato, qualcuno le risarcirà? Bagnasco è sceso in campo. "Comportamenti licenziosi, va purificata l'aria". Incominci lui, inizi la Chiesa che ha tratto da questo governo tutti i benefici economici possibili, per tacere dello scandalo mondiale della pedofilia del quale non si scrive soltanto in quest'Italia papalina. "Tarantini e moglie liberi. Per il tribunale del Riesame la competenza è di Bari e non di Roma." Qualcuno sano di mente mi spiega perché questa è la notizia oggi in prima pagina? L'economia sta sprofondando. Basterebbe questo per far cadere il governo. Non si parla più di mafia, 'ndrangheta e camorra se non per il loro giro d'affari di circa 130 miliardi di euro all'anno. "Vanno recuperati i soldi!" ci spiegano i politici. Ma come possono anche solo dirlo se la politica è collusa con la criminalità organizzata spesso e volentieri? Questo governo ha più scheletri nell'armadio di un ossario, ma nessuno si azzarda ad aprirlo quell'armadio, perché contiene tibie, crani, malleoli, costole condivisi con l'opposizione. Meglio parlare di culi e di tette, attaccare su un fronte su cui l'ex presidente del Consiglio ha un indubbio vantaggio sin dai tempi delle vallette di Fininvest. Non sappiamo nulla sulla fedina penale di un deputato, ma veniamo informati se è omosessuale, se è omofobo, se va a trans e in che zona di Roma. La fantasia al potere è stata sostituita dal culo al potere. E le "Domande al Cavaliere?". Imperdibili! Sempre 10, mai una in più, forse i giornalisti sanno contare solo con le dita delle mani. Mai una domanda scomoda, ma solo porno soft del tipo su Repubblica di oggi "Perché ripara i suoi atti di beneficenza, se sono tali, dietro accordi segreti e misteriosi?" oppure "Perché usa la RAI e i suoi dirigenti per ottenere favori da giovani donne?". Se le tragedie spesso finiscono in farsa, la nostra sta finendo in vacca.
Basta, per favore basta con le presunte zoccole, i presunti maneggioni, i presunti favori, le alcove, le fotografie con i tanga, le tette e i fondoschiena. Vogliamo toglierci l'ex presidente del Consiglio dai coglioni? E' cosa buona e giusta, ma non c'è bisogno di trasformare l'Italia in una versione hard del Decamerone. Ogni giorno una nuova puntata a luci rosse. Per capire quale procura sta indagando (Lecce, Bari, Roma?) , su quali escort, e dove si trova (ma soprattutto chi è) Lavitola bisogna leggere il riassunto delle puntate precedenti. Altrimenti non è possibile capire nulla. Il premier ha indotto a mentire un testimone, si è scopato una minorenne, ha fatto la doccia dopo un amplesso, se ne è trombate otto in una volta? Pagine su pagine di intercettazioni e di ragazze mai condannate in tribunale, ma diventate puttane per diritto giornalistico. In caso di non colpevolezza, di mancanza di reato, qualcuno le risarcirà? Bagnasco è sceso in campo. "Comportamenti licenziosi, va purificata l'aria". Incominci lui, inizi la Chiesa che ha tratto da questo governo tutti i benefici economici possibili, per tacere dello scandalo mondiale della pedofilia del quale non si scrive soltanto in quest'Italia papalina. "Tarantini e moglie liberi. Per il tribunale del Riesame la competenza è di Bari e non di Roma." Qualcuno sano di mente mi spiega perché questa è la notizia oggi in prima pagina? L'economia sta sprofondando. Basterebbe questo per far cadere il governo. Non si parla più di mafia, 'ndrangheta e camorra se non per il loro giro d'affari di circa 130 miliardi di euro all'anno. "Vanno recuperati i soldi!" ci spiegano i politici. Ma come possono anche solo dirlo se la politica è collusa con la criminalità organizzata spesso e volentieri? Questo governo ha più scheletri nell'armadio di un ossario, ma nessuno si azzarda ad aprirlo quell'armadio, perché contiene tibie, crani, malleoli, costole condivisi con l'opposizione. Meglio parlare di culi e di tette, attaccare su un fronte su cui l'ex presidente del Consiglio ha un indubbio vantaggio sin dai tempi delle vallette di Fininvest. Non sappiamo nulla sulla fedina penale di un deputato, ma veniamo informati se è omosessuale, se è omofobo, se va a trans e in che zona di Roma. La fantasia al potere è stata sostituita dal culo al potere. E le "Domande al Cavaliere?". Imperdibili! Sempre 10, mai una in più, forse i giornalisti sanno contare solo con le dita delle mani. Mai una domanda scomoda, ma solo porno soft del tipo su Repubblica di oggi "Perché ripara i suoi atti di beneficenza, se sono tali, dietro accordi segreti e misteriosi?" oppure "Perché usa la RAI e i suoi dirigenti per ottenere favori da giovani donne?". Se le tragedie spesso finiscono in farsa, la nostra sta finendo in vacca.
Le paure degli europei
di Anna Maria Merlo. Fonte: ilmanifesto
Crisi dei debiti sovrani, crisi dell'euro, crisi dell'Europa. In questo periodo di minaccia di crollo sistemico, i governi sembrano impotenti a trovare una risposta comune ed efficace alla crisi, che per i cittadini è soprattutto economica, non solo finanziaria. La distanza tra governi e cittadini si fa sempre più ampia, e colpisce le istituzioni europee, travolte anch'esse da un generale discredito. Un'incomprensione si approfondisce: mentre gli stati che ancora conservano il rating AAA studiano l'ipotesi, sempre più vicina, di tornare a finanziare le banche con denaro pubblico, come già era successo nel 2008, i cittadini si interrogano sul perché vengano trovati dei soldi per salvare le banche, mentre ai popoli vengono imposti piani di rigore e tagli al welfare. Gli europei si sentono sballottati nella mondializzazione, di cui cominciano a sottolineare gli inconvenienti, soprattutto per quello che riguarda l'occupazione, mentre i vantaggi sfumano in secondo piano. La questione della «demondializzazione» è già entrata nel dibattito politico francese delle presidenziali del 2012.
A sinistra, oltre al Front de Gauche, la difende il socialista Arnaud Montebourg, candidato alle primarie del Ps, a destra è l'argomento del gollista sovranista Nicolas Dupont-Aignan ed è portata all'estremo dal Fronte nazionale, che propone l'uscita dall'euro. Un gruppo di economisti e studiosi francesi, tra cui Emmanuel Todd, Jacques Sapir, Philippe Murer, Jean-Luc Gréau e Bernard Cassen, riuniti nell'associazione «Per un dibattito sul libero scambio», ha commissionato all'istituto Ifop un sondaggio in vari paesi europei - a maggio in Francia, a giugno in Italia, Gran Bretagna, Germania e Spagna - che rivela una forte richiesta di protezione da parte dell'Unione europea. Al centro delle preoccupazioni delle popolazioni c'è l'occupazione e il modo per proteggerla e rilanciarla in un'Europa che sta perdendo posti di lavoro industriale.
Il sondaggio, spiega l'economista Philippe Murer, professore alla Sorbonne, «ha mostrato che più dei due terzi degli italiani auspicano che le tasse sui prodotti in provenienza dai paesi a bassi salari vengano alzate. In questo, la loro opinione è molto vicina a quella di francesi, spagnoli e tedeschi, anch'essi ai due terzi favorevoli a questa soluzione». Solo gli inglesi restano più liberoscambisti, ma anche qui il 50% chiede protezione. «Il problema della delocalizzazione di attività nei paesi emergenti e del deficit commerciale di Italia, Spagna e Francia accumulato negli anni - aggiunge Murer - pone un grosso problema alle nostre economie. Questi deficit frenano la crescita delle economie occidentali e comportano un'accumulazione del debito nei nostri paesi. In effetti, quando un paese consuma più di quanto produce, ne consegue che un debito, pubblico o privato, debba venire contrattato. E anche un debito privato finisce per diventare pubblico, quando in occasione di una crisi finanziaria acuta lo stato è obbligato ad aiutare il settore privato. Di conseguenza, anche se il deficit commerciale non è il solo responsabile dell'indebitamento pubblico, esso tende ad impedire al paese di tornare a una situazione normale rispetto al debito pubblico e tende ad accrescere questo stesso debito. Quindi, non ci sarà una soluzione definitiva ai problemi di debito pubblico in Europa e negli Usa fino a quando le tasse alle frontiere sulle merci in provenienza dai paesi a bassi salari verso i paesi ad alti salari non saranno alzate ad un livello tale che levi il freno alla crescita delle economie occidentali».
L'apertura delle frontiere europee ai prodotti dei paesi a bassi salari va a vantaggio di chi? I cittadini europei piazzano, unanimi, in testa «le multinazionali» (i tedeschi, che pure hanno un forte avanzo commerciale, lo pensano al 70%, i francesi al 54%, italiani e inglesi al 57%, spagnoli al 64%). Una maggioranza pensa però che sia «una buona cosa» anche per il proprio paese: si va dal 62% dei tedeschi al 51% di Italia e Gran Bretagna e al 55% degli spagnoli, mentre solo i francesi sono ultra pessimisti, al 24%. Solo in Spagna sono ancora maggioranza (51%) a pensare che ci siano stati vantaggi anche per i lavoratori (lo pensa il 45% degli italiani, ma solo il 13% dei francesi). Per tutti è invece negativo l'impatto sull'ambiente (anche qui il pessimismo francese arriva all'87%). I due terzi di francesi, tedeschi, italiani e spagnoli pensano che i diritti doganali dovrebbero essere posti alle frontiere dell'Europa piuttosto che a quelle dei rispettivi paesi. Gli inglesi sono divisi su questa questione. Ma in caso di rifiuto dei partner europei di alzare i diritti doganali nei confronti dei paesi emergenti, inglesi, tedeschi, spagnoli e italiani, come i francesi, sono circa il 60% a pensare che bisogna farlo comunque alle frontiere dei rispettivi stati. Come per i francesi, sottolinea Murer, «il rialzo delle tasse verso i grandi paesi emergenti per la maggior parte di italiani, spagnoli, inglesi e tedeschi avrebbe delle conseguenze positive per l'industria, l'occupazione e la crescita economica del paese». Dal sondaggio, interpreta Murer, risulta che «i popoli dei grandi paesi europei rifiutano il libero scambio assoluto imposto dalle élites al potere. L'Unione europea rischia di essere fortemente rigettata dai popoli se continua ad ignorare queste questioni. Bisogna cambiare il quadro di riferimento del pensiero economico diffuso dalle nostre classi dirigenti e seguire il buon senso dei popoli. Poiché la Germania, sembra presa da un delirio di potenza, senza sapere alla fine cosa davvero vuole, un'alleanza tra Italia, Spagna e Francia sembra il solo modo per imporre all'Ue una svolta a 90 gradi per tornare ai fondamenti economici dell'Europa: una tariffa esterna comune che ha permesso uno sviluppo armonioso delle economie fino all'errore fatale del suo smantellamento».
Crisi dei debiti sovrani, crisi dell'euro, crisi dell'Europa. In questo periodo di minaccia di crollo sistemico, i governi sembrano impotenti a trovare una risposta comune ed efficace alla crisi, che per i cittadini è soprattutto economica, non solo finanziaria. La distanza tra governi e cittadini si fa sempre più ampia, e colpisce le istituzioni europee, travolte anch'esse da un generale discredito. Un'incomprensione si approfondisce: mentre gli stati che ancora conservano il rating AAA studiano l'ipotesi, sempre più vicina, di tornare a finanziare le banche con denaro pubblico, come già era successo nel 2008, i cittadini si interrogano sul perché vengano trovati dei soldi per salvare le banche, mentre ai popoli vengono imposti piani di rigore e tagli al welfare. Gli europei si sentono sballottati nella mondializzazione, di cui cominciano a sottolineare gli inconvenienti, soprattutto per quello che riguarda l'occupazione, mentre i vantaggi sfumano in secondo piano. La questione della «demondializzazione» è già entrata nel dibattito politico francese delle presidenziali del 2012.
A sinistra, oltre al Front de Gauche, la difende il socialista Arnaud Montebourg, candidato alle primarie del Ps, a destra è l'argomento del gollista sovranista Nicolas Dupont-Aignan ed è portata all'estremo dal Fronte nazionale, che propone l'uscita dall'euro. Un gruppo di economisti e studiosi francesi, tra cui Emmanuel Todd, Jacques Sapir, Philippe Murer, Jean-Luc Gréau e Bernard Cassen, riuniti nell'associazione «Per un dibattito sul libero scambio», ha commissionato all'istituto Ifop un sondaggio in vari paesi europei - a maggio in Francia, a giugno in Italia, Gran Bretagna, Germania e Spagna - che rivela una forte richiesta di protezione da parte dell'Unione europea. Al centro delle preoccupazioni delle popolazioni c'è l'occupazione e il modo per proteggerla e rilanciarla in un'Europa che sta perdendo posti di lavoro industriale.
Il sondaggio, spiega l'economista Philippe Murer, professore alla Sorbonne, «ha mostrato che più dei due terzi degli italiani auspicano che le tasse sui prodotti in provenienza dai paesi a bassi salari vengano alzate. In questo, la loro opinione è molto vicina a quella di francesi, spagnoli e tedeschi, anch'essi ai due terzi favorevoli a questa soluzione». Solo gli inglesi restano più liberoscambisti, ma anche qui il 50% chiede protezione. «Il problema della delocalizzazione di attività nei paesi emergenti e del deficit commerciale di Italia, Spagna e Francia accumulato negli anni - aggiunge Murer - pone un grosso problema alle nostre economie. Questi deficit frenano la crescita delle economie occidentali e comportano un'accumulazione del debito nei nostri paesi. In effetti, quando un paese consuma più di quanto produce, ne consegue che un debito, pubblico o privato, debba venire contrattato. E anche un debito privato finisce per diventare pubblico, quando in occasione di una crisi finanziaria acuta lo stato è obbligato ad aiutare il settore privato. Di conseguenza, anche se il deficit commerciale non è il solo responsabile dell'indebitamento pubblico, esso tende ad impedire al paese di tornare a una situazione normale rispetto al debito pubblico e tende ad accrescere questo stesso debito. Quindi, non ci sarà una soluzione definitiva ai problemi di debito pubblico in Europa e negli Usa fino a quando le tasse alle frontiere sulle merci in provenienza dai paesi a bassi salari verso i paesi ad alti salari non saranno alzate ad un livello tale che levi il freno alla crescita delle economie occidentali».
L'apertura delle frontiere europee ai prodotti dei paesi a bassi salari va a vantaggio di chi? I cittadini europei piazzano, unanimi, in testa «le multinazionali» (i tedeschi, che pure hanno un forte avanzo commerciale, lo pensano al 70%, i francesi al 54%, italiani e inglesi al 57%, spagnoli al 64%). Una maggioranza pensa però che sia «una buona cosa» anche per il proprio paese: si va dal 62% dei tedeschi al 51% di Italia e Gran Bretagna e al 55% degli spagnoli, mentre solo i francesi sono ultra pessimisti, al 24%. Solo in Spagna sono ancora maggioranza (51%) a pensare che ci siano stati vantaggi anche per i lavoratori (lo pensa il 45% degli italiani, ma solo il 13% dei francesi). Per tutti è invece negativo l'impatto sull'ambiente (anche qui il pessimismo francese arriva all'87%). I due terzi di francesi, tedeschi, italiani e spagnoli pensano che i diritti doganali dovrebbero essere posti alle frontiere dell'Europa piuttosto che a quelle dei rispettivi paesi. Gli inglesi sono divisi su questa questione. Ma in caso di rifiuto dei partner europei di alzare i diritti doganali nei confronti dei paesi emergenti, inglesi, tedeschi, spagnoli e italiani, come i francesi, sono circa il 60% a pensare che bisogna farlo comunque alle frontiere dei rispettivi stati. Come per i francesi, sottolinea Murer, «il rialzo delle tasse verso i grandi paesi emergenti per la maggior parte di italiani, spagnoli, inglesi e tedeschi avrebbe delle conseguenze positive per l'industria, l'occupazione e la crescita economica del paese». Dal sondaggio, interpreta Murer, risulta che «i popoli dei grandi paesi europei rifiutano il libero scambio assoluto imposto dalle élites al potere. L'Unione europea rischia di essere fortemente rigettata dai popoli se continua ad ignorare queste questioni. Bisogna cambiare il quadro di riferimento del pensiero economico diffuso dalle nostre classi dirigenti e seguire il buon senso dei popoli. Poiché la Germania, sembra presa da un delirio di potenza, senza sapere alla fine cosa davvero vuole, un'alleanza tra Italia, Spagna e Francia sembra il solo modo per imporre all'Ue una svolta a 90 gradi per tornare ai fondamenti economici dell'Europa: una tariffa esterna comune che ha permesso uno sviluppo armonioso delle economie fino all'errore fatale del suo smantellamento».
martedì 27 settembre 2011
Campagna per il congelamento del debito.
Dal Centro nuovo modello di sviluppo
http://www.cnms.it/campagna_congelamento_debito
**COMUNICATO STAMPA SU AVVIO CAMPAGNA “CONGELAMENTO DEL DEBITO”**
Informiamo tutti i gruppi, movimenti, gestori di mezzi di informazione e tutte le persone interessate, che è stata lanciata la campagna “Congelamento del debito” per richiedere l'immediata sospensione del pagamento di interessi e capitale del debito pubblico italiano, con contemporanea creazione di un'autorevole commissione d'inchiesta che faccia luce sulla formazione del debito e sulla legittimità di tutte le sue componenti.
Riteniamo che senza una decisa azione dal basso ed una decisa assunzione di responsabilità da parte dei suoi cittadini, questo paese è condannato ad una perdita progressiva di sovranità e ad un peggioramento crescente della qualità della vita dei singoli e della collettività.
Pertanto invitiamo tutti coloro che condividono le finalità della campagna, non solo ad aderire sottoscrivendo l'iniziativa, ma anche a darne la più ampia diffusione con tutti i mezzi che ciascuno ha a propria disposizione.
Per accedere al testo della campagna e alle modalità di sottoscrizione, basta collegarsi al sito ttp://www.cnms.it/campagna_congelamento_debito
Il sito contiene anche un forum di discussione per consentire a chiunque di portare il proprio contributo di idee e condividere documenti inerenti il tema.
Vecchiano 22 Settembre 2011
*Per ulteriori informazioni rivolgersi a
Francesco Gesualdi
o a Aldo Zanchetta*
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CAMPAGNA PER IL CONGELAMENTO DEL DEBITO
http://www.cnms.it/campagna_congelamento_debito
**COMUNICATO STAMPA SU AVVIO CAMPAGNA “CONGELAMENTO DEL DEBITO”**
Informiamo tutti i gruppi, movimenti, gestori di mezzi di informazione e tutte le persone interessate, che è stata lanciata la campagna “Congelamento del debito” per richiedere l'immediata sospensione del pagamento di interessi e capitale del debito pubblico italiano, con contemporanea creazione di un'autorevole commissione d'inchiesta che faccia luce sulla formazione del debito e sulla legittimità di tutte le sue componenti.
Riteniamo che senza una decisa azione dal basso ed una decisa assunzione di responsabilità da parte dei suoi cittadini, questo paese è condannato ad una perdita progressiva di sovranità e ad un peggioramento crescente della qualità della vita dei singoli e della collettività.
Pertanto invitiamo tutti coloro che condividono le finalità della campagna, non solo ad aderire sottoscrivendo l'iniziativa, ma anche a darne la più ampia diffusione con tutti i mezzi che ciascuno ha a propria disposizione.
Per accedere al testo della campagna e alle modalità di sottoscrizione, basta collegarsi al sito ttp://www.cnms.it/campagna_congelamento_debito
Il sito contiene anche un forum di discussione per consentire a chiunque di portare il proprio contributo di idee e condividere documenti inerenti il tema.
Vecchiano 22 Settembre 2011
*Per ulteriori informazioni rivolgersi a
Francesco Gesualdi
o a Aldo Zanchetta
CAMPAGNA PER IL CONGELAMENTO DEL DEBITO
Continuano a farci credere che per uscire dal debito dobbiamo accettare manovre lacrime e sangue che ci impoveriscono e demoliscono i nostri diritti. Non è vero. La politica delle manovre sulle spalle dei deboli è voluta dalle autorità monetarie europee come risultato della speculazione. Ma è intollerabile che lo Stato si adegui ai ricatti del mercato: la sovranità appartiene al popolo, non al mercato!
Esiste un'altra via d'uscita dal debito. E' la via del congelamento e se la condividi ti invitiamo a firmare e a diffondere questo documento, affinché si crei una grande onda che dica basta alle continue manovre che distruggono il tessuto sociale. Il problema del debito va risolto alla radice riducendone la portata. Non è vero che tutto il debito va ripagato, il popolo ha l'obbligo di restituire solo quella parte che è stato utilizzata per il bene comune e solo se sono stati pagati tassi di interesse accettabili. Tutto il resto, dovuto a ruberie, sprechi, corruzione, è illegittimo e immorale, come hanno sempre sostenuto i popoli del Sud del mondo.
Per questo chiediamo un'immediata sospensione del pagamento di interessi e capitale, con contemporanea creazione di un'autorevole commissione d'inchiesta che faccia luce sulla formazione del debito e sulla legittimità di tutte le sue componenti. Le operazioni che dovessero risultare illegittime, per modalità di decisione o per pagamento di tassi di interesse iniqui, saranno denunciate e ripudiate come già è avvenuto in altri paesi.
La sospensione sarà relativa alla parte di debito posseduto dai grandi investitori istituzionali (banche, assicurazioni e fondi di investimento sia italiani che stranieri) che detengono oltre l’80% del suo valore. I piccoli risparmiatori vanno esclusi per non compromettere la loro sicurezza di vita.
Contemporaneamente va aperto un serio e ampio dibattito pubblico sulle strade da intraprendere per garantire la stabilità finanziaria del paese secondo criteri di equità e giustizia.
Almeno cinque proposte ci sembrano irrinunciabili:
•riforma fiscale basata su criteri di tassazione marcatamente progressiva;
•cancellazione dei privilegi fiscali e seria lotta a ogni forma di evasione fiscale;
•eliminazione degli sprechi e dei privilegi di tutte le caste: politici, alti funzionari, dirigenti di società;
•riduzione delle spese militari alle sole esigenze di difesa del paese e ritiro da tutte le missioni neocoloniali;
•abbandono delle grandi opere faraoniche orientando gli investimenti al risanamento dei territori, al potenziamento delle infrastrutture e dell'economia locali, al miglioramento dei servizi sociali col coinvolgimento delle comunità.
Attorno a queste poche, ma concrete rivendicazioni, è importante avviare un dibattito quanto più ampio possibile, partecipando al forum appositamente costituito all'indirizzo www.cnms.it/forum
Se poi l'onda crescerà, come speriamo, decideremo tutti insieme come procedere per rafforzarci e ottenere che questa proposta si trasformi in realtà.
Esiste un'altra via d'uscita dal debito. E' la via del congelamento e se la condividi ti invitiamo a firmare e a diffondere questo documento, affinché si crei una grande onda che dica basta alle continue manovre che distruggono il tessuto sociale. Il problema del debito va risolto alla radice riducendone la portata. Non è vero che tutto il debito va ripagato, il popolo ha l'obbligo di restituire solo quella parte che è stato utilizzata per il bene comune e solo se sono stati pagati tassi di interesse accettabili. Tutto il resto, dovuto a ruberie, sprechi, corruzione, è illegittimo e immorale, come hanno sempre sostenuto i popoli del Sud del mondo.
Per questo chiediamo un'immediata sospensione del pagamento di interessi e capitale, con contemporanea creazione di un'autorevole commissione d'inchiesta che faccia luce sulla formazione del debito e sulla legittimità di tutte le sue componenti. Le operazioni che dovessero risultare illegittime, per modalità di decisione o per pagamento di tassi di interesse iniqui, saranno denunciate e ripudiate come già è avvenuto in altri paesi.
La sospensione sarà relativa alla parte di debito posseduto dai grandi investitori istituzionali (banche, assicurazioni e fondi di investimento sia italiani che stranieri) che detengono oltre l’80% del suo valore. I piccoli risparmiatori vanno esclusi per non compromettere la loro sicurezza di vita.
Contemporaneamente va aperto un serio e ampio dibattito pubblico sulle strade da intraprendere per garantire la stabilità finanziaria del paese secondo criteri di equità e giustizia.
Almeno cinque proposte ci sembrano irrinunciabili:
•riforma fiscale basata su criteri di tassazione marcatamente progressiva;
•cancellazione dei privilegi fiscali e seria lotta a ogni forma di evasione fiscale;
•eliminazione degli sprechi e dei privilegi di tutte le caste: politici, alti funzionari, dirigenti di società;
•riduzione delle spese militari alle sole esigenze di difesa del paese e ritiro da tutte le missioni neocoloniali;
•abbandono delle grandi opere faraoniche orientando gli investimenti al risanamento dei territori, al potenziamento delle infrastrutture e dell'economia locali, al miglioramento dei servizi sociali col coinvolgimento delle comunità.
Attorno a queste poche, ma concrete rivendicazioni, è importante avviare un dibattito quanto più ampio possibile, partecipando al forum appositamente costituito all'indirizzo www.cnms.it/forum
Se poi l'onda crescerà, come speriamo, decideremo tutti insieme come procedere per rafforzarci e ottenere che questa proposta si trasformi in realtà.
Francuccio Gesualdi , Aldo Zanchetta, Alex Zanotelli, Bruno Amoroso, Antonio Moscato, Alberto Zoratti, Claudia Navoni, Rodrigo A.Rivas, Giorgio Riolo, Roberto Bugliani, Luigi Piccioni, Michele Boato, Carlo Contestabile Ciaccio, Roberto Fondi, Roberto Mancini, Gianni Novelli, Achille Rossi, Paolo Cacciari, Maurizio Fratta, Fabio Lucchesi, Lorenzo Guadagnucci, Nadia Ranieri, Paola Mazzone, Enrico Peyretti, Gaia Capogna, Francesco Amendola, Uberto Sapienza, Manuela Moschi, Mauro Casini, Roberto Viani, Michela Caniparoli, Franco Fantozzi, Franco Nolli
La fine del ''pensiero unico''. Dalla crisi del neoliberismo ai nuovi scenari geopolitici.
di Sbancor. Fonte: carmillaonline
[Passata l'orgia retorica sul decennale dell'attacco alle Twin Towers, riproponiamo la storica analisi con la quale il nostro compagno e amico Sbancor, nell'agosto 2001, prevedeva l'imminente inizio di una recessione di lunga durata, e lo scoppio di una guerra nell'area asiatico-turanica dove si intersecano le vie del petrolio. Questo saggio dimostra, a dieci anni di distanza, due cose: che la guerra in Afghanistan era già pronta un mese prima dell'11 settembre, e sarebbe comunque scoppiata – la miccia era già srotolata: serviva solo un cerino per accenderla; e che la recessione che oggi chiamiamo crisi dell'economia globale era già in atto nell'estate del 2001, anche se per almeno 8 anni solo in pochi – e Sbancor era tra questi – lo hanno detto e scritto. Il saggio fu postato sul sito "Rekombinant", il cui archivio è stato in seguito craccato e distrutto, rendendo questa analisi di fatto irreperibile. Segnaliamo tuttavia che sul n. 86 di "La Contraddizione", chiuso il 03.09.2001, furono pubblicati degli appunti tratti da questo testo. Questa (ri)pubblicazione, a cura della redazione di Carmilla, vuole rendere omaggio alla lucida intelligenza di un nostro fraterno amico nel mogliore dei modi: invitando i lettori a pensare non solo a Sbancor, ma soprattutto come Sbancor.]
1. ...E allora capisci che la recessione deve ancora venire. E che sarà dura.
«Ormai alla ripresa dietro l'angolo non ci crede più nessuno in America. E molti hanno paura di guardare anche cosa ci sia dietro l'angolo: hanno paura di trovarci il Giappone e la "trappola della liquidità" (liquidity trap)». Così un mio amico, analista di una banca d'affari internazionale, commentava l'ultimo dei tagli operati dal FOMC (Federal Open Market Commitee). Tralascio per decenza i "***** you european shits" di cui il discorso era infarcito. Ormai anche i migliori analisti americani parlano come Al Pacino in "Scarface".
[Passata l'orgia retorica sul decennale dell'attacco alle Twin Towers, riproponiamo la storica analisi con la quale il nostro compagno e amico Sbancor, nell'agosto 2001, prevedeva l'imminente inizio di una recessione di lunga durata, e lo scoppio di una guerra nell'area asiatico-turanica dove si intersecano le vie del petrolio. Questo saggio dimostra, a dieci anni di distanza, due cose: che la guerra in Afghanistan era già pronta un mese prima dell'11 settembre, e sarebbe comunque scoppiata – la miccia era già srotolata: serviva solo un cerino per accenderla; e che la recessione che oggi chiamiamo crisi dell'economia globale era già in atto nell'estate del 2001, anche se per almeno 8 anni solo in pochi – e Sbancor era tra questi – lo hanno detto e scritto. Il saggio fu postato sul sito "Rekombinant", il cui archivio è stato in seguito craccato e distrutto, rendendo questa analisi di fatto irreperibile. Segnaliamo tuttavia che sul n. 86 di "La Contraddizione", chiuso il 03.09.2001, furono pubblicati degli appunti tratti da questo testo. Questa (ri)pubblicazione, a cura della redazione di Carmilla, vuole rendere omaggio alla lucida intelligenza di un nostro fraterno amico nel mogliore dei modi: invitando i lettori a pensare non solo a Sbancor, ma soprattutto come Sbancor.]
1. ...E allora capisci che la recessione deve ancora venire. E che sarà dura.
«Ormai alla ripresa dietro l'angolo non ci crede più nessuno in America. E molti hanno paura di guardare anche cosa ci sia dietro l'angolo: hanno paura di trovarci il Giappone e la "trappola della liquidità" (liquidity trap)». Così un mio amico, analista di una banca d'affari internazionale, commentava l'ultimo dei tagli operati dal FOMC (Federal Open Market Commitee). Tralascio per decenza i "***** you european shits" di cui il discorso era infarcito. Ormai anche i migliori analisti americani parlano come Al Pacino in "Scarface".
lunedì 26 settembre 2011
Beni comuni vs capitalismo; paradigmi a confronto.
Autore: Ricoveri, Giovanna. Fonte: eddyburg
Schema della lezione alla prima ghiornata della VII edizione della Scuola di di eddyburg, «Oltre la crescita, dopo lo “sviluppo”. Nuove domande alla pianificazione»
Beni comuni e bene comune
Beni comuni è una espressione inflazionata, riemersa dalla notte dei tempi agli inizi del Terzo Millennio nella crisi del neoliberismo, come uno strumento utile a contrastare la privatizzazione e l’appropriazione del mondo da parte del capitale nelle sue due espressioni storiche – Stato e Mercato: come uno strumento capace di evitare che beni, servizi e rapporti sociali cessino di essere valori d’uso e siano mercificati, e cioè trasformati in valori di scambio per il profitto da realizzare sul mercato capitalistico degli equivalenti. Ovviamente i beni comuni esistevano anche quando non se ne parlava, nei due-tre secoli dopo la loro cancellazione con la Rivoluzione industriale che li ha considerati come un ostacolo al progresso e allo sviluppo, un lascito indesiderato del passato da superare più in fretta possibile – come è accaduto all’agricoltura contadina nel secolo scorso. La loro riemersione è segno di una vitalità nuova di opposizione diffusa alla distruttività del capitalismo, ma soffre di un vuoto di conoscenza e di memoria storica, e questo favorisce il fiorire di interpretazioni diverse e talvolta opposte, che possono creare confusione e ritardare l’affermarsi dell’alternativa. Una di queste confusioni è quella tra “il bene comune”, che non è il singolare di beni comuni ed esprime invece l’interesse generale o il benessere; ma non una struttura materiale, come una risorsa naturale o uno spazio fisico, come sono i beni comuni.
Il neoliberismo e la privatizzazione dei beni comuni
Storicamente, la ripresa di interesse per i beni comuni risale alla crisi del neoliberismo, che ha fatto fare un ulteriore e significativo salto di scala alla distruttività del sistema capitalistico, dopo i precedenti salti di scala come quello del consumismo o consumo di massa del secondo dopoguerra che ha promesso la società dell’abbondanza nascondendone il lato oscuro – dall’aumento incontrollato dei rifiuti o scarti, al depauperamento delle risorse naturali usate oltre la loro “capacità di carico”, alla separazione sempre più marcata tra produzione per il soddisfacimento dei bisogni e produzione per l’aumento del profitto, allo spreco di risorse incluso quelle essenziali alla vita sul pianeta, alla rottura dei rapporti sociali, alla de-responsabilizzazione sociale dell’impresa (che ha delocalizzato nel mondo il ciclo di produzione di merci e servizi, rendendo possibile licenziare per email i lavoratori delle aziende del ciclo catena quando il loro profitto scende al di sotto del target prefissato dall’azienda madre).
Schema della lezione alla prima ghiornata della VII edizione della Scuola di di eddyburg, «Oltre la crescita, dopo lo “sviluppo”. Nuove domande alla pianificazione»
Beni comuni e bene comune
Beni comuni è una espressione inflazionata, riemersa dalla notte dei tempi agli inizi del Terzo Millennio nella crisi del neoliberismo, come uno strumento utile a contrastare la privatizzazione e l’appropriazione del mondo da parte del capitale nelle sue due espressioni storiche – Stato e Mercato: come uno strumento capace di evitare che beni, servizi e rapporti sociali cessino di essere valori d’uso e siano mercificati, e cioè trasformati in valori di scambio per il profitto da realizzare sul mercato capitalistico degli equivalenti. Ovviamente i beni comuni esistevano anche quando non se ne parlava, nei due-tre secoli dopo la loro cancellazione con la Rivoluzione industriale che li ha considerati come un ostacolo al progresso e allo sviluppo, un lascito indesiderato del passato da superare più in fretta possibile – come è accaduto all’agricoltura contadina nel secolo scorso. La loro riemersione è segno di una vitalità nuova di opposizione diffusa alla distruttività del capitalismo, ma soffre di un vuoto di conoscenza e di memoria storica, e questo favorisce il fiorire di interpretazioni diverse e talvolta opposte, che possono creare confusione e ritardare l’affermarsi dell’alternativa. Una di queste confusioni è quella tra “il bene comune”, che non è il singolare di beni comuni ed esprime invece l’interesse generale o il benessere; ma non una struttura materiale, come una risorsa naturale o uno spazio fisico, come sono i beni comuni.
Il neoliberismo e la privatizzazione dei beni comuni
Storicamente, la ripresa di interesse per i beni comuni risale alla crisi del neoliberismo, che ha fatto fare un ulteriore e significativo salto di scala alla distruttività del sistema capitalistico, dopo i precedenti salti di scala come quello del consumismo o consumo di massa del secondo dopoguerra che ha promesso la società dell’abbondanza nascondendone il lato oscuro – dall’aumento incontrollato dei rifiuti o scarti, al depauperamento delle risorse naturali usate oltre la loro “capacità di carico”, alla separazione sempre più marcata tra produzione per il soddisfacimento dei bisogni e produzione per l’aumento del profitto, allo spreco di risorse incluso quelle essenziali alla vita sul pianeta, alla rottura dei rapporti sociali, alla de-responsabilizzazione sociale dell’impresa (che ha delocalizzato nel mondo il ciclo di produzione di merci e servizi, rendendo possibile licenziare per email i lavoratori delle aziende del ciclo catena quando il loro profitto scende al di sotto del target prefissato dall’azienda madre).
Franco Berardi Bifo: In difesa di Silvio Berlusconi (e tutta la sua banda di ruffiani predatori e tagliagole)
di Franco Berardi Bifo.
Fonte: controlacrisi
Introduzione
Una banda di criminali sapientemente organizzati si è impadronita del potere mediatico, finanziario e politico, e lo detiene con coraggioso sprezzo del pericolo da quasi un ventennio. Un altro ventennio italiano.
La banda si difende assai bene, da ogni punto di vista. Dispone di enormi capitali coi quali è possibile comprare non solo ville, televisioni, giornali, giudici e favori sessuali, ma anche quel che più conta alla distanza: il voto di una parte consistente del Parlamento e il voto di milioni di elettori. Dispone di avvocati ben pagati, preparati, pronti a tutto. La linea di difesa, in generale è la seguente: non intendo rispondere, non me ne importa niente delle accuse che mi rivolgete, delle rivelazioni giornalistiche e di quel che si pensa di me.
Continuo a fare quel che ho sempre fatto, e nessuno ha la forza di fermarmi. Perciò la banda resta salda in sella ancor oggi, autunno 2011. Magari meno solida di un tempo, ma solida abbastanza per continuare a governare sul nulla mentre il paese sprofonda con ogni evidenza in una crisi catastrofica di cui, per essere onesti, la banda non è affatto responsabile, checché ne dica il povero Bersani. La crisi è stata infatti provocata da sommovimenti tellurici di portata planetaria, e la banda per lungo tempo ha deciso che il problema non la riguarda, il che non è del tutto riprovevole dato che non c’è alcun modo di venirne fuori finché la dittatura finanziaria non sarà stata abbattuta, checché ne dica il povero di Bersani.
Anche se sono solide le difese politiche mediatiche e giudiziarie, c’è un punto in cui la banda appare un po’ scoperta: la difesa ideologica, se posso dire così. Il Mammasantissima ha saputo scegliere bene gli avvocati, che son pronti ad azzannare la carotide, ma quanto agli ideologi non sembra aver comprato quelli giusti. A questo regime quasi perfetto mancano gli intellettuali, e per quanto si possa ritenere che non c’è un gran bisogno di parole quando disponi di pacchi di denari, alla lunga l’assenza di senso produce un vuoto. E in quel vuoto la banda rischia di sprofondare.
Una banda di criminali sapientemente organizzati si è impadronita del potere mediatico, finanziario e politico, e lo detiene con coraggioso sprezzo del pericolo da quasi un ventennio. Un altro ventennio italiano.
La banda si difende assai bene, da ogni punto di vista. Dispone di enormi capitali coi quali è possibile comprare non solo ville, televisioni, giornali, giudici e favori sessuali, ma anche quel che più conta alla distanza: il voto di una parte consistente del Parlamento e il voto di milioni di elettori. Dispone di avvocati ben pagati, preparati, pronti a tutto. La linea di difesa, in generale è la seguente: non intendo rispondere, non me ne importa niente delle accuse che mi rivolgete, delle rivelazioni giornalistiche e di quel che si pensa di me.
Continuo a fare quel che ho sempre fatto, e nessuno ha la forza di fermarmi. Perciò la banda resta salda in sella ancor oggi, autunno 2011. Magari meno solida di un tempo, ma solida abbastanza per continuare a governare sul nulla mentre il paese sprofonda con ogni evidenza in una crisi catastrofica di cui, per essere onesti, la banda non è affatto responsabile, checché ne dica il povero Bersani. La crisi è stata infatti provocata da sommovimenti tellurici di portata planetaria, e la banda per lungo tempo ha deciso che il problema non la riguarda, il che non è del tutto riprovevole dato che non c’è alcun modo di venirne fuori finché la dittatura finanziaria non sarà stata abbattuta, checché ne dica il povero di Bersani.
Anche se sono solide le difese politiche mediatiche e giudiziarie, c’è un punto in cui la banda appare un po’ scoperta: la difesa ideologica, se posso dire così. Il Mammasantissima ha saputo scegliere bene gli avvocati, che son pronti ad azzannare la carotide, ma quanto agli ideologi non sembra aver comprato quelli giusti. A questo regime quasi perfetto mancano gli intellettuali, e per quanto si possa ritenere che non c’è un gran bisogno di parole quando disponi di pacchi di denari, alla lunga l’assenza di senso produce un vuoto. E in quel vuoto la banda rischia di sprofondare.
Una crescita senza benessere.
di Guido Viale - «il manifesto». Fonte: megachip
La crescita (che non c'è e, dove c'era, svanisce) è trattata sempre più come un obbligo. Ma quella di cui si parla è solo una crescita contabile (del Pil), finalizzata a riequilibrare i rapporti tra deficit - e debito - e Pil con un aumento del denominatore (Pil) e non solo con una riduzione dei numeratori (deficit e debito). Il tutto soprattutto per «rassicurare i mercati». Dalla crescita ci si attende anche un aumento dei redditi tassabili (non tutti i redditi lo sono, o lo sono nella stessa misura: alcuni, per legge; altri, per violazione della legge) e, quindi, delle entrate dello Stato, rendendo più facile il pareggio di bilancio (assurto al rango di obbligo costituzionale) e, forse, anche una riduzione del debito (anch'essa resa obbligatoria dal cosiddetto patto euro-plus).
Tuttavia meno spesa e più entrate non bastano a garantire il pareggio; non è detto che l'avanzo primario programmato (il surplus delle entrate sulle spese) sia compatibile con l'andamento dei tassi. Così gli interessi si accumulano in nuovo debito, una spirale, in contesti di deflazione come questo, senza fine.
La Grecia è da tempo in stato fallimentare (default): la sua economia non potrà più crescere per decenni; meno che mai in misura sufficiente ad azzerare il deficit o ripagare anche solo in parte il debito. Perché, allora, economisti e statisti non ne prendono atto?
In parte perché non sanno che fare (era una sopravvenienza prevedibile, ma mai presa in considerazione); in parte per rapinarla; pensioni, salari, posti di lavoro, servizi pubblici, isole, riserve auree: tutto quello di cui ci si può appropriare (privatizzandolo) va preso prima di ammettere l'irreversibilità della situazione.
La crescita (che non c'è e, dove c'era, svanisce) è trattata sempre più come un obbligo. Ma quella di cui si parla è solo una crescita contabile (del Pil), finalizzata a riequilibrare i rapporti tra deficit - e debito - e Pil con un aumento del denominatore (Pil) e non solo con una riduzione dei numeratori (deficit e debito). Il tutto soprattutto per «rassicurare i mercati». Dalla crescita ci si attende anche un aumento dei redditi tassabili (non tutti i redditi lo sono, o lo sono nella stessa misura: alcuni, per legge; altri, per violazione della legge) e, quindi, delle entrate dello Stato, rendendo più facile il pareggio di bilancio (assurto al rango di obbligo costituzionale) e, forse, anche una riduzione del debito (anch'essa resa obbligatoria dal cosiddetto patto euro-plus).
Tuttavia meno spesa e più entrate non bastano a garantire il pareggio; non è detto che l'avanzo primario programmato (il surplus delle entrate sulle spese) sia compatibile con l'andamento dei tassi. Così gli interessi si accumulano in nuovo debito, una spirale, in contesti di deflazione come questo, senza fine.
La Grecia è da tempo in stato fallimentare (default): la sua economia non potrà più crescere per decenni; meno che mai in misura sufficiente ad azzerare il deficit o ripagare anche solo in parte il debito. Perché, allora, economisti e statisti non ne prendono atto?
In parte perché non sanno che fare (era una sopravvenienza prevedibile, ma mai presa in considerazione); in parte per rapinarla; pensioni, salari, posti di lavoro, servizi pubblici, isole, riserve auree: tutto quello di cui ci si può appropriare (privatizzandolo) va preso prima di ammettere l'irreversibilità della situazione.
Europa, occupiamo lo spazio comune.
di Ugo Mattei. Fonte: sbilanciamoci
Non c'è timoniere, né punto d'arrivo nell'attuale "rotta" d'Europa, cresciuta con il motto implicito "meglio che niente". L'alternativa è radicale: uscire dall'egemonia privatistica, mettere al centro della scena la lotta per un diritto del comune e contro l’accumulo istituzionalizzato della ricchezza
Tenere una rotta è possibile qualora si configurino due condizioni. Deve esserci un timoniere e il timoniere deve tener presente un punto d’arrivo cui tendere in modo il più possibile coerente. Ne segue che la metafora della rotta mal si addice all’Europa per mancanza dell’una e dell’altra condizione. Non si può escludere che nell’immediato secondo dopoguerra i c.d. padri fondatori dell’Europa, da Shuman a Spinelli da Monet ad Adenauer, avessero in mente un obiettivo, sostanzialmente quello di evitare rigurgiti di aggressività militare tedesca attraverso misure di mercato. Quello scopo, certo importantissimo, è stato raggiunto ma la sconfitta politica del manifesto di Ventotene (almeno nella sua interpretazione più ambiziosa e avanzata) ha semplicemente tramutato la cifra dell’aggressività tedesca da militare a economica, come ampiamente dimostrato inter alia dalla recente vicenda greca. Conseguenza politica del prestigio dei “padri fondatori” è stata l’ideologia, diffusasi soprattutto a sinistra, del “meglio che niente”.
In tempi recenti Delors e Prodi sono stati gli esponenti più prestigiosi della nutrita schiera di quanti sostengono la desiderabilità intrinseca del lavoro politico rivolto all’obiettivo della maggior integrazione. Dall’Atto unico europeo al Trattato di Maastricht, dall’elezione diretta del Parlamento europeo all’euro, ci si è proclamati spesso con orgoglio “europeisti” senza mai davvero fare i conti con il problema di “quale integrazione”. Ben pochi si sono chiesti, con la necessaria autorevolezza, dove la politica del “meglio che niente”, trasposta in un dispositivo giuridico istituzionale complesso e inarrestabile, diacronico e sincronico, quale quello della Comunità, dell’Unione e del Consiglio d’Europa, stesse portando i popoli europei.
Non c'è timoniere, né punto d'arrivo nell'attuale "rotta" d'Europa, cresciuta con il motto implicito "meglio che niente". L'alternativa è radicale: uscire dall'egemonia privatistica, mettere al centro della scena la lotta per un diritto del comune e contro l’accumulo istituzionalizzato della ricchezza
Tenere una rotta è possibile qualora si configurino due condizioni. Deve esserci un timoniere e il timoniere deve tener presente un punto d’arrivo cui tendere in modo il più possibile coerente. Ne segue che la metafora della rotta mal si addice all’Europa per mancanza dell’una e dell’altra condizione. Non si può escludere che nell’immediato secondo dopoguerra i c.d. padri fondatori dell’Europa, da Shuman a Spinelli da Monet ad Adenauer, avessero in mente un obiettivo, sostanzialmente quello di evitare rigurgiti di aggressività militare tedesca attraverso misure di mercato. Quello scopo, certo importantissimo, è stato raggiunto ma la sconfitta politica del manifesto di Ventotene (almeno nella sua interpretazione più ambiziosa e avanzata) ha semplicemente tramutato la cifra dell’aggressività tedesca da militare a economica, come ampiamente dimostrato inter alia dalla recente vicenda greca. Conseguenza politica del prestigio dei “padri fondatori” è stata l’ideologia, diffusasi soprattutto a sinistra, del “meglio che niente”.
In tempi recenti Delors e Prodi sono stati gli esponenti più prestigiosi della nutrita schiera di quanti sostengono la desiderabilità intrinseca del lavoro politico rivolto all’obiettivo della maggior integrazione. Dall’Atto unico europeo al Trattato di Maastricht, dall’elezione diretta del Parlamento europeo all’euro, ci si è proclamati spesso con orgoglio “europeisti” senza mai davvero fare i conti con il problema di “quale integrazione”. Ben pochi si sono chiesti, con la necessaria autorevolezza, dove la politica del “meglio che niente”, trasposta in un dispositivo giuridico istituzionale complesso e inarrestabile, diacronico e sincronico, quale quello della Comunità, dell’Unione e del Consiglio d’Europa, stesse portando i popoli europei.
domenica 25 settembre 2011
La politica, l'economia ed il fallimento del mercato.
di Nicola Melloni su Liberazione del 23/09/2011. Fonte: esserecomunisti
Passo dopo passo Italia ed Europa si stanno avvicinando sempre più pericolosamente all'orlo del precipizio. Negli ultimi giorni abbiamo avuto una nuova brusca accellerata, prima a livello di stati, con il downgrading del debito pubblico italiano e le interminabili ed inutili discussioni tra il governo greco ed il Fondo Monetario Internazionale sull'ennesimo pacchetto di salvataggio per Atene. Poi il panico si è propagato al settore privato: la settimana scorsa Moody's ha tagliato il rating di Credit Agricole e Societe Generale, due delle più grandi banche francesi. Ed ora Standard&Poor's ha abbassato il rating di ben sette banche italiane. Una situazione esplosiva, con la Siemens che ha ritirato 500 milioni di euro da una delle due banche francesi e li ha depositati presso la Banca Centrale Europea, dimostrando poca fiducia nella tenuta del sistema bancario privato. In un continuo e perverso rimpallarsi di responsabilità, il rischio continua a passare di mano tra settore pubblico e privato. Nel 2007 il fallimento del sistema finanziario globale è stato evitato dall'intervento statale, provocando però la crisi dei debiti sovrani iniziata l'anno scorso in Grecia ed Irlanda ed estesasi poi ad Italia e Spagna. Ora però il rischio sembra tornare verso le banche che hanno il portafoglio pieno di titoli pubblici, greci, spagnoli ed italiani che, in caso di default, si trasformerebbero in carta straccia. Non a caso la Germania sta già organizzando una ricapitilizzazione delle sue banche che rischiano di essere travolte da fallimenti a catena.
Esiste certamente un problema di fondamentali economici che stanno scatenando questa tempesta perfetta non solo sui mercati finanziari, ma sull'economia occidentale tutta. Il deficit di Atene è insostenibile e la dinamica del debito fuori controllo - la Grecia è già di fatto fallita anche se nessuno lo vuole ammettere. Il debito italiano è altrettanto insostenibile, soprattutto in presenza di crescita zero. Ed i bilanci di molte banche europee sono pericolosamente in rosso, anche se artifici contabili cercano di dimostrare il contrario. Questi problemi sono sotto gli occhi di tutti e devono essere risolti se vogliamo uscire dall'imbuto in cui ci siamo infilati.
Passo dopo passo Italia ed Europa si stanno avvicinando sempre più pericolosamente all'orlo del precipizio. Negli ultimi giorni abbiamo avuto una nuova brusca accellerata, prima a livello di stati, con il downgrading del debito pubblico italiano e le interminabili ed inutili discussioni tra il governo greco ed il Fondo Monetario Internazionale sull'ennesimo pacchetto di salvataggio per Atene. Poi il panico si è propagato al settore privato: la settimana scorsa Moody's ha tagliato il rating di Credit Agricole e Societe Generale, due delle più grandi banche francesi. Ed ora Standard&Poor's ha abbassato il rating di ben sette banche italiane. Una situazione esplosiva, con la Siemens che ha ritirato 500 milioni di euro da una delle due banche francesi e li ha depositati presso la Banca Centrale Europea, dimostrando poca fiducia nella tenuta del sistema bancario privato. In un continuo e perverso rimpallarsi di responsabilità, il rischio continua a passare di mano tra settore pubblico e privato. Nel 2007 il fallimento del sistema finanziario globale è stato evitato dall'intervento statale, provocando però la crisi dei debiti sovrani iniziata l'anno scorso in Grecia ed Irlanda ed estesasi poi ad Italia e Spagna. Ora però il rischio sembra tornare verso le banche che hanno il portafoglio pieno di titoli pubblici, greci, spagnoli ed italiani che, in caso di default, si trasformerebbero in carta straccia. Non a caso la Germania sta già organizzando una ricapitilizzazione delle sue banche che rischiano di essere travolte da fallimenti a catena.
Esiste certamente un problema di fondamentali economici che stanno scatenando questa tempesta perfetta non solo sui mercati finanziari, ma sull'economia occidentale tutta. Il deficit di Atene è insostenibile e la dinamica del debito fuori controllo - la Grecia è già di fatto fallita anche se nessuno lo vuole ammettere. Il debito italiano è altrettanto insostenibile, soprattutto in presenza di crescita zero. Ed i bilanci di molte banche europee sono pericolosamente in rosso, anche se artifici contabili cercano di dimostrare il contrario. Questi problemi sono sotto gli occhi di tutti e devono essere risolti se vogliamo uscire dall'imbuto in cui ci siamo infilati.
SIX PACK: CARO DI PIETRO, CI SPIEGHI PERCHE' IN EUROPA VOTATE QUESTO SCHIFO?
di Piobbichi Francesco per controlacrisi.org
Come pochi di voi sapranno ( per la censura mediatica bipartisan) in Europa si gioca una partita di estrema importanza in queste settimane. Nei prossimi giorni si voterà la parte finale dell'Euro Plus Pact, chiamata in gergo tecnico SIX PACK. Una serie di norme e regolamenti che concludono il più grande attacco ai diritti dei lavoratori e allo stato sociale della storia moderna europea dopo il fascismo. Fatto sta, che stavolta ci sono degli elementi di novità interessanti. Per la prima volta i socialisti, in crisi di consenso per la loro adesione al modello sociale euroliberista che hanno di fatto costruito e difeso, hanno annunciato il voto contrario di almeno 4 delle 6 direttive del six pact, mentre la Sinistra Europea ed il GUE hanno annunciato giustamente che voteranno contro tutto l'intero pacchetto. Spulciando meglio le agenzie, abbiamo notato con qualche sorpresa che voteranno il Six Pack per intero i parlamentari dell'IDV che aderiscono al gruppo dell'Alde che ha assicurato il pieno sostegno al pacchetto assieme al PPE ed ai conservatori. Da quanto sappiamo però, i conti non tornano e si trema perchè probabilmente la maggioranza è a rischio, questione di pochi voti. Noi ovviamente tifiamo perchè il Six pack non passi, e proviamo a fare quello che possiamo per raggiungere questo scopo. Per questo Tonino ti scriviamo per capire una cosa, ma ci spieghi perchè in Europa voti norme che provocheranno finanziarie lacrime e sangue per i nostri lavoratori assieme al PDL e in ITalia invece urli di voler costruire l'alternativa? Come diresti tu, ma che c'azzecca?
Per chi non mastica la materia ripubblichiamo un nostro articolo, su cosa sia l'Euro Six PAck
SIX PACK: I 6 PUNTI DEL GOVERNO UNICO DELLE BANCHE ENTRANO IN VIGORE
19/09/2011 22:12 ECONOMIA - INTERNAZIONALE
L'Europa si prepara ad avere una nuova e rinforzata governance economica comune sui bilanci statali, l'Ansa riporta oggi con un approfondito articolo quello che in realtà rappresenta il il programma attuativo del governo unico delle banche. L'Ecofin informale di venerdì scorso in Polonia ha dato il via libera all'accordo di compromesso tra Consiglio e Parlamento Europeo dopo mesi di battibecchi tra tecnocrati e governanti. Da quanto ho avuto modo di leggere in questi giorni non ci dovrebbero essere ulteriori ostacoli all'entrata in vigore ( forse da gennaio ) del meccanismo di governo ultraliberista che inizierà a macinare il popolo ancora con più ferocia di quanto stanno facendo oggi i governi. Per gli stati che non si adegueranno all'austerity, scatteranno multe europee pesantissime che, a seconda dei casi, sono nell'ordine dello 0,2% o 0,1% del Pil. Volete sapere per caso quanto sarebbe in Italia una multa del genere? 3 miliardi di euro circa, miliardo più miliardo meno. Insomma, una rivoluzione autoritaria che dà alla Commissione europea poteri di controllo preventivo sulle politiche di bilancio nazionale, che stabilisce anche criteri comuni per le politiche fiscali tanto dei 27 quanto dei 17 paesi dell'Eurozona. Questo pacchetto di norme introduce meccanismi per la prevenzione e la riduzione degli squilibri, impone alcuni standard comuni per le statistiche e quindi interviene in maniera ancora più pesante sulla sovranità economica degli stati già compromessa dai ricatti della BCE. I parlamenti sono di fatto espropriati delle loro funzioni di indirizzo e le finanziarie saranno decise altrove. E' questo un pacchetto di norme che facendo riferimento al deficit fiscale, al debito pubblico e non al debito privato, all’inflazione favorisce di fatto le esportazioni ( della Germania ) massacrando i paesi periferici. Il nuovo autoritarismo monetario, che i tecnocrati chiamano "governance" o 'six pack', introduce la sorveglianza sul debito, un meccanismo devastante soprattutto per l'Italia. In poche parole un organismo superiore, senza che nessun popolo lo abbia deciso, ha il potere di imporre ai paesi che hanno un rapporto debito/Pil superiore al 60% - in Italia è del 120% - l'obbligo di ridurlo ogni anno del 5% (un ventesimo della parte eccedente). Non ho tempo per fare i conti ma raggiunto il pareggio di bilancio nel 2014 con lacrime e sangue, dovremo poi ridurre il debito con finanziarie pesantissime impostate su questi indici.
Come pochi di voi sapranno ( per la censura mediatica bipartisan) in Europa si gioca una partita di estrema importanza in queste settimane. Nei prossimi giorni si voterà la parte finale dell'Euro Plus Pact, chiamata in gergo tecnico SIX PACK. Una serie di norme e regolamenti che concludono il più grande attacco ai diritti dei lavoratori e allo stato sociale della storia moderna europea dopo il fascismo. Fatto sta, che stavolta ci sono degli elementi di novità interessanti. Per la prima volta i socialisti, in crisi di consenso per la loro adesione al modello sociale euroliberista che hanno di fatto costruito e difeso, hanno annunciato il voto contrario di almeno 4 delle 6 direttive del six pact, mentre la Sinistra Europea ed il GUE hanno annunciato giustamente che voteranno contro tutto l'intero pacchetto. Spulciando meglio le agenzie, abbiamo notato con qualche sorpresa che voteranno il Six Pack per intero i parlamentari dell'IDV che aderiscono al gruppo dell'Alde che ha assicurato il pieno sostegno al pacchetto assieme al PPE ed ai conservatori. Da quanto sappiamo però, i conti non tornano e si trema perchè probabilmente la maggioranza è a rischio, questione di pochi voti. Noi ovviamente tifiamo perchè il Six pack non passi, e proviamo a fare quello che possiamo per raggiungere questo scopo. Per questo Tonino ti scriviamo per capire una cosa, ma ci spieghi perchè in Europa voti norme che provocheranno finanziarie lacrime e sangue per i nostri lavoratori assieme al PDL e in ITalia invece urli di voler costruire l'alternativa? Come diresti tu, ma che c'azzecca?
Per chi non mastica la materia ripubblichiamo un nostro articolo, su cosa sia l'Euro Six PAck
SIX PACK: I 6 PUNTI DEL GOVERNO UNICO DELLE BANCHE ENTRANO IN VIGORE
19/09/2011 22:12 ECONOMIA - INTERNAZIONALE
L'Europa si prepara ad avere una nuova e rinforzata governance economica comune sui bilanci statali, l'Ansa riporta oggi con un approfondito articolo quello che in realtà rappresenta il il programma attuativo del governo unico delle banche. L'Ecofin informale di venerdì scorso in Polonia ha dato il via libera all'accordo di compromesso tra Consiglio e Parlamento Europeo dopo mesi di battibecchi tra tecnocrati e governanti. Da quanto ho avuto modo di leggere in questi giorni non ci dovrebbero essere ulteriori ostacoli all'entrata in vigore ( forse da gennaio ) del meccanismo di governo ultraliberista che inizierà a macinare il popolo ancora con più ferocia di quanto stanno facendo oggi i governi. Per gli stati che non si adegueranno all'austerity, scatteranno multe europee pesantissime che, a seconda dei casi, sono nell'ordine dello 0,2% o 0,1% del Pil. Volete sapere per caso quanto sarebbe in Italia una multa del genere? 3 miliardi di euro circa, miliardo più miliardo meno. Insomma, una rivoluzione autoritaria che dà alla Commissione europea poteri di controllo preventivo sulle politiche di bilancio nazionale, che stabilisce anche criteri comuni per le politiche fiscali tanto dei 27 quanto dei 17 paesi dell'Eurozona. Questo pacchetto di norme introduce meccanismi per la prevenzione e la riduzione degli squilibri, impone alcuni standard comuni per le statistiche e quindi interviene in maniera ancora più pesante sulla sovranità economica degli stati già compromessa dai ricatti della BCE. I parlamenti sono di fatto espropriati delle loro funzioni di indirizzo e le finanziarie saranno decise altrove. E' questo un pacchetto di norme che facendo riferimento al deficit fiscale, al debito pubblico e non al debito privato, all’inflazione favorisce di fatto le esportazioni ( della Germania ) massacrando i paesi periferici. Il nuovo autoritarismo monetario, che i tecnocrati chiamano "governance" o 'six pack', introduce la sorveglianza sul debito, un meccanismo devastante soprattutto per l'Italia. In poche parole un organismo superiore, senza che nessun popolo lo abbia deciso, ha il potere di imporre ai paesi che hanno un rapporto debito/Pil superiore al 60% - in Italia è del 120% - l'obbligo di ridurlo ogni anno del 5% (un ventesimo della parte eccedente). Non ho tempo per fare i conti ma raggiunto il pareggio di bilancio nel 2014 con lacrime e sangue, dovremo poi ridurre il debito con finanziarie pesantissime impostate su questi indici.
La sua prima bandiera bruciata.
di Stefano Rizzo. Fonte: paneacqua
Mondo Nel suo discorso del Cairo, all'inizio del suo mandato, Obama "tese una mano" al mondo arabo, parlò di dialogo e di rispetto, denunciò come insostenibili le sofferenze del popolo palestinese e promise di impegnarsi perché la pace venisse raggiunta. Ancora l'anno scorso alle Nazioni Unite assicurò il suo sostegno al riconoscimento dello stato sovrano di Palestina e invitò le parti a raggiungere un accordo definitivo entro un anno. Il mondo arabo gli ha creduto, ha visto nel presidente dalla pelle scura il cui secondo nome è Hussein qualcuno che non è mosso da ostilità preconcetta. Ieri in Palestina, per la prima volta dopo tre anni di presidenza, le bandiere americane sono state date alle fiamme e in queste ore sta avvenendo la stessa cosa in decine di manifestazioni di protesta in tutto il Medioriente
Un tempo eravamo abituati a vedere bruciare le bandiere americane: in America, in Europa, in America latina, in Medioriente, un po' in tutto il mondo. La bandiera a stelle e strisce era vista - giustamente - come il simbolo dell'imperialismo americano e l'avversione per la politica estera degli Stati Uniti si esprimeva dandola alle fiamme. Nelle manifestazioni di protesta contro la guerra del Vietnam erano i giovani americani a bruciare la loro bandiera assieme alle cartoline di chiamata alle armi. Quando un presidente degli Stati Uniti andava all'estero la sua visita era spesso accompagnata dal rogo delle bandiere americane. Quando George W. Bush dette il via alle guerre in Afghanistan e in Iraq altre bandiere americane furono bruciate in tutto il mondo arabo. E lo stesso avveniva in Palestina, in Egitto, in Libano e altrove per protestare contro la repressione israeliana e il sostegno acritico che gli Stati Uniti davano allo stato di Israele. Le due bandiere, quella con la stella di Davide e quella a stelle e strisce venivano bruciate insieme.
Poi, nel 2008, fu eletto Barack Obama e il clima cambiò.
Nel suo discorso del Cairo, all'inizio del suo mandato, il nuovo presidente "tese una mano" al mondo arabo, parlò di dialogo e di rispetto, denunciò come insostenibili le sofferenze del popolo palestinese e promise di impegnarsi perché la pace venisse raggiunta. Ancora l'anno scorso alle Nazioni Unite assicurò il suo sostegno al riconoscimento dello stato sovrano di Palestina e invitò le parti a raggiungere un accordo definitivo entro un anno.
Il mondo arabo gli ha creduto, ha visto nel presidente dalla pelle scura il cui secondo nome è Hussein un possibile amico dell'Islam, in ogni caso qualcuno che non è mosso da ostilità preconcetta; e nel suo stesso primo nome, Barack -- che è parola ebraica e araba e vuol dire "benedetto" -- un auspicio di equanimità nei confronti di entrambi i contendenti.
Mondo Nel suo discorso del Cairo, all'inizio del suo mandato, Obama "tese una mano" al mondo arabo, parlò di dialogo e di rispetto, denunciò come insostenibili le sofferenze del popolo palestinese e promise di impegnarsi perché la pace venisse raggiunta. Ancora l'anno scorso alle Nazioni Unite assicurò il suo sostegno al riconoscimento dello stato sovrano di Palestina e invitò le parti a raggiungere un accordo definitivo entro un anno. Il mondo arabo gli ha creduto, ha visto nel presidente dalla pelle scura il cui secondo nome è Hussein qualcuno che non è mosso da ostilità preconcetta. Ieri in Palestina, per la prima volta dopo tre anni di presidenza, le bandiere americane sono state date alle fiamme e in queste ore sta avvenendo la stessa cosa in decine di manifestazioni di protesta in tutto il Medioriente
Un tempo eravamo abituati a vedere bruciare le bandiere americane: in America, in Europa, in America latina, in Medioriente, un po' in tutto il mondo. La bandiera a stelle e strisce era vista - giustamente - come il simbolo dell'imperialismo americano e l'avversione per la politica estera degli Stati Uniti si esprimeva dandola alle fiamme. Nelle manifestazioni di protesta contro la guerra del Vietnam erano i giovani americani a bruciare la loro bandiera assieme alle cartoline di chiamata alle armi. Quando un presidente degli Stati Uniti andava all'estero la sua visita era spesso accompagnata dal rogo delle bandiere americane. Quando George W. Bush dette il via alle guerre in Afghanistan e in Iraq altre bandiere americane furono bruciate in tutto il mondo arabo. E lo stesso avveniva in Palestina, in Egitto, in Libano e altrove per protestare contro la repressione israeliana e il sostegno acritico che gli Stati Uniti davano allo stato di Israele. Le due bandiere, quella con la stella di Davide e quella a stelle e strisce venivano bruciate insieme.
Poi, nel 2008, fu eletto Barack Obama e il clima cambiò.
Nel suo discorso del Cairo, all'inizio del suo mandato, il nuovo presidente "tese una mano" al mondo arabo, parlò di dialogo e di rispetto, denunciò come insostenibili le sofferenze del popolo palestinese e promise di impegnarsi perché la pace venisse raggiunta. Ancora l'anno scorso alle Nazioni Unite assicurò il suo sostegno al riconoscimento dello stato sovrano di Palestina e invitò le parti a raggiungere un accordo definitivo entro un anno.
Il mondo arabo gli ha creduto, ha visto nel presidente dalla pelle scura il cui secondo nome è Hussein un possibile amico dell'Islam, in ogni caso qualcuno che non è mosso da ostilità preconcetta; e nel suo stesso primo nome, Barack -- che è parola ebraica e araba e vuol dire "benedetto" -- un auspicio di equanimità nei confronti di entrambi i contendenti.
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