Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 26 ottobre 2013

"Una Repubblica presidenziale e anticostituzionale".

Autore: giorgio cremaschi
         
Abbiamo corso il rischio di dover essere grati ai falchi berlusconiani. Nella disperata ricerca di rappresaglie contro il destino giudiziario del loro capo, hanno infatti provato a colpire in parlamento il disegno di controriforma costituzionale. Purtroppo han fallito per pochi voti e grazie al soccorso prestato al governo dalla Lega, di cui è ben nota la sensibilità costituzionale. Così la riscrittura in senso autoritario della Carta uscita dalla resistenza antifascista prosegue.
Anche questo dobbiamo mettere nel conto delle responsabilità del governo delle larghe intese e della sua guida assoluta, Giorgio Napolitano.
All'attuale Presidente della Repubblica sono oggi perdonate posizioni e scelte che non sarebbero mai state accettate da nessun suo predecessore. Tra questi va ricordato Francesco Cossiga, posto in stato d'accusa dal PCI per le sue ripetute prese di posizione a favore del cambiamento della Costituzione.
Napolitano il cambiamento non lo propaganda, lo pratica, fino al punto di fare le riunioni dei capigruppo di maggioranza come qualsiasi segretario di partito. Siamo diventati una repubblica presidenziale di fatto e credo abbiano fatto un grave errore i promotori della manifestazione del 12 ottobre a non dirlo con forza dal palco, raccogliendo un sentimento profondo di chi era in quella piazza. Le timidezze e le reticenze sul ruolo negativo del Presidente della Repubblica indeboliscono la lotta in difesa dei principi di fondo della Costituzione.
D'altra parte un pesantissimo colpo a quei principi è già stato assestato, ancora una volta principalmente da PD PDL e Lega, con la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio. La riscrittura dell'articolo 81 è infatti la madre di tutte le controriforme, perché cancella di fatto tutti i principi sociali contenuti nella prima parte.
Come può la Repubblica rimuovere tutti gli ostacoli economici e sociali che si oppongono alla piena eguaglianza dei cittadini, se ogni anno deve tagliare di decine di miliardi le spese sociali, e solo per pagare gli interessi sul debito senza violare l'obbligo costituzionale di pareggio?
Non può e così con questa controriforma le politiche di austerità diventano obbligo perenne. Come aveva chiesto il banchiere Morgan, prima di pagare 13 miliardi di dollari allo stato americano per le truffe sui derivati.
L' Europa deve capire che le politiche di austerità non sono una parentesi, ma il modo di condurre da qui in avanti un continente che deve accettare pienamente la società di mercato. Questo ha detto il banchiere americano a giugno sul Wall Street Journal e ha poi aggiunto che, per raggiungere questo obiettivo, i popoli europei devono liberarsi delle costituzioni antifasciste e sinistrorse che promettono una eguaglianza che non ci può più essere. Si comincia ad accontentarlo.
La controriforma costituzionale non è solo frutto delle classi dirigenti del nostro paese, ma viene prepotentemente richiesta dalla finanza internazionale, come venne formalizzato il 4 agosto 2011 dalla lettera al governo di Draghi e Trichet.
Il Fiscal Compact e i patti ad esso connessi hanno fatto il resto: al di sopra dei nuovi costituenti, oltre i saggi incaricati di rivedere la nostra Carta, stanno i mandanti e i controllori. Sopra di loro stanno quelle istituzioni tecnofinanziarie che impongono le politiche di austerità con quei vincoli che per Giorgio Napolitano sarebbe da incoscienti mettere in discussione. Mentre sarebbe la sola scelta saggia da compiere.
La difesa della costituzione repubblicana oggi non si fa solo contro la destra berlusconiana, ma anche contro le scelte politiche di Giorgio Napolitano e contro quei vincoli europei che ci hanno imposto la costituzionalizzazione dell'austerità.

Sono pronti. E noi?

di Elisabetta Teghil

La manifestazione del 19 ottobre è andata molto bene sia per i numeri sia per la volontà che ha espresso, ma, soprattutto, è stata utile.

Intanto ha sancito l’impossibilità da parte del PD di strumentalizzare le lotte per fini propri, come era accaduto in occasione della manifestazione del 14 dicembre 2010, e poi ha ratificato quello che era emerso nella manifestazione del 15 ottobre 2011, vale a dire l’irreversibile rottura tra il movimento e i partitini della così detta sinistra radicale.

Questi ultimi, da anni, non hanno più la consistenza per indire manifestazioni e come paguri si attaccavano al movimento, usandone i numeri e la capacità di mobilitazione.

I loro leader si limitavano a presentarsi in piazza e a farsi fotografare, forti del fatto che i media avrebbero dato risalto alla loro fugace apparizione, salvo, poi, prendere le distanze nei confronti dei così detti “violenti” avallando ogni forma di repressione poliziesca, giudiziaria e mediatica.

Il PD, più raffinato, usava dei cavalli di troia, sigle di volta in volta coniate per nascondere il ruolo di burattinaio che tirava le fila dietro le quinte. L’ultima di queste operazioni è stata quella di “Se non ora quando”.

Il movimento, con la manifestazione del 19 ottobre, ha dato una prova di maturità affrancandosi da questi padrini/e interessati/e.

E’ stata, infatti, una mobilitazione indetta dal movimento sui temi propri del movimento e nessuno/a ha potuto strumentalmente metterci il cappello.

Poi, sono stati definitivamente smascherati i meccanismi di controllo mediatici che il sistema mette in atto con le stesse modalità da tanti anni a partire dal ’68 e che in questa occasione si sono mostrati nella loro forma più compiuta.

I media, nessuno escluso, hanno dimostrato che siamo in un regime dando una lettura assolutamente univoca della manifestazione sia nella presentazione che nel racconto. Le bugie, le manipolazioni sono state e sono così grossolane e così trasversali che non possono essere imputate a questo o a quel giornalista improvvido o superficiale e neanche a questa o a quella testata giornalistica e/o televisiva.

Ed è stata evidente la lontananza di chi ancora si attarda a presentare questa o quella testata come autorevole, obiettiva e, magari, di sinistra.

Giornali e testate televisive hanno coperto l’informazione utilizzando in maniera strumentale soprattutto corrispondenti giovani e possibilmente ragazze, i quali e le quali, non sprovveduti/e, perché sapevano bene la ragione per cui erano state scelti/e, si sono prestati/e con un entusiasmo gregario a raccontare e a diffondere le veline del regime.

Infine, la modalità con cui le così dette “forze dell’ordine” hanno gestito e affrontato la piazza è il frutto e la sintesi di anni di sperimentazioni.

I giorni precedenti sono stati caratterizzati da una atmosfera di propaganda terroristica che si è tradotta nella creazione di una vera e propria “zona rossa” intorno al percorso della manifestazione, zona in cui è stata vietata la sosta delle macchine con grande disagio per gli abitanti delle aree interessate, disagio che fa parte chiaramente della volontà di creare paura intorno all’evento. E’ il risultato di una strategia attuata già a Genova nel 2001.

I negozi erano quasi tutti chiusi sul percorso della manifestazione, frutto di una campagna di pressione che ci ricorda le intimidazioni attuate dalle “forze dell’ordine” nei riguardi dei negozianti per indurli a chiudere in occasione della commemorazione degli attentati dell’11 settembre alle Torri Gemelle.

Il controllo diffuso e generalizzato di tutte le forme di comunicazione internet e telefoniche che è arrivato fino alla ventilata minaccia di interrompere qualsiasi tipo di collegamento nelle aree interessate dalla manifestazione, viene direttamente dalla pretesa che è avvenuta nell’indifferenza dei più, richiesta a gran voce dalla sinistra socialdemocratica e riformista, di controllare comunicazione, conti correnti, transazioni economiche e finanziarie per “prevenire” il terrorismo e “combattere” l’evasione fiscale. Ora ci troviamo nella condizione che nulla di quello che diciamo, neppure nel chiuso della nostra casa, possiamo essere sicure/i che non sia ascoltato e trascritto.

I pullman dei/delle manifestanti che venivano da fuori Roma, dal sud come dal nord, sono stati bloccati e gli occupanti schedati e i mezzi e le persone perquisiti. Con un meccanismo usato e collaudato nei confronti dei tifosi in trasferta. Gli ultras hanno fatto da cavie, nell’indifferenza, anzi nel plauso generale.

Prendendo a pretesto situazioni presentate all’opinione pubblica, precedentemente condizionata e manipolata, come pericolose, il neoliberismo fa passare forme di controllo sociale forti e serrate. L’isolamento e il rastrellamento di interi quartieri, come è successo a Roma a San Basilio e al Pigneto, sono stati giustificati con la caccia agli spacciatori.

L’ultimo pretesto in ordine di tempo è la violenza perpetrata sulle donne, e la legge sul femminicidio non è altro che l’ultimo pacchetto sicurezza.

Sono stati fermati e accompagnati alla frontiera, il giorno prima, semplicemente con un provvedimento amministrativo, alcuni cittadini stranieri, senza nessun motivo, con lo stesso meccanismo con cui i migranti vengono rinchiusi nei Cie ed espulsi.

Sono state/i fermate/i compagni/e che venivano in macchina da fuori Roma, è stato loro comminato con un provvedimento amministrativo il foglio di via, con il divieto di entrare a Roma per tre anni. Questa pratica è sistematicamente usata nei confronti di chi va a lottare in Val di Susa, in aperta violazione dell’art.16 della Costituzione

Ma è successo qualcosa di più.

Tante e tante persone sono state bloccate preventivamente, molto prima della manifestazione, la sera prima, la mattina prima, mentre camminavano normalmente per le strade di Roma per i fatti loro, messe con la faccia al muro, perquisite e schedate, portate perfino in commissariato.

Le istituzioni in divisa hanno mandato un messaggio forte, hanno dimostrato che sono pronte.

Si da per scontato che la platea dei poveri, dei disperati, delle famiglie che non mangiano, che vivono per strada aumenterà a dismisura, coinvolgendo strati sempre più larghi della popolazione e per tenerli a bada non servirà l’esercito perché le così dette forze dell’ordine in tutte le loro articolazioni si sono preparate e sono in grado di gestire malcontento, proteste e ribellione.

Il messaggio è chiaro: potete solo suicidarvi. Dietro questa imponente organizzazione repressiva c’è questa cinica soluzione, l’unica che, secondo loro, gli oppressi/e possono percorrere.

E le strutture repressive, come premio, ricevono benefit di ogni natura: salvaguardia ed aumento dei loro stipendi, nuove assunzioni, brillanti carriere, immunità e impunità e, per i vertici, l’entrata dalla porta principale e il sedersi nel salotto buono della borghesia, il tutto corredato da incarichi di prestigio e accompagnato dall’introduzione della pena di morte extra-legem per i cittadini/e

La Grecia ce lo ha insegnato, il sistema non vuole una soluzione fascista tradizionale, ma una soluzione autoritaria, nascosta dietro parole tanto nobili quanto inconsistenti, e non ha bisogno di ricorrere all’esercito, gli bastano le forze dell’ordine.

Ai fascisti nostalgici il ruolo di manovalanza.

Se siamo arrivati a questa situazione le responsabilità maggiori sono della socialdemocrazia che, fattasi destra moderna, sponsorizzata e sostenuta dalle multinazionali anglo-americane, ha criminalizzato ogni forma di opposizione, ha giustificato la distruzione dello Stato sociale, l’annullamento di tutte le conquiste di tanti anni di lotte e l’imbarbarimento della società, distruggendo tutte le forme di resistenza al neoliberismo. Da qui l’uso strumentale, fuorviante e disonesto dei richiami alla legalità, alla supremazia della legge, alla meritocrazia, all’efficienza del privato, allo spreco nel pubblico. Ed ancora i feticci del mercato, dello spread, del debito.

L’iper-borghesia o borghesia imperialista, nel suo processo di auto-valorizzazione, ha attaccato a fondo le condizioni di vita di una platea sempre più larga che non abbraccia soltanto le figure tradizionali degli oppressi, ma anche la piccola e media borghesia, i lavoratori cognitivi, i dipendenti pubblici e parastatali, i lavoratori autonomi, i liberi professionisti, i commercianti al dettaglio… Questa è una svolta epocale che ha fatto sì che la nostra società sia contemporaneamente ottocentesca per le condizioni di vita e per il ritorno alle guerre coloniali, nazista per l’impostazione di uno Stato etico e per la tendenza al governo diretto degli organismi sovranazionali non espressione del voto ma solo dei potentati economico-finanziari, medioevale per la delega alle corporazioni della tutela delle frazioni della società per non dire della difficoltà e quasi impossibilità di mobilità sociale.

Da dove cominciare? Dal leggere la società, i ruoli e i protagonisti per quello che sono, compito facile sulla carta, ma difficile se non siamo in grado di raccontare la natura della manifestazione del 19 ottobre, della lotta dei valsusini….. dell’aggressione alla Jugoslavia, alla Libia, alla Siria…e ci facciamo irretire da letture tanto colte quanto fuorvianti…”sono tutti imperialismi...”…”a noi interessa solo la classe operaia”… tutti germi di corruzione del discorso di classe che aiutano, in definitiva, la perpetuazione dello stato di cose presenti. Si accettano le truppe di occupazione nel terzo mondo e ne scaturisce l’assuefazione ai militari in Val di Susa, si toglie ogni valenza politica alla resistenza dei popoli aggrediti e per trascinamento si fa la stessa operazione a casa nostra.

Non si tratta di alzare il livello dello scontro, non è sufficiente collegare le lotte, ma portarle a sintesi. E’ necessaria una ricomposizione di classe che unisca tutti i segmenti della società e le realtà che sono uscite con le ossa rotte dalla realizzazione del progetto neoliberista. Nessuna classe o frazione di classe può avere in partenza la pretesa di essere egemonica in questo processo. A determinarlo sarà dialetticamente chi sarà capace di interpretare le esigenze e le aspettative comuni.

venerdì 25 ottobre 2013

La prima manovra economica a sovranità limitata

Luigi Pandolfi - sinistrainrete -

Il Governo italiano ha varato il disegno di legge di Stabilità 2013 contenente gli interventi di finanza pubblica per il triennio 2014-2016. Prima di analizzare sommariamente le linee essenziali del documento, è importante ricordare che per la prima volta, dalla nascita dell’Europa di Maastricht, lo stesso sarà prima vagliato dalla Commissione europea, che potrà imporre correttivi e comminare sanzioni in caso di inadempienza, e poi discusso ed approvato dal Parlamento.

Con l’entrata in vigore del cosiddetto “two-pack”, il pacchetto di due regolamenti approvato dal parlamento di Strasburgo nel maggio scorso, si è infatti chiuso il cerchio in tema di “sorveglianza” europea sui bilanci dei paesi dell’Eurozona, con tutto quello che ciò comporta per la “sovranità” e l’autonomia politica degli stessi.

E’ del tutto evidente che dentro un meccanismo così congegnato la funzione dei parlamenti nazionali è quasi del tutto esautorata: quali margini di manovra avranno le forze politiche parlamentari per modificare l’impianto e la filosofia del documento di che trattasi se alla Commissione europea è stato riconosciuto un sostanziale diritto di veto sui bilanci nazionali? Un margine pari a zero, evidentemente.

Non andiamo lontano, allora, se affermiamo che la discussione che si svilupperà prossimamente in parlamento sul testo licenziato dall’esecutivo sarà né più né meno che una finzione, stante l’impossibilità di concepire ed approvare modifiche strutturali dello stesso, che potrebbero far deviare il nostro paese dal binario dei criteri di convergenza attualmente in vigore nell’area Euro, a cominciare da quello più famigerato: la soglia del 3% nel rapporto tra deficit e Pil.

Certo, non tagliare il fondo sanitario nazionale è qualcosa che ha la sua importanza. E’ una scelta. Così come è una scelta intervenire sul cuneo fiscale o sulla contrattazione nel pubblico impiego: gli stessi saldi della manovra potrebbero essere garantiti da altri interventi, da altre scelte. Ma il problema non è questo. Esso risiede nell’accezione che le leggi di stabilità hanno assunto nel quadro della disciplina di bilancio europea. Esse, a differenza che nel passato, sono in primo luogo manovre contabili atte a correggere l’andamento dei conti pubblici, e solo secondariamente strumenti attraverso cui incidere sui processi economici e sociali.

E’ facile giungere a questa conclusione, basta leggere cosa c’è scritto nei regolamenti che hanno introdotto il regime della sorveglianza europea sui bilanci degli stati membri dell’Eurozona. Alla base di questi documenti c’è una vero e proprio chiodo fisso: il rispetto fideistico dei vincoli imposti dal patto di bilancio e la prevenzione di eventuali fattori di instabilità finanziaria che potrebbero contagiare l’intera area Euro. Un’ossessione, potremmo dire, da cui discendono in linea diretta demonizzazione della spesa pubblica a prescindere e politiche di austerità.

Torniamo alla legge di stabilità appena varata. Senza entrare nel dettaglio degli interventi in essa previsti, la prima cosa che balza agli occhi è la sua totale inadeguatezza rispetto agli obiettivi che vengono (incautamente) sbandierati. Non solo. Alcune delle misure in essa previste potrebbero avere un effetto esattamente opposto a quello atteso. Prendiamo il caso della riduzione del cuneo fiscale, stimata in 5 miliardi per il 2014. Il beneficio in busta paga per un lavoratore dipendente inferiore a 200 euro in un anno. Ora, chi è quel pazzo che può definire una simile misura utile a far ripartire i consumi nel nostro paese? Non dimentichiamo che la stessa arriva dopo un biennio in cui le politiche di rigore hanno letteralmente stremato il sistema produttivo, fatto lievitare a dismisura il carico fiscale e calare vistosamente il livello della domanda interna.

In questo quadro risulta altrettanto risibile la previsione di una riduzione della pressione fiscale di un punto percentuale in tre anni, come è stato fatto osservare, giustamente, dalle stesse associazioni degli imprenditori, a maggior ragione se si considera che l’Iva è appena passata dal 21 al 22%. Che dire poi del congelamento dei contratti, del blocco del turn over e degli straordinari nel pubblico impiego? Misure che potranno avere una sola conseguenza: sterilizzare totalmente gli effetti sulla domanda degli altri interventi previsti sul versante del costo del lavoro e della fiscalità. Di cosa parliamo allora? Di una manovra contabile che, quantunque ci consentisse di soddisfare gli impegni europei (Tutto dipenderà dalla conferma delle stime sulla crescita del Pil nel 2014), certamente non contribuirà ad aggredire i veri problemi che il nostro paese ha in questo momento. Dopo otto trimestri consecutivi di decrescita e un tasso di disoccupazione che ha superato il 12%, con quella giovanile sopra il 40%, dire, come ha fatto il Ministro Saccomanni, che questa manovra «rafforza il potenziale di crescita economica e dà nuovo stimolo alla ripresa» è davvero troppo.

Ben altre risorse andrebbero liberate per dare una spinta alla nostra economia, rilanciare i consumi e l’occupazione. Dovremmo avere nei prossimi anni tassi di crescita intorno al 4% e non allo zero, come prevedono le stime, pur generose, a nostra disposizione. Ma qui, come nel gioco dell’oca, torniamo alla casella di partenza: può il nostro paese immaginare una crescita di quelle dimensioni avendo l’occhio fisso sul deficit mentre l’economia vive una fase di recessione prolungata? E ancora: è possibile ragionare su un’ipotesi di fuoriuscita dalla gabbia dell’austerità dopo aver ceduto a Bruxelles l’ultima briciola di sovranità in tema di bilancio statale con l’accettazione della clausola di sorveglianza prevista dagli ultimi regolamenti approvati? Le domande potrebbero apparire capziose, ma, a ben vedere, rimandano a problemi reali.

Perché in Europa c’è un problema di risorse insufficienti, e c’è un problema di democrazia. La linea dell’austerità, combinata con l’esautoramento della democrazia, sta arrecando danni gravissimi alle nostre società, dove crescono disagio sociale e sfiducia nelle istituzioni. Gli unici che finora sembrano guadagnarci da questa situazione sono, su un versante, banche e speculatori, sull’altro versante populisti e demagoghi di ogni risma. Possiamo continuare così?

L’abbraccio di Caino e Abele dentro l’Assassino dei Sogni

Per gli uomini ombra il giorno comincia e finisce quando apri gli occhi (“L’Urlo di un uomo ombra” (2013) di Carmelo Musumeci Edizioni Smasher.
Questa settimana ho fatto un colloquio particolare. Ho incontrato Mario Arpaia, Presidente di “Memoria Condivisa”.

Aspettavo questo incontro come quando si attende la libertà.

Mario è partito dalla Puglia per incontrare un avanzo di galera, un cattivo e, per la legge, colpevole per sempre come me.

I nostri sorrisi si sono incontrati ancora prima dei nostri occhi.

Poi ci siamo guardati l’un l’altro.

I nostri occhi si sono subito capiti senza parlarsi.

E hanno fatto immediatamente un patto di alleanza perché ci siamo accorti che entrambi sappiamo leggere negli sguardi.

Io ho visto la sofferenza di Abele.

E lui ha visto quella di Caino.

Poi ci siamo abbracciati.

E ci siamo commossi.

Lui con le sue lacrime da buono.

Ed io con le mie da cattivo.

Poi ci siamo parlati come due fratelli sconosciuti che non si vedevano da tanto, forse da troppo, tempo.

- Mario, un uomo ombra non può fare altro che aggrapparsi ai ricordi per attenuare la sua sofferenza. E anche se i bei ricordi non fanno scomparire il dolore, a volte lo rendono più sopportabile. Non ti nascondo che è un po’ di tempo che trascorro notti difficili. Agitate da ricordi e pensieri. E non riesco più a separare gli uni dagli altri. Ti confido che dopo ventitré anni di carcere non riesco più a sognare la libertà, neppure quando dormo. D’altronde questi sono gli ultimi anni della mia vita e non ho più nessuna speranza cui aggrapparmi,  perché è difficile, per non dire impossibile, che riuscirò a uscire vivo dal carcere.  Se la vittima del mio reato chiedendo apparentamene giustizia vuole invece esclusivamente la mia sofferenza, in un certo modo mi assolve dei miei reati. Nella mia mente non ho neppure più spazio per l’odio e il rancore contro i buoni che mi tengono ancora dentro senza che sia più necessario.

- Carmelo, non sono d’accordo con l’ergastolo ostativo. E sono d’accordo con te che è maledettamente sbagliato il ricatto della delazione in cambio di benefici: scambiare qualcosa o qualcuno per tornare in libertà. Piuttosto bisognerebbe uscire da carcere perché uno lo merita e non perché usa la giustizia per poterlo fare. Coraggio. Non ti arrendere. E non perdere mai la speranza.

Poi l’incontro è finito.

E ci siamo guardati ancora una volta con gli occhi lucidi dentro l’anima.

Dopo lui è andato verso la libertà, portando un po’ della mia morte,  ed io sono rientrato nella mia tomba, portando un po’ della sua vita.

 

Carmelo Musumeci

Padova, ottobre 2013

giovedì 24 ottobre 2013

Mai cosi' attuale !!!

Un corruttore come alleato.


di MASSIMO GIANNINI

- larepubblica -

24 ottobre 2013

Puoi governare con il tuo carnefice? Puoi considerare "alleato" un leader politico, pregiudicato e spregiudicato, che solo cinque anni fa ha comprato un parlamentare a suon di milioni per far cadere la tua maggioranza? Di fronte al rinvio a giudizio di Silvio Berlusconi, deciso dal Gup di Napoli nell'inchiesta sulla corruzione del senatore De Gregorio, conviene ribaltare la questione, famosa e ormai annosa, della cosiddetta "agibilità politica" del Cavaliere. Conviene guardarla dal punto di vista non delle reazioni del centrodestra, ma delle decisioni del centrosinistra. Un rinvio a giudizio non equivale ovviamente a una sentenza di condanna.

Ma significa che un giudice terzo, diverso dai pubblici ministeri inquirenti, ritiene che siano state raccolte prove sufficienti a giustificare l’avvio di un processo. Nell’inchiesta Berlusconi-Lavitola-De Gregorio le prove, più che sufficienti, paiono schiaccianti. Nella primavera del 2006 l’Unione di Prodi vince per un soffio le elezioni. A Palazzo Madama ha solo 4 voti di maggioranza. Basta una modesta transumanza, e il governo va a casa.

Nel luglio successivo il Cavaliere lancia la campagna acquisti. Il senatore De Gregorio già eletto nelle file dell’Idv di Di Pietro viene agganciato da uno dei faccendieri più indecenti ma più efficienti ad Arcore, Valter Lavitola. È lui che comincia a foraggiare De Gregorio: 3 milioni di euro in tutto (ne riceverà solo una parte). Con quel «tesoretto» sul conto corrente, il senatore lancia a sua volta l’«operazione Libertà». La racconta lui stesso nelle carte dell’inchiesta, spiegando che ogni passo è stato concordato con il leader del Pdl. «Era deciso a individuare il malessere di alcuni senatori che potessero determinare l’evento finale». Cioè la caduta del governo Prodi. De Gregorio dichiara agli atti: «Allora discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi una strategia di sabotaggio...». La missione è: «Procurarsi voti in Parlamento». Come procurarseli è fin troppo facile. Con il denaro, che per il Cavaliere, dalle toghe sporche alle olgettine ripulite, non è mai stato un problema.

De Gregorio tenta prima con un senatore suo amico. «Dissi a Berlusconi che forse Giuseppe Caforio poteva ascriversi al ruolo degli indecisi». «Puoi offrirgli fino a cinque milioni», risponde il Cavaliere. L’abbocco fallisce: Caforio fa finta di stare al gioco, registra il colloquio e presenta una denuncia penale. Ma l’Operazione Libertà è ormai partita, e nulla può fermarla. Le prove generali iniziano il 28 febbraio 2007, quando Prodi si salva al Senato per appena tre voti. «L’evento finale» si produce il 24 gennaio 2008, dopo le dimissioni del Guardasigilli Mastella che ha saputo di una richiesta d’arresto ai danni di sua moglie da parte della procura di Santa Maria Capua Vetere. Prodi viene sfiduciato al Senato, dove va sotto per 5 voti. A impallinarlo, oltre a Mastella e a Lavitola, ci sono Lamberto Dini, Vito Scalera e Luigi Pallaro, eletto in Argentina e misteriosamente scomparso il giorno del voto. Sono prove, queste? O solo calunnie? Sono prove, nient’altro che prove.

La conferma arriva dallo stesso Lavitola, in una lettera spedita il 13 dicembre 2011 all’ancora premier Berlusconi. Valterino batte cassa per l’Avanti, e ricorda al «socio» tutto quello che ha fatto per lui. «Lei — scrive — subito dopo la formazione del governo, in questa legislatura, con Ghedini e Verdini presenti, mi disse che era in debito con me e che Lei era uso essere almeno alla pari. Era in debito per aver io “comprato” De Gregorio, tenuto fuori dalla votazione cruciale Pallaro, fatto pervenire a Mastella le notizie dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, da dove erano arrivate le pressioni per il vergognoso arresto della moglie, e assieme a Ferruccio Saro e al povero Comincioli “lavorato” Dini. Ciò dopo essere stato io a convincerla a comprare i senatori necessari a far cadere Prodi».

Questo è dunque lo scandalo che emerge dalle carte dell’inchiesta di Napoli. Questo è il «golpe bianco» che si sospetta Berlusconi abbia ordito contro il governo Prodi. Dietro al quale, ancora una volta, si intravede non un blitz episodico. Ma piuttosto il solito e collaudatissimo «sistema corruttivo», che ricorre in tutte le vicende giudiziarie in cui il Cavaliere è stato a vario titolo condannato, coinvolto o prosciolto (grazie alle prescrizioni e alle leggi ad personam). Un «metodo» che ha funzionato per le tangenti alla Gdf e per Mills, per il Lodo Mondadori e per i diritti tv. E se ha dato frutti nell’affare De Gregorio, è lecito pensare che ne abbia generati sia per il primo ribaltone dei due senatori che salvarono il Berlusconi I nel 1994, sia nella campagna acquisti dei «Responsabili» che salvarono il Berlusconi IV nel 2010.

Il processo di Napoli si aggiunge alla lunga sequenza di conti in sospeso che il Cavaliere intrattiene tuttora con la giustizia. Dopo la condanna definitiva per i diritti tv Mediaset, l’interdizione di due anni dai pubblici uffici sui quali dovrà pronunciarsi la Cassazione, il voto dell’aula di Palazzo Madama sulla decadenza, l’appello del processo Ruby per prostituzione minorile e concussione e l’uscita delle motivazioni della condanna di primo grado nello stesso processo (prevista per metà novembre).

Basterebbe un’occhiata all’agenda giudiziaria dell’ex premier, per liquidare con un sorriso amaro le pretese di «pacificazione», le parole al vento sui doverosi «atti di clemenza», le pressioni inaccettabili su un fantomatico «motu proprio» del Capo dello Stato, le allusioni insopportabili su un ipotetico indulto ad personam del Parlamento. Non c’è scudo possibile, per un imputato-condannato di questo calibro. Non si tratta di consumare una vendetta ideologica, né di realizzare un’eliminazione politica per via giudiziaria. Più semplicemente: anche volendo (e nessuno che abbia a cuore lo stato di diritto dovrebbe volerlo) non esistono nei codici dell’Occidente «condoni tombali» che cancellino le pendenze penali passate, presenti e soprattutto future.

Il Pdl è squassato da una strana lotta intestina. Eredi rissosi si contendono inutilmente il lascito di un «de cuius» che nonostante tutto resta più vivo che mai. Di fronte alle pessime notizie che arrivano dai tribunali, i «parenti della vittima» celebrano il rito stanco di sempre. «Persecuzione», «caccia all’uomo», «attentato alla democrazia». Parole violentate, abusate, svuotate di senso. Ma lanciate come pietre contro la sinistra «togata» e contro il governo Letta. Immaginare un futuro radioso per le Larghe Intese, a questo punto, è illusorio. I segnali di rottura erano già numerosi, dalla legge di stabilità all’antimafia. Ma ora, com’era facile prevedere, è l’ossessione giudiziaria che domina la scena a Villa San Martino e a Palazzo Grazioli. Il rinvio a giudizio di Napoli segna un possibile punto di svolta. Non tanto giudiziario, quanto politico. Di fronte all’enormità dell’ultima imputazione, si torna alla domanda iniziale. C’è da chiedersi se non tocchi alla sinistra riformista il «dovere» di rompere l’alleanza innaturale con l’uomo che ha ucciso il governo Prodi, comprando quattro traditori per trenta denari. Piuttosto che concedere ancora una volta a una destra irresponsabile il «diritto» di far saltare il tavolo, legando indissolubilmente e colpevolmente i destini della nazione a quelli del suo «Cavaliere dell’Apocalisse».
m. giannini@repubblica.it

 

La povertà non è un destino. E ci riguarda

- vociglobali -

Data 21 October 2013 di
La povertà non è un destino. Chi lo ha detto ha colto nel segno. La povertà è il risultato di scelte politiche, azioni collettive, volontà condivise. Sono i risultati di queste scelte, azioni, volontà che poi ricadono sulle singole persone.
Sì, perché la povertà, si affronta da soli. Al di là delle solidarietà e degli interventi e progetti internazionali di cooperazione, le persone che vivono la condizione del bisogno – quello estremo – sanno che non potranno mai realmente condividerla. Neanche con coloro che hanno la stessa vita, perché – per chi non abbia mai visto e vissuto da vicino il problema – è meglio dirlo: la povertà non unisce, non rende più solidali. La povertà rende soli e fa delle persone dei guerrieri in lotta per la sopravvivenza.
Però, a quel la povertà non è un destino, vorrei aggiungere e non riguarda solo una parte del mondo. La povertà ci riguarda. Per tre motivi: è un fenomeno sociale e non individuale, perché è determinata da logiche economiche e di sfruttamento errate ed egoiste; è un dramma umano e come tale lo condividiamo, anche se non vogliamo, in quanto esseri umani; sta “infettando” quella parte del pianeta fino a poco tempo fa più o meno immune e vaccinata, al di là di nicchie di povertà che sono sempre esistite anche nelle grandi società che hanno applicato il libero mercato e il capitalismo.
E se la povertà è una malattia che sta diffondendosi sarà meglio trovare una cura rapida. Una cura che, possibilmente, non sia a caro prezzo e che possa essere quindi alla portata di tutti.
A rischio di sembrare idealisti e ripetitivi, bisognerebbe riguardare i danni provocati dalle politiche di sfruttamento per evitare gli stessi errori. Cosa che, evidentemente, non si sta facendo.
Qualche giorno fa è stata celebrata – ancora una volta - la Giornata mondiale per lo sradicamento della povertà. Il tema di quest’anno non poteva essere più pragmatico e chiaro: Lavorare insieme verso un mondo senza discriminazione: costruire sull’esperienza e la conoscenza delle persone che vivono in stato di povertà estrema. Ecco, basterebbe fare questo: ascoltare le persone e accantonare le avide esigenze delle imprese, grandi aziende e multinazionali. E svelare i giochi di alcuni Governi o anche delle stesse agenzie delle Nazioni Unite, che a volte sembrano davvero complici del male che dicono di combattere.
Una girandola di schizofrenia, che assume velocità nei giorni delle celebrazioni. Insomma, come sollecita il tema della Giornata mondiale per sradicare la povertà, impariamo da chi la povertà la conosce.
Nel video che segue, senza paroloni, ma con estrema chiarezza, alcune persone dicono quello che gli economisti si affannano a spiegare: la povertà – come fenomeno “moderno” – in certi Paesi è legata all’impossibilità di coltivare la terra e all’aumento costante dei prezzi del cibo. Ora siamo costretti a comprarlo – affermano le persone intervistate – mentre in passato la terra permetteva il sostentamento e… di mangiare a crepapelle.
Il fenomeno del land grabbing e la corsa alla terra, sono i fattori più gravi che hanno determinato il depauperamento di territori e popolazioni che, paradossalmente, sembrano essere più poveri oggi che in passato, quando appunto potevano almeno contare sul possesso e l’uso di piccoli appezzamenti familiari. Dal 2009 in Africa circa 60 milioni di ettari del territorio sono stati venduti o affittati a multinazionali occidentali e il 70% delle acquisizioni è concentrato nell’Africa subsahariana. E, purtroppo, come dice qualcuno: la povertà non è necessaria, ma sembra che tutto il sistema di potere nel mondo sia stato creato perché questa situazione non si arresti.
Ecco, appunto, la povertà non è un destino. La povertà è provocata. E la povertà è una malattia che genera una serie di conseguenze. Una di queste è la miseria, miseria materiale, ma soprattutto miseria nello spirito, nelle relazioni, nelle prospettive per il futuro. Che mancano quasi del tutto in chi deve pensare a come sopravvivere il giorno stesso e poi il giorno dopo.
Ed è una malattia che, dicevamo, si sta diffondendo. Un recente studio della Croce Rossa rivela che in Europa le zone rosse dell’indigenza si stanno allargando: Paesi come la Croazia, la Bulgaria, la Romania, la Spagna dove – ad esempio – l’80% delle persone assistite dalla Croce Rossa sono giovani disoccupati. Nel Regno Unito prolificano le banche del cibo e pare che nell’ultimo anno abbiano dato da mangiare a 500mila britannici e la stessa, allarmante situazione, si vive negli Stati Uniti.
E in Italia? Nel nostro Paese le domande di assistenza alla Caritas (cibo, vestiario, medicinali) sono passate negli ultimi due anni dal 67,1 per cento al 75,6 per cento delle richieste totali con un incremento dell’8,5 per cento. E un recentissimo dossier della Coldiretti rivela che “quattro milioni di persone in Italia sono costrette a chiedere aiuto per mangiare“. E che i nuovi poveri nel 2013 “sono aumentati del 10 per cento rispetto al 2012 e del 47 per cento rispetto al 2010“. “Tra questi ci sono oltre 400mila bambini di età inferiore a 5 anni e 578mila over 65“.
Sì, c’è proprio qualcosa che ormai non torna. Vogliamo riportare le ultime stime del Fondo Monetario Internazionale e la mappa dei Paesi più ricchi e più poveri. L’Africa subsahariana “domina” – con nove posizioni su dieci – la lista degli ultimi. Quello che dovrebbe far riflettere è come mai il tasso dell’estrema povertà non stenta a diminuire nei Paesi dell’Africa a Sud del Sahara e invece un Paese come la Cina è riuscito, nel giro di pochi anni ad abbattere il livello di povertà della sua popolazione. Certamente grazie a buone politiche di governo ma, ci domandiamo – e questa analisi la lasciamo a persone più esperte – esiste un nesso tra la nuova colonizzazione cinese dell’Africa e questi dati?
Esiste un nesso, in genere, tra l’avidità dei pochi e la lotta per la sopravvivenza – perché di questo si tratta ormai – di molti? La risposta è scontata. E a darla non siamo noi, ma economisti e studiosi dei fenomeni politici e sociali degli ultimi anni.
E intanto che cerchiamo (o cercano) di sradicare la povertà possiamo continuare a rifletterci. Dobbiamo continuare a rifletterci. Perché la povertà non è un problema che riguarda chi la vive.
La povertà ci riguarda.

mercoledì 23 ottobre 2013

La continuità postneoliberale

Da Latinoamerica 14-10

L’America Latina non poteva funzionare. Era stata creata dai colonizzatori per non funzionare, per essere eternamente subalterna al mondo “civilizzato”, per consegnare le sue materie prime e la sua forza lavoro super sfruttata e onorare i suoi signori europei. L’America Latina è stata colonizzata per essere colonia e sentirsi colonizzata e sottomettersi alle metropoli e all’impero.
E ancora, quando le alternative sembravano scomparire, all’America Latina sarebbe rimasto solo, in forma meccanica, il modello unico consacrato dal centro del capitalismo. E così è stata per lungo tempo. L’America Latina è stato il continente con più governi neoliberali e quello con le modalità più radicali.
Un’ondata devastante che ha liquidato, fra l’altro, lo Stato sociale cileno e l’autosufficienza energetica dell’Argentina, oltre a lasciare il continente come una regione senza importanza sul piano internazionale, di basso profilo, subordinata alle potenze del centro del sistema, aumentando sempre più la disuguaglianza e la miseria fra di noi.
Ma ad un tratto il fallimento dei governi neoliberali ha prodotto l’elezione di una serie di governi che sono stati eletti con l’impegno di andar oltre questo modello per costruire società più giuste, meno disuguali, sovrane sul piano internazionale.
E’ così che la regione è diventata l’unica al mondo con governi anti neoliberali che per di più sono passati a costruire processi di integrazione regionale autonomi rispetto agli Stati Uniti. Anche quando è sorta la profonda e prolungata crisi economica –che ha da poco compiuto cinque anni di durata- nei paesi del centro del capitalismo, quei paesi latinoamericani anti neoliberali hanno continuato ad espandere le proprie economie e, soprattutto, a combattere la miseria e la disuguaglianza.
Al principio –a destra e a sinistra- questo fenomeno ha generato sconcerto fra i suoi avversari. Non era possibile che con la recessione mondiale –che aveva sempre trascinato i nostri paesi alla stagnazione e all’arretramento-, paesi come l’Argentina, la Bolivia, il Brasile, l’Uruguay, l’Ecuador e il Venezuela resistevano alla crisi.
Dopo aver denunciato questi governi come propagatori di illusioni, hanno dovuto accettare il fatto che la nostra situazione è diversa da quella dei paesi del centro del sistema e da quelli, nella regione, i cui governi mantenevano il proprio orientamento neoliberale. Non potevano più dire che le situazioni favorevoli dei nostri paesi si dovevano a un quadro internazionale favorevole, perché quel quadro era cambiato radicalmente.
C’è stato chi ha chiuso gli occhi davanti ai grandi progressi sociali di paesi del continente più disuguale del mondo, cercando di squalificarne le politiche, riducendo gli orientamenti di quei governi a quelli che considerano modelli esportatori basati sulla devastazione delle risorse naturali. Come risultato, tutti quelli che propugnano questa tesi sono stati rifiutati dai popoli di quei paesi che erano stati ridotti a una forza senza appoggio popolare né espressione politica.
Gli uccelli da preda stavano sempre aspettando indizi di problemi che avrebbero potuto –anche dopo un decennio di successi delle politiche post neoliberali di quei governi- convalidare le loro nere previsioni. Si è formata una coalizione internazionale fra forze di destra e di ultrasinistra per attaccare i governi progressisti dell’America Latina, perché il successo di leaders come Hugo Chávez, Lula, Dilma, Néstor e Cristina Kirchner, Evo Morales, Rafael Correa, Pepe Mujica fra gli altri, rendeva insostenibili le loro posizioni.
Era sufficiente che sorgesse un problema in uno di questi paesi, qualunque ne fosse la ragione –comprese le pressioni recessive continuate dal centro del sistema- perché si moltiplicassero gli articoli di stampa o le previsioni di oppositori senza appoggio popolare, dicendo che finalmente stava esaurendosi il modello alternativo di crescita con distribuzione di rendita di quei governi.
Perché per loro era insopportabile che Carlos Andrés Pérez, Acción Democrática e Coppei avessero fallito mentre Hugo Chávez funzionava. Che Cardoso avesse fallito e Lula funzionasse. Che i loro amati Carlos Ménem e De la Rúa avessero fallito spettacolarmente e che Néstor e Cristina funzionassero. Che Sánchez de Losada fosse stato sbattuto fuori dal governo espulso dal popolo per rifugiarsi negli Stati Uniti, e Evo Morales funzionasse. Che i governi di destra in Uruguay fossero falliti e quelli del Frente Amplio funzionassero. Che la stessa cosa succedesse in Ecuador con il successo di Rafael Correa.
Non si tratta più di governi effimeri, sono stati tutti già rieletti e/o sono stati eletti i loro successori ed hanno ancora la possibilità di far durare i loro governi o di eleggere i propri successori promuovendo un secondo decennio post neoliberale in America Latina.
Eppure, secondo la ricetta neoliberale e dell’ultrasinistra, quei governi non potevano funzionare. Dovevano fallire per dimostrare la verità del “pensiero unico” e del Consenso di Washington. I governi popolari di ampia alleanza politica non potevano consolidarsi e ottenere un grande e rinnovato appoggio popolare. Perché si supponeva fossero diretti da leaders che avevano “tradito” la fiducia popolare. Invece, nella realtà, i popoli li hanno scelti e confermati come leaders.
Questa situazione si è talmente consolidata che le opposizioni in ogni paese non trovano spazio né guida né piattaforme alternative. O tacciono rispetto a quello che farebbero in caso di vittoria o confessano che non tornerebbero alle formule neoliberali: meno Stato, dure misure fiscali, privatizzazioni, politica estera di nuovo subordinata agli Stati Uniti.
Il fatto è che i governi post neoliberali sono riusciti a diventare egemonici in ciascuno dei nostri paesi. Gliene deriva la propria legittimità e la capacità di affrontare i problemi che hanno di fronte, nonché le forme del rinnovamento per continuare a dare continuità ai loro programmi di priorità delle politiche sociali, dei processi di integrazione regionale e del ruolo dello Stato come induttore della crescita economica e garanzia dei diritti sociali di tutti. Smentendo tutti coloro che credevano che l’America Latina non poteva esserne capace.
di Emir Sader
(Granma, 12.10.13)

lunedì 21 ottobre 2013

Proposta candidatura di Tsipras a presidenza Commissione Ue

  
Proposta candidatura di Tsipras a presidenza Commissione Ue, Prc: «Costruiamo in Italia lista unitaria che lo supporti contro quest’Europa della banche e dell’austerity»
- rifondazione -

Prc: «Costruiamo in Italia lista unitaria che lo supporti contro quest’Europa della banche e dell’austerity»

Il leader della coalizione della Sinistra radicale in Grecia (Syriza), Alexis Tsipras, potrebbe diventare il candidato del Partito della Sinistra europea (Gue/Ngl) alla presidenza della Commissione Ue. La proposta è stata avanzata dal Consiglio dei presidenti del Partito e dovrà essere confermata dal Congresso in programma tra il 13 e il 15 dicembre a Madrid.
Paolo Ferrero e Fabio Amato, responsabile Esteri di Rifondazione, hanno dichiarato a questo proposito:
«Siamo felici di annunciare che la Sinistra europea – di cui facciamo parte come Partito della Rifondazione Comunista – ha deciso di proporre la candidatura alla presidenza della Commissione Europea di Alexis Tsipras, leader di Syriza, la formazione della sinistra radicale greca che si è opposta e continua ad opporsi alle politiche della troika. Le prossime elezioni europee, a maggio del 2014, saranno infatti decisive per dare la parola ai popoli in lotta contro l’austerità. Per questo la proposta della candidatura di Tsipras, decisa dal Consiglio dei presidenti del Partito e che sarà sottoposta alla decisione del prossimo congresso del partito, il 13-14 e 15 dicembre, è un bellissimo segnale di speranza e di lotta. Proponiamo di costruire in Italia la lista unitaria della sinistra che supporti questa candidatura, contro l’Europa delle banche e contro le politiche di austerità».

domenica 20 ottobre 2013

18-19 ottobre.

 I media alla guerra immaginaria
pinocchiMa chi controlla i media? Diciamo meglio: che cavolo ha in testa chi li governa? Lo spettacolo mediatico intorno al 18 e 19 ottobre è stato così indegno che persino un signore perbene e molto governativo come Enzo Foschi, capo segreteria del sindaco di Roma Ignazio Marino ed esponente del Pd romano, è stato costretto a twittare: "I veri Black bloc sono tutti quei giornalisti infiltrati nel corteo... delusi dal fatto che non scorra sangue...".
Migliaia di ore di registrazione video, decina di migliaia di foto, centinaia di ore di interviste volanti ai manifestanti... tutto materiale buttato nel cesso per privilegiare cinque minuti si schermaglia davanti al ministero dell'economia, una fioriera spostata, la nuvola di qualche fumogeno, il "botto" di un petardo da stadio. Fino all'inarrivabile "disinnescamento di un ordigno contenente una pallottola calibro 12 che poteva fare molto male". Basta un vecchio cacciatore (o Wikipedia, non richiede uno sforzo intellettivo eccessivo) per spiegare che la "micidiale pallottola calibro 12" è la normale cartuccia da fucile da caccia, contenente pochi "grani" (nemmeno "grammi") di polvere da sparo; e che la sua "pericolosità" esiste solo se usata con un fucile corrispondente (della lunghezza di circa un metro, difficile portarselo dietro in manifestazione) e con una tipologia di pallini che non sia quella utilizzata per la caccia ai tordi...
I due maggiori quotidiani sono uno spettacolo a parte.
Repubblica lascia sfogare i suoi cronisti con improvvisazioni sullo spartito preparato da giorni. Hanno dovuto solo cambiare i nomi ai fantasmi evocati dalla loro necessità di creare paura. E quindi via i "No Tav", scesi a Roma con un pullman (60 persone anche un po' attempate non sono il massimo per simulare l'arrivo degli Unni), e avanti con i "black bloc", che non si sentivano più nominare da anni.. E' la stampa, bellezza; se non parlano tutti con le stesse parole, scrivendo tutti lo stesso articolo, non si sentono a posto. E la concorrenza, che fine fa?
Il più maturo, esperto e "ammanicato" Carlo Bonini segue invece la giornata dall'interno della sala operativa della questura e la vede come un wargame dove tutto è complessivamente sotto controllo. I poliziotti e i dirigenti vengono dipinti come "vecchi saggi" che "lasciano giocare" un po' i manifestanti, vedendo dalle telecamente che "il settore a rischio" è numericamente poca cosa. E soprattutto che i servizi d'ordine dei vari spezzoni funzionano davvero bene, per la prima volta dopo anni. Un segno di grandissima maturità politica dei movimenti, capaci di riappropriarsi davvero dell'intera mobilitazione (fin da venerdì mattina) e non farsi più giocare da altri la partita.
Idem per il Corriere della sera, dove ai cronisti di "nera" viene dato l'onore di aprire le pagine (agghiacciante quel catenaccio "Trovati tre ordigni, uno poteva uccidere", ovvero la povera cartuccia calibro 12 trovata in una busta!), mentre un altro esperto come Giovanni Bianconi - che nel corteo ci è stato davvero, altra classe... - arriva a conclusioni molto simili, ma dal lato dei manifestanti. Che hanno saputo decidere del proprio risultato politico senza esitazioni.
Nessuno spiega però il perché di questa determinazione double face: durissima con il potere, ma poco tollerante con le "forzature" tentate dall'interno del corteo. In piazza non c'erano persone che dovevano testimoniare di una qualche ideologia (c'erano anche quelle, naturalmente, in spezzoncini risicati da cui uscivano slogan atemporali, quindi "impolitici"), ma movimenti "vertenziali", che vogliono raggiungere risultati tangibili. La forza delle famiglie con bambini, sia italiane che di migranti e rifugiati, è tutta qui. Un "blocco sociale" disposto a lottare, non "a giocare"; tantomeno a "farsi giocare" da altri. Qualsiasi sia il gioco. Si fa sul serio, quindi si fa anche seriamente; pensando la lotta come un percorso, fatto di tappe, di momenti di scontro e altri di trattativa. Per rompere il fronte nemico, quelle "larghe intese" che sembrano l'unico marchio di fabbrica per i governi della Troika, e avanzare per cambiare il quadro sociale e anche la storia. L'antagonismo come pratica di vita, non "un giorno da leoni".
Questo ha spiazzato tutti i media, un po' meno le molte polizie di questo paese, abituate ormai tutti i giorni a fare i conti con un malessere sociale vero, fatto di persone in carne e ossa; con pratiche sociali dettate dal bisogno e quindi non affrontabili nei termini ridicoli della "fermezza" da talk show. Per dirla con una battuta paradossale: se a guidare la piazza (lato "forze dell'ordine") ci fossero i Calderoli o le Santaché, in Italia ci sarebbero decine di bagni di sangue al giorno.
Un briciolo di professionalità giornalistica sembra albergare ancora nei cronisti de La Stampa online, che ci consegnano almeno due notizie vere: "le devastazioni che tutti temevano - e qualcuno forse auspicava facendo scrivere di fantomatiche macchine idropulitrici utilizzate per sparare vernice addosso agli agenti - non ci sono state". Quel "facendo scrivere" è una vera notizia, perché è una confessione del clima in cui lavorano in redazione, sotto la spinta di input interni o esterni che indirizzano ad arte la fattura dei giornali.
La seconda è il riconoscimento al servizio d'ordine ("i" servizi d'ordine, sarebbe più esatto); "soprattutto, gli organizzatori della manifestazione hanno tenuto la piazza, predisponendo un servizio d’ordine e rispondendo anche a brutto muso a chi, tra loro, voleva agire in maniera diversa da quanto concordato". Anche la titolazione del giornale torinese, comunque, non enfatizza più di tanto "le violenze" immaginarie e prova a concentrare l'attenzione sul contenuto sociale - molto meno quello politico, oggettivamente e soggettivamente contro il governo e le politiche imposte dall'Unione Europea.
Il nuovo "manifesto" viaggia invece nella schizofrenia più completa. L'edizione online, a quest'ora del giorno dopo, spara ancora in apertura un pezzaccio a là Messaggero, con un titolo assolutamente indistinguibile da quelli meinstream ("Roma blindata nel giorno degli 'antagonisti'"; tra virgolette, come se invece avessero un'identità diversa... ma chi gliel'ha fatto passare l'esame a certa gente?).
Di fianco resiste ancora l'editoriale del giorno prima, in cui la direttrice giudica una "bella piazza" quella sindacale di venerdì, perché... non ci sono stati scontri. Nessun accenno ai contenuti, ma una allucinante assimilazione alla manifestazione del 12 (Landini e Rodotà in difesa della Costituzione ma senza citare chi la attacca e perché...); il tutto per ricondurre il "fermento sociale" al più ordinario tran tran politico ("il palazzo" come alfa e omega del ristretto orizzonte di Norma Rangeri).
Il quotidiano in edicola oggi, invece, ha un resoconto ai Roberto Ciccarelli che riconosce almeno alcuni dei fattori fondamentali di questa riuscitissima due giorni di mobilitazione, che il suo giornale nei giorni scorsi ha evitato accuratamente di trattare e spiegare. "Questo può essere un primo passo verso una politica contro l'austerità, che ha chiare basi sociali e mette al centro la richiesta del blocco degli sfratti per morosità, la riforma del Welfare e la richiesta di un reddito minimo. Potrebbe essere questo un primo, serio, tentativo per superare lo choc provocato dalla sconfitta politica del 15 ottobre 2011 che hanno fatto implodere il movimento, mentre negli Stati Uniti nasceva Occupy Wall Street, in Spagna si affermavano gli indignados e in Italia ci si è rinfacciati il risentimento e le responsabilità. Settantamila persone, forse anche di più, hanno partecipato al corteo della «sollevazione generale», parola che ha acquisito un nuovo significato".
Ma il resto del giornale pensa ancora e pervicacemente al "palazzo" e alle sue guerriglie interne, fin dall'editoriale stanco di Piero Beviilacqua "L'avversario non c'è più", tutto incapsulato dentro i malesseri... del Pd.
I quotidiani di destra erano troppo scioccati dalla contemporanea sentenza della Corte d'Appello di Milano, che ha fissato i due gli anni di interdizione dai pubblici uffici per Berlusconi. E quindi si sono limitati al solito elenco di insulti contro i manifestanti in genere, tutti comunisti e black bloc.
Il Fatto si pente almeno in parte dell'oscena rappresentazione fatta nei giorni scorsi, in cui sembrava preoccupato di scavalcare a destra la stampa berlusconiana e presenta un coro di voci dalla tendopoli di Porta Pia. Tardivo, ma almeno utile a riportare al centro dell'attenzione i temi veri, buttando nel cesso quelle ossessioni "legalitarie" che inevitabilmente "buttano" sempre a destra. Alla fine, a denti stretti, anche il quotidiano del duo Padellaro-Travaglio deve ammettere che "Per il resto hanno avuto ragione Cobas, Usb, movimenti No Tav e No Muos, gruppi di “inquilinato resistente”, anarchici, singoli esasperati dalla crisi, immigrati (tantissimi). La manifestazione è riuscita, finita a tarda sera con l’accampamento sociale a Porta Pia. C’è una frase che può offrire una sintesi della due giorni di cortei a Roma, è quella urlata da uno speaker dal camion musicale che apriva il corteo: “Siamo tanti, la crisi ci uccide ma non siamo più soli”.
20 ottobre 2013

Blog curato da ...

Blog curato da ...
Mob. 0039 3248181172 - adakilismanis@gmail.com - akilis@otenet.gr
free counters