Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

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domenica 25 settembre 2011

La sua prima bandiera bruciata.


di Stefano Rizzo. Fonte: paneacqua
Mondo Nel suo discorso del Cairo, all'inizio del suo mandato, Obama "tese una mano" al mondo arabo, parlò di dialogo e di rispetto, denunciò come insostenibili le sofferenze del popolo palestinese e promise di impegnarsi perché la pace venisse raggiunta. Ancora l'anno scorso alle Nazioni Unite assicurò il suo sostegno al riconoscimento dello stato sovrano di Palestina e invitò le parti a raggiungere un accordo definitivo entro un anno. Il mondo arabo gli ha creduto, ha visto nel presidente dalla pelle scura il cui secondo nome è Hussein qualcuno che non è mosso da ostilità preconcetta. Ieri in Palestina, per la prima volta dopo tre anni di presidenza, le bandiere americane sono state date alle fiamme e in queste ore sta avvenendo la stessa cosa in decine di manifestazioni di protesta in tutto il Medioriente

Un tempo eravamo abituati a vedere bruciare le bandiere americane: in America, in Europa, in America latina, in Medioriente, un po' in tutto il mondo. La bandiera a stelle e strisce era vista - giustamente - come il simbolo dell'imperialismo americano e l'avversione per la politica estera degli Stati Uniti si esprimeva dandola alle fiamme. Nelle manifestazioni di protesta contro la guerra del Vietnam erano i giovani americani a bruciare la loro bandiera assieme alle cartoline di chiamata alle armi. Quando un presidente degli Stati Uniti andava all'estero la sua visita era spesso accompagnata dal rogo delle bandiere americane. Quando George W. Bush dette il via alle guerre in Afghanistan e in Iraq altre bandiere americane furono bruciate in tutto il mondo arabo. E lo stesso avveniva in Palestina, in Egitto, in Libano e altrove per protestare contro la repressione israeliana e il sostegno acritico che gli Stati Uniti davano allo stato di Israele. Le due bandiere, quella con la stella di Davide e quella a stelle e strisce venivano bruciate insieme.
Poi, nel 2008, fu eletto Barack Obama e il clima cambiò.

Nel suo discorso del Cairo, all'inizio del suo mandato, il nuovo presidente "tese una mano" al mondo arabo, parlò di dialogo e di rispetto, denunciò come insostenibili le sofferenze del popolo palestinese e promise di impegnarsi perché la pace venisse raggiunta. Ancora l'anno scorso alle Nazioni Unite assicurò il suo sostegno al riconoscimento dello stato sovrano di Palestina e invitò le parti a raggiungere un accordo definitivo entro un anno.
Il mondo arabo gli ha creduto, ha visto nel presidente dalla pelle scura il cui secondo nome è Hussein un possibile amico dell'Islam, in ogni caso qualcuno che non è mosso da ostilità preconcetta; e nel suo stesso primo nome, Barack -- che è parola ebraica e araba e vuol dire "benedetto" -- un auspicio di equanimità nei confronti di entrambi i contendenti.
In Libia, per la prima volta nella storia, un intervento militare americano e della Nato per cacciare il dittatore libico non ha suscitato manifestazioni di protesta nel mondo arabo. Al contrario, i popoli del Nordafrica protagonisti nei mesi precedenti dei movimenti per la democrazia, hanno salutato quell'intervento, in alcuni paesi con diffidenza, in altri con entusiasmo, ma senza l'ostilità generalizzata che ha sempre accompagnato gli interventi dei paesi occidentali nei paesi islamici. Questa volta le bandiere americane non sono state bruciate.

Adesso non più. Ieri in Palestina, per la prima volta dopo tre anni di presidenza Obama, le bandiere americane sono state date alle fiamme e in queste ore sta avvenendo la stessa cosa in decine di manifestazioni di protesta in tutto il Medioriente. Il giorno precedente nei Territori occupati c'erano state manifestazioni di giubilo per la prospettiva che la Palestina venisse riconosciuta alle Nazioni Unite uno stato sovrano. Ieri, dopo il discorso di Obama di mercoledì, la gioia si è trasformata in rabbia. Perché questa svolta, anzi questo ritorno all'indietro, che è altrettanto epocale e gravida di conseguenze di quella del Cairo di due anni fa?

Nel suo discorso alle Nazioni Unite il presidente americano ha respinto la richiesta di riconoscimento dello stato di Palestina che oggi verrà presentata formalmente dal presidente dell'Autorità nazionale palestinese Mohamoud Abbas. Obama ha annunciato che se e quando la richiesta verrà sottoposta all'esame del Consiglio di sicurezza gli Stati Uniti opporranno il veto. Ha ammesso che l'anno scorso davanti alla stessa Assemblea generale aveva auspicato esattamente il contrario e cioè che la Palestina diventasse uno stato sovrano "entro un anno". Ma ha aggiunto che adesso è prematuro e che senza un preliminare accordo di pace tra israeliani e palestinesi su tutte le questioni controverse, il riconoscimento dell'indipendenza sarebbe inutile e dannoso. "La pace - ha detto - non viene attraverso le risoluzioni delle Nazioni Unite - ma attraverso il dialogo tra le parti". Così dicendo ha in sostanza sposato la posizione del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che nei giorni scorsi aveva dichiarato che se si fosse giunti al riconoscimento sarebbe stata la fine dei negoziati di pace.
Questa volta Obama non ha convinto. La sua consumata (e solitamente efficacissima) abilità oratoria non ha funzionato, come a nulla è servito l'intenso lavorio dei diplomatici americani nei giorni scorsi per convincere Mohamoud Abbas a fare marcia indietro. Non solo il mondo arabo, ma neppure gran parte dei paesi europei lo hanno seguito. Il presidente francese Nicolas Sarkozy nel suo intervento all'Assemblea generale ha preso nettamente le distanze dall'alleato della guerra di Libia; e ha rilanciato un'altra proposta: si riconosca alla Palestina lo status di "stato osservatore", analogo a quello di cui gode la Santa Sede, così che possa fin da subito partecipare a tutti gli organismi politici ed economici delle Nazioni Unite, anche se senza diritto di voto. Si compia un primo passo concreto - ha detto Sarkozy - e intanto si riprendano "entro un mese", con un calendario preciso e garantito, i negoziati per giungere alla piena indipendenza. Sarkozy ha anche indicato un tempo massimo (per quanto poco realistico): otto mesi.

L'isolamento in cui si sono venuti a trovare gli Stati Uniti rimanda ad un'epoca passata, agli anni della guerra fredda quando americani e russi si scontravano nel Palazzo di vetro a colpi di veto; ma allora l'Europa e l'Occidente erano a fianco dell'alleato americano: anche quando non ne condividevano le posizioni, non lo contrastavano e si astenevano. Quell'epoca, dopo la fine della guerra fredda e lo scioglimento dell'Unione sovietica, sembrava definitivamente tramontata, aprendo la strada ad una nuova fase di dialogo internazionale.

Ciò che più preoccupa nella posizione di Obama è che la sua marcia indietro contraddice una politica da lui stesso costruita pazientemente in questi tre anni, una politica che non solo probabilmente corrisponde alle sue intenzioni profonde, ma che è stata adottata proprio con lo scopo di ripristinare la credibilità degli Stati Uniti nel mondo arabo che l'amministrazione di George Bush aveva totalmente eroso con le sue guerre, con il sostegno acritico nei confronti di Israele e con l'appoggio ai dittatori arabi. Per quanto motivata da considerazioni di politica interna (l'appoggio della comunità ebraica nelle prossime elezioni), è una scelta che questa volta rischia di compromettere non solo la credibilità degli Stati Uniti, ma dello stesso Barack Obama e dei suoi sforzi per dare un nuovo volto e una nuova strategia alla politica estera del suo paese. Questa volta le bandiere americane bruciano per lui.

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