Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Francobolllo
Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Europa, SVEGLIA !!
sabato 15 ottobre 2011
Finanza, l'ultima occasione per un'altra Europa
di Antonio Tricarico. Fonte: sbilanciamoci
La finanza è uscita dalla crisi del 2008 più aggressiva di prima, ha fatto scoppiare la crisi europea, specula ora su materie prime e ambiente. Ci sono lacci per legarla – tassa sulle transazioni, controlli sulle banche, fine dei paradisi fiscali – ma l’Europa è sempre troppo in ritardo. Ora è il momento delle lotte, e di affrontare il default della Grecia
È indubbio che siamo arrivati a questo punto della crisi dell'euro – e più in generale dell'intero progetto europeo – per l'invasamento dogmatico liberista che negli ultimi vent’anni ha guidato le élite al potere nei paesi europei. La crisi finanziaria esplosa globalmente nel 2008 con il crollo della Lehman Brothers e l'intervento di salvataggio pubblico da 18 mila miliardi di dollari (tra prestiti, garanzie e fondi a perdere) in meno di un anno aveva fatto pensare che le politiche liberiste fossero al capolinea. Ma così non è stato. La principale risposta che vediamo alla crisi oggi in Europa è costituita da politiche di austerità che inevitabilmente produrranno recessione nel breve e deflazione nel medio e lungo termine, accoppiate con un ancora più massiccio corporate welfare a vantaggio del sistema bancario, troppo grande per fallire e quindi capace di tenere in scacco interi stati.
La “madre di tutte le crisi” ha mostrato le ragioni della società civile europea e delle campagne condotte per decenni. Finalmente il problema della finanza e delle banche è finito sulle prime pagine di giornali e sulle agende dei decisori politici. Si pensava che si potesse costruire una nuova narrativa al fine di aggregare consenso politico per un'azione trasformativa e non solo di riforma dell'esistente. Ma subito si è visto che la strada era molto più complessa, in molti frangenti sono mancate le truppe e spesso si è cercato di limitare i danni, come in passato ai tempi degli aggiustamenti strutturali imposti ai paesi più poveri. Oggi, di fronte ai tagli e all'ennesimo salvataggio delle banche, la rabbia monta e lentamente si riaffaccia anche la protesta nelle strade, dalla Spagna, alla Grecia, agli Usa. Un segnale di discontinuità da non sottovalutare, fermo restando la sfida di come organizzare un blocco sociale per promuovere un autentico cambiamento in relazione agli attuali rapporti di forza.
La finanza è uscita dalla crisi del 2008 più aggressiva di prima, ha fatto scoppiare la crisi europea, specula ora su materie prime e ambiente. Ci sono lacci per legarla – tassa sulle transazioni, controlli sulle banche, fine dei paradisi fiscali – ma l’Europa è sempre troppo in ritardo. Ora è il momento delle lotte, e di affrontare il default della Grecia
È indubbio che siamo arrivati a questo punto della crisi dell'euro – e più in generale dell'intero progetto europeo – per l'invasamento dogmatico liberista che negli ultimi vent’anni ha guidato le élite al potere nei paesi europei. La crisi finanziaria esplosa globalmente nel 2008 con il crollo della Lehman Brothers e l'intervento di salvataggio pubblico da 18 mila miliardi di dollari (tra prestiti, garanzie e fondi a perdere) in meno di un anno aveva fatto pensare che le politiche liberiste fossero al capolinea. Ma così non è stato. La principale risposta che vediamo alla crisi oggi in Europa è costituita da politiche di austerità che inevitabilmente produrranno recessione nel breve e deflazione nel medio e lungo termine, accoppiate con un ancora più massiccio corporate welfare a vantaggio del sistema bancario, troppo grande per fallire e quindi capace di tenere in scacco interi stati.
La “madre di tutte le crisi” ha mostrato le ragioni della società civile europea e delle campagne condotte per decenni. Finalmente il problema della finanza e delle banche è finito sulle prime pagine di giornali e sulle agende dei decisori politici. Si pensava che si potesse costruire una nuova narrativa al fine di aggregare consenso politico per un'azione trasformativa e non solo di riforma dell'esistente. Ma subito si è visto che la strada era molto più complessa, in molti frangenti sono mancate le truppe e spesso si è cercato di limitare i danni, come in passato ai tempi degli aggiustamenti strutturali imposti ai paesi più poveri. Oggi, di fronte ai tagli e all'ennesimo salvataggio delle banche, la rabbia monta e lentamente si riaffaccia anche la protesta nelle strade, dalla Spagna, alla Grecia, agli Usa. Un segnale di discontinuità da non sottovalutare, fermo restando la sfida di come organizzare un blocco sociale per promuovere un autentico cambiamento in relazione agli attuali rapporti di forza.
Da Versailles a Maastricht
di Annamaria Simonazzi. Fonte: sbilanciamoci
L’Europa ripete gli errori del 1919 e dimentica le lezioni di Keynes. La paralisi di oggi ci viene dall’ossessione per la “disciplina” del debito, dall’impossibilità di estendere il modello tedesco e dall’incapacità di riorientare l’opinione pubblica. Così l’austerità sta uccidendo la crescita (*)
“La politica di ridurre la Germania in servitù per una generazione, di degradare la vita di milioni di esseri umani e di privare un'intera nazione della felicità dovrebbe essere odiosa e ripugnante: odiosa e ripugnante anche se fosse possibile, anche se ci arricchisse, anche se non fosse fonte di rovina per tutta la vita civile d'Europa. C'è chi la predica in nome della giustizia. Nei grandi eventi della storia umana, nel dipanarsi degli intricati destini delle nazioni, la giustizia non è tanto semplice. E se pur lo fosse, le nazioni non sono autorizzate, dalla religione o dalla morale naturale, a punire i figli dei loro nemici per i misfatti di genitori o di governanti”. Così scriveva Keynes nella sua appassionata e disperata arringa contro le esorbitanti riparazioni imposte, nel trattato di pace firmato a Versailles nel 1919, dalle potenze vincitrici alla Germania sconfitta. Condizioni economicamente e finanziariamente impossibili da soddisfare, ispirate più al principio del “castigo” che della riparazione, sorde a considerazioni di capacità effettiva di pagare e dei costi, economici e sociali, imposti alla popolazione.
A distanza di un secolo, gli attori si sono scambiate le parti, ma la tragedia sulla scena è la stessa. Qui ora si tratta di debito piuttosto che riparazioni, ma il principio non cambia: delitto e castigo. Questo è stato il principio ispiratore nella gestione della crisi dell’eurozona fin dall’inizio: il virtuoso Nord non doveva pagare per la prodigalità e l’irresponsabilità dei cugini del Sud. E dunque l’aiuto è stato dapprima negato, poi concesso col contagocce, e solo quando si era sull’orlo del precipizio: sempre troppo poco, sempre troppo tardi, sempre troppo oneroso. E mano a mano che la crisi si espandeva a macchia d’olio – dalla Grecia ai PIIGS, al debito sovrano, alle banche – cresceva il risentimento e il rancore dei “salvatori” e la disperazione e la rabbia dei “salvati”.
L’Europa ripete gli errori del 1919 e dimentica le lezioni di Keynes. La paralisi di oggi ci viene dall’ossessione per la “disciplina” del debito, dall’impossibilità di estendere il modello tedesco e dall’incapacità di riorientare l’opinione pubblica. Così l’austerità sta uccidendo la crescita (*)
“La politica di ridurre la Germania in servitù per una generazione, di degradare la vita di milioni di esseri umani e di privare un'intera nazione della felicità dovrebbe essere odiosa e ripugnante: odiosa e ripugnante anche se fosse possibile, anche se ci arricchisse, anche se non fosse fonte di rovina per tutta la vita civile d'Europa. C'è chi la predica in nome della giustizia. Nei grandi eventi della storia umana, nel dipanarsi degli intricati destini delle nazioni, la giustizia non è tanto semplice. E se pur lo fosse, le nazioni non sono autorizzate, dalla religione o dalla morale naturale, a punire i figli dei loro nemici per i misfatti di genitori o di governanti”. Così scriveva Keynes nella sua appassionata e disperata arringa contro le esorbitanti riparazioni imposte, nel trattato di pace firmato a Versailles nel 1919, dalle potenze vincitrici alla Germania sconfitta. Condizioni economicamente e finanziariamente impossibili da soddisfare, ispirate più al principio del “castigo” che della riparazione, sorde a considerazioni di capacità effettiva di pagare e dei costi, economici e sociali, imposti alla popolazione.
A distanza di un secolo, gli attori si sono scambiate le parti, ma la tragedia sulla scena è la stessa. Qui ora si tratta di debito piuttosto che riparazioni, ma il principio non cambia: delitto e castigo. Questo è stato il principio ispiratore nella gestione della crisi dell’eurozona fin dall’inizio: il virtuoso Nord non doveva pagare per la prodigalità e l’irresponsabilità dei cugini del Sud. E dunque l’aiuto è stato dapprima negato, poi concesso col contagocce, e solo quando si era sull’orlo del precipizio: sempre troppo poco, sempre troppo tardi, sempre troppo oneroso. E mano a mano che la crisi si espandeva a macchia d’olio – dalla Grecia ai PIIGS, al debito sovrano, alle banche – cresceva il risentimento e il rancore dei “salvatori” e la disperazione e la rabbia dei “salvati”.
Non pagare il debito: come, concretamente?
Autore: Luigi Vinci Fonte: controlacrisi
Al pari di tutti i movimenti reali, cioè attivati da circostanze non accidentali, che siano di massa e che riscuotano ampia simpatia sociale, quello in corso da qualche tempo, a base soprattutto giovanile, che per comodità espositiva chiamerò degli “indignados”, tende a estendersi, a mettere sempre meglio a fuoco il nemico, ad alzare il tiro, a definire obiettivi non solamente di fifesa e non solamente immediati. Negli Stati Uniti, sede del nemico numero uno, la grande finanza speculativa, il movimento sta attaccando Wall Street (le quattro maggiori banche d’affari statunitensi attivano quasi il 95% dei “prodotti derivati” operanti a livello planetario, per una cifra che è 4 volte il PIL mondiale e 20 volte quello USA), parimenti esso sta premendo, con l’organizzazione di una manifestazione a Washington, sulla Casa Bianca. In Italia hanno cominciato a essere oggetto di iniziative di contestazione, oltre al governo, le istituzioni tecnocratiche fintamente neutrali, in realtà ultraliberiste e parte attiva fondamentale nella determinazione degli attacchi antisociali di governo, come la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e la Banca d’Italia. E’ molto importante: il contrasto aperto alla mistificazione tecnocratica è tanto essenziale quanto il contrasto aperto al neoliberismo, alle sue pretese di scientificità e di razionalità economica, alle sue promesse alla società, oltre che, ovviamente, ai danni che sta realizzando a spese delle maggioranze sociali e alla stessa capacità del capitalismo occidentale di riprendersi dalla crisi, anzi contribuendo a precipitarlo in una lunga depressione intervallata da cadute recessive gravi. Bene parimenti fanno gli “indignados” europei a indicare obiettivi che non siano più solo il rifiuto delle misure specifiche di governo, per esempio sul piano della scuola o delle condizioni di lavoro, a rivendicare denari per la scuola pubblica e la fine del precariato. E dunque è molto importante che sia stata affrontata la questione del debito pubblico con lo slogan “non vogliamo”, o “non dobbiamo”, “pagare il debito”.
Al pari di tutti i movimenti reali, cioè attivati da circostanze non accidentali, che siano di massa e che riscuotano ampia simpatia sociale, quello in corso da qualche tempo, a base soprattutto giovanile, che per comodità espositiva chiamerò degli “indignados”, tende a estendersi, a mettere sempre meglio a fuoco il nemico, ad alzare il tiro, a definire obiettivi non solamente di fifesa e non solamente immediati. Negli Stati Uniti, sede del nemico numero uno, la grande finanza speculativa, il movimento sta attaccando Wall Street (le quattro maggiori banche d’affari statunitensi attivano quasi il 95% dei “prodotti derivati” operanti a livello planetario, per una cifra che è 4 volte il PIL mondiale e 20 volte quello USA), parimenti esso sta premendo, con l’organizzazione di una manifestazione a Washington, sulla Casa Bianca. In Italia hanno cominciato a essere oggetto di iniziative di contestazione, oltre al governo, le istituzioni tecnocratiche fintamente neutrali, in realtà ultraliberiste e parte attiva fondamentale nella determinazione degli attacchi antisociali di governo, come la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e la Banca d’Italia. E’ molto importante: il contrasto aperto alla mistificazione tecnocratica è tanto essenziale quanto il contrasto aperto al neoliberismo, alle sue pretese di scientificità e di razionalità economica, alle sue promesse alla società, oltre che, ovviamente, ai danni che sta realizzando a spese delle maggioranze sociali e alla stessa capacità del capitalismo occidentale di riprendersi dalla crisi, anzi contribuendo a precipitarlo in una lunga depressione intervallata da cadute recessive gravi. Bene parimenti fanno gli “indignados” europei a indicare obiettivi che non siano più solo il rifiuto delle misure specifiche di governo, per esempio sul piano della scuola o delle condizioni di lavoro, a rivendicare denari per la scuola pubblica e la fine del precariato. E dunque è molto importante che sia stata affrontata la questione del debito pubblico con lo slogan “non vogliamo”, o “non dobbiamo”, “pagare il debito”.
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Gli indignati e il debito
di Vladimiro Giacché - Fonte: ilfattoquotidiano
Domani, in Italia come in molti altri Paesi, si svolgeranno le manifestazioni degli Indignati. Si tratta di un movimento che sta assumendo dimensioni globali e che intende dar voce, come dicono i cartelli issati dai manifestanti a Wall Street, a quel 99% della popolazione che sta pagando una crisi che non ha provocato. È importante che le ragioni di questa protesta non siano inquinate e distorte da atti di violenza che servirebbero soltanto a screditare il movimento, offrendo un’ottima scusa a chi non vuole entrare nel merito dei suoi motivi. Che sono molti e molto seri.
A oltre quattro anni dall’inizio della crisi continuano i salvataggi di banche e assicurazioni con soldi pubblici: l’ultimo caso, di pochi giorni fa, riguarda Dexia e costerà 90 miliardi di euro a Belgio, Francia e Lussemburgo. In compenso si lascia marcire la crisi greca, dopo averla aggravata con il piano di austerity draconiano che ha accompagnato il “salvataggio” del 2010. I bilanci pubblici in Europa sono stati prima appesantiti accollando ad essi il debito privato, e ora si tenta di alleggerirli smantellando i sistemi di welfare e privatizzando a più non posso. Intanto si assiste ad uno spostamento di sovranità dagli Stati a una sorta di terra di nessuno in cui chi detta le regole sono di fatto i governi degli Stati “forti” dell’Unione o addirittura la Banca Centrale Europea. Quest’ultima, non contenta di far male il proprio lavoro (vedi l’aumento dei tassi di interesse a luglio), ha pensato bene di cominciare a dettare agli Stati le politiche economiche e sociali: richiedendo all’Italia – con una lettera che avrebbe dovuto rimanere segreta “per non turbare i mercati” – di effettuare la “privatizzazione su larga scala” dei servizi pubblici, ridurre gli stipendi pubblici e rendere più facili i licenziamenti.
Infine, a turbare non i mercati ma gli Indignati, c’è il governo peggiore di sempre: che prima ha negato la crisi, poi ha accettato senza fiatare una modifica del patto di stabilità punitiva per l’Italia e infine ha costruito una manovra economica (anzi: quattro) da manuale quanto ad iniquità e inutilità.
A oltre quattro anni dall’inizio della crisi continuano i salvataggi di banche e assicurazioni con soldi pubblici: l’ultimo caso, di pochi giorni fa, riguarda Dexia e costerà 90 miliardi di euro a Belgio, Francia e Lussemburgo. In compenso si lascia marcire la crisi greca, dopo averla aggravata con il piano di austerity draconiano che ha accompagnato il “salvataggio” del 2010. I bilanci pubblici in Europa sono stati prima appesantiti accollando ad essi il debito privato, e ora si tenta di alleggerirli smantellando i sistemi di welfare e privatizzando a più non posso. Intanto si assiste ad uno spostamento di sovranità dagli Stati a una sorta di terra di nessuno in cui chi detta le regole sono di fatto i governi degli Stati “forti” dell’Unione o addirittura la Banca Centrale Europea. Quest’ultima, non contenta di far male il proprio lavoro (vedi l’aumento dei tassi di interesse a luglio), ha pensato bene di cominciare a dettare agli Stati le politiche economiche e sociali: richiedendo all’Italia – con una lettera che avrebbe dovuto rimanere segreta “per non turbare i mercati” – di effettuare la “privatizzazione su larga scala” dei servizi pubblici, ridurre gli stipendi pubblici e rendere più facili i licenziamenti.
Infine, a turbare non i mercati ma gli Indignati, c’è il governo peggiore di sempre: che prima ha negato la crisi, poi ha accettato senza fiatare una modifica del patto di stabilità punitiva per l’Italia e infine ha costruito una manovra economica (anzi: quattro) da manuale quanto ad iniquità e inutilità.
Andiamo oltre l'indignazione
di Luciano Muhlbauer. Fonte: ilmanifesto
Andiamo oltre l'indignazione
Per non sprecare il 15 ottobre, bisogna definire un orizzonte politico alternativo. La crisi devasta le esistenze delle persone e quando chiedono cosa proponiamo per risolvere i loro problemi non possiamo più rispondere «non so».
Zone rosse attorno ai palazzi, allarme violenza, qualche manganellata di troppo, come a Bologna, e alcuni arresti inquietanti, come a Brindisi. Insomma, neanche questa volta l'autorità costituita ha voluto deviare dall'ormai consueto e consunto rito. Prendiamone atto e passiamo oltre.
Ebbene sì, perché la giornata globale contro l'austerity del 15 ottobre, la sua riuscita, il suo significato e la sua incidenza, saranno valutati con ben altri parametri, qui e in Europa. Cioè, con la capacità o meno di segnare la presenza e la rilevanza di un altro punto di vista sulla crisi, alternativo a quello della Bce, del Fmi e della Bm, di Marchionne e di Draghi, degli hedge funds, dei banchieri, delle agenzie di rating eccetera.
In altre parole, il punto è se il 15 ottobre quelli e quelle che stanno fuori dal recinto, per usare la metafora bertinottiana, cioè noi, nella nostra pluralità e nelle nostre diversità, riusciremo ad andare oltre all'esplicitazione dell'indignazione, per evocare ed innescare la nostra costituzione in forza, movimento e discorso, capace di incidere sull'agenda sociale e politica e di produrre cambiamento percettibile.
E attenzione, non è un problema marginale e tanto meno astratto o politicista. Anzi, è questione centrale, urgente e concreta. È centrale perché è illusorio pensare che per il solo fatto che la crisi sia di sistema e non congiunturale, essa porti dunque spontaneamente all'emersione di un'alternativa di sistema. Non è affatto così e la realtà di tutti i giorni si incarica di ricordarcelo: in assenza di alternative politiche dotate di forza sociale autonoma, prevale la risposta alla crisi di coloro i quali la crisi l'avevano provocata.
Andiamo oltre l'indignazione
Per non sprecare il 15 ottobre, bisogna definire un orizzonte politico alternativo. La crisi devasta le esistenze delle persone e quando chiedono cosa proponiamo per risolvere i loro problemi non possiamo più rispondere «non so».
Zone rosse attorno ai palazzi, allarme violenza, qualche manganellata di troppo, come a Bologna, e alcuni arresti inquietanti, come a Brindisi. Insomma, neanche questa volta l'autorità costituita ha voluto deviare dall'ormai consueto e consunto rito. Prendiamone atto e passiamo oltre.
Ebbene sì, perché la giornata globale contro l'austerity del 15 ottobre, la sua riuscita, il suo significato e la sua incidenza, saranno valutati con ben altri parametri, qui e in Europa. Cioè, con la capacità o meno di segnare la presenza e la rilevanza di un altro punto di vista sulla crisi, alternativo a quello della Bce, del Fmi e della Bm, di Marchionne e di Draghi, degli hedge funds, dei banchieri, delle agenzie di rating eccetera.
In altre parole, il punto è se il 15 ottobre quelli e quelle che stanno fuori dal recinto, per usare la metafora bertinottiana, cioè noi, nella nostra pluralità e nelle nostre diversità, riusciremo ad andare oltre all'esplicitazione dell'indignazione, per evocare ed innescare la nostra costituzione in forza, movimento e discorso, capace di incidere sull'agenda sociale e politica e di produrre cambiamento percettibile.
E attenzione, non è un problema marginale e tanto meno astratto o politicista. Anzi, è questione centrale, urgente e concreta. È centrale perché è illusorio pensare che per il solo fatto che la crisi sia di sistema e non congiunturale, essa porti dunque spontaneamente all'emersione di un'alternativa di sistema. Non è affatto così e la realtà di tutti i giorni si incarica di ricordarcelo: in assenza di alternative politiche dotate di forza sociale autonoma, prevale la risposta alla crisi di coloro i quali la crisi l'avevano provocata.
#15oct events all over the world
There are 1.009 events in 86 countries already!
Fonte e mappa
In Albania, Andorra, Argentina, Australia, Austria, Belgium, Bolivia, Bosnia and Herzegovina, Brazil, Bulgaria, Canada, Chez Republic, Chile, Colombia, Costa Rica, Croatia, Cyprus, Denmark, Dominican Republic, Ecuador, Egypt, Estonia, Finland, France, French Polynesia, Germany, Greece, Guatemala, Hawaii, Honduras, Hong Kong, Hungary, Iceland, India, Indonesia, Ireland, Israel, Italy, Japan, Jordan, Korea, Kosovo, Latvia, Lithuania, Luxembourg, Macedonia, Malaysia, Mali, Mauritius, Mexico, Morocco, Netherlands, New Zealand, Nicaragua, Northern Mariana Islands, Norway, Palestine, Panama, Paraguay, Peru, Philippines, Poland, Portugal, Puerto Rico, Romania, Russia, Saudi Arabia, Senegal, Serbia, Singapore, Slovakia, Slovenia, South Africa, Spain, Sri Lanka, Sweden, Switzerland, Taiwan, Thailand, Tunisie, Turkey, UK, Ukraine, Uruguay, USA and Venezuela.
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venerdì 14 ottobre 2011
Lettera aperta ai poliziotti di via Nazionale.
di Zag. Fonte: listasinistra
Vi invio questa lettera aperta per comunicarvi il mio stato d'animo nei vostri confronti.Mi fate pena!. In questi giorni vi ho guardato con attenzione. I vostri sguardi, le vostre risate a battute che non ho ascoltato, i vostri discorsi al cellulare, con le vostre amiche, fidanzate, madri, sono sguardi, risate di tristezza. Li ho confrontati con gli sguardi dei vostri coetanei li, sulle gradinate del Palazzo dell'Esposizione. Li tanta gioia, allegria, lo stringersi attorno, il baciarsi al rivedersi o il darsi il cinque, le pacche sulle spalle, le risate. I balli i canti, il prendere la parola, il sentirsi parte d una comunità che sarà il futuro. Erano risate di gioia sana, piena, completa. Eppure il loro futuro è annebbiato, anzi non hanno futuro, Vivono o di piccoli lavori, pagati male e in maniera saltuaria. Non hanno casa o vivono con i genitori, aiutati dai nonni, studiano e non sperano , non possono progettare. A voi il vostro stipendio è assicurato. Per 1500 euro ( aumentato con le indennità per il servizio pubblico) picchiate e manganellate senza scrupolo , pasticcati o no, i vostri coetanei; spaccate teste , mandibole e scalciate con i vostri stivali con punta in acciaio i vostri fratelli o potenziali amici . Non pensate, ma obbedite. Come schiavi obbedite intruppati come marionette senza anima e senza cuore. Picchiate come forsennati i vostri manganelli sugli scudi, gli uni accanto agli altri per farvi coraggio, per sentirvi al sicuro, bardati come robokob, battete i tacchi sul selciato per impaurire i vostri nemici/fratelli. Non potrete mai essere felici, non potrete mai sorridere alla vita. Il vostro sorriso sarà sempre triste perché nei vostri occhi sarà sempre impresso il sangue rosso del vostro fratello della vostra sorella che avete picchiato che sgorga dal naso e dalla testa, in quella via, in quella piazza.
Non suscitate, nonostante tutto questo, in me la rabbia o l'odio. No solo la pena.
Se siete veramente figli del popolo, allora avete rinnegato e tradito i vostri padri, la comunità di cui fate parte, e quindi ancor di più non potrete mai essere sereni.
Quei giovani , li sulle gradinate, hanno il rispetto della gente che passa. I passanti si fermano, danno un contributo, bevono una bibita, un sorso d'acqua, mangiano un cornetto, la scusa per dare il loro contributo economico, per aiutare a far crescere in quei figli,fratelli,nipoti la speranza di poter cambiare questo mondo.Per voi invece la gente vi scansa, con fastidio, con timore. Siete soli, anche in gruppo siete soli perché non suscitate la speranza , il nuovo, ma solo la sottomissione al potere, il vecchio, la difesa del marciume che avvelena e ammorba questa aria di una Roma di metà ottobre.
E domani sarete ancora più soli, soli con i vostri padroni e servi dei servi. E per voi non v'è speranza!
Mi dispiace per voi. Mi fate solo pena!
--
Zag(c)
Vi invio questa lettera aperta per comunicarvi il mio stato d'animo nei vostri confronti.Mi fate pena!. In questi giorni vi ho guardato con attenzione. I vostri sguardi, le vostre risate a battute che non ho ascoltato, i vostri discorsi al cellulare, con le vostre amiche, fidanzate, madri, sono sguardi, risate di tristezza. Li ho confrontati con gli sguardi dei vostri coetanei li, sulle gradinate del Palazzo dell'Esposizione. Li tanta gioia, allegria, lo stringersi attorno, il baciarsi al rivedersi o il darsi il cinque, le pacche sulle spalle, le risate. I balli i canti, il prendere la parola, il sentirsi parte d una comunità che sarà il futuro. Erano risate di gioia sana, piena, completa. Eppure il loro futuro è annebbiato, anzi non hanno futuro, Vivono o di piccoli lavori, pagati male e in maniera saltuaria. Non hanno casa o vivono con i genitori, aiutati dai nonni, studiano e non sperano , non possono progettare. A voi il vostro stipendio è assicurato. Per 1500 euro ( aumentato con le indennità per il servizio pubblico) picchiate e manganellate senza scrupolo , pasticcati o no, i vostri coetanei; spaccate teste , mandibole e scalciate con i vostri stivali con punta in acciaio i vostri fratelli o potenziali amici . Non pensate, ma obbedite. Come schiavi obbedite intruppati come marionette senza anima e senza cuore. Picchiate come forsennati i vostri manganelli sugli scudi, gli uni accanto agli altri per farvi coraggio, per sentirvi al sicuro, bardati come robokob, battete i tacchi sul selciato per impaurire i vostri nemici/fratelli. Non potrete mai essere felici, non potrete mai sorridere alla vita. Il vostro sorriso sarà sempre triste perché nei vostri occhi sarà sempre impresso il sangue rosso del vostro fratello della vostra sorella che avete picchiato che sgorga dal naso e dalla testa, in quella via, in quella piazza.
Non suscitate, nonostante tutto questo, in me la rabbia o l'odio. No solo la pena.
Se siete veramente figli del popolo, allora avete rinnegato e tradito i vostri padri, la comunità di cui fate parte, e quindi ancor di più non potrete mai essere sereni.
Quei giovani , li sulle gradinate, hanno il rispetto della gente che passa. I passanti si fermano, danno un contributo, bevono una bibita, un sorso d'acqua, mangiano un cornetto, la scusa per dare il loro contributo economico, per aiutare a far crescere in quei figli,fratelli,nipoti la speranza di poter cambiare questo mondo.Per voi invece la gente vi scansa, con fastidio, con timore. Siete soli, anche in gruppo siete soli perché non suscitate la speranza , il nuovo, ma solo la sottomissione al potere, il vecchio, la difesa del marciume che avvelena e ammorba questa aria di una Roma di metà ottobre.
E domani sarete ancora più soli, soli con i vostri padroni e servi dei servi. E per voi non v'è speranza!
Mi dispiace per voi. Mi fate solo pena!
--
Zag(c)
U.S. Citizens for Peace & Justice – Rome
October 15, 2011
Meet at 1:30 pm
Piazza della Repubblica
Please join us tomorrow, October 15th to take part in an international demonstration – a day that will see mobilizations across the U.S., Europe, the Mediterranean and beyond against war and corporate greed and in the defence of our basic rights, welfare, jobs and more. Organisers are calling for the "People of Europe to Rise Up!" and for an international day of mobilization under the banner "UNITED FOR GLOBAL CHANGE".
With all the various events taking place over the past year in reaction to injustices throughout the world, it is important that the momentum remains strong. We – U.S. Citizens for Peace & Justice in Rome – will be joining people from around Europe in protest and to also mark the 10th anniversary of the invasion of Afghanistan.
In these 10 years many negligent acts have taken place, such as:
- Multiple ongoing wars and occupations
- Corporate influence and manipulation of governments and financial markets
- Failure by governments to protect and represent the 99% of the people in the world.
It is now time to dust-off any numbness and complacency in order to re-engage with those around the world. Those who are tired of not being able to play a role in their governments or having a say in the decisions that affect their lives. If you fit this profile, please come join us tomorrow.
We will be meeting in Piazza della Repubblica in front of the Cinema Moderno at 1:30 pm. Look for our U.S. peace flag or call Anna on 320 6359555 if you want to try to meet up with at any stage or at the final destination, Piazza San Giovanni.
Please let us know if you plan to join us by writing to info@peaceandjustice.it.
We hope to see you tomorrow – this promises to be an important and interesting event!
U.S. Citizens for Peace & Justice – Rome
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www.peaceandjustice.it
info@peaceandjustice.it
Meet at 1:30 pm
Piazza della Repubblica
Please join us tomorrow, October 15th to take part in an international demonstration – a day that will see mobilizations across the U.S., Europe, the Mediterranean and beyond against war and corporate greed and in the defence of our basic rights, welfare, jobs and more. Organisers are calling for the "People of Europe to Rise Up!" and for an international day of mobilization under the banner "UNITED FOR GLOBAL CHANGE".
With all the various events taking place over the past year in reaction to injustices throughout the world, it is important that the momentum remains strong. We – U.S. Citizens for Peace & Justice in Rome – will be joining people from around Europe in protest and to also mark the 10th anniversary of the invasion of Afghanistan.
In these 10 years many negligent acts have taken place, such as:
- Multiple ongoing wars and occupations
- Corporate influence and manipulation of governments and financial markets
- Failure by governments to protect and represent the 99% of the people in the world.
It is now time to dust-off any numbness and complacency in order to re-engage with those around the world. Those who are tired of not being able to play a role in their governments or having a say in the decisions that affect their lives. If you fit this profile, please come join us tomorrow.
We will be meeting in Piazza della Repubblica in front of the Cinema Moderno at 1:30 pm. Look for our U.S. peace flag or call Anna on 320 6359555 if you want to try to meet up with at any stage or at the final destination, Piazza San Giovanni.
Please let us know if you plan to join us by writing to info@peaceandjustice.it.
We hope to see you tomorrow – this promises to be an important and interesting event!
U.S. Citizens for Peace & Justice – Rome
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www.peaceandjustice.it
info@peaceandjustice.it
Verso il 15 ottobre. Intervista a Ugo Mattei: "Una giornata che collega movimenti di tutta europa per invertire la rotta"
Intervista a Ugo Mattei, Giurista - Forum Acqua Pubblica. Fonte: controlacrisi
A pochi mesi dalla vittoria del referendum. Un grande successo seguito da una crisi economica che continua a peggiorare e a colpire le condizioni delle classi sociali non ricche. I principali fattori che oggi determinano questa crisi.
La crisi è determinata da un problema di percezione generalizzato: si crede possibile e desiderabile una crescita infinita su un pianeta finito e si sostiene questa folle idea attraverso un dispositivo politico giuridico ed ideologico micidiale che determina comportamenti suicidi della maggior parte della popolazione. Ridurre la crisi a economica o finanziaria è una scorciatoia.
Gli italiani e la loro voglia di scendere in piazza. Possiamo parlare di un rinnovamento degli italiani? Di una consapevolezza che li spinge alla reazione, a farsi di nuovo sentire?
Il senso di smarrimento derivante dalla crisi materiale che disvela quella di percezione sta producendo un effetto importante in una gran parte degli italiani. Quello di capire che non sono piu’ tempi di deleghe e che invece occorre prendere direttamente in mano la situazione.
A pochi mesi dalla vittoria del referendum. Un grande successo seguito da una crisi economica che continua a peggiorare e a colpire le condizioni delle classi sociali non ricche. I principali fattori che oggi determinano questa crisi.
La crisi è determinata da un problema di percezione generalizzato: si crede possibile e desiderabile una crescita infinita su un pianeta finito e si sostiene questa folle idea attraverso un dispositivo politico giuridico ed ideologico micidiale che determina comportamenti suicidi della maggior parte della popolazione. Ridurre la crisi a economica o finanziaria è una scorciatoia.
Gli italiani e la loro voglia di scendere in piazza. Possiamo parlare di un rinnovamento degli italiani? Di una consapevolezza che li spinge alla reazione, a farsi di nuovo sentire?
Il senso di smarrimento derivante dalla crisi materiale che disvela quella di percezione sta producendo un effetto importante in una gran parte degli italiani. Quello di capire che non sono piu’ tempi di deleghe e che invece occorre prendere direttamente in mano la situazione.
A Liberty Park funziona così.
di Daniele Salvini - NEW YORK
OCCUPY WALL STREET - I media siamo noi. Con internet e video, un esempio di citizen journalism.
OCCUPY WALL STREET - I media siamo noi. Con internet e video, un esempio di citizen journalism.
Fonte: ilmanifesto
Come cresce e si organizza il movimento. Tutto è iniziato dall'appello della rivista «Adbusters». Poi la protesta davanti alla Borsa di New York, la repressione della polizia, l'occupazione del parco Le assemblee sono orizzontali, autonome e senza leader, basate sul consenso
Come cresce e si organizza il movimento. Tutto è iniziato dall'appello della rivista «Adbusters». Poi la protesta davanti alla Borsa di New York, la repressione della polizia, l'occupazione del parco Le assemblee sono orizzontali, autonome e senza leader, basate sul consenso
All'origine di tutto la proposta della rivista canadese Adbusters che auspicava la nascita di una protesta popolare che si opponesse allo status quo: le lobby economiche che dettano legge alla politica. Da qui è germogliato e sta crescendo Occupy Wall Street, il movimento che dal 17 settembre ha pacificamente occupato la borsa di New York e che unisce nell'azione le diverse voci dissidenti senza avere un leader ma solo portavoce.
Hanno raccolto l'eredità di Woody Guthrie, dei Wobblies, i sindacalisti anarchici d'inizio secolo scorso, del movimento non violento di Martin Luther King e di quello chic di Harvey Milk a San Francisco. Accampati nel Financial District, a due passi dallo stock exchange, leggono la Repubblica di Platone e Capitalismo e schizofrenia di Deleuze e Guattari, durante il giorno cantano e ballano.
Il mezzo e il messaggio
Usano i nuovi strumenti per comunicare e organizzarsi - Livestream, Facebook, Youtube - ma il social network preferito è Twitter, dove sia Naomi Klein che Michael Moore stanno facendo da cassa di risonanza. L'hashtag di partenza era #takewallstreet che si è poi trasformato in #occupywallstreet. E via via che la protesta si espande - in questo momento sono 72 le città negli Stati uniti interessate - compaiono i nuovi hashtag: occupywashington, occupychicago, fino all'hashtag collettivo #occupytogether. Esiste anche un Tweet che si riferisce delle condizioni climatiche a New York per informare gli occupanti delle previsioni del tempo.
Hanno raccolto l'eredità di Woody Guthrie, dei Wobblies, i sindacalisti anarchici d'inizio secolo scorso, del movimento non violento di Martin Luther King e di quello chic di Harvey Milk a San Francisco. Accampati nel Financial District, a due passi dallo stock exchange, leggono la Repubblica di Platone e Capitalismo e schizofrenia di Deleuze e Guattari, durante il giorno cantano e ballano.
Il mezzo e il messaggio
Usano i nuovi strumenti per comunicare e organizzarsi - Livestream, Facebook, Youtube - ma il social network preferito è Twitter, dove sia Naomi Klein che Michael Moore stanno facendo da cassa di risonanza. L'hashtag di partenza era #takewallstreet che si è poi trasformato in #occupywallstreet. E via via che la protesta si espande - in questo momento sono 72 le città negli Stati uniti interessate - compaiono i nuovi hashtag: occupywashington, occupychicago, fino all'hashtag collettivo #occupytogether. Esiste anche un Tweet che si riferisce delle condizioni climatiche a New York per informare gli occupanti delle previsioni del tempo.
REPORT SU UNA GIORNATA DI PROTESTA E DI VIOLENZA CRIMINALE
DI FRANCO BERARDI “BIFO”
Fonte: comedonchisciotte
Alle ore 11.15 ho raggiunto piazza Cavour dove era prevista un'azione dimostrativa davanti alla Banca d'Italia.
Era in corso una carica, gruppi di ragazzi correvano via inseguiti da un gruppo di celerini.
Mi sono avvicinato, la carica è finita, e gli studenti si sono raggruppati. Erano in larga maggioranza giovanissimi, avevano scudi di polistirolo qualcuno brandiva un cartello bianco con su scritto: 800 sfratti nel 2011 nella città di Bologna.
La Banca d'Italia è protetta da un enorme cancello di Metallo e per l'occasione da due file di poliziotti bardati di tutto punto. Possibilità di sfondamento zero.
I dimostranti hanno risalito la piazza avvicinandosi di nuovo alla banca, ma prima ancora di raggiungere il portico un gruppo di dodici poliziotti superbardati e superaggressivi li ha caricati. Io mi trovavo a pochi metri, ho afferrato un poliziotto alle spalle tentando di fermarlo senza riuscirci. Erano belve. Li ho visti per alcuni secondo aggredire con una ferocia del tutto incomprensibile, psicopatica.
Nazisti o soggetti a una cura di anfetamine?
Durante questa carica diversi ragazzi sono stati malmenati, e una ragazza di diciannove anni è stata colpita con intenzionale violenza alla bocca, con il risultato di una ferita seria, e della perdita di tre denti.
Appena la situazione si è ricomposta e i dodici assassini potenziali si sono ritirati io mi sono avvicinato e ho cominciato a parlare con loro. Si allontanavano e si muovevano con nervosismo come se io fossi un potenziale pericolo. Ho ripetuto più volte "quello che fate non ha alcun senso fate male a dei ragazzini disarmati è una cosa da matti". Nessuno di loro ha risposto neppure con un cenno, sfuggivano il mio sguardo e si allontanavano.
Il più anziano di loro mi si è avvicinato e gli ho chiesto se almeno lui poteva parlare con me.
Alle ore 11.15 ho raggiunto piazza Cavour dove era prevista un'azione dimostrativa davanti alla Banca d'Italia.
Era in corso una carica, gruppi di ragazzi correvano via inseguiti da un gruppo di celerini.
Mi sono avvicinato, la carica è finita, e gli studenti si sono raggruppati. Erano in larga maggioranza giovanissimi, avevano scudi di polistirolo qualcuno brandiva un cartello bianco con su scritto: 800 sfratti nel 2011 nella città di Bologna.
La Banca d'Italia è protetta da un enorme cancello di Metallo e per l'occasione da due file di poliziotti bardati di tutto punto. Possibilità di sfondamento zero.
I dimostranti hanno risalito la piazza avvicinandosi di nuovo alla banca, ma prima ancora di raggiungere il portico un gruppo di dodici poliziotti superbardati e superaggressivi li ha caricati. Io mi trovavo a pochi metri, ho afferrato un poliziotto alle spalle tentando di fermarlo senza riuscirci. Erano belve. Li ho visti per alcuni secondo aggredire con una ferocia del tutto incomprensibile, psicopatica.
Nazisti o soggetti a una cura di anfetamine?
Durante questa carica diversi ragazzi sono stati malmenati, e una ragazza di diciannove anni è stata colpita con intenzionale violenza alla bocca, con il risultato di una ferita seria, e della perdita di tre denti.
Appena la situazione si è ricomposta e i dodici assassini potenziali si sono ritirati io mi sono avvicinato e ho cominciato a parlare con loro. Si allontanavano e si muovevano con nervosismo come se io fossi un potenziale pericolo. Ho ripetuto più volte "quello che fate non ha alcun senso fate male a dei ragazzini disarmati è una cosa da matti". Nessuno di loro ha risposto neppure con un cenno, sfuggivano il mio sguardo e si allontanavano.
Il più anziano di loro mi si è avvicinato e gli ho chiesto se almeno lui poteva parlare con me.
Da che parte stai? Il sindacato dei trasporti con Occupy Wall Street
Intervista a STEVE DOWNS (Transit Workers Union di New York)
di ANNA CURCIO e GIGI ROGGERO Fonte: liberoit
Alla vigilia di natale del 2005 i lavoratori dei trasporti di New York entrarono in sciopero per il rinnovo del contratto e la città rimase completamente bloccata per tre giorni. Nello stato di New York lo sciopero nel settore pubblico è proibito dalla legge Taylor del 1967, per cui assume immediatamente una forma selvaggia e illegale. Sindaco e media invocarono arresti e repressione esemplari, il leader del Transit Workers Union (TWU) passò alcuni giorni in galera, il sindacato venne sanzionato con pesanti ammende pecuniarie. Il risultato dello sciopero fu eccezionale: la metropoli non rimase solo paralizzata, ma fu riempita da tre giorni di straordinaria autorganizzazione dei trasporti, delle forme di comunicazione e di vita. I precari dell’università in sciopero contro la New York University parteciparono ai picchetti, così come i transit workers avevano preso parte alle iniziative dei gradute students. La Grande Mela è stata spaccata su linee di classe. A sei anni di distanza i lavoratori dei trasporti hanno ancora una volta preso in mano il proprio sindacato, spingendolo verso le lotte di Occupy Wall Street e l’occupazione del ponte di Brooklyn, dentro quel grande movimento che sta respirando l’aria comune dell’insorgenza globale contro il capitalismo in crisi. Ne abbiamo discusso con Steve Downs, militante del TWU, di origine irlandese come molti della prima generazione di transit workers newyorchesi, ora in buona parte guidati dalla combattività dei lavoratori neri. Una cosa emerge con grande chiarezza: il rapporto tra movimento e sindacato non si costruisce in termini di alleanze che finiscono per incancrenire la subalternità del primo e il conservatorismo del secondo, ma di composizione comune delle lotte e delle differenti figure del lavoro. Che beneficio ne avrebbero tanti ceti politici, su questa sponda dell’Atlantico, se imparassero almeno questa lezione dai corrotti sindacati americani.
La conversazione via mail parte dunque dai motivi per cui il TWU sta supportando le occupazioni.
di ANNA CURCIO e GIGI ROGGERO Fonte: liberoit
Alla vigilia di natale del 2005 i lavoratori dei trasporti di New York entrarono in sciopero per il rinnovo del contratto e la città rimase completamente bloccata per tre giorni. Nello stato di New York lo sciopero nel settore pubblico è proibito dalla legge Taylor del 1967, per cui assume immediatamente una forma selvaggia e illegale. Sindaco e media invocarono arresti e repressione esemplari, il leader del Transit Workers Union (TWU) passò alcuni giorni in galera, il sindacato venne sanzionato con pesanti ammende pecuniarie. Il risultato dello sciopero fu eccezionale: la metropoli non rimase solo paralizzata, ma fu riempita da tre giorni di straordinaria autorganizzazione dei trasporti, delle forme di comunicazione e di vita. I precari dell’università in sciopero contro la New York University parteciparono ai picchetti, così come i transit workers avevano preso parte alle iniziative dei gradute students. La Grande Mela è stata spaccata su linee di classe. A sei anni di distanza i lavoratori dei trasporti hanno ancora una volta preso in mano il proprio sindacato, spingendolo verso le lotte di Occupy Wall Street e l’occupazione del ponte di Brooklyn, dentro quel grande movimento che sta respirando l’aria comune dell’insorgenza globale contro il capitalismo in crisi. Ne abbiamo discusso con Steve Downs, militante del TWU, di origine irlandese come molti della prima generazione di transit workers newyorchesi, ora in buona parte guidati dalla combattività dei lavoratori neri. Una cosa emerge con grande chiarezza: il rapporto tra movimento e sindacato non si costruisce in termini di alleanze che finiscono per incancrenire la subalternità del primo e il conservatorismo del secondo, ma di composizione comune delle lotte e delle differenti figure del lavoro. Che beneficio ne avrebbero tanti ceti politici, su questa sponda dell’Atlantico, se imparassero almeno questa lezione dai corrotti sindacati americani.
La conversazione via mail parte dunque dai motivi per cui il TWU sta supportando le occupazioni.
giovedì 13 ottobre 2011
15 ottobre, centinaia di pullman tutto pronto per il corteo di Roma
Checchino Antonini Fonte: liberazione
Il corteo del popolo anti-crisi partirà alle 14 da Piazza della Repubblica e sarà aperto da due striscioni, "People of Europe rise up" e "Cambiamo l'Europa, cambiamo l'Italia", portati da rappresentanti dei vari conflitti in corso in Italia. Una trentina tra loro prenderà la parola in piazza San Giovanni dopo essere sfilati per Via Cavour, Fori Imperiali, Colosseo, Via Labicana, Viale Manzoni e Via Emanule Filiberto. Per i dettagli sulla composizione del corteo c'è da aspettare ancora. Solo nel primo pomeriggio di oggi si riunirà il coordinamento nazionale che si sta facendo carico delle questioni logistiche e di servizio del corteo, uno dei 250 che si terranno in altrettante città nel mondo in risposta alla chiamata spagnola degli indignados. Il documento del 15-M, che 48 ore fa ha descritto quello che succederà sabato nello Stato Spagnolo, prende le mosse da uno slogan che non sfigurerebbe nemmeno per le strade di Roma: "Scusate il disturbo ma questa è una rivoluzione". Al di là della suggestione, che stabilisce una connessione densa con quanto accaduto sull'altra sponda del Mediterraneo, la manifestazione di sabato sta prendendo dimensioni insperate da chi, già nelle giornate genovesi del decennale, aveva subito raccolto l'input. I pullman di cui si è venuti a sapere sarebbero già 500 e molte città hanno superato di gran lunga le previsioni sulla partecipazione. "Merito", naturalmente, tutto della crisi, la più disastrosa e generalizzata nelle biografie di chi scenderà in piazza. A voler trovare un precedente recente «c'è solo quel 15 febbraio del 2003, quando il movimento antiglobalizzazione, che per primo aveva denunciato i disastri che il neoliberismo andava provocando, manifestò in tutto il mondo contro l'imminente guerra Usa contro l'Iraq», spiega Piero Bernocchi, portavoce nazionale Cobas, poco prima della riunione ristretta che, ieri sera, doveva formulare le proposte per il coordinamento nazionale del giorno successivo.
E' in quella sede che si confrontano le profonde differenze di linguaggi e prospettive tra gran parte delle aree che saranno in piazza in una città dove non manca mai un cronista "normale" disposto a fare titoli cubitali - che poi è quello che succede da giorni - sull'allarme di barbe finte, questurini e politici per la legittima manifestazione del dissenso. I principali giornali romani si battono da tempo per interdire il centro alle manifestazioni o, più semplicemente ai borgatari. Il fronte di opposizione alla crisi coinvolge però anche i giuristi e gli avvocati delle associazioni Giuristi Democratici e Legal Team Italia che, oltre a condividere la protesta, «vogliono garantire anche nella piazza di Roma, la tutela della serena agibilità e libertà di manifestare, con la presenza visibile e la partecipazione diretta e immediata, anche per vigilare ed evitare ogni possibile intervento esterno che tenda ad una degenerazione della manifestazione democratica e di massa». A disposizione dei manifestanti il numero telefonico reso disponibile dalla Casa dei diritti sociali, 06491563, la quale provvederà a contattare i legali presenti al corteo.
Per le strade di Roma ci saranno vecchie e nuove soggettività, con un'articolazione notevole e un range di autonomia dal quadro politico che va dall'estraneità dell'area dello Sciopero precario, che si muove sulle istanze del reddito incondizionato e del diritto all'insolvenza e di Roma Bene Comune - che ha promosso un percorso nazionale sulle parole d'ordine di conflitto e indipendenza - alla contiguità col centrosinistra dell'Arci, della Fiom, Legambiente, di Uniti per l'alternativa, pezzi di Cgil e della diaspora del popolo viola. In mezzo ci sono le reti degli studenti, che partiranno dalla Sapienza, il sindacalismo di base, la coalizione che si riconosce nella parola d'ordine "Non paghiamo il debito" lanciata dall'assemblea dell'Ambra Jovinelli il primo ottobre, il forum dei movimenti per l'acqua, gli occupanti del Teatro Valle, la sinistra radicale a partire da Rifondazione comunista. Si tratta di aree che hanno pochi margini di sovrapposizione tra loro e che giungono a Roma sulla base di appelli piuttosto diversi tra loro e che alludono a diverse modalità sia di attraversamento della città, sia rispetto all'happening finale. Per tutti vale la suggestione potente della riappropriazione dello spazio pubblico ma le convergenze su come e quando farlo finora scarseggiano. Per tutti il corteo di sabato non è che un inizio ma la meta saranno le primarie o la democrazia reale?
Il corteo del popolo anti-crisi partirà alle 14 da Piazza della Repubblica e sarà aperto da due striscioni, "People of Europe rise up" e "Cambiamo l'Europa, cambiamo l'Italia", portati da rappresentanti dei vari conflitti in corso in Italia. Una trentina tra loro prenderà la parola in piazza San Giovanni dopo essere sfilati per Via Cavour, Fori Imperiali, Colosseo, Via Labicana, Viale Manzoni e Via Emanule Filiberto. Per i dettagli sulla composizione del corteo c'è da aspettare ancora. Solo nel primo pomeriggio di oggi si riunirà il coordinamento nazionale che si sta facendo carico delle questioni logistiche e di servizio del corteo, uno dei 250 che si terranno in altrettante città nel mondo in risposta alla chiamata spagnola degli indignados. Il documento del 15-M, che 48 ore fa ha descritto quello che succederà sabato nello Stato Spagnolo, prende le mosse da uno slogan che non sfigurerebbe nemmeno per le strade di Roma: "Scusate il disturbo ma questa è una rivoluzione". Al di là della suggestione, che stabilisce una connessione densa con quanto accaduto sull'altra sponda del Mediterraneo, la manifestazione di sabato sta prendendo dimensioni insperate da chi, già nelle giornate genovesi del decennale, aveva subito raccolto l'input. I pullman di cui si è venuti a sapere sarebbero già 500 e molte città hanno superato di gran lunga le previsioni sulla partecipazione. "Merito", naturalmente, tutto della crisi, la più disastrosa e generalizzata nelle biografie di chi scenderà in piazza. A voler trovare un precedente recente «c'è solo quel 15 febbraio del 2003, quando il movimento antiglobalizzazione, che per primo aveva denunciato i disastri che il neoliberismo andava provocando, manifestò in tutto il mondo contro l'imminente guerra Usa contro l'Iraq», spiega Piero Bernocchi, portavoce nazionale Cobas, poco prima della riunione ristretta che, ieri sera, doveva formulare le proposte per il coordinamento nazionale del giorno successivo.
E' in quella sede che si confrontano le profonde differenze di linguaggi e prospettive tra gran parte delle aree che saranno in piazza in una città dove non manca mai un cronista "normale" disposto a fare titoli cubitali - che poi è quello che succede da giorni - sull'allarme di barbe finte, questurini e politici per la legittima manifestazione del dissenso. I principali giornali romani si battono da tempo per interdire il centro alle manifestazioni o, più semplicemente ai borgatari. Il fronte di opposizione alla crisi coinvolge però anche i giuristi e gli avvocati delle associazioni Giuristi Democratici e Legal Team Italia che, oltre a condividere la protesta, «vogliono garantire anche nella piazza di Roma, la tutela della serena agibilità e libertà di manifestare, con la presenza visibile e la partecipazione diretta e immediata, anche per vigilare ed evitare ogni possibile intervento esterno che tenda ad una degenerazione della manifestazione democratica e di massa». A disposizione dei manifestanti il numero telefonico reso disponibile dalla Casa dei diritti sociali, 06491563, la quale provvederà a contattare i legali presenti al corteo.
Per le strade di Roma ci saranno vecchie e nuove soggettività, con un'articolazione notevole e un range di autonomia dal quadro politico che va dall'estraneità dell'area dello Sciopero precario, che si muove sulle istanze del reddito incondizionato e del diritto all'insolvenza e di Roma Bene Comune - che ha promosso un percorso nazionale sulle parole d'ordine di conflitto e indipendenza - alla contiguità col centrosinistra dell'Arci, della Fiom, Legambiente, di Uniti per l'alternativa, pezzi di Cgil e della diaspora del popolo viola. In mezzo ci sono le reti degli studenti, che partiranno dalla Sapienza, il sindacalismo di base, la coalizione che si riconosce nella parola d'ordine "Non paghiamo il debito" lanciata dall'assemblea dell'Ambra Jovinelli il primo ottobre, il forum dei movimenti per l'acqua, gli occupanti del Teatro Valle, la sinistra radicale a partire da Rifondazione comunista. Si tratta di aree che hanno pochi margini di sovrapposizione tra loro e che giungono a Roma sulla base di appelli piuttosto diversi tra loro e che alludono a diverse modalità sia di attraversamento della città, sia rispetto all'happening finale. Per tutti vale la suggestione potente della riappropriazione dello spazio pubblico ma le convergenze su come e quando farlo finora scarseggiano. Per tutti il corteo di sabato non è che un inizio ma la meta saranno le primarie o la democrazia reale?
15 ottobre: ci siamo!
simone oggionni - Fonte: reblab
Sabato 15 ottobre è ormai alle porte. Tra poche ore Roma sarà invasa – questo è il nostro augurio – da centinaia di migliaia di compagne e compagni, di giovani e di lavoratori.
Sarà un passaggio molto importante, il secondo grande segnale, dopo lo sciopero generale del 6 settembre, che il Paese darà a Berlusconi, a Confindustria, a tutte le classi dirigenti neo-liberiste che in questi anni (questi ultimi due decenni) si sono susseguite al governo. Non casualmente questo 15 ottobre è una scadenza europea e internazionale, convocata dal movimento degli indignados spagnoli e rilanciata dai movimenti sociali in tutto il mondo. Segno che sono mature le condizioni per una riflessione e una mobilitazione permanente di carattere internazionale, e in particolare europeo, sui danni prodotti dal sistema capitalistico e dalle politiche neo-liberiste.
Ma nel nostro Paese questo passaggio non è solo importante. E’ fondamentale: perché cade in una settimana cruciale, che potrebbe determinare la caduta del governo Berlusconi e l’apertura di nuovi scenari, tutti da verificare.
Si tratta allora, anche per questo, di un’occasione straordinaria, che dobbiamo saper sfruttare, trasformando la manifestazione in un grande appuntamento di popolo, radicale nelle parole d’ordine e pacifico nelle modalità d’azione.
Come già prima di Genova, come già prima di tanti appuntamenti studenteschi nel corso degli ultimi mesi, le trombe dei giornali asserviti stanno già suonando la solita litania, facendosi profeti di sventure e violenze di ogni tipo. Tutto per scoraggiare la partecipazione e per creare il clima favorevole (a livello di opinione pubblica e a livello di gestione della piazza) alla degenerazione della nostra iniziativa.
Per questo, a maggior ragione, dobbiamo dimostrare tutta la maturità del movimento e delle nostre organizzazioni.
Rifondazione comunista e la Federazione della Sinistra hanno deciso di non organizzare un proprio spezzone e di partecipare in tutto il corteo insieme alle strutture territoriali con cui abbiamo, in tutta Italia, organizzato i pullman, proprio per valorizzare questo elemento di comunanza e di condivisione.
Contestualmente, i Giovani Comunisti – insieme alla Fgci, e sotto la comune insegna di Alternativa Ribelle – saranno in piazza con un proprio spezzone organizzato, con le nostre bandiere e i nostri striscioni, che seguirà il percorso concordato e condiviso da tutto il comitato promotore della manifestazione, da piazza della Repubblica a piazza San Giovanni. Al termine del percorso, decideremo insieme quale continuità dare alla presenza in piazza, se e come accamparci, se e come organizzare, nell’immediato, altre iniziative.
Utilizziamo questi ultimi giorni e queste ultime ore per mobilitare il maggior numero di compagni, per riempire tutti i pullman (ad oggi ne abbiamo già riempiti oltre 150) e per dare prova, come già altre volte, di tutta la nostra capacità organizzativa.
L’appuntamento per tutti i compagni è per le ore 13.30 in piazza della Repubblica, dietro il pullman a due piani di Alternativa Ribelle, riconoscibile dalle bandiere di Rifondazione, della Federazione della Sinistra e dei Giovani Comunisti.
Il nostro tempo è adesso.
Sabato 15 ottobre è ormai alle porte. Tra poche ore Roma sarà invasa – questo è il nostro augurio – da centinaia di migliaia di compagne e compagni, di giovani e di lavoratori.
Sarà un passaggio molto importante, il secondo grande segnale, dopo lo sciopero generale del 6 settembre, che il Paese darà a Berlusconi, a Confindustria, a tutte le classi dirigenti neo-liberiste che in questi anni (questi ultimi due decenni) si sono susseguite al governo. Non casualmente questo 15 ottobre è una scadenza europea e internazionale, convocata dal movimento degli indignados spagnoli e rilanciata dai movimenti sociali in tutto il mondo. Segno che sono mature le condizioni per una riflessione e una mobilitazione permanente di carattere internazionale, e in particolare europeo, sui danni prodotti dal sistema capitalistico e dalle politiche neo-liberiste.
Ma nel nostro Paese questo passaggio non è solo importante. E’ fondamentale: perché cade in una settimana cruciale, che potrebbe determinare la caduta del governo Berlusconi e l’apertura di nuovi scenari, tutti da verificare.
Si tratta allora, anche per questo, di un’occasione straordinaria, che dobbiamo saper sfruttare, trasformando la manifestazione in un grande appuntamento di popolo, radicale nelle parole d’ordine e pacifico nelle modalità d’azione.
Come già prima di Genova, come già prima di tanti appuntamenti studenteschi nel corso degli ultimi mesi, le trombe dei giornali asserviti stanno già suonando la solita litania, facendosi profeti di sventure e violenze di ogni tipo. Tutto per scoraggiare la partecipazione e per creare il clima favorevole (a livello di opinione pubblica e a livello di gestione della piazza) alla degenerazione della nostra iniziativa.
Per questo, a maggior ragione, dobbiamo dimostrare tutta la maturità del movimento e delle nostre organizzazioni.
Rifondazione comunista e la Federazione della Sinistra hanno deciso di non organizzare un proprio spezzone e di partecipare in tutto il corteo insieme alle strutture territoriali con cui abbiamo, in tutta Italia, organizzato i pullman, proprio per valorizzare questo elemento di comunanza e di condivisione.
Contestualmente, i Giovani Comunisti – insieme alla Fgci, e sotto la comune insegna di Alternativa Ribelle – saranno in piazza con un proprio spezzone organizzato, con le nostre bandiere e i nostri striscioni, che seguirà il percorso concordato e condiviso da tutto il comitato promotore della manifestazione, da piazza della Repubblica a piazza San Giovanni. Al termine del percorso, decideremo insieme quale continuità dare alla presenza in piazza, se e come accamparci, se e come organizzare, nell’immediato, altre iniziative.
Utilizziamo questi ultimi giorni e queste ultime ore per mobilitare il maggior numero di compagni, per riempire tutti i pullman (ad oggi ne abbiamo già riempiti oltre 150) e per dare prova, come già altre volte, di tutta la nostra capacità organizzativa.
L’appuntamento per tutti i compagni è per le ore 13.30 in piazza della Repubblica, dietro il pullman a due piani di Alternativa Ribelle, riconoscibile dalle bandiere di Rifondazione, della Federazione della Sinistra e dei Giovani Comunisti.
Il nostro tempo è adesso.
mercoledì 12 ottobre 2011
All’attenzione dei direttori della Banca Centrale Europea.
All’attenzione dei direttori della Banca Centrale Europea
Jean Claude Trichet e Mario Draghi
Spettabili Direttori,
Ci chiamiamo Natalia e Ulisse. Non siamo banchieri, né capitani d’industria, né broker finanziari,
né titolari di agenzie di rating; non siamo capi di governo o ministri delle finanze. Non siamo il
genere di persone con cui andate abitualmente a colazione. Siamo un’educatrice e un ricercatore
universitario. O meglio, proviamo a esserlo. Io, Natalia, avevo un contratto a progetto ma ora il
progetto – che sorpresa! – è finito, e sono a casa (integra se vuoi); io, Ulisse, ho finito il dottorato di ricerca, e, mentre perdo il mio tempo dietro a concorsi e applicazioni che non vincerò mai, lavoro come partita iva in monocommittenza, a mille euro al mese, con contratti semestrali. Siamo due precari qualunque, insomma. Siamo lavoratori come molti, moltissimi altri: operai, operatori di call center, facchini, magazzinieri, autotrasportatori ecc...
Jean Claude Trichet e Mario Draghi
Spettabili Direttori,
Ci chiamiamo Natalia e Ulisse. Non siamo banchieri, né capitani d’industria, né broker finanziari,
né titolari di agenzie di rating; non siamo capi di governo o ministri delle finanze. Non siamo il
genere di persone con cui andate abitualmente a colazione. Siamo un’educatrice e un ricercatore
universitario. O meglio, proviamo a esserlo. Io, Natalia, avevo un contratto a progetto ma ora il
progetto – che sorpresa! – è finito, e sono a casa (integra se vuoi); io, Ulisse, ho finito il dottorato di ricerca, e, mentre perdo il mio tempo dietro a concorsi e applicazioni che non vincerò mai, lavoro come partita iva in monocommittenza, a mille euro al mese, con contratti semestrali. Siamo due precari qualunque, insomma. Siamo lavoratori come molti, moltissimi altri: operai, operatori di call center, facchini, magazzinieri, autotrasportatori ecc...
Anzi, ve lo dobbiamo rammentare, perché di sicuro la cosa vi è sfuggita: siamo la maggioranza della popolazione lavorativa in questo paese. Il particolare non è secondario; si, perché non dovete credere che questa nostra sia l’ennesima narrazione lacrimevole della miseria (sfiga?) che ci attanaglia, verso la quale sfoderare il vostro paternalistico sorriso, e che liquiderete con la proverbiale pacca sulla spalla.
Non veniamo con il cappello in mano a chieder l’elemosina: questo lo lasciamo al nostro governo.
Noi non chiediamo, pretendiamo. Esattamente come avete fatto voi, con la vostra lettera minatoria del 5 agosto. Dopo aver osservato, con compiacente disinteresse, banche d’affari e speculatori finanziari arricchirsi scommettendo sui debiti della gente comune, e aver coperto la loro bancarotta quando la bolla speculativa è esplosa, usando soldi pubblici, adesso osate fare ingiunzioni; osate rimproverare un paese per la sua insolvenza sventolando lo spauracchio del default, dopo averne
prosciugato le risorse per salvare i vostri amici; osate pretendere. Ebbene, adesso pretendiamo noi.
Voi avete la forza del denaro. Noi abbiamo la forza delle moltitudini, delle idee, e della rabbia.
Voi chiedete la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali,
attraverso privatizzazioni su larga scala.
Noi chiediamo invece il libero e consapevole accesso ai beni comuni: il diritto alla casa, e a uno
spazio per la realizzazione e l’organizzazione della propria vita; il diritto alla formazione e
all’istruzione, e a spazi per la produzione di sapere collettivo; il libero accesso all’informazione,
attraverso la rimozione dei vincoli che lo limitano; il diritto alla comunicazione, con il libero
accesso ai canali e ai media di comunicazione sociale e culturale; il diritto alla mobilità, e la
garanzia della libera circolazione dei corpi, tramite la fruizione agevolata dei mezzi di trasporto; il diritto alla socialità, e a spazi comuni d’incontro e di relazione.
Voi chiedete la riforma ulteriore del sistema di contrattazione salariale collettivo, permettendo
accordi a livello d’impresa e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di
negoziazione.
Noi pretendiamo la cancellazione dell’art. 8 e dell’accordo tra sindacati e confindustria del 28
giugno, rifiutiamo il ricatto della trattativa locale, che di fatto consegna i salari e le condizioni di
lavoro all’arbitrio delle aziende, condanniamo il ruolo connivente delle sigle sindacali confederali, che svendono per trenta denari i lavoratori in cambio della legittimazione alla propria esclusiva sulla rappresentanza. Chiediamo invece la riduzione delle tipologie contrattuali, a fronte dell’attuale proliferazione di accordi collettivi, originati da una divisione del lavoro che non esiste più.
Chiediamo di definire in un’unica cornice giuridico – contrattuale le garanzie di base a tutela del
lavoro a prescindere dall’attività svolta e dal settore di appartenenza. Chiediamo un salario minimo orario e, per le attività non misurabili in termini di tempo, una retribuzione minima
Voi chiedete licenziamenti più facili, e indorate la pillola auspicando un welfare moderno e un
sistema di ricollocazione impraticabili perché non finanziati.
Voi chiedete il pareggio di bilancio e il pagamento del debito.
Noi chiediamo l’accesso incondizionato al reddito di esistenza, a prescindere da qualsiasi
condizione professionale, etnica, sessuale, generazionale, affinché sia riconosciuto che siamo
produttivi anche solo vivendo.
Noi rivendichiamo il diritto all’insolvenza, il diritto a riappropriarci di ciò che ci è stato sottratto,
con la forza e con l’inganno, da banche, speculatori finanziari, e un governo connivente. Vogliamo esercitare tale diritto come moltitudine, ponendo le nostre esigenze di produzione e cooperazione sociale prima di qualsiasi esigenza legata a logiche di profitto e sfruttamento.
Questo noi chiediamo, anzi pretendiamo. E lo grideremo a gran voce oggi, in varie piazze d’Italia, e sabato 15 ottobre a Roma.
Noi non chiediamo, pretendiamo. Esattamente come avete fatto voi, con la vostra lettera minatoria del 5 agosto. Dopo aver osservato, con compiacente disinteresse, banche d’affari e speculatori finanziari arricchirsi scommettendo sui debiti della gente comune, e aver coperto la loro bancarotta quando la bolla speculativa è esplosa, usando soldi pubblici, adesso osate fare ingiunzioni; osate rimproverare un paese per la sua insolvenza sventolando lo spauracchio del default, dopo averne
prosciugato le risorse per salvare i vostri amici; osate pretendere. Ebbene, adesso pretendiamo noi.
Voi avete la forza del denaro. Noi abbiamo la forza delle moltitudini, delle idee, e della rabbia.
Voi chiedete la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali e dei servizi professionali,
attraverso privatizzazioni su larga scala.
Noi chiediamo invece il libero e consapevole accesso ai beni comuni: il diritto alla casa, e a uno
spazio per la realizzazione e l’organizzazione della propria vita; il diritto alla formazione e
all’istruzione, e a spazi per la produzione di sapere collettivo; il libero accesso all’informazione,
attraverso la rimozione dei vincoli che lo limitano; il diritto alla comunicazione, con il libero
accesso ai canali e ai media di comunicazione sociale e culturale; il diritto alla mobilità, e la
garanzia della libera circolazione dei corpi, tramite la fruizione agevolata dei mezzi di trasporto; il diritto alla socialità, e a spazi comuni d’incontro e di relazione.
Voi chiedete la riforma ulteriore del sistema di contrattazione salariale collettivo, permettendo
accordi a livello d’impresa e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di
negoziazione.
Noi pretendiamo la cancellazione dell’art. 8 e dell’accordo tra sindacati e confindustria del 28
giugno, rifiutiamo il ricatto della trattativa locale, che di fatto consegna i salari e le condizioni di
lavoro all’arbitrio delle aziende, condanniamo il ruolo connivente delle sigle sindacali confederali, che svendono per trenta denari i lavoratori in cambio della legittimazione alla propria esclusiva sulla rappresentanza. Chiediamo invece la riduzione delle tipologie contrattuali, a fronte dell’attuale proliferazione di accordi collettivi, originati da una divisione del lavoro che non esiste più.
Chiediamo di definire in un’unica cornice giuridico – contrattuale le garanzie di base a tutela del
lavoro a prescindere dall’attività svolta e dal settore di appartenenza. Chiediamo un salario minimo orario e, per le attività non misurabili in termini di tempo, una retribuzione minima
Voi chiedete licenziamenti più facili, e indorate la pillola auspicando un welfare moderno e un
sistema di ricollocazione impraticabili perché non finanziati.
Voi chiedete il pareggio di bilancio e il pagamento del debito.
Noi chiediamo l’accesso incondizionato al reddito di esistenza, a prescindere da qualsiasi
condizione professionale, etnica, sessuale, generazionale, affinché sia riconosciuto che siamo
produttivi anche solo vivendo.
Noi rivendichiamo il diritto all’insolvenza, il diritto a riappropriarci di ciò che ci è stato sottratto,
con la forza e con l’inganno, da banche, speculatori finanziari, e un governo connivente. Vogliamo esercitare tale diritto come moltitudine, ponendo le nostre esigenze di produzione e cooperazione sociale prima di qualsiasi esigenza legata a logiche di profitto e sfruttamento.
Questo noi chiediamo, anzi pretendiamo. E lo grideremo a gran voce oggi, in varie piazze d’Italia, e sabato 15 ottobre a Roma.
Perché siamo stati buoni, ma mai stupidi. E ora non siamo neanche più buoni
La risposta dei draghiribelli alla lettera segreta di Draghi e Trichet
Fonte: unicommon
Ecco il testo della lettera che il 12 ottobre alle 16 i Draghi Ribelli porteranno al presidente della Repubblica a Bankitalia a Roma.#occupiamobankitalia
Caro Presidente Napolitano, nel nostro paese non si fa altro che parlare di giovani. Lei lo ha fatto spesso. Ultimamente lo ha fatto anche il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, a breve presidente della Banca centrale europea.
La questione generazionale è semplice: c’è una generazione esclusa dai diritti e dal benessere, che oggi campa grazie al welfare familiare, e sulla quale si sta scaricando tutto il peso della crisi. La questione non si risolve togliendo i diritti a chi li aveva conquistati, i genitori, ma riconoscendo diritti a chi non li ha, i figli, e per far questo ci vogliono risorse, altrimenti le parole girano a vuoto.
Ora ci chiediamo, e chiediamo anche a Lei Presidente, come è possibile invertire la tendenza e promuovere delle politiche pubbliche a sostegno delle giovani generazioni prendendo sul serio le letterine estive di Trichet e Draghi? Come è possibile farlo se il pareggio di bilancio diventa regola aurea, da inserire, addirittura, all’interno della carta costituzionale di cui Lei è garante?
Caro Presidente, garantire e difendere la Costituzione oggi, vuol dire rifiutarsi di pagare il debito, così come consigliano diversi premi Nobel per l’economia; vuol dire partire dai ventisette milioni di italiani che hanno votato ai referendum contro le privatizzazioni e in difesa dell’acqua bene comune; vuol dire partire dalle mobilitazioni giovanili e studentesche che da diversi anni, inascoltate e respinte, hanno preteso di cambiare dal basso la scuola e l’università, chiedendo risorse e democrazia; vuol dire partire dalla domanda diffusa nel Paese di un nuovo sistema di garanzie, che tenga conto delle differenze generazionali, ma che, soprattutto, non metta le generazioni l’una contro l’altra: così, in primo luogo, si tiene unita l’Italia!
Sarebbe un atto di semplice giustizia fare in modo che non siano sempre gli stessi a pagare questa crisi. Siano, piuttosto, coloro che l’hanno prodotta a pagare, attraverso una tassazione delle rendite finanziarie, delle transazioni, dei patrimoni mobiliari e immobiliari. Le risorse ci sono, si trovano nel mondo della finanza che sta cancellando la democrazia: è lì che vanno reperite per distribuirle equamente.
Con troppa solerzia, caro Presidente, l’abbiamo vista affidarsi alle indicazioni di Trichet e Draghi. Questo non significa unire l’Italia e neanche sostenere le giovani generazioni. Bisognerebbe avere il coraggio, dopo il disastro del ventennio berlusconiano e della seconda Repubblica, di costruirne una terza di Repubblica, fondata sui beni comuni e non sugli interessi privati. È giunto il momento di scegliere da che parte stare, dalla parte della rendita o da quella della vita. La invitiamo a riflettere, perché questa generazione tradita non si arrenderà alla rassegnazione, ma da Tunisi a New York ha imparato ad alzare la testa.
Draghiribelli – #occupiamobancaditalia
12 ottobre, ore 16, @ Banca d’Italia (Via Nazionale, Roma) verso il 15 ottobre
segui @draghiribelli su Twitter
Ecco il testo della lettera che il 12 ottobre alle 16 i Draghi Ribelli porteranno al presidente della Repubblica a Bankitalia a Roma.#occupiamobankitalia
Caro Presidente Napolitano, nel nostro paese non si fa altro che parlare di giovani. Lei lo ha fatto spesso. Ultimamente lo ha fatto anche il governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, a breve presidente della Banca centrale europea.
La questione generazionale è semplice: c’è una generazione esclusa dai diritti e dal benessere, che oggi campa grazie al welfare familiare, e sulla quale si sta scaricando tutto il peso della crisi. La questione non si risolve togliendo i diritti a chi li aveva conquistati, i genitori, ma riconoscendo diritti a chi non li ha, i figli, e per far questo ci vogliono risorse, altrimenti le parole girano a vuoto.
Ora ci chiediamo, e chiediamo anche a Lei Presidente, come è possibile invertire la tendenza e promuovere delle politiche pubbliche a sostegno delle giovani generazioni prendendo sul serio le letterine estive di Trichet e Draghi? Come è possibile farlo se il pareggio di bilancio diventa regola aurea, da inserire, addirittura, all’interno della carta costituzionale di cui Lei è garante?
Caro Presidente, garantire e difendere la Costituzione oggi, vuol dire rifiutarsi di pagare il debito, così come consigliano diversi premi Nobel per l’economia; vuol dire partire dai ventisette milioni di italiani che hanno votato ai referendum contro le privatizzazioni e in difesa dell’acqua bene comune; vuol dire partire dalle mobilitazioni giovanili e studentesche che da diversi anni, inascoltate e respinte, hanno preteso di cambiare dal basso la scuola e l’università, chiedendo risorse e democrazia; vuol dire partire dalla domanda diffusa nel Paese di un nuovo sistema di garanzie, che tenga conto delle differenze generazionali, ma che, soprattutto, non metta le generazioni l’una contro l’altra: così, in primo luogo, si tiene unita l’Italia!
Sarebbe un atto di semplice giustizia fare in modo che non siano sempre gli stessi a pagare questa crisi. Siano, piuttosto, coloro che l’hanno prodotta a pagare, attraverso una tassazione delle rendite finanziarie, delle transazioni, dei patrimoni mobiliari e immobiliari. Le risorse ci sono, si trovano nel mondo della finanza che sta cancellando la democrazia: è lì che vanno reperite per distribuirle equamente.
Con troppa solerzia, caro Presidente, l’abbiamo vista affidarsi alle indicazioni di Trichet e Draghi. Questo non significa unire l’Italia e neanche sostenere le giovani generazioni. Bisognerebbe avere il coraggio, dopo il disastro del ventennio berlusconiano e della seconda Repubblica, di costruirne una terza di Repubblica, fondata sui beni comuni e non sugli interessi privati. È giunto il momento di scegliere da che parte stare, dalla parte della rendita o da quella della vita. La invitiamo a riflettere, perché questa generazione tradita non si arrenderà alla rassegnazione, ma da Tunisi a New York ha imparato ad alzare la testa.
Draghiribelli – #occupiamobancaditalia
12 ottobre, ore 16, @ Banca d’Italia (Via Nazionale, Roma) verso il 15 ottobre
segui @draghiribelli su Twitter
Il pericolo imminente e il ritardo delle lotte.
di Michele Basso. Fonte: webaliceit
“Non comprendendo le cose, non si possono
comprendere nemmeno gli uomini, se non...
esteriormente. Cioè si può comprendere la
psicologia di questo o quel partecipante alla
lotta, ma non il senso della lotta, non il suo
significato di partito e politico”
Lenin, lettera a Gorkij, novembre-dicembre 1909
Perché ci s’infuria quando dicono che è in pericolo la costituzione? Perché in pericolo c’è ben altro. La situazione della Grecia dovrebbe esserci di insegnamento. Sono a rischio il nostro lavoro, le nostre pensioni, le prestazioni sanitarie, ogni forma di assistenza, e non solo l’istruzione, ma anche l’avvenire dei nostri figli o nipoti.
E’ una guerra che il capitale finanziario, il più grande predone di tutti i tempi, ci ha scatenato contro. Berlusconi e il governo avevano tutto l’interesse a minimizzare la crisi, ma anche molti schierati dalla parte dei lavoratori l’hanno sottovalutata. Anche il più disinteressato militante, se non comprende la situazione, fa un buco nell’acqua. Fino a non molto tempo fa, c’era un nord del mondo in cui i salari permettevano di vivere, e c’era un sud del mondo su cui si abbattevano tutte le disgrazie economiche e sociali, le guerre, le distruzioni, le carestie, la fame. Oggi, questa divisione è saltata, i briganti imperialisti non cercano le loro prede soltanto nelle ex colonie o semicolonie, ma colpiscono duro anche nelle metropoli. Per esempio, negli Stati Uniti: “Col sostegno pieno e intero del governo Obama, le imprese americane e straniere si servono del livello di disoccupazione e di povertà che non s’era più visto dalla Grande depressione per trasformare gli Stati Uniti in una piattaforma di lavoro a basso costo in competizione diretta col Messico, la Cina e gli altri paesi a basso salario.”(1) Gli Stati Uniti, un tempo il paese delle alte retribuzioni, che tutto il mondo decantava! Ormai le tende e le baracche sono piantate all’ombra dei grattacieli.
Per lungo tempo ci fu l’illusione che tale barriera storico geografica non sarebbe mai stata infranta. Ancor oggi c’è chi, vedendo automobili potenti e costose, oppure barche di lusso, chiede: ”Dov’è la crisi?” Non la vede finché non giunge sottocasa, o nel proprio condominio. Inoltre, proprio la crisi accentua le disparità sociali, rende più ricco il ricco e immiserisce gli altri. Nei periodi di boom, fioriscono le piccole industrie, che occupano complessivamente più lavoratori, il benessere si diffonde, ma nella crisi c’è la falciatura, e la proletarizzazione, anzi spesso la pauperizzazione, si svolge su scala gigantesca. E la questione del debito pubblico vede la guerra delle banche contro la stragrande maggioranza della popolazione.
comprendere nemmeno gli uomini, se non...
esteriormente. Cioè si può comprendere la
psicologia di questo o quel partecipante alla
lotta, ma non il senso della lotta, non il suo
significato di partito e politico”
Lenin, lettera a Gorkij, novembre-dicembre 1909
Perché ci s’infuria quando dicono che è in pericolo la costituzione? Perché in pericolo c’è ben altro. La situazione della Grecia dovrebbe esserci di insegnamento. Sono a rischio il nostro lavoro, le nostre pensioni, le prestazioni sanitarie, ogni forma di assistenza, e non solo l’istruzione, ma anche l’avvenire dei nostri figli o nipoti.
E’ una guerra che il capitale finanziario, il più grande predone di tutti i tempi, ci ha scatenato contro. Berlusconi e il governo avevano tutto l’interesse a minimizzare la crisi, ma anche molti schierati dalla parte dei lavoratori l’hanno sottovalutata. Anche il più disinteressato militante, se non comprende la situazione, fa un buco nell’acqua. Fino a non molto tempo fa, c’era un nord del mondo in cui i salari permettevano di vivere, e c’era un sud del mondo su cui si abbattevano tutte le disgrazie economiche e sociali, le guerre, le distruzioni, le carestie, la fame. Oggi, questa divisione è saltata, i briganti imperialisti non cercano le loro prede soltanto nelle ex colonie o semicolonie, ma colpiscono duro anche nelle metropoli. Per esempio, negli Stati Uniti: “Col sostegno pieno e intero del governo Obama, le imprese americane e straniere si servono del livello di disoccupazione e di povertà che non s’era più visto dalla Grande depressione per trasformare gli Stati Uniti in una piattaforma di lavoro a basso costo in competizione diretta col Messico, la Cina e gli altri paesi a basso salario.”(1) Gli Stati Uniti, un tempo il paese delle alte retribuzioni, che tutto il mondo decantava! Ormai le tende e le baracche sono piantate all’ombra dei grattacieli.
Per lungo tempo ci fu l’illusione che tale barriera storico geografica non sarebbe mai stata infranta. Ancor oggi c’è chi, vedendo automobili potenti e costose, oppure barche di lusso, chiede: ”Dov’è la crisi?” Non la vede finché non giunge sottocasa, o nel proprio condominio. Inoltre, proprio la crisi accentua le disparità sociali, rende più ricco il ricco e immiserisce gli altri. Nei periodi di boom, fioriscono le piccole industrie, che occupano complessivamente più lavoratori, il benessere si diffonde, ma nella crisi c’è la falciatura, e la proletarizzazione, anzi spesso la pauperizzazione, si svolge su scala gigantesca. E la questione del debito pubblico vede la guerra delle banche contro la stragrande maggioranza della popolazione.
martedì 11 ottobre 2011
Il ritorno di Karl Marx nel cuore di Wall Street.
di PAUL KRUGMAN - la Repubblica Fonte: dirittiglobali
NON sappiamo ancora se i manifestanti del movimento Occupy Wall Street imprimeranno una svolta all'America. Di certo, le proteste hanno provocato una reazione incredibilmente isterica da parte di Wall Street, dei super ricchi in generale.
Edi quei politici ed esperti che servono fedelmente gli interessi di quell'un per cento più facoltoso. Questa reazione ci dice qualcosa di importante,e cioè che gli estremisti che minacciano i valori americani sono quelli che Franklin Delano Roosevelt definiva i monarchici economici ("economic royalists") non la gente che si accampaa Zuccotti Park. Si consideri, innanzi tutto, come i politici repubblicani abbiano raffigurato queste piccole, anche se crescenti dimostrazioni, che hanno comportato qualche scontro con la polizia - scontri dovuti, pare, a reazioni esagerate della polizia stessa - ma nulla che si possa definire una sommossa.
Non c'è stato nulla, finora, di paragonabile al comportamento delle folle raccolte dal Tea Party nell'estate del 2009.
Ciò nonostante, Eric Cantor, leader della maggioranza alla Camera, ha denunciato degli «assalti» e «la contrapposizione di americani contro americani». Sono intervenuti nel dibattito anche i candidati alla presidenza del partito repubblicano, il cosiddetto Grand Old Party, con Mitt Romney che accusa i manifestanti di dichiarare una «guerra di classe», mentre Herman Cain li definisce «antiamericani». Il mio preferito, comunque, è il senatore Rand Paul che, per qualche motivo, teme che i manifestanti cominceranno a impossessarsi degli iPads, perché credono che i ricchi non se li meritino.
NON sappiamo ancora se i manifestanti del movimento Occupy Wall Street imprimeranno una svolta all'America. Di certo, le proteste hanno provocato una reazione incredibilmente isterica da parte di Wall Street, dei super ricchi in generale.
Edi quei politici ed esperti che servono fedelmente gli interessi di quell'un per cento più facoltoso. Questa reazione ci dice qualcosa di importante,e cioè che gli estremisti che minacciano i valori americani sono quelli che Franklin Delano Roosevelt definiva i monarchici economici ("economic royalists") non la gente che si accampaa Zuccotti Park. Si consideri, innanzi tutto, come i politici repubblicani abbiano raffigurato queste piccole, anche se crescenti dimostrazioni, che hanno comportato qualche scontro con la polizia - scontri dovuti, pare, a reazioni esagerate della polizia stessa - ma nulla che si possa definire una sommossa.
Non c'è stato nulla, finora, di paragonabile al comportamento delle folle raccolte dal Tea Party nell'estate del 2009.
Ciò nonostante, Eric Cantor, leader della maggioranza alla Camera, ha denunciato degli «assalti» e «la contrapposizione di americani contro americani». Sono intervenuti nel dibattito anche i candidati alla presidenza del partito repubblicano, il cosiddetto Grand Old Party, con Mitt Romney che accusa i manifestanti di dichiarare una «guerra di classe», mentre Herman Cain li definisce «antiamericani». Il mio preferito, comunque, è il senatore Rand Paul che, per qualche motivo, teme che i manifestanti cominceranno a impossessarsi degli iPads, perché credono che i ricchi non se li meritino.
Fino all’ultima sillaba del tempo segnato?
Fonte: infoaut
Un buon editoriale del COLLETTIVO UNINOMADE che invita a leggere il 15 ottobre nel solco delle mobilitazioni trans-nazionali, oltre la logica dell'evento, mettendo ben in risalto le miserie politiche di casa nostra e abbozzando un principio d'analisi della nuova composizione (tecnica e politica) dei movimenti globali.
1. Proposta dall’interno delle acampadas spagnole, la giornata del 15 ottobre si sta configurando come un importante appuntamento di lotta a livello europeo e globale. Ci prepariamo a viverlo mentre l’onda di indignazione sollevata dalla crisi economica è arrivata a investire Wall Street e dopo mesi di mobilitazioni che, per quel che ci riguarda più da vicino, hanno segnato in profondità l’area euro-mediterranea. Sia chiaro: al 15 ottobre è bene guardare con occhi scevri da ogni mitologia riguardo alla sua possibile natura di “evento decisivo”. Proprio la dinamica delle lotte degli ultimi mesi ha mostrato spesso una sconnessione tra i movimenti reali e la convocazione di scadenze che si volevano “ricompositive”, come ad esempio gli scioperi generali in Italia e in Grecia. Mentre altrettanto spesso veri e propri “eventi” si sono prodotti in modi imprevedibili, che si tratta di indagare e comprendere. Il 15 ottobre, colto nella sua dinamica transnazionale, costituisce anche un’occasione per approfondire la discussione su questi problemi, che sono stati al centro dei recenti meeting di Rio (24-26 agosto), di Barcellona (15-18 settembre) e in Tunisia (29 settembre – 2 ottobre). Tutte le forme e le esperienze organizzate che abbiamo conosciuto negli ultimi anni sembrano spiazzate di fronte a movimenti come quello spagnolo degli indignados, ai riots londinesi di quest’estate o alla campagna Occupy Wall Street, per limitarci a tre esempi. Al tempo stesso, l’insieme delle pratiche e delle lotte che si stanno producendo dentro la crisi è connotato da elementi di radicalità che rendono problematica la loro traduzione sul terreno dell’“opinione pubblica” e della “società civile”, secondo modalità che abbiamo ampiamente conosciuto nella stagione del movimento “no global”.
Ma leggere, preparare e vivere il 15 ottobre attraverso la sua dimensione transnazionale consente anche di criticare il peculiare strabismo che caratterizza la discussione sulla crisi in Italia. La sovrapposizione della lunga agonia del berlusconismo ai tempi incalzanti della crisi economica e finanziaria globale produce una serie di distorsioni e illusioni ottiche che è tempo di mettere a tema. Non si tratta soltanto di una confusione di piani per cui sembra spesso, leggendo Repubblica o ascoltando le dichiarazioni di esponenti della sinistra, che Berlusconi e il suo governo siano responsabili di una crisi che da quattro anni sta terremotando il pianeta. Il fatto è che la stessa dimensione “politica” della crisi viene diffusamente identificata con le contorsioni crepuscolari del berlusconismo, ponendo ai margini della discussione pubblica la profondità con cui la crisi stessa sta investendo le categorie e gli istituti fondamentali con cui la politica moderna è stata pensata e articolata. Su questo terreno, presidiato dai volti severi e “responsabili” di Bagnasco e Napolitano, Draghi e Marcegaglia, si preparano del resto “vie d’uscita” dal berlusconismo (e dunque dalla crisi) che rientrano a tutti gli effetti nel vero problema di fronte a cui si trovano, e sempre più si troveranno nei prossimi mesi, le lotte e le mobilitazioni: ovvero il tentativo di determinare una soluzione neo-liberale di una crisi che è anche crisi del neo-liberalismo; di garantire la continuità di un sistema in crisi, e dunque in ultima analisi la continuità della crisi. Vengono in mente le parole di Macbeth: “domani, e domani, e domani, s’inerpica col suo piccolo passo su su, un giorno dopo l’altro, fino all’ultima sillaba del tempo segnato”. A noi interessa ragionare su un altro tempo che le lotte dentro la crisi possono aprire. Il 15 ottobre sarà anche in Italia una giornata importante se contribuirà a fare avanzare e a esemplificare praticamente questo ragionamento.
1. Proposta dall’interno delle acampadas spagnole, la giornata del 15 ottobre si sta configurando come un importante appuntamento di lotta a livello europeo e globale. Ci prepariamo a viverlo mentre l’onda di indignazione sollevata dalla crisi economica è arrivata a investire Wall Street e dopo mesi di mobilitazioni che, per quel che ci riguarda più da vicino, hanno segnato in profondità l’area euro-mediterranea. Sia chiaro: al 15 ottobre è bene guardare con occhi scevri da ogni mitologia riguardo alla sua possibile natura di “evento decisivo”. Proprio la dinamica delle lotte degli ultimi mesi ha mostrato spesso una sconnessione tra i movimenti reali e la convocazione di scadenze che si volevano “ricompositive”, come ad esempio gli scioperi generali in Italia e in Grecia. Mentre altrettanto spesso veri e propri “eventi” si sono prodotti in modi imprevedibili, che si tratta di indagare e comprendere. Il 15 ottobre, colto nella sua dinamica transnazionale, costituisce anche un’occasione per approfondire la discussione su questi problemi, che sono stati al centro dei recenti meeting di Rio (24-26 agosto), di Barcellona (15-18 settembre) e in Tunisia (29 settembre – 2 ottobre). Tutte le forme e le esperienze organizzate che abbiamo conosciuto negli ultimi anni sembrano spiazzate di fronte a movimenti come quello spagnolo degli indignados, ai riots londinesi di quest’estate o alla campagna Occupy Wall Street, per limitarci a tre esempi. Al tempo stesso, l’insieme delle pratiche e delle lotte che si stanno producendo dentro la crisi è connotato da elementi di radicalità che rendono problematica la loro traduzione sul terreno dell’“opinione pubblica” e della “società civile”, secondo modalità che abbiamo ampiamente conosciuto nella stagione del movimento “no global”.
Ma leggere, preparare e vivere il 15 ottobre attraverso la sua dimensione transnazionale consente anche di criticare il peculiare strabismo che caratterizza la discussione sulla crisi in Italia. La sovrapposizione della lunga agonia del berlusconismo ai tempi incalzanti della crisi economica e finanziaria globale produce una serie di distorsioni e illusioni ottiche che è tempo di mettere a tema. Non si tratta soltanto di una confusione di piani per cui sembra spesso, leggendo Repubblica o ascoltando le dichiarazioni di esponenti della sinistra, che Berlusconi e il suo governo siano responsabili di una crisi che da quattro anni sta terremotando il pianeta. Il fatto è che la stessa dimensione “politica” della crisi viene diffusamente identificata con le contorsioni crepuscolari del berlusconismo, ponendo ai margini della discussione pubblica la profondità con cui la crisi stessa sta investendo le categorie e gli istituti fondamentali con cui la politica moderna è stata pensata e articolata. Su questo terreno, presidiato dai volti severi e “responsabili” di Bagnasco e Napolitano, Draghi e Marcegaglia, si preparano del resto “vie d’uscita” dal berlusconismo (e dunque dalla crisi) che rientrano a tutti gli effetti nel vero problema di fronte a cui si trovano, e sempre più si troveranno nei prossimi mesi, le lotte e le mobilitazioni: ovvero il tentativo di determinare una soluzione neo-liberale di una crisi che è anche crisi del neo-liberalismo; di garantire la continuità di un sistema in crisi, e dunque in ultima analisi la continuità della crisi. Vengono in mente le parole di Macbeth: “domani, e domani, e domani, s’inerpica col suo piccolo passo su su, un giorno dopo l’altro, fino all’ultima sillaba del tempo segnato”. A noi interessa ragionare su un altro tempo che le lotte dentro la crisi possono aprire. Il 15 ottobre sarà anche in Italia una giornata importante se contribuirà a fare avanzare e a esemplificare praticamente questo ragionamento.
Il "punto di vista del creditore" fa danni.
di Emiliano Brancaccio.
Tra le interpretazioni della crisi della zona euro ha finora prevalso quello che potremmo definire “il punto di vista del creditore”. Questo verte sul convincimento che, per salvaguardare il diritto dei creditori al rimborso, i debitori debbano tirare la cinghia e ridurre le spese senza invocare aiuti da parte delle istituzioni europee. I piani di austerità adottati da tutti i paesi europei per far fronte al pagamento dei debiti, l’avanzamento finora timido e contraddittorio del fondo salva-stati e l’incertezza sull’ammontare degli acquisti di titoli che la Bce sarà disposta ad effettuare per sostenere i paesi in difficoltà, derivano esattamente dal prevalere di questa logica. Tuttavia, come stiamo ormai rilevando da diversi mesi, tale orientamento non appare in grado di attenuare la crisi dell’eurozona. Anzi, la sfiducia dei mercati cresce di giorno in giorno, e con essa aumentano i differenziali tra i tassi d’interesse.
Sarebbe ora di riconoscere che il punto di vista del creditore deriva dalla risibile pretesa di applicare le banali regole di un bilancio familiare alla complessità delle relazioni macroeconomiche che intercorrono tra i bilanci degli stati. In realtà tali relazioni seguono regole ben diverse, tutt’altro che intuitive. La prima consiste nel fatto che a livello macro il reddito dei creditori dipende in ultima istanza dalla spesa dei debitori, non dai risparmi di questi ultimi. Consideriamo ad esempio la Germania: per lungo tempo, grazie a una superiore organizzazione dei capitali e a una intensa politica di deflazione relativa dei salari, questo paese ha esportato nel resto d’Europa molte più merci di quante ne importasse. In tal modo la Germania ha accumulato ingenti crediti nei confronti di Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, della stessa Francia e di vari altri paesi europei, i quali al contrario importavano più merci di quante ne esportassero. Questo pesante squilibrio in seno all’Europa costituisce indubbiamente un sintomo della competitività del sistema produttivo tedesco. Ma rappresenta anche una prova del fatto che per anni la crescita della produzione e del reddito dei tedeschi è stata in larga misura stimolata dalla domanda e dal relativo indebitamento dei paesi periferici. Ecco perché, nel momento in cui tali paesi vengono chiamati a ridurre le spese, anche la Germania finirà per pagarne le conseguenze in termini di mancata crescita.
Tra le interpretazioni della crisi della zona euro ha finora prevalso quello che potremmo definire “il punto di vista del creditore”. Questo verte sul convincimento che, per salvaguardare il diritto dei creditori al rimborso, i debitori debbano tirare la cinghia e ridurre le spese senza invocare aiuti da parte delle istituzioni europee. I piani di austerità adottati da tutti i paesi europei per far fronte al pagamento dei debiti, l’avanzamento finora timido e contraddittorio del fondo salva-stati e l’incertezza sull’ammontare degli acquisti di titoli che la Bce sarà disposta ad effettuare per sostenere i paesi in difficoltà, derivano esattamente dal prevalere di questa logica. Tuttavia, come stiamo ormai rilevando da diversi mesi, tale orientamento non appare in grado di attenuare la crisi dell’eurozona. Anzi, la sfiducia dei mercati cresce di giorno in giorno, e con essa aumentano i differenziali tra i tassi d’interesse.
Sarebbe ora di riconoscere che il punto di vista del creditore deriva dalla risibile pretesa di applicare le banali regole di un bilancio familiare alla complessità delle relazioni macroeconomiche che intercorrono tra i bilanci degli stati. In realtà tali relazioni seguono regole ben diverse, tutt’altro che intuitive. La prima consiste nel fatto che a livello macro il reddito dei creditori dipende in ultima istanza dalla spesa dei debitori, non dai risparmi di questi ultimi. Consideriamo ad esempio la Germania: per lungo tempo, grazie a una superiore organizzazione dei capitali e a una intensa politica di deflazione relativa dei salari, questo paese ha esportato nel resto d’Europa molte più merci di quante ne importasse. In tal modo la Germania ha accumulato ingenti crediti nei confronti di Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, della stessa Francia e di vari altri paesi europei, i quali al contrario importavano più merci di quante ne esportassero. Questo pesante squilibrio in seno all’Europa costituisce indubbiamente un sintomo della competitività del sistema produttivo tedesco. Ma rappresenta anche una prova del fatto che per anni la crescita della produzione e del reddito dei tedeschi è stata in larga misura stimolata dalla domanda e dal relativo indebitamento dei paesi periferici. Ecco perché, nel momento in cui tali paesi vengono chiamati a ridurre le spese, anche la Germania finirà per pagarne le conseguenze in termini di mancata crescita.
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The Palestinian prisoners have made several key demands, some of which are listed below:
1. End the abusive use of isolation;
2. End restrictions on University education in the prisons;
3. End the denial of books and newspapers;
4. End the shackling to and from meetings with lawyers and family members;
5. End the excessive use of fines as punishment;
6. And ultimately end all forms of collective punishment, including the refusal of family visits, night searches of prisoners’ cells, and the denial of basic health treatment.
1. End the abusive use of isolation;
2. End restrictions on University education in the prisons;
3. End the denial of books and newspapers;
4. End the shackling to and from meetings with lawyers and family members;
5. End the excessive use of fines as punishment;
6. And ultimately end all forms of collective punishment, including the refusal of family visits, night searches of prisoners’ cells, and the denial of basic health treatment.
lunedì 10 ottobre 2011
15 ottobre
Il 15 Ottobre prendiamoci le strade del mondo! Insieme per un cambiamento globale
http://map.15october.net/
qui la mappa di tutti gli eventi aggiornata direttamente
piu di 50 paesi nel mondo, più di 400 eventi in 400 diverse città
Informati, guarda cosa succede nel tuo paese, nella tua città e partecipa
Sarà una giornata mondiale!
Il 15 è solo una tappa! Il 16 si continua!
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Cinque cose fuori dai denti su Steve Jobs e sulla Apple.
di Gennaro Carotenuto
I lutti non sono il momento adatto per le puntigliosità ma per la celebrazione del caro estinto. Tuttavia la morte di Jobs si è trasformata nell’ennesimo evento globale. Così il segno encomiastico rischia di impedire una valutazione equanime, sul personaggio, sull’impresa a maggior capitalizzazione al mondo e su un’epopea dove non tutto luccica. Siamo di fronte ad un’operazione di marketing funerario sulla quale è bene riflettere brevemente.
1) Le invenzioni di Steve Jobs, spesso un passo avanti a tutti e a volte dei veri capolavori soprattutto dal punto di vista estetico, sono sempre stati dei prodotti di fascia alta per consumatori in grado di spendere (o svenarsi). Al dunque quel costo di un 20% in più rispetto ad un Sony Vaio o 30% in più rispetto ad un Toshiba Satellite, il surplus che ti garantisce lo status symbol per fare quasi sempre le stesse cose, te lo devi poter permettere.
2) I prodotti simbolo degli ultimi dieci anni, ipod, iphone, ipad, sono stati presentati come una rivoluzione universale. Nonostante le centinaia di milioni di pezzi venduti (e quindi un indiscutibile successo di marketing) la vera innovazione, quella che cambia davvero il mondo, non è quella per chi se la può permettere ma quella per tutti. Tra il notebook da 35$ annunciato dal governo indiano (il prossimo Steve Jobs verrà da lì) e il più fico degli ipad c’è la stessa relazione che c’è tra il vaccino anti-polio e un brevetto contro la caduta dei capelli.
3) È giusto che un capitano d’industria si prenda i meriti dei prodotti innovativi che licenzia, soprattutto quando il gruppo che dirige diventa quello a più alta capitalizzazione al mondo. Ma sta restando nell’ombra che, soprattutto in campo tecnologico e in pieno XXI secolo, vi dev’essere sì una visione di fondo (che può essere anche di una persona sola), ma vi è soprattutto un lavoro di gruppo, anzi di molti gruppi ed un continuo confronto perfino con la concorrenza. Senza Steve Jobs non avremo l’ipad come lo conosciamo ma non è vero che non avremmo lo smartphone (probabilmente il più grande salto in avanti dalla diffusione del personal computer). Insomma un grande, ma presentarlo come l’uomo della provvidenza è esagerato.
4) La concezione proprietaria della Apple su software e brevetti è ben più che per il mondo Windows l’esatto opposto del software libero, dell’open source e della libera circolazione dei saperi. Lo stesso Jobs ammise di non inserire nell’iphone la possibilità di ascoltare la radio via etere (un banale chippino da pochi centesimi presente in qualunque cellulare da 40 Euro in su) perché dall’ascolto della radio non poteva lucrare. Ma il profitto appare solo una giustificazione rispetto alla maniera orwelliana con la quale l’iphone o l’ipad continuano ad essere controllati dalla Apple e non dal legittimo proprietario. Se non permettete ad un estraneo di entrare in casa vostra per portarsi via un libro o un disco o per spostare un soprammobile, perché accettate che Apple lo faccia sul vostro telefono?
5) La Apple di Jobs è stata in questi anni una delle imprese simbolo del mondo globalizzato nel più deleterio dei modi possibili. Dalle accuse di mobbing alle documentate orribili condizioni di lavoro in Cina (vedi alla voce Foxconn) con decine di casi di suicidi denunciati, Jobs non è mai stato meglio della Nike, della Monsanto, della Coca-Cola o dell’ultimo padrone delle ferriere. L’esteticità, la bellezza, l’innovazione tecnologica più spinta (ma parliamo sempre di prodotti consumer, l’avanguardia vera è in altri campi) si sono sempre sposate con le più vecchie e conosciute pratiche dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Steve Jobs invitava a pensare differente (“Think different” fu uno degli slogan più efficaci) ma sui rapporti di produzione pensava molto antico.
I lutti non sono il momento adatto per le puntigliosità ma per la celebrazione del caro estinto. Tuttavia la morte di Jobs si è trasformata nell’ennesimo evento globale. Così il segno encomiastico rischia di impedire una valutazione equanime, sul personaggio, sull’impresa a maggior capitalizzazione al mondo e su un’epopea dove non tutto luccica. Siamo di fronte ad un’operazione di marketing funerario sulla quale è bene riflettere brevemente.
1) Le invenzioni di Steve Jobs, spesso un passo avanti a tutti e a volte dei veri capolavori soprattutto dal punto di vista estetico, sono sempre stati dei prodotti di fascia alta per consumatori in grado di spendere (o svenarsi). Al dunque quel costo di un 20% in più rispetto ad un Sony Vaio o 30% in più rispetto ad un Toshiba Satellite, il surplus che ti garantisce lo status symbol per fare quasi sempre le stesse cose, te lo devi poter permettere.
2) I prodotti simbolo degli ultimi dieci anni, ipod, iphone, ipad, sono stati presentati come una rivoluzione universale. Nonostante le centinaia di milioni di pezzi venduti (e quindi un indiscutibile successo di marketing) la vera innovazione, quella che cambia davvero il mondo, non è quella per chi se la può permettere ma quella per tutti. Tra il notebook da 35$ annunciato dal governo indiano (il prossimo Steve Jobs verrà da lì) e il più fico degli ipad c’è la stessa relazione che c’è tra il vaccino anti-polio e un brevetto contro la caduta dei capelli.
3) È giusto che un capitano d’industria si prenda i meriti dei prodotti innovativi che licenzia, soprattutto quando il gruppo che dirige diventa quello a più alta capitalizzazione al mondo. Ma sta restando nell’ombra che, soprattutto in campo tecnologico e in pieno XXI secolo, vi dev’essere sì una visione di fondo (che può essere anche di una persona sola), ma vi è soprattutto un lavoro di gruppo, anzi di molti gruppi ed un continuo confronto perfino con la concorrenza. Senza Steve Jobs non avremo l’ipad come lo conosciamo ma non è vero che non avremmo lo smartphone (probabilmente il più grande salto in avanti dalla diffusione del personal computer). Insomma un grande, ma presentarlo come l’uomo della provvidenza è esagerato.
4) La concezione proprietaria della Apple su software e brevetti è ben più che per il mondo Windows l’esatto opposto del software libero, dell’open source e della libera circolazione dei saperi. Lo stesso Jobs ammise di non inserire nell’iphone la possibilità di ascoltare la radio via etere (un banale chippino da pochi centesimi presente in qualunque cellulare da 40 Euro in su) perché dall’ascolto della radio non poteva lucrare. Ma il profitto appare solo una giustificazione rispetto alla maniera orwelliana con la quale l’iphone o l’ipad continuano ad essere controllati dalla Apple e non dal legittimo proprietario. Se non permettete ad un estraneo di entrare in casa vostra per portarsi via un libro o un disco o per spostare un soprammobile, perché accettate che Apple lo faccia sul vostro telefono?
5) La Apple di Jobs è stata in questi anni una delle imprese simbolo del mondo globalizzato nel più deleterio dei modi possibili. Dalle accuse di mobbing alle documentate orribili condizioni di lavoro in Cina (vedi alla voce Foxconn) con decine di casi di suicidi denunciati, Jobs non è mai stato meglio della Nike, della Monsanto, della Coca-Cola o dell’ultimo padrone delle ferriere. L’esteticità, la bellezza, l’innovazione tecnologica più spinta (ma parliamo sempre di prodotti consumer, l’avanguardia vera è in altri campi) si sono sempre sposate con le più vecchie e conosciute pratiche dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Steve Jobs invitava a pensare differente (“Think different” fu uno degli slogan più efficaci) ma sui rapporti di produzione pensava molto antico.
Se governa la finanza
Autore: Lunghini, Giorgio. Fonte: eddyburg
Proseguono gli interventi nel dibattito de il manifesto e sbilanciamoci.info. Qui l’intervista a uno dei rari economisti che unisce alla competenza la consapevolezza della profondità del cambiamento necessario
Senza Unione politica in Europa, al governo ci troviamo la finanza. Le sue forme patologiche producono crisi e danneggiano tutti. Servirebbe una redistribuzione, la fine delle rendite e nuova domanda pubblica. Invece ci troviamo con il solito errore della politica dei due tempi
Che cos’è che ti colpisce di più della crisi attuale dell’Europa? L’immutabilità del paradigma liberista? L’intoccabilità della finanza? L’incapacità politica?
Colpiscono tutte e tre le cose, che però vanno ridefinite. È davvero liberista la politica economica europea, una politica economica in verità imposta da un solo paese, la Germania? In che senso la finanza è intoccabile, se non nel senso che essa finanza è al governo e che dunque la politica è impotente? La finanza è al governo perché l’Unione Europea, non essendo una unione politica, è indifesa nei confronti di quello che Chomski, riprendendo Eichengreen, chiama il “senato virtuale”.
Questo senato virtuale è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating, le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano ”irrazionali” tali politiche – perché contrarie ai loro interessi – votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare delle varie forme di stato sociale). I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale.
Ma ciò che colpisce di più è la straordinaria occasione storica che l’Europa ha mancato, nonostante le risorse naturali, economiche, umane e culturali di cui dispone: l’occasione di diventare una Unione democratica e giusta, ricca e indipendente.
La costruzione europea si è fondata su mercati e monete. C’era un’alternativa?
Il modello c’era, era quello prefigurato dai grandi federalisti italiani. Scriveva Ernesto Rossi, nel 1953: “Una tesi degli “esperti” [una tesi sostenuta dall’allora presidente della Confindustria, Angelo Costa] è che non è necessario costituire un’autorità politica sovranazionale incaricata della unificazione del mercato europeo. L’unione economica, secondo loro, può essere anche raggiunta con trattati che, conservando integra la sovranità degli Stati nazionali, aboliscano i contingenti alle importazioni, riducano la protezione doganale, regolino la convertibilità delle monete. Solo quando avremo così costruite le mura maestre dell’edifico europeo – essi dicono – potremo metterci sopra il tetto di un governo federale.”
Proseguono gli interventi nel dibattito de il manifesto e sbilanciamoci.info. Qui l’intervista a uno dei rari economisti che unisce alla competenza la consapevolezza della profondità del cambiamento necessario
Senza Unione politica in Europa, al governo ci troviamo la finanza. Le sue forme patologiche producono crisi e danneggiano tutti. Servirebbe una redistribuzione, la fine delle rendite e nuova domanda pubblica. Invece ci troviamo con il solito errore della politica dei due tempi
Che cos’è che ti colpisce di più della crisi attuale dell’Europa? L’immutabilità del paradigma liberista? L’intoccabilità della finanza? L’incapacità politica?
Colpiscono tutte e tre le cose, che però vanno ridefinite. È davvero liberista la politica economica europea, una politica economica in verità imposta da un solo paese, la Germania? In che senso la finanza è intoccabile, se non nel senso che essa finanza è al governo e che dunque la politica è impotente? La finanza è al governo perché l’Unione Europea, non essendo una unione politica, è indifesa nei confronti di quello che Chomski, riprendendo Eichengreen, chiama il “senato virtuale”.
Questo senato virtuale è costituito da prestatori di fondi e da investitori internazionali che continuamente sottopongono a giudizio, anche per mezzo delle agenzie di rating, le politiche dei governi nazionali; e che se giudicano ”irrazionali” tali politiche – perché contrarie ai loro interessi – votano contro di esse con fughe di capitali, attacchi speculativi o altre misure a danno di quei paesi (e in particolare delle varie forme di stato sociale). I governi democratici hanno dunque un doppio elettorato: i loro cittadini e il senato virtuale, che normalmente prevale.
Ma ciò che colpisce di più è la straordinaria occasione storica che l’Europa ha mancato, nonostante le risorse naturali, economiche, umane e culturali di cui dispone: l’occasione di diventare una Unione democratica e giusta, ricca e indipendente.
La costruzione europea si è fondata su mercati e monete. C’era un’alternativa?
Il modello c’era, era quello prefigurato dai grandi federalisti italiani. Scriveva Ernesto Rossi, nel 1953: “Una tesi degli “esperti” [una tesi sostenuta dall’allora presidente della Confindustria, Angelo Costa] è che non è necessario costituire un’autorità politica sovranazionale incaricata della unificazione del mercato europeo. L’unione economica, secondo loro, può essere anche raggiunta con trattati che, conservando integra la sovranità degli Stati nazionali, aboliscano i contingenti alle importazioni, riducano la protezione doganale, regolino la convertibilità delle monete. Solo quando avremo così costruite le mura maestre dell’edifico europeo – essi dicono – potremo metterci sopra il tetto di un governo federale.”
domenica 9 ottobre 2011
Naomi Klein in Liberty Plaza
di NAOMI KLEIN. Fonte: democraziakmzero
Questo discorso della scrittrice canadese, autrice di “No logo” e di “Shock economy”, è stato pronunciato in Liberty Plaza, il parco occupato a New York, il 6 ottobre, ed è stato pubblicato sul giornale del movimento “Occupied Wall Street Journal”. DKm0 lo ha tradotto in italiano.
Ho avuto l’onore di essere invitata a parlare a Occupy Wall Street nella notte di giovedi. Dal momento che l’amplificazione è (disgraziatamente) bandita, e tutto quello che dico è stata ripetuta da centinaia di persone in modo che gli altri potessero sentire (è il “microfono umano”), quello che ho detto in Liberty Plaza è stato davvero molto breve. Tenendo questo presente, ecco la più lunga, e integrale, versione del discorso.
Vi amo.
E appena l’ho detto, ho sentito centinaia di voi gridare dir imbalzo “ti amo”, anche se questo è ovviamente un vantaggio del microfono umano. Dite agli altri ciò che vorreste fosse detto a voi, solo con un tono di voce più forte.
Ieri, uno degli oratori alla manifestazione del lavoro ha detto: “Ci siano trovati l’un l’altro”. Questo sentimento cattura la bellezza di ciò che viene creato qui. Un ampio spazio aperto (anche se un’idea così grande che non può essere contenuta da nessuno spazio) per tutte le persone che vogliono un mondo migliore e vogliono trovare l’altro.
Se c’è una cosa che so, è che l’1 per cento ama la crisi. Quando la gente è nel panico e disperata, e nessuno sembra sapere cosa fare, che è il momento ideale per far passare la loro lista dei desideri delle politiche a favore delle imprese: privatizzare l’istruzione e la sicurezza sociale, tagliare i servizi pubblici, eliminare gli ultimi ostacoli potere delle multinazionali. Grazie alla crisi economica, questo sta accadendo in tutto il mondo.
E c’è solo una cosa che può bloccare questa deriva, e per fortuna, è una cosa molto grande: il 99 per cento. E che il 99 per cento scenda in piazza, da Madison a Madrid, per dire “No, noi non pagheremo la vostra crisi “. Slogan che ha esordito in Italia nel 2008. E ‘rimbalzato verso la Grecia e la Francia e l’Irlanda e, infine, ha preso la strada del miglio quadrato in cui è iniziata la crisi.
“Perché stanno protestando?”, chiedono gli esperti, sconcertati, in tv. Nel frattempo, il resto del mondo chiede: “Perché ci hanno messo tanto tempo?”. E soprattutto: “Benvenuti”.
Molte persone hanno paragonato Occupy Wall Street alla cosiddetta protesta anti-globalizzazione che si è imposta all’attenzione mondiale a Seattle nel 1999. Quella è stata l’ultima occasione globale, creata dai giovani, di un movimento diffuso che prendesse di mira il potere delle multinazionali. E io sono orgogliosa di aver fatto parte di quello che abbiamo chiamato “il movimento dei movimenti”.
Questo discorso della scrittrice canadese, autrice di “No logo” e di “Shock economy”, è stato pronunciato in Liberty Plaza, il parco occupato a New York, il 6 ottobre, ed è stato pubblicato sul giornale del movimento “Occupied Wall Street Journal”. DKm0 lo ha tradotto in italiano.
Ho avuto l’onore di essere invitata a parlare a Occupy Wall Street nella notte di giovedi. Dal momento che l’amplificazione è (disgraziatamente) bandita, e tutto quello che dico è stata ripetuta da centinaia di persone in modo che gli altri potessero sentire (è il “microfono umano”), quello che ho detto in Liberty Plaza è stato davvero molto breve. Tenendo questo presente, ecco la più lunga, e integrale, versione del discorso.
Vi amo.
E appena l’ho detto, ho sentito centinaia di voi gridare dir imbalzo “ti amo”, anche se questo è ovviamente un vantaggio del microfono umano. Dite agli altri ciò che vorreste fosse detto a voi, solo con un tono di voce più forte.
Ieri, uno degli oratori alla manifestazione del lavoro ha detto: “Ci siano trovati l’un l’altro”. Questo sentimento cattura la bellezza di ciò che viene creato qui. Un ampio spazio aperto (anche se un’idea così grande che non può essere contenuta da nessuno spazio) per tutte le persone che vogliono un mondo migliore e vogliono trovare l’altro.
Se c’è una cosa che so, è che l’1 per cento ama la crisi. Quando la gente è nel panico e disperata, e nessuno sembra sapere cosa fare, che è il momento ideale per far passare la loro lista dei desideri delle politiche a favore delle imprese: privatizzare l’istruzione e la sicurezza sociale, tagliare i servizi pubblici, eliminare gli ultimi ostacoli potere delle multinazionali. Grazie alla crisi economica, questo sta accadendo in tutto il mondo.
E c’è solo una cosa che può bloccare questa deriva, e per fortuna, è una cosa molto grande: il 99 per cento. E che il 99 per cento scenda in piazza, da Madison a Madrid, per dire “No, noi non pagheremo la vostra crisi “. Slogan che ha esordito in Italia nel 2008. E ‘rimbalzato verso la Grecia e la Francia e l’Irlanda e, infine, ha preso la strada del miglio quadrato in cui è iniziata la crisi.
“Perché stanno protestando?”, chiedono gli esperti, sconcertati, in tv. Nel frattempo, il resto del mondo chiede: “Perché ci hanno messo tanto tempo?”. E soprattutto: “Benvenuti”.
Molte persone hanno paragonato Occupy Wall Street alla cosiddetta protesta anti-globalizzazione che si è imposta all’attenzione mondiale a Seattle nel 1999. Quella è stata l’ultima occasione globale, creata dai giovani, di un movimento diffuso che prendesse di mira il potere delle multinazionali. E io sono orgogliosa di aver fatto parte di quello che abbiamo chiamato “il movimento dei movimenti”.
Finestra sul vuoto: ovvero, la crisi dell’euro e la rótta della sinistra.
di Riccardo Bellofiore. Fonte: sinistrainrete
A metà luglio mi sono stati chiesti da Fausto Bertinotti e da Rossana Rossanda due articoli: uno sulle politiche europee dentro la crisi, l'altro sulla rotta d'Europa. Ho scritto a fine agosto un lungo testo, da cui poi ho "tagliato" con modifiche i due lavori: l'uno è comparso sui siti del manifesto e sbilanciamoci (e sul quotidiano), l'altro è in uscita su Alternative per il socialismo
1. L’Europa è nel mezzo di una tormenta economica e sociale. Intanto l’economia mondiale viaggia verso quella ricaduta nella recessione che è in realtà nient’altro che la prosecuzione di una medesima grave crisi strutturale del capitalismo: la Grande Recessione. Pur con tutte le contraddizioni del disegno istituzionale che ha dato vita all’euro, è la crisi globale all’origine della crisi europea. La crisi europea non fa che retroagire sulla dinamica mondiale. La costruzione dell’euro rischia intanto di implodere.
Non era difficile da prevedere. Chiudendo, a novembre dell’anno scorso, un articolo con Joseph Halevi sull’International Journal of Political Economy, citavo una scena da Frankenstein Junior . “Freddy” Frankenstein scava con Igor una tomba per esumare il mostro, e commenta: “Che lavoro schifoso!” Igor replica: “Potrebbe andare peggio”. “Come?” commenta stupito Freddy. “Potrebbe piovere” è la risposta di Igor. Immediatamente tuoni e fulmini, e pioggia a dirotto. Da dicembre, in Europa e nel mondo, ha diluviato. La crisi greca, dalla periferia più debole del continente, passando per Irlanda e Portogallo, ha investito infine la Spagna. Come era atteso. A quel punto, istantaneamente, e con una accelerazione inattesa dai più, ha impattato pure sull’Italia, sino a lambire la Francia, e ora persino la stessa Germania. Una Germania che si sta bruscamente risvegliando dall’illusione di un parziale sganciamento dalla domanda europea: illusione che sola giustifica la sua linea suicida dal 2010.
I ‘germogli di ripresa’ sono appassiti rapidamente, e il rimbalzo dopo la crisi è risultato alquanto sovrastimato. La Cina – l’unico paese che all’inizio del 2009 ha praticato una vera politica keynesiana di spesa pubblica massiccia e attiva - è a rischio di deragliamento. La sua crescita dipende da un eccesso di investimento infra-strutturale, e dal sospetto di una gigantesca bolla immobiliare. Il resto del mondo pretende di insegnarle che non si può andare avanti col sottoconsumo delle masse: anche qui però illudendosi che un eventuale aumento dei salari cinesi sia speso, e speso all’estero. L’America Latina rischia a sua volta di rallentare bruscamente: impaurita dall’inflazione; strangolata dall’aumento del cambio (nominale e reale); dipendente non solo dalla domanda estera, ma anche dalla evoluzione dei prezzi delle materie prime che può rivolgerlesi contro.
A metà luglio mi sono stati chiesti da Fausto Bertinotti e da Rossana Rossanda due articoli: uno sulle politiche europee dentro la crisi, l'altro sulla rotta d'Europa. Ho scritto a fine agosto un lungo testo, da cui poi ho "tagliato" con modifiche i due lavori: l'uno è comparso sui siti del manifesto e sbilanciamoci (e sul quotidiano), l'altro è in uscita su Alternative per il socialismo
1. L’Europa è nel mezzo di una tormenta economica e sociale. Intanto l’economia mondiale viaggia verso quella ricaduta nella recessione che è in realtà nient’altro che la prosecuzione di una medesima grave crisi strutturale del capitalismo: la Grande Recessione. Pur con tutte le contraddizioni del disegno istituzionale che ha dato vita all’euro, è la crisi globale all’origine della crisi europea. La crisi europea non fa che retroagire sulla dinamica mondiale. La costruzione dell’euro rischia intanto di implodere.
Non era difficile da prevedere. Chiudendo, a novembre dell’anno scorso, un articolo con Joseph Halevi sull’International Journal of Political Economy, citavo una scena da Frankenstein Junior . “Freddy” Frankenstein scava con Igor una tomba per esumare il mostro, e commenta: “Che lavoro schifoso!” Igor replica: “Potrebbe andare peggio”. “Come?” commenta stupito Freddy. “Potrebbe piovere” è la risposta di Igor. Immediatamente tuoni e fulmini, e pioggia a dirotto. Da dicembre, in Europa e nel mondo, ha diluviato. La crisi greca, dalla periferia più debole del continente, passando per Irlanda e Portogallo, ha investito infine la Spagna. Come era atteso. A quel punto, istantaneamente, e con una accelerazione inattesa dai più, ha impattato pure sull’Italia, sino a lambire la Francia, e ora persino la stessa Germania. Una Germania che si sta bruscamente risvegliando dall’illusione di un parziale sganciamento dalla domanda europea: illusione che sola giustifica la sua linea suicida dal 2010.
I ‘germogli di ripresa’ sono appassiti rapidamente, e il rimbalzo dopo la crisi è risultato alquanto sovrastimato. La Cina – l’unico paese che all’inizio del 2009 ha praticato una vera politica keynesiana di spesa pubblica massiccia e attiva - è a rischio di deragliamento. La sua crescita dipende da un eccesso di investimento infra-strutturale, e dal sospetto di una gigantesca bolla immobiliare. Il resto del mondo pretende di insegnarle che non si può andare avanti col sottoconsumo delle masse: anche qui però illudendosi che un eventuale aumento dei salari cinesi sia speso, e speso all’estero. L’America Latina rischia a sua volta di rallentare bruscamente: impaurita dall’inflazione; strangolata dall’aumento del cambio (nominale e reale); dipendente non solo dalla domanda estera, ma anche dalla evoluzione dei prezzi delle materie prime che può rivolgerlesi contro.
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