di Maurizio Franzini. Fonte: sbilanciamoci
L’Europa nel suo insieme ha disuguaglianze di reddito analoghe agli Usa. Le disparità sono cresciute in questi anni per effetto dei meccanismi di mercato e le politiche nazionali non le hanno fermate. L’Europa potrebbe avere gli strumenti fiscali e redistributivi per ridurle, e ridare senso all’idea di un modello sociale europeo
L’Europa, dopo tanti allargamenti, è oggi una grande area; grande, però, anche nella disuguaglianza. Riflettere brevemente su questo punto può aggiungere argomenti al già ricchissimo dibattito svoltosi sul manifesto e Sbilanciamoci.info e può aiutare a precisare alcune delle questioni che sono emerse.
La disuguaglianza alla quale qui mi riferisco è soltanto quella nei redditi disponibili, ottenuti nei mercati o con trasferimenti dallo Stato e computati tenendo conto delle caratteristiche dei nuclei familiari. Si tratta, quindi, dei redditi che più direttamente incidono sul tenore di vita delle persone.
Se consideriamo l’Europa dei 27 paesi trascurando, quindi, i confini nazionali e mettendo sullo stesso piano tutti i cittadini di questa enorme area (quindi, ad esempio, anche il più povero tra i lettoni e il più ricco tra i londinesi) troviamo che la disuguaglianza che li riguarda è su valori non diversi da quelli che prevalgono negli Stati Uniti. La complessità delle stime impone cautela, tuttavia gli studi di cui disponiamo giungono, con qualche divergenza tra loro, a conclusioni che possono essere sintetizzate nell’affermazione che ho appena fatto. I dati più recenti si riferiscono agli anni immediatamente precedenti la crisi e questo è rilevante sia perché possiamo supporre che la situazione, negli anni a noi più vicini, non sia migliorata nella sua dimensione assoluta, sia perché il confronto con gli Stati Uniti si riferisce a un periodo nel quale era assai più frequente di oggi, soprattutto a sinistra, contrapporre le virtù del “modello sociale europeo” alle scellerate conseguenze sociali del modello liberale o liberista, che dir si voglia, di oltre Atlantico.
Quelle virtù, se esistono, faticano a manifestarsi. La disuguaglianza nell’Europa come un tutto è decisamente alta e questa altezza deriva, sostanzialmente, dalla combinazione di due effetti: le rilevanti distanze tra i redditi medi dei paesi (straordinaria è, ad esempio, quella che separa il lussemburghese medio dal cittadino medio di alcuni paesi baltici); le disuguaglianze interne ai paesi, che in alcuni casi sono davvero forti.
Quest’ultima disuguaglianza, rispetto a due decenni fa, è pressoché ovunque, sensibilmente più elevata. Questo peggioramento si è in molti casi verificato nel corso degli anni ’90. La generalizzata tendenza all’aggravarsi della disuguaglianza non ha sostanzialmente alterato la graduatoria dei paesi europei in base agli indicatori di disuguaglianza (qui mi riferisco a quelli di più antica membership dell’Unione): i paesi scandinavi, malgrado il peggioramento, sono i meno disuguali; i paesi mediterranei (tra cui primeggia l’Italia) e quelli anglo-sassoni i più diseguali; i restanti paesi continentali si collocano in una posizione intermedia, tendenzialmente più vicini ai paesi scandinavi.
Dunque, oltre a essere altamente disuguale nel suo complesso, l’Europa include paesi caratterizzati da differenze nella disuguaglianza assai marcate, che gli sviluppi relativamente recenti non hanno modificato, ma hanno, piuttosto, riprodotto su scala ampliata, per effetto della generalizzata tendenza al peggioramento delle disuguaglianze.
Se dovessimo esprimerci sul “modello sociale europeo” in base a queste considerazioni dovremmo concludere, in primo luogo, che un simile unico modello non esiste – anzi, non è mai esistito – e, in secondo luogo, che qualunque cosa ci sia al suo posto, il funzionamento di questa “cosa” ha condotto a un esito fallimentare. Tutto questo vale, naturalmente, se si accetta (e pare difficile fare altrimenti) l’idea che le disuguaglianze economiche sono un fondamentale metro di valutazione dei “modelli sociali”.
Dunque, ben prima che la crisi – alla quale, giustamente, dedichiamo il massimo dell’attenzione – si manifestasse, l’Europa attraversava un’altra crisi, dalle lontane origini, alla quale ben scarsa attenzione è stata prestata a livello comunitario e dei singoli paesi. Dunque questa particolare crisi europea non è una crisi dell’Europa intesa come Unione Europea, ma di tutti o quasi tutti i suoi Stati membri.
Contro l’accresciuta disuguaglianza all’interno dei paesi non sono state prese misure di una benché minima efficacia, e sarebbe stato sorprendente se queste misure fossero state prese, vista la mancanza di attenzione verso il problema. Con l’approssimazione resa inevitabile dalla mancanza di spazio, si può dire che quasi ovunque, a partire dai primi anni ’90, le disuguaglianze sono cresciute a causa di cambiamenti profondi nei mercati piuttosto che per effetto di una decrescente capacità redistributiva del welfare. Di certo le politiche, sia nazionali sia comunitarie, avevano reso possibili quei cambiamenti nei mercati da cui derivava l’aggravarsi delle conseguenze e, d’altro canto, non si è avuta un’intensificazione dell’azione del welfare in grado di neutralizzare pienamente queste tendenze.
Ma il cambiamento è avvenuto nei mercati e non deriva soltanto dalla tendenza dei profitti a crescere a danno dei salari – tendenza, questa, certamente forte e piuttosto generalizzata, ma non tale da riguardare tutti i paesi dove la disuguaglianza nei redditi disponibili è peggiorata –; essa deriva anche, e spesso soprattutto, dalle crescenti disuguaglianze all’interno del mondo del lavoro. Qui si sono avuti fenomeni di polarizzazione: alcuni tra i redditi più elevati sono enormemente cresciuti mentre i redditi più bassi sono rimasti fermi o sono regrediti. Dunque, la disuguaglianza è un fenomeno complesso che non deriva soltanto dagli sfracelli della finanza e che rimanda a importanti cambiamenti strutturali. Rispetto agli effetti sociali di questi cambiamenti, spesso derivanti da decisioni assunte da loro stesse, ben poco se non proprio nulla, hanno fatto le classi dirigenti nazionali e comunitarie.
La disuguaglianza tra paesi che concorre alla disuguaglianza complessiva non può che essere affrontata a livello comunitario. E a questo livello è stata affrontata nell’unico, limitato, modo in cui era concretamente possibile farlo dato lo stato delle istituzioni comunitarie e, in particolare, le caratteristiche e le dimensioni del bilancio europeo: attraverso i fondi strutturali destinati, nel linguaggio ampiamente utilizzato, a realizzare la “coesione sociale”, favorendo lo sviluppo delle aree più povere in termini di Pil pro capite.
Il problema dello sviluppo armonico delle diverse aree territoriali era presente già nel preambolo al Trattato di Roma del 1957. Se lo si confronta con la situazione attuale, il grado di omogeneità tra i 6 paesi firmatari di quel Trattato era, a quel tempo, così più elevato da far concludere che l’attenzione dei “fondatori” per questo tipo di problemi era particolarmente acuta. Da allora si sono susseguite molteplici “strategie” europee e, nei decenni a noi più vicini, sono state spese svariate centinaia di miliardi di euro allo scopo di favorire il Pil delle regioni più povere. Pur nella varietà delle valutazioni, si ritiene che questi enormi fondi abbiano dato un contributo percettibile – anche se assai inferiore alle attese – alla convergenza dei Pil pro capite. Possiamo quindi supporre che senza questi fondi la disuguaglianza tra i cittadini europei sarebbe ancora maggiore. Questo, però, non vuol dire che il contributo complessivo dell’Europa alle disuguaglianze territoriali sia stato positivo: altre politiche potrebbero avere favorito divergenze crescenti, solo parzialmente ridotte dai fondi strutturali. Inoltre, va sottolineato che un fattore decisivo per l’efficacia di quei fondi rispetto alla convergenza è stato il funzionamento delle Pubbliche Amministrazioni nei paesi e nelle regioni coinvolte. Anche qui Europa e singoli paesi condividono importanti responsabilità.
Se si rilegge, alla luce di queste considerazioni sulla disuguaglianza, il dibattito sull’identità europea che si è svolto in occasione della sventurata vicenda della cosiddetta Costituzione europea, la conclusione da trarre sembra obbligata: piuttosto che cercare di costruire l’Europa (o come altro si vuol dire) sulla base di un’inesistente identità comune sarebbe stato preferibile cercare di farlo in base ai vantaggi che essa avrebbe potuto assicurare. E tra i vantaggi da discutere quello della riduzione delle disuguaglianze avrebbe dovuto occupare uno dei primi posti – soprattutto se l’espressione “modello sociale europeo” ha un corrispondente significato.
In realtà, un’Europa ben coordinata può fare per la disuguaglianza molto di più di quanto possono fare individualmente i singoli stati e di quanto ha fatto l’Europa che conosciamo. E lo può fare rispetto sia alla disuguaglianza tra paesi (come è ovvio) sia a quella all’interno dei paesi (e, questo, forse è meno ovvio). Il coordinamento, in altri termini, è di per sé un asset che, naturalmente, può condurre a risultati più o meno buoni a seconda delle intenzioni e delle capacità di metterla a frutto dei “padroni del vapore”. Infatti, il coordinamento delle politiche tributarie può aiutare ciascun paese a realizzare politiche maggiormente redistributive dal lato delle entrate fiscali al proprio interno senza temere fuoriuscite di risorse produttive.
D’altro canto, il coordinamento può favorire misure dirette a contrastare il formarsi nel mercato di redditi altissimi. Per fare un esempio, si pensi alle retribuzioni dei manager. Un argomento spesso utilizzato contro l’idea di imporre tetti o altre limitazioni a tali retribuzioni, è quello della fuga di questi manager, possessori di talenti veri o presunti, verso altri lidi con danni ritenuti enormi per il paese che dovesse perderli. È evidente che una politica coordinata a livello europeo permetterebbe di togliere molta della sua eventuale forza a questo argomento e consentirebbe così di raggiungere, senza danni di altra natura, un equilibrio caratterizzato da una disuguaglianza minore.
L’Europa, in questa materia come in molte altre, gode dei vantaggi potenziali consentiti dal coordinamento. Prima di rinunciare, in questo ambito come in altri, a tali vantaggi – oggi più che mai importanti – bisognerebbe pensarci su molto a lungo. Naturalmente, una vantaggiosa potenzialità è soltanto un punto molto avanzato nella frontiera di ciò che è possibile fare. Se si vuole arretrare rispetto alla frontiera si può benissimo farlo. E l’impressione, ben fondata, è che in materia di disuguaglianza, e non soltanto di questo, le classi dirigenti europee e nazionali, di questa e di quell’altra sponda politica, abbiano deciso di collocarsi ben al di sotto di quella che verrebbe considerata la frontiera da chi avesse davvero a cuore le questioni dell’eguaglianza e della coesione sociale. Si può, forse, anche aggiungere – senza entrare nei dettagli – che non soltanto le classi dirigenti politiche sono responsabili per questo esito. Ma è loro la responsabilità maggiore.
Non era scritto, io credo, che la storia dovesse essere questa, né nel 1957 né nel 2002. Ma è stata questa e nell’interpretarla occorre distinguere ciò che l’Europa può fare, da ciò che gli europei che contano, a Bruxelles o nelle loro capitali, hanno deciso di fare. Da questa distinzione è forse utile partire per capire come disegnare la futura rotta d’Europa.
L’Europa, dopo tanti allargamenti, è oggi una grande area; grande, però, anche nella disuguaglianza. Riflettere brevemente su questo punto può aggiungere argomenti al già ricchissimo dibattito svoltosi sul manifesto e Sbilanciamoci.info e può aiutare a precisare alcune delle questioni che sono emerse.
La disuguaglianza alla quale qui mi riferisco è soltanto quella nei redditi disponibili, ottenuti nei mercati o con trasferimenti dallo Stato e computati tenendo conto delle caratteristiche dei nuclei familiari. Si tratta, quindi, dei redditi che più direttamente incidono sul tenore di vita delle persone.
Se consideriamo l’Europa dei 27 paesi trascurando, quindi, i confini nazionali e mettendo sullo stesso piano tutti i cittadini di questa enorme area (quindi, ad esempio, anche il più povero tra i lettoni e il più ricco tra i londinesi) troviamo che la disuguaglianza che li riguarda è su valori non diversi da quelli che prevalgono negli Stati Uniti. La complessità delle stime impone cautela, tuttavia gli studi di cui disponiamo giungono, con qualche divergenza tra loro, a conclusioni che possono essere sintetizzate nell’affermazione che ho appena fatto. I dati più recenti si riferiscono agli anni immediatamente precedenti la crisi e questo è rilevante sia perché possiamo supporre che la situazione, negli anni a noi più vicini, non sia migliorata nella sua dimensione assoluta, sia perché il confronto con gli Stati Uniti si riferisce a un periodo nel quale era assai più frequente di oggi, soprattutto a sinistra, contrapporre le virtù del “modello sociale europeo” alle scellerate conseguenze sociali del modello liberale o liberista, che dir si voglia, di oltre Atlantico.
Quelle virtù, se esistono, faticano a manifestarsi. La disuguaglianza nell’Europa come un tutto è decisamente alta e questa altezza deriva, sostanzialmente, dalla combinazione di due effetti: le rilevanti distanze tra i redditi medi dei paesi (straordinaria è, ad esempio, quella che separa il lussemburghese medio dal cittadino medio di alcuni paesi baltici); le disuguaglianze interne ai paesi, che in alcuni casi sono davvero forti.
Quest’ultima disuguaglianza, rispetto a due decenni fa, è pressoché ovunque, sensibilmente più elevata. Questo peggioramento si è in molti casi verificato nel corso degli anni ’90. La generalizzata tendenza all’aggravarsi della disuguaglianza non ha sostanzialmente alterato la graduatoria dei paesi europei in base agli indicatori di disuguaglianza (qui mi riferisco a quelli di più antica membership dell’Unione): i paesi scandinavi, malgrado il peggioramento, sono i meno disuguali; i paesi mediterranei (tra cui primeggia l’Italia) e quelli anglo-sassoni i più diseguali; i restanti paesi continentali si collocano in una posizione intermedia, tendenzialmente più vicini ai paesi scandinavi.
Dunque, oltre a essere altamente disuguale nel suo complesso, l’Europa include paesi caratterizzati da differenze nella disuguaglianza assai marcate, che gli sviluppi relativamente recenti non hanno modificato, ma hanno, piuttosto, riprodotto su scala ampliata, per effetto della generalizzata tendenza al peggioramento delle disuguaglianze.
Se dovessimo esprimerci sul “modello sociale europeo” in base a queste considerazioni dovremmo concludere, in primo luogo, che un simile unico modello non esiste – anzi, non è mai esistito – e, in secondo luogo, che qualunque cosa ci sia al suo posto, il funzionamento di questa “cosa” ha condotto a un esito fallimentare. Tutto questo vale, naturalmente, se si accetta (e pare difficile fare altrimenti) l’idea che le disuguaglianze economiche sono un fondamentale metro di valutazione dei “modelli sociali”.
Dunque, ben prima che la crisi – alla quale, giustamente, dedichiamo il massimo dell’attenzione – si manifestasse, l’Europa attraversava un’altra crisi, dalle lontane origini, alla quale ben scarsa attenzione è stata prestata a livello comunitario e dei singoli paesi. Dunque questa particolare crisi europea non è una crisi dell’Europa intesa come Unione Europea, ma di tutti o quasi tutti i suoi Stati membri.
Contro l’accresciuta disuguaglianza all’interno dei paesi non sono state prese misure di una benché minima efficacia, e sarebbe stato sorprendente se queste misure fossero state prese, vista la mancanza di attenzione verso il problema. Con l’approssimazione resa inevitabile dalla mancanza di spazio, si può dire che quasi ovunque, a partire dai primi anni ’90, le disuguaglianze sono cresciute a causa di cambiamenti profondi nei mercati piuttosto che per effetto di una decrescente capacità redistributiva del welfare. Di certo le politiche, sia nazionali sia comunitarie, avevano reso possibili quei cambiamenti nei mercati da cui derivava l’aggravarsi delle conseguenze e, d’altro canto, non si è avuta un’intensificazione dell’azione del welfare in grado di neutralizzare pienamente queste tendenze.
Ma il cambiamento è avvenuto nei mercati e non deriva soltanto dalla tendenza dei profitti a crescere a danno dei salari – tendenza, questa, certamente forte e piuttosto generalizzata, ma non tale da riguardare tutti i paesi dove la disuguaglianza nei redditi disponibili è peggiorata –; essa deriva anche, e spesso soprattutto, dalle crescenti disuguaglianze all’interno del mondo del lavoro. Qui si sono avuti fenomeni di polarizzazione: alcuni tra i redditi più elevati sono enormemente cresciuti mentre i redditi più bassi sono rimasti fermi o sono regrediti. Dunque, la disuguaglianza è un fenomeno complesso che non deriva soltanto dagli sfracelli della finanza e che rimanda a importanti cambiamenti strutturali. Rispetto agli effetti sociali di questi cambiamenti, spesso derivanti da decisioni assunte da loro stesse, ben poco se non proprio nulla, hanno fatto le classi dirigenti nazionali e comunitarie.
La disuguaglianza tra paesi che concorre alla disuguaglianza complessiva non può che essere affrontata a livello comunitario. E a questo livello è stata affrontata nell’unico, limitato, modo in cui era concretamente possibile farlo dato lo stato delle istituzioni comunitarie e, in particolare, le caratteristiche e le dimensioni del bilancio europeo: attraverso i fondi strutturali destinati, nel linguaggio ampiamente utilizzato, a realizzare la “coesione sociale”, favorendo lo sviluppo delle aree più povere in termini di Pil pro capite.
Il problema dello sviluppo armonico delle diverse aree territoriali era presente già nel preambolo al Trattato di Roma del 1957. Se lo si confronta con la situazione attuale, il grado di omogeneità tra i 6 paesi firmatari di quel Trattato era, a quel tempo, così più elevato da far concludere che l’attenzione dei “fondatori” per questo tipo di problemi era particolarmente acuta. Da allora si sono susseguite molteplici “strategie” europee e, nei decenni a noi più vicini, sono state spese svariate centinaia di miliardi di euro allo scopo di favorire il Pil delle regioni più povere. Pur nella varietà delle valutazioni, si ritiene che questi enormi fondi abbiano dato un contributo percettibile – anche se assai inferiore alle attese – alla convergenza dei Pil pro capite. Possiamo quindi supporre che senza questi fondi la disuguaglianza tra i cittadini europei sarebbe ancora maggiore. Questo, però, non vuol dire che il contributo complessivo dell’Europa alle disuguaglianze territoriali sia stato positivo: altre politiche potrebbero avere favorito divergenze crescenti, solo parzialmente ridotte dai fondi strutturali. Inoltre, va sottolineato che un fattore decisivo per l’efficacia di quei fondi rispetto alla convergenza è stato il funzionamento delle Pubbliche Amministrazioni nei paesi e nelle regioni coinvolte. Anche qui Europa e singoli paesi condividono importanti responsabilità.
Se si rilegge, alla luce di queste considerazioni sulla disuguaglianza, il dibattito sull’identità europea che si è svolto in occasione della sventurata vicenda della cosiddetta Costituzione europea, la conclusione da trarre sembra obbligata: piuttosto che cercare di costruire l’Europa (o come altro si vuol dire) sulla base di un’inesistente identità comune sarebbe stato preferibile cercare di farlo in base ai vantaggi che essa avrebbe potuto assicurare. E tra i vantaggi da discutere quello della riduzione delle disuguaglianze avrebbe dovuto occupare uno dei primi posti – soprattutto se l’espressione “modello sociale europeo” ha un corrispondente significato.
In realtà, un’Europa ben coordinata può fare per la disuguaglianza molto di più di quanto possono fare individualmente i singoli stati e di quanto ha fatto l’Europa che conosciamo. E lo può fare rispetto sia alla disuguaglianza tra paesi (come è ovvio) sia a quella all’interno dei paesi (e, questo, forse è meno ovvio). Il coordinamento, in altri termini, è di per sé un asset che, naturalmente, può condurre a risultati più o meno buoni a seconda delle intenzioni e delle capacità di metterla a frutto dei “padroni del vapore”. Infatti, il coordinamento delle politiche tributarie può aiutare ciascun paese a realizzare politiche maggiormente redistributive dal lato delle entrate fiscali al proprio interno senza temere fuoriuscite di risorse produttive.
D’altro canto, il coordinamento può favorire misure dirette a contrastare il formarsi nel mercato di redditi altissimi. Per fare un esempio, si pensi alle retribuzioni dei manager. Un argomento spesso utilizzato contro l’idea di imporre tetti o altre limitazioni a tali retribuzioni, è quello della fuga di questi manager, possessori di talenti veri o presunti, verso altri lidi con danni ritenuti enormi per il paese che dovesse perderli. È evidente che una politica coordinata a livello europeo permetterebbe di togliere molta della sua eventuale forza a questo argomento e consentirebbe così di raggiungere, senza danni di altra natura, un equilibrio caratterizzato da una disuguaglianza minore.
L’Europa, in questa materia come in molte altre, gode dei vantaggi potenziali consentiti dal coordinamento. Prima di rinunciare, in questo ambito come in altri, a tali vantaggi – oggi più che mai importanti – bisognerebbe pensarci su molto a lungo. Naturalmente, una vantaggiosa potenzialità è soltanto un punto molto avanzato nella frontiera di ciò che è possibile fare. Se si vuole arretrare rispetto alla frontiera si può benissimo farlo. E l’impressione, ben fondata, è che in materia di disuguaglianza, e non soltanto di questo, le classi dirigenti europee e nazionali, di questa e di quell’altra sponda politica, abbiano deciso di collocarsi ben al di sotto di quella che verrebbe considerata la frontiera da chi avesse davvero a cuore le questioni dell’eguaglianza e della coesione sociale. Si può, forse, anche aggiungere – senza entrare nei dettagli – che non soltanto le classi dirigenti politiche sono responsabili per questo esito. Ma è loro la responsabilità maggiore.
Non era scritto, io credo, che la storia dovesse essere questa, né nel 1957 né nel 2002. Ma è stata questa e nell’interpretarla occorre distinguere ciò che l’Europa può fare, da ciò che gli europei che contano, a Bruxelles o nelle loro capitali, hanno deciso di fare. Da questa distinzione è forse utile partire per capire come disegnare la futura rotta d’Europa.
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