Autore: Luigi Vinci Fonte: controlacrisi
Al pari di tutti i movimenti reali, cioè attivati da circostanze non accidentali, che siano di massa e che riscuotano ampia simpatia sociale, quello in corso da qualche tempo, a base soprattutto giovanile, che per comodità espositiva chiamerò degli “indignados”, tende a estendersi, a mettere sempre meglio a fuoco il nemico, ad alzare il tiro, a definire obiettivi non solamente di fifesa e non solamente immediati. Negli Stati Uniti, sede del nemico numero uno, la grande finanza speculativa, il movimento sta attaccando Wall Street (le quattro maggiori banche d’affari statunitensi attivano quasi il 95% dei “prodotti derivati” operanti a livello planetario, per una cifra che è 4 volte il PIL mondiale e 20 volte quello USA), parimenti esso sta premendo, con l’organizzazione di una manifestazione a Washington, sulla Casa Bianca. In Italia hanno cominciato a essere oggetto di iniziative di contestazione, oltre al governo, le istituzioni tecnocratiche fintamente neutrali, in realtà ultraliberiste e parte attiva fondamentale nella determinazione degli attacchi antisociali di governo, come la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e la Banca d’Italia. E’ molto importante: il contrasto aperto alla mistificazione tecnocratica è tanto essenziale quanto il contrasto aperto al neoliberismo, alle sue pretese di scientificità e di razionalità economica, alle sue promesse alla società, oltre che, ovviamente, ai danni che sta realizzando a spese delle maggioranze sociali e alla stessa capacità del capitalismo occidentale di riprendersi dalla crisi, anzi contribuendo a precipitarlo in una lunga depressione intervallata da cadute recessive gravi. Bene parimenti fanno gli “indignados” europei a indicare obiettivi che non siano più solo il rifiuto delle misure specifiche di governo, per esempio sul piano della scuola o delle condizioni di lavoro, a rivendicare denari per la scuola pubblica e la fine del precariato. E dunque è molto importante che sia stata affrontata la questione del debito pubblico con lo slogan “non vogliamo”, o “non dobbiamo”, “pagare il debito”.
Il senso di quest’articolo è il seguente: l’importanza del fatto che quest’obiettivo venga declinato in modo credibile ed efficace. In condizioni che tendano, per dire, alla precipitazione di un processo rivoluzionario può bastare una formulazione di massima degli obiettivi (“pane, pace e terra”, nella Rivoluzione d’Ottobre), poiché i temi che la formulazione tocca sono rinviati quanto a soluzione alla vittoria strategica della conquista del potere politico. In condizioni come le nostre, lontane anni luce da una rivoluzione, comunque si voglia pensarla, occorre invece la definizione e l’articolazione migliori possibile degli obiettivi. E’ facile parlare di “recinti” dai quali uscire, magari abbattendoli in sede retorica, assai più difficile riuscire davvero a farlo, quindi riuscire a delineare il percorso di quest’“uscita” con qualche anticipazione sensata in sede di ragionamento. Intanto, allora, non c’è da farsi illusioni: è vero che il lato giovanile della mobilitazione sta crescendo in quantità e qualità, è vero che segmenti crescenti di proletariato vengono attivandosi, è vero che c’è una mobilitazione democratica di una certa estensione, ecc. ecc., ma è pure vero che è una minoranza ridotta delle classi subalterne a mobilitarsi in Italia e in Europa, che gli scioperi generali coinvolgono in Italia solo una parte delle grandi fabbriche, una parte più estesa del pubblico impiego e poi basta, ciò che fa in tutto il 20% al massimo della forza lavoro attiva. E’ vero che alla crescita della mobilitazione, che in ogni caso c’è, possono unirsi precipitazioni larghe, ma è anche vero che le difficoltà sono enormi. Credo che sia inutile riassumerle. E’ vero che istituzioni che gestiscono l’Unione Europea stanno macinando la democrazia parlamentare senza quasi reazione né politica né sociale. Chi disponga quindi di notorietà pubblica e possibilità di accesso ai media dovrebbe porre dei ragionamenti che aiutino il movimento a crescere, a essere sempre più efficace, in primo luogo a resistere adeguatamente, non dilettarsi a spararle grosse. Ma che la sinistra politica italiana non sia granché lo sappiamo da tempo: giova solo sottolineare come lo si debba molto al profilo narcisistico e autoreferenziale di troppi suoi esponenti.
Il tema del non pagamento del debito pubblico richiede intanto che si capisca se significa che il debito non deve essere pagato ai portatori dei suoi titoli oppure che non deve essere pagato dai giovani, dai lavoratori, dai pensionati, dalle donne, insomma dalla grande maggioranza della popolazione. Non è la stessa cosa. Queste due alternative sono di scuola: in concreto ne esiste anche una terza, data dalla seconda più da una riduzione rilevante del debito da pagare ai portatori dei suoi titoli. Personalmente penso che la “giusta linea” sia in questa terza alternativa; se concretamente non ci si riesce, a parte l’agitarla si tratterebbe a mio avviso di puntare sulla seconda.
La prima alternativa (il debito non deve essere pagato, punto) sostanzialmente manca di condizioni di fattibilità, e se ne esistessero sarebbe pericolosissima dal punto di vista delle convenienze materiali della maggioranza della popolazione. Intanto richiederebbe condizioni di prefallimento dello stato, dalle quali l’Italia è lontanissima semplicemente perché il fallimento dello stato significherebbe che non esistono più né patrimonio pubblico né patrimonio privato né, dentro a quest’ultimo, risparmio privato da eventualmente rastrellare. Ma il risparmio privato italiano è il secondo in Europa, davanti c’è solo quello tedesco, e sia il patrimonio pubblico che quello privato sono giganteschi. L’Italia in questa sede, decisiva, è distante anni luce dalla Grecia: questo paese è davvero al collasso. Poi occorre ricordare come quasi metà del debito pubblico italiano sia in mano non semplicemente a banche italiane ma, mediante il mercato secondario dei titoli pubblici, ai risparmiatori italiani, la cui grande massa è data da lavoratori e da pensionati (sono i loro risparmi sui redditi di lavoro). In terzo luogo non è che quei paesi dell’UE (in primo luogo, Francia e Germania) nelle cui banche sono i titoli pubblici italiani (un’altra quasi metà del debito pubblico italiano) se ne starebbero a guardare, ma la farebbero pagare all’Italia (ovvero alla sua popolazione) in modo devastante. Ancora, dichiarare di non intendere pagare il debito significa uscire dall’euro e tornare alla lira: quindi subire un’inflazione a due cifre, la distruzione dei risparmi e delle pensioni, un nuovo indebitamento che balza alle stelle, sulla scia del pagamento (che inoltre verrà richiesto cash) delle importazioni (la nostra economia dipende dalle importazioni in fatto di energia e cibo). E’ anche dubbio, infine, che questa prima alternativa possa essere praticata grazie a un’autonoma decisione italiana: non bisogna dimenticare che l’Italia non ha sovranità monetaria, essa è “spostata” sull’UE. Questo significa che le riserve italiane in oro e valuta (quelle in oro sono le quarte al mondo) sono controllate e in ultima istanza gestite (a norma di Trattato di Maastricht) dalla Banca Centrale Europea (perciò il loro utilizzo deve passare per l’ok della BCE): e un loro congelamento sarebbe una catastrofe per la nostra economia (che, come già scritto, dipende dalle importazioni di risorse vitali). Quindi il fallimento dello stato o il non pagamento stesso tout court del debito non potrebbe non essere contrattato a livello europeo. Campa cavallo… e con quale esito?
Sicché una sinistra seria, cioè di affettivo ausilio ai movimenti di lotta, dovrebbe non solo guardarsi dall’iperchiacchiera ma dovrebbe impegnarsi, dato il frangente sociale e politico, oltre che economico, del nostro paese, assolutamente drammatico, nel proporre al popolo, e prima di tutto ai lavoratori e all’universo giovanile, un itinerario al tempo stesso realistico e audace per la sua salvezza. Così dichiarò Gramsci ai fascisti che alla Camera dei Deputati lo sbeffeggiavano e interrompevano, che loro, quegli antenati dei berlusconiani e dei leghisti, culo e camicia con i rapinatori borghesi del tempo, avrebbero portato l’Italia alla rovina, e sarebbe toccato ai comunisti di salvarla. Oggi sostanzialmente vale la stessa cosa.
La seconda alternativa significa, molto semplicemente, che a pagare il debito debba essere la ricchezza accumulata dalla grande borghesia, sia essa in immobili, titoli sul debito pubblico, altre proprietà. Inoltre che questo non debba essere finto, cioè ridursi a una patrimoniale una tantum, e neppure, ancora, a un prelievo fiscale di una qualche percentuale a una cifra una volta l’anno. Il debito pubblico dovrebbe invece essere accorpato alla proprietà patrimoniale di ogni individuo di questa fetta di società in una percentuale data (il 20%, il 30%) rispetto all’entità del patrimonio stesso, venendo dunque a integrarne, o a costituirne ex novo, la passività. Non si dimentichi che è in questa sede della società che si annida la totalità della grande evasione fiscale: l’operazione sarebbe anche un modo per cominciare finalmente a colpire anche questa forma di furto allo stato e, per essa, alla maggioranza della popolazione. In questo gran parte del debito pubblico semplicemente scomparirebbe. Tra l’altro nessuno ne soffrirebbe: i ricchi dovrebbero solo comperarsi qualche villa, o qualche “barca”, e qualche SUV di meno, molti di loro non dovrebbero neppure rinunciarvi. L’operazione dispone di diverse possibilità di modulazione, anche prevedere una restituzione parziale di una parte del prelievo, a lunghissima distanza (20 o 30 anni) e a condizione che il bilancio dello stato sia nel frattempo andato a posto, ecc. Ovviamente è un’operazione che può essere unita ad altre: oltre che a una tassazione del tipo Tobin Tax di una parte delle attività finanziarie, anche un prelievo sui guadagni delle banche. Occorre però avere in chiaro come una tale misura dovrebbe avere carattere fortemente selettivo circa la composizione di questi guadagni e circa le banche stesse (cioè colpire solo quelli i guadagni speculativi delle banche private), inoltre considerare come molta parte del sistema bancario europeo, un po’ meno quello italiano, però solo un po’ meno, si caratterizzi per una riduzione cospicua delle liquidità legalmente a disposizione del prestito a famiglie e a imprese (molte banche sono cariche di titoli “tossici” o il cui valore di mercato è calato) e per una crescente difficoltà dello scambio interbancario: e realizzare un’operazione che facilmente aggraverebbe questa situazione incrementerebbe la tendenza, già fortemente in atto, a una caduta recessiva dell’economia. Lo stato di conseguenza dovrebbe intervenire a rifinanziare le banche (come d’altronde è già stato fatto negli Stati Uniti e in più paesi dell’Unione Europea): tuttavia ciò insisterebbe sul debito pubblico (come d’altronde è accaduto in più paesi ecc.) facendolo salire significativamente. Dunque una tale operazione, in breve, potrebbe essere realizzata senza danno solo alla condizione della nazionalizzazione di interi comparti bancari e della fine delle imposizioni dal lato dell’UE a proposito di rapidi rientri del debito pubblico dei paesi membri al di sotto del 60% dei loro PIL. Torna così il ragionamento per il quale ci sono obiettivi che possono essere opportunamente dichiarati (come questi due), per fare chiarezza nella gente, ma che non è certamente agevole e ancor meno è immediato conquistarli. Occorrerebbe in questo senso molto più di quanto oggi non sia in termini di mobilitazione sociale, e nell’intera UE. Occorrerebbe molto più di quanto oggi non sia in termini di crisi dei suoi sistemi politici. In ultimo non va dimenticato che il debito pubblico può essere vigorosamente abbattuto attraverso l’alienazione (che però va imposta alla BCE, e all’UE) di parte della riserva aurea, inoltre di parte del patrimonio immobiliare pubblico, spesso inutilizzato e che va in malora (si tratterebbe però, credo, di evitare la fine concreta delle cartolarizzazioni di qualche tempo fa: gli acquirenti, senz’altro a Milano, ma non solo, degli immobili INPS e INAIL sono risultati a larghissima maggioranza fiduciari di mafia, ndrangheta e camorra…).
L’integrazione alla seconda alternativa configurato nella terza risiede in un’operazione che la mobilitazione greca contro il massacro del suo popolo e del suo paese decretato dal governo di destra tedesco a dal versante dei gestori dell’UE sta ponendo da qualche tempo al centro della sua sua denuncia e delle sue rivendicazioni: si tratta di quegli “audit”, (in sostanza, di quella ricerca e di quell’inchiesta di massa) che vanno a individuare personaggi e proprietari o top management di imprese che nella speculazione prima e nel corso della crisi hanno solo continuato ad arricchirsi, in modo da farne i bersagli speciali del prelievo, non solo fiscale ma di parte più o meno congrua dei loro patrimoni (anzi nel caso, tutt’altro che raro, di illegalità, portandogli via tutto e mettendoli in galera). Giova sottolineare come si tratti di un’iniziativa condotta dalle forze tradizionalmente o recentemente organizzate del movimento in corso: non solo le autorità istituzionali nulla stanno facendo in questo senso, il perché si capisce da sé, ma anche se lo volessero non sarebbero attrezzate a farlo; quindi occorre sapere che per fare in Italia gli “audit” necessita arrivare a un livello qualitativo greco della mobilitazione sociale. Si può, ma non è facilissimo.
Al pari di tutti i movimenti reali, cioè attivati da circostanze non accidentali, che siano di massa e che riscuotano ampia simpatia sociale, quello in corso da qualche tempo, a base soprattutto giovanile, che per comodità espositiva chiamerò degli “indignados”, tende a estendersi, a mettere sempre meglio a fuoco il nemico, ad alzare il tiro, a definire obiettivi non solamente di fifesa e non solamente immediati. Negli Stati Uniti, sede del nemico numero uno, la grande finanza speculativa, il movimento sta attaccando Wall Street (le quattro maggiori banche d’affari statunitensi attivano quasi il 95% dei “prodotti derivati” operanti a livello planetario, per una cifra che è 4 volte il PIL mondiale e 20 volte quello USA), parimenti esso sta premendo, con l’organizzazione di una manifestazione a Washington, sulla Casa Bianca. In Italia hanno cominciato a essere oggetto di iniziative di contestazione, oltre al governo, le istituzioni tecnocratiche fintamente neutrali, in realtà ultraliberiste e parte attiva fondamentale nella determinazione degli attacchi antisociali di governo, come la Commissione Europea, la Banca Centrale Europea e la Banca d’Italia. E’ molto importante: il contrasto aperto alla mistificazione tecnocratica è tanto essenziale quanto il contrasto aperto al neoliberismo, alle sue pretese di scientificità e di razionalità economica, alle sue promesse alla società, oltre che, ovviamente, ai danni che sta realizzando a spese delle maggioranze sociali e alla stessa capacità del capitalismo occidentale di riprendersi dalla crisi, anzi contribuendo a precipitarlo in una lunga depressione intervallata da cadute recessive gravi. Bene parimenti fanno gli “indignados” europei a indicare obiettivi che non siano più solo il rifiuto delle misure specifiche di governo, per esempio sul piano della scuola o delle condizioni di lavoro, a rivendicare denari per la scuola pubblica e la fine del precariato. E dunque è molto importante che sia stata affrontata la questione del debito pubblico con lo slogan “non vogliamo”, o “non dobbiamo”, “pagare il debito”.
Il senso di quest’articolo è il seguente: l’importanza del fatto che quest’obiettivo venga declinato in modo credibile ed efficace. In condizioni che tendano, per dire, alla precipitazione di un processo rivoluzionario può bastare una formulazione di massima degli obiettivi (“pane, pace e terra”, nella Rivoluzione d’Ottobre), poiché i temi che la formulazione tocca sono rinviati quanto a soluzione alla vittoria strategica della conquista del potere politico. In condizioni come le nostre, lontane anni luce da una rivoluzione, comunque si voglia pensarla, occorre invece la definizione e l’articolazione migliori possibile degli obiettivi. E’ facile parlare di “recinti” dai quali uscire, magari abbattendoli in sede retorica, assai più difficile riuscire davvero a farlo, quindi riuscire a delineare il percorso di quest’“uscita” con qualche anticipazione sensata in sede di ragionamento. Intanto, allora, non c’è da farsi illusioni: è vero che il lato giovanile della mobilitazione sta crescendo in quantità e qualità, è vero che segmenti crescenti di proletariato vengono attivandosi, è vero che c’è una mobilitazione democratica di una certa estensione, ecc. ecc., ma è pure vero che è una minoranza ridotta delle classi subalterne a mobilitarsi in Italia e in Europa, che gli scioperi generali coinvolgono in Italia solo una parte delle grandi fabbriche, una parte più estesa del pubblico impiego e poi basta, ciò che fa in tutto il 20% al massimo della forza lavoro attiva. E’ vero che alla crescita della mobilitazione, che in ogni caso c’è, possono unirsi precipitazioni larghe, ma è anche vero che le difficoltà sono enormi. Credo che sia inutile riassumerle. E’ vero che istituzioni che gestiscono l’Unione Europea stanno macinando la democrazia parlamentare senza quasi reazione né politica né sociale. Chi disponga quindi di notorietà pubblica e possibilità di accesso ai media dovrebbe porre dei ragionamenti che aiutino il movimento a crescere, a essere sempre più efficace, in primo luogo a resistere adeguatamente, non dilettarsi a spararle grosse. Ma che la sinistra politica italiana non sia granché lo sappiamo da tempo: giova solo sottolineare come lo si debba molto al profilo narcisistico e autoreferenziale di troppi suoi esponenti.
Il tema del non pagamento del debito pubblico richiede intanto che si capisca se significa che il debito non deve essere pagato ai portatori dei suoi titoli oppure che non deve essere pagato dai giovani, dai lavoratori, dai pensionati, dalle donne, insomma dalla grande maggioranza della popolazione. Non è la stessa cosa. Queste due alternative sono di scuola: in concreto ne esiste anche una terza, data dalla seconda più da una riduzione rilevante del debito da pagare ai portatori dei suoi titoli. Personalmente penso che la “giusta linea” sia in questa terza alternativa; se concretamente non ci si riesce, a parte l’agitarla si tratterebbe a mio avviso di puntare sulla seconda.
La prima alternativa (il debito non deve essere pagato, punto) sostanzialmente manca di condizioni di fattibilità, e se ne esistessero sarebbe pericolosissima dal punto di vista delle convenienze materiali della maggioranza della popolazione. Intanto richiederebbe condizioni di prefallimento dello stato, dalle quali l’Italia è lontanissima semplicemente perché il fallimento dello stato significherebbe che non esistono più né patrimonio pubblico né patrimonio privato né, dentro a quest’ultimo, risparmio privato da eventualmente rastrellare. Ma il risparmio privato italiano è il secondo in Europa, davanti c’è solo quello tedesco, e sia il patrimonio pubblico che quello privato sono giganteschi. L’Italia in questa sede, decisiva, è distante anni luce dalla Grecia: questo paese è davvero al collasso. Poi occorre ricordare come quasi metà del debito pubblico italiano sia in mano non semplicemente a banche italiane ma, mediante il mercato secondario dei titoli pubblici, ai risparmiatori italiani, la cui grande massa è data da lavoratori e da pensionati (sono i loro risparmi sui redditi di lavoro). In terzo luogo non è che quei paesi dell’UE (in primo luogo, Francia e Germania) nelle cui banche sono i titoli pubblici italiani (un’altra quasi metà del debito pubblico italiano) se ne starebbero a guardare, ma la farebbero pagare all’Italia (ovvero alla sua popolazione) in modo devastante. Ancora, dichiarare di non intendere pagare il debito significa uscire dall’euro e tornare alla lira: quindi subire un’inflazione a due cifre, la distruzione dei risparmi e delle pensioni, un nuovo indebitamento che balza alle stelle, sulla scia del pagamento (che inoltre verrà richiesto cash) delle importazioni (la nostra economia dipende dalle importazioni in fatto di energia e cibo). E’ anche dubbio, infine, che questa prima alternativa possa essere praticata grazie a un’autonoma decisione italiana: non bisogna dimenticare che l’Italia non ha sovranità monetaria, essa è “spostata” sull’UE. Questo significa che le riserve italiane in oro e valuta (quelle in oro sono le quarte al mondo) sono controllate e in ultima istanza gestite (a norma di Trattato di Maastricht) dalla Banca Centrale Europea (perciò il loro utilizzo deve passare per l’ok della BCE): e un loro congelamento sarebbe una catastrofe per la nostra economia (che, come già scritto, dipende dalle importazioni di risorse vitali). Quindi il fallimento dello stato o il non pagamento stesso tout court del debito non potrebbe non essere contrattato a livello europeo. Campa cavallo… e con quale esito?
Sicché una sinistra seria, cioè di affettivo ausilio ai movimenti di lotta, dovrebbe non solo guardarsi dall’iperchiacchiera ma dovrebbe impegnarsi, dato il frangente sociale e politico, oltre che economico, del nostro paese, assolutamente drammatico, nel proporre al popolo, e prima di tutto ai lavoratori e all’universo giovanile, un itinerario al tempo stesso realistico e audace per la sua salvezza. Così dichiarò Gramsci ai fascisti che alla Camera dei Deputati lo sbeffeggiavano e interrompevano, che loro, quegli antenati dei berlusconiani e dei leghisti, culo e camicia con i rapinatori borghesi del tempo, avrebbero portato l’Italia alla rovina, e sarebbe toccato ai comunisti di salvarla. Oggi sostanzialmente vale la stessa cosa.
La seconda alternativa significa, molto semplicemente, che a pagare il debito debba essere la ricchezza accumulata dalla grande borghesia, sia essa in immobili, titoli sul debito pubblico, altre proprietà. Inoltre che questo non debba essere finto, cioè ridursi a una patrimoniale una tantum, e neppure, ancora, a un prelievo fiscale di una qualche percentuale a una cifra una volta l’anno. Il debito pubblico dovrebbe invece essere accorpato alla proprietà patrimoniale di ogni individuo di questa fetta di società in una percentuale data (il 20%, il 30%) rispetto all’entità del patrimonio stesso, venendo dunque a integrarne, o a costituirne ex novo, la passività. Non si dimentichi che è in questa sede della società che si annida la totalità della grande evasione fiscale: l’operazione sarebbe anche un modo per cominciare finalmente a colpire anche questa forma di furto allo stato e, per essa, alla maggioranza della popolazione. In questo gran parte del debito pubblico semplicemente scomparirebbe. Tra l’altro nessuno ne soffrirebbe: i ricchi dovrebbero solo comperarsi qualche villa, o qualche “barca”, e qualche SUV di meno, molti di loro non dovrebbero neppure rinunciarvi. L’operazione dispone di diverse possibilità di modulazione, anche prevedere una restituzione parziale di una parte del prelievo, a lunghissima distanza (20 o 30 anni) e a condizione che il bilancio dello stato sia nel frattempo andato a posto, ecc. Ovviamente è un’operazione che può essere unita ad altre: oltre che a una tassazione del tipo Tobin Tax di una parte delle attività finanziarie, anche un prelievo sui guadagni delle banche. Occorre però avere in chiaro come una tale misura dovrebbe avere carattere fortemente selettivo circa la composizione di questi guadagni e circa le banche stesse (cioè colpire solo quelli i guadagni speculativi delle banche private), inoltre considerare come molta parte del sistema bancario europeo, un po’ meno quello italiano, però solo un po’ meno, si caratterizzi per una riduzione cospicua delle liquidità legalmente a disposizione del prestito a famiglie e a imprese (molte banche sono cariche di titoli “tossici” o il cui valore di mercato è calato) e per una crescente difficoltà dello scambio interbancario: e realizzare un’operazione che facilmente aggraverebbe questa situazione incrementerebbe la tendenza, già fortemente in atto, a una caduta recessiva dell’economia. Lo stato di conseguenza dovrebbe intervenire a rifinanziare le banche (come d’altronde è già stato fatto negli Stati Uniti e in più paesi dell’Unione Europea): tuttavia ciò insisterebbe sul debito pubblico (come d’altronde è accaduto in più paesi ecc.) facendolo salire significativamente. Dunque una tale operazione, in breve, potrebbe essere realizzata senza danno solo alla condizione della nazionalizzazione di interi comparti bancari e della fine delle imposizioni dal lato dell’UE a proposito di rapidi rientri del debito pubblico dei paesi membri al di sotto del 60% dei loro PIL. Torna così il ragionamento per il quale ci sono obiettivi che possono essere opportunamente dichiarati (come questi due), per fare chiarezza nella gente, ma che non è certamente agevole e ancor meno è immediato conquistarli. Occorrerebbe in questo senso molto più di quanto oggi non sia in termini di mobilitazione sociale, e nell’intera UE. Occorrerebbe molto più di quanto oggi non sia in termini di crisi dei suoi sistemi politici. In ultimo non va dimenticato che il debito pubblico può essere vigorosamente abbattuto attraverso l’alienazione (che però va imposta alla BCE, e all’UE) di parte della riserva aurea, inoltre di parte del patrimonio immobiliare pubblico, spesso inutilizzato e che va in malora (si tratterebbe però, credo, di evitare la fine concreta delle cartolarizzazioni di qualche tempo fa: gli acquirenti, senz’altro a Milano, ma non solo, degli immobili INPS e INAIL sono risultati a larghissima maggioranza fiduciari di mafia, ndrangheta e camorra…).
L’integrazione alla seconda alternativa configurato nella terza risiede in un’operazione che la mobilitazione greca contro il massacro del suo popolo e del suo paese decretato dal governo di destra tedesco a dal versante dei gestori dell’UE sta ponendo da qualche tempo al centro della sua sua denuncia e delle sue rivendicazioni: si tratta di quegli “audit”, (in sostanza, di quella ricerca e di quell’inchiesta di massa) che vanno a individuare personaggi e proprietari o top management di imprese che nella speculazione prima e nel corso della crisi hanno solo continuato ad arricchirsi, in modo da farne i bersagli speciali del prelievo, non solo fiscale ma di parte più o meno congrua dei loro patrimoni (anzi nel caso, tutt’altro che raro, di illegalità, portandogli via tutto e mettendoli in galera). Giova sottolineare come si tratti di un’iniziativa condotta dalle forze tradizionalmente o recentemente organizzate del movimento in corso: non solo le autorità istituzionali nulla stanno facendo in questo senso, il perché si capisce da sé, ma anche se lo volessero non sarebbero attrezzate a farlo; quindi occorre sapere che per fare in Italia gli “audit” necessita arrivare a un livello qualitativo greco della mobilitazione sociale. Si può, ma non è facilissimo.
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