di Emiliano Brancaccio.
Tra le interpretazioni della crisi della zona euro ha finora prevalso quello che potremmo definire “il punto di vista del creditore”. Questo verte sul convincimento che, per salvaguardare il diritto dei creditori al rimborso, i debitori debbano tirare la cinghia e ridurre le spese senza invocare aiuti da parte delle istituzioni europee. I piani di austerità adottati da tutti i paesi europei per far fronte al pagamento dei debiti, l’avanzamento finora timido e contraddittorio del fondo salva-stati e l’incertezza sull’ammontare degli acquisti di titoli che la Bce sarà disposta ad effettuare per sostenere i paesi in difficoltà, derivano esattamente dal prevalere di questa logica. Tuttavia, come stiamo ormai rilevando da diversi mesi, tale orientamento non appare in grado di attenuare la crisi dell’eurozona. Anzi, la sfiducia dei mercati cresce di giorno in giorno, e con essa aumentano i differenziali tra i tassi d’interesse.
Sarebbe ora di riconoscere che il punto di vista del creditore deriva dalla risibile pretesa di applicare le banali regole di un bilancio familiare alla complessità delle relazioni macroeconomiche che intercorrono tra i bilanci degli stati. In realtà tali relazioni seguono regole ben diverse, tutt’altro che intuitive. La prima consiste nel fatto che a livello macro il reddito dei creditori dipende in ultima istanza dalla spesa dei debitori, non dai risparmi di questi ultimi. Consideriamo ad esempio la Germania: per lungo tempo, grazie a una superiore organizzazione dei capitali e a una intensa politica di deflazione relativa dei salari, questo paese ha esportato nel resto d’Europa molte più merci di quante ne importasse. In tal modo la Germania ha accumulato ingenti crediti nei confronti di Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, della stessa Francia e di vari altri paesi europei, i quali al contrario importavano più merci di quante ne esportassero. Questo pesante squilibrio in seno all’Europa costituisce indubbiamente un sintomo della competitività del sistema produttivo tedesco. Ma rappresenta anche una prova del fatto che per anni la crescita della produzione e del reddito dei tedeschi è stata in larga misura stimolata dalla domanda e dal relativo indebitamento dei paesi periferici. Ecco perché, nel momento in cui tali paesi vengono chiamati a ridurre le spese, anche la Germania finirà per pagarne le conseguenze in termini di mancata crescita.
Il problema descritto evidenzia anche i limiti dello slogan “facciamo come in Germania”. Il desiderio di emulare un competitore efficiente è perfettamente comprensibile. Ma se tutti davvero puntassero a imitare la tendenza della Germania ad aumentare le esportazioni nette e ad accumulare crediti verso l’estero, non vi sarebbe più una fonte di domanda interna alla zona euro. In tal caso, a meno di illudersi dell’imminenza di una robusta ripresa americana, le imprese europee si troverebbero ben presto senza sbocchi e il vecchio continente piomberebbe in una ulteriore, violenta recessione. Né la situazione cambierebbe se ci indebitassimo con la Cina anziché con la Germania. Il problema infatti non verte sulla individuazione di un nuovo creditore ma consiste al contrario nel trovare una fonte di domanda. Sotto questo aspetto è bene comprendere che i cinesi non aiutano, non essendo disposti a rinunciare ai loro avanzi commerciali verso l’estero.
Le obiezioni elencate consentono anche di sgombrare il campo dalla idea ingenua secondo cui i creditori risiederebbero nel settore privato mentre i debitori si situerebbero nel settore pubblico. In realtà, dal punto di vista contabile e macroeconomico, l’intreccio è più complesso. Basti pensare che lo squilibrio tra la Germania creditrice e i paesi periferici debitori si riflette anche in una distribuzione asimmetrica delle sofferenze bancarie e della mortalità delle imprese private, che in molte zone del Sud Europa e della stessa Italia stanno raggiungendo livelli inquietanti. Ciò implica che se nel prossimo futuro in Bce dovesse prevalere il punto di vista del creditore, non solo i bilanci pubblici ma anche i bilanci delle imprese e delle banche private situate nei paesi periferici registrerebbero le perdite più ingenti.
Nel diritto romano si definiva “favor debitoris” quell’insieme di norme atte a stabilire un appropriato equilibrio tra le pretese del creditore e la pietà verso il debitore. L’odierna urgenza di ridefinire quell’equilibrio non è tuttavia questione di pietà ma di razionalità. Al punto in cui siamo giunti, continuare a imporre la logica del creditore significa creare le premesse di una nuova crisi. Se si vuole evitarla, bisogna ribaltare la logica che governa gli attuali indirizzi politici e attivare finalmente un “motore interno” dello sviluppo economico europeo. Se la Bce, le istituzioni comunitarie e i governi nazionali non si dispongono a questa inversione di marcia, il pericolo di una ulteriore recessione e di una conseguente implosione della zona euro (e al limite dello stesso mercato comune) si farà concreto, con danni facilmente prevedibili per gli stessi creditori.
Emiliano Brancaccio
Tra le interpretazioni della crisi della zona euro ha finora prevalso quello che potremmo definire “il punto di vista del creditore”. Questo verte sul convincimento che, per salvaguardare il diritto dei creditori al rimborso, i debitori debbano tirare la cinghia e ridurre le spese senza invocare aiuti da parte delle istituzioni europee. I piani di austerità adottati da tutti i paesi europei per far fronte al pagamento dei debiti, l’avanzamento finora timido e contraddittorio del fondo salva-stati e l’incertezza sull’ammontare degli acquisti di titoli che la Bce sarà disposta ad effettuare per sostenere i paesi in difficoltà, derivano esattamente dal prevalere di questa logica. Tuttavia, come stiamo ormai rilevando da diversi mesi, tale orientamento non appare in grado di attenuare la crisi dell’eurozona. Anzi, la sfiducia dei mercati cresce di giorno in giorno, e con essa aumentano i differenziali tra i tassi d’interesse.
Sarebbe ora di riconoscere che il punto di vista del creditore deriva dalla risibile pretesa di applicare le banali regole di un bilancio familiare alla complessità delle relazioni macroeconomiche che intercorrono tra i bilanci degli stati. In realtà tali relazioni seguono regole ben diverse, tutt’altro che intuitive. La prima consiste nel fatto che a livello macro il reddito dei creditori dipende in ultima istanza dalla spesa dei debitori, non dai risparmi di questi ultimi. Consideriamo ad esempio la Germania: per lungo tempo, grazie a una superiore organizzazione dei capitali e a una intensa politica di deflazione relativa dei salari, questo paese ha esportato nel resto d’Europa molte più merci di quante ne importasse. In tal modo la Germania ha accumulato ingenti crediti nei confronti di Grecia, Spagna, Portogallo, Italia, della stessa Francia e di vari altri paesi europei, i quali al contrario importavano più merci di quante ne esportassero. Questo pesante squilibrio in seno all’Europa costituisce indubbiamente un sintomo della competitività del sistema produttivo tedesco. Ma rappresenta anche una prova del fatto che per anni la crescita della produzione e del reddito dei tedeschi è stata in larga misura stimolata dalla domanda e dal relativo indebitamento dei paesi periferici. Ecco perché, nel momento in cui tali paesi vengono chiamati a ridurre le spese, anche la Germania finirà per pagarne le conseguenze in termini di mancata crescita.
Il problema descritto evidenzia anche i limiti dello slogan “facciamo come in Germania”. Il desiderio di emulare un competitore efficiente è perfettamente comprensibile. Ma se tutti davvero puntassero a imitare la tendenza della Germania ad aumentare le esportazioni nette e ad accumulare crediti verso l’estero, non vi sarebbe più una fonte di domanda interna alla zona euro. In tal caso, a meno di illudersi dell’imminenza di una robusta ripresa americana, le imprese europee si troverebbero ben presto senza sbocchi e il vecchio continente piomberebbe in una ulteriore, violenta recessione. Né la situazione cambierebbe se ci indebitassimo con la Cina anziché con la Germania. Il problema infatti non verte sulla individuazione di un nuovo creditore ma consiste al contrario nel trovare una fonte di domanda. Sotto questo aspetto è bene comprendere che i cinesi non aiutano, non essendo disposti a rinunciare ai loro avanzi commerciali verso l’estero.
Le obiezioni elencate consentono anche di sgombrare il campo dalla idea ingenua secondo cui i creditori risiederebbero nel settore privato mentre i debitori si situerebbero nel settore pubblico. In realtà, dal punto di vista contabile e macroeconomico, l’intreccio è più complesso. Basti pensare che lo squilibrio tra la Germania creditrice e i paesi periferici debitori si riflette anche in una distribuzione asimmetrica delle sofferenze bancarie e della mortalità delle imprese private, che in molte zone del Sud Europa e della stessa Italia stanno raggiungendo livelli inquietanti. Ciò implica che se nel prossimo futuro in Bce dovesse prevalere il punto di vista del creditore, non solo i bilanci pubblici ma anche i bilanci delle imprese e delle banche private situate nei paesi periferici registrerebbero le perdite più ingenti.
Nel diritto romano si definiva “favor debitoris” quell’insieme di norme atte a stabilire un appropriato equilibrio tra le pretese del creditore e la pietà verso il debitore. L’odierna urgenza di ridefinire quell’equilibrio non è tuttavia questione di pietà ma di razionalità. Al punto in cui siamo giunti, continuare a imporre la logica del creditore significa creare le premesse di una nuova crisi. Se si vuole evitarla, bisogna ribaltare la logica che governa gli attuali indirizzi politici e attivare finalmente un “motore interno” dello sviluppo economico europeo. Se la Bce, le istituzioni comunitarie e i governi nazionali non si dispongono a questa inversione di marcia, il pericolo di una ulteriore recessione e di una conseguente implosione della zona euro (e al limite dello stesso mercato comune) si farà concreto, con danni facilmente prevedibili per gli stessi creditori.
Emiliano Brancaccio
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