Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 22 dicembre 2012

Così vicini, così lontani. Le ragioni di un distacco.

"Lettrici e lettori, collaboratrici e collaboratori ci chiedono perché abbiamo mollato". Sedici compagni del manifesto spiegano i motivi che li hanno portati a restare fuori dalla nuova cooperativa.
- ilmanifesto - 22.12.2012
Il manifesto è stata un'avventura straordinaria. L'invenzione di una nuova forma della politica, quando ancora nessuno immaginava che politica e comunicazione sarebbero diventate la stessa cosa. L'esercizio quotidiano di un pensiero critico, in un sistema dell'informazione che di pensiero critico non abbonda. La tessitura incessante di una rete di relazioni ricchissima, con i lettori, i collaboratori, i sostenitori. La costruzione di uno spazio in cui un giovane sconosciuto, un operaio di Marghera, un collettivo femminista erano autorizzati a parlare quanto un intellettuale blasonato. La pratica quotidiana del confronto, talvolta ruvido ma sempre interessato alle differenze in gioco, fra la generazione dei fondatori espulsi dal Pci, quella del '68, del '77 e del femminismo, quella della Pantera e di Genova. Il luogo di frontiera libero da dove abbiamo avuto il privilegio di attraversare, raccontare, interpretare quarant'anni densissimi di storia politica e culturale del mondo e della sinistra.
Tutto questo, e molto più di tutto questo, sotto la testatina «quotidiano comunista». Che non è mai stata, per nessuno di noi - a cominciare da Rossanda e Parlato, da sempre schierati per un giornale di ricerca e di innovazione, non di partito ma di parte - un'etichetta identitaria, né un programma ideologico, né tantomeno una tessera. E' stata e resta, fondamentalmente, il segno di due cose. La prima: che l'orizzonte del comunismo deve restare aperto, non come speranza per il futuro ma come contraddizione del presente, contro la volontà di potenza del capitalismo, contro la violenza sui corpi e sulle vite dei poteri vecchi e nuovi, contro i manipolatori delle menti e i colonizzatori dell'immaginario. La seconda: che fra quella testatina del giornale e la vita del gruppo che lo produce debba esserci una qualche coerenza. Non riconducibile solo alla formula proprietaria, pure importantissima, e all'egualitarismo salariale. Bensì ad uno stile delle relazioni fra noi, consapevole che quel «noi» è un soggetto prezioso e delicato, da trattare con la stessa cura dell'oggetto-giornale da mandare in edicola ogni giorno. Non dunque, come recita uno slogan oggi caro alla Direzione, un manifesto «oltre le nostre persone», ma le nostre persone nella scommessa del manifesto.
Lettrici e lettori, collaboratrici e collaboratori ci chiedono perché abbiamo mollato. Ce lo chiedono con dispiacere, talvolta sorpresi perché non capiscono, talvolta irritati come se avessimo tradito un'aspettativa o una certezza, una missione o un dovere di resistenza. Hanno qualche ragione, perché avremmo dovuto dire più, e qualche torto, perché anche i silenzi parlano, ad esempio di un tentativo di non inasprire i toni, o del bisogno di elaborare una perdita. La risposta, comunque, è semplice: perché poco o nulla di quello che per noi è stato ed è il manifesto sopravviveva ormai in via Bargoni. Il che non significa pensare che il manifesto sia finito per sempre. Significa separarsi da un manifesto che in questo momento non è più quello che, fino all'ultimo, ci siamo spesi per tenere in vita e costruire.
Quando ci si separa, si sa che spesso volano gli stracci, e con gli stracci molte bugie. Non staremo a contestarle o smentirle una per una. Su qualcuna però non possiamo tacere.
Non è vero che siano emerse fra noi posizioni politiche e di politica editoriale incompatibili. Né che ci sia stato uno scontro tra fautori di un "giornale-partito" contro un "giornale-giornale". E' vero piuttosto che negli ultimi anni è stato programmaticamente eliminato il terreno stesso del confronto politico, culturale ed editoriale al nostro interno. Qualsiasi discussione è stata ritenuta superflua e perfino ostativa alla fattura di un giornale sempre più omologato, al di là dei singoli contributi pure spesso eccellenti, alla stampa mainstream, alla sua agenda, alle sue tematizzazioni; sempre meno sperimentale nella formula editoriale (rapporto carta-online, rapporto quotidiano-supplementi etc.); sempre più ridotto da intelligenza collettiva a macchina produttiva veicolo di interventi esterni. Questa ostinata chiusura della discussione ci ha oltretutto impedito di confrontarci con il dato duro di un forte calo delle vendite, sempre attribuito genericamente alla crisi della carta stampata e mai analizzato come sintomo specifico di una perdita di autorevolezza e di efficacia della testata.
Non è vero che la liquidazione coatta sia stata imposta dal Cda uscente, segnatamente nelle persone del suo presidente Valentino Parlato e dell'amministratore delegato Emanuele Bevilacqua. La liquidazione era l'unica opzione possibile per evitare la procedura fallimentare, tutelando i diritti e gli ammortizzatori sociali dei soci-lavoratori; lo sapevamo tutti, e l'abbiamo approvata tutti, salvo un paio di eccezioni. Essa non ci avrebbe impedito di tentare fin da subito - ormai un anno fa - di mettere a punto un piano di riacquisto della testata, con l'aiuto dei lettori e dei circoli, e di ridefinizione della cooperativa e della redazione secondo criteri organici a un piano di riforma del prodotto: per aggiornarne e rilanciarne il senso politico-editoriale, che si era appannato negli ultimi anni, e per risanare una gestione economica sbagliata, di cui tutti portiamo qualche responsabilità. Purtroppo è stata seguita un'altra strada. Nessun piano di riacquisto, mentre la cooperativa e la redazione venivano lasciati a un'emorragia spontanea di competenze professionali e di funzioni, senza nulla fare per tamponarla, e anzi giocando su sottoutilizzazioni e prepensionamenti - questi ultimi nient'affatto «scelti», come ora si dice, bensì accettati per ridurre i costi del lavoro, e per giunta additati come posizioni di privilegio e fatti oggetto di una brutta campagna «rottamatoria» - per sfrondare il giornale da posizioni non allineate.
Non è vero dunque che la nuova cooperativa nasca dalla differenza algebrica fra l'innocenza e la buona volontà di quanti «hanno tenuta aperta la casa» e «il menefrighismo di chi ha lasciato il giornale in un momento difficile». Essa è piuttosto il frutto dell'avocazione a sé, da parte della Direzione e delle rappresentanze sindacali, di funzioni di rappresentanza della proprietà collettiva del giornale che non sono di loro pertinenza. Fino al rifiuto di eleggere un organismo garante della trasparenza del delicato processo di transizione ed eventualmente di vendita della testata.
Altro che menefreghismo, esili volontari e porte sbattute. Su questi e su altri punti, di metodo e di sostanza, abbiamo continuato fino alla fine a proporre strade alternative e a dare battaglia, senza mai far mancare il nostro contributo gratuito di scrittura malgrado i dissensi, peraltro pubblicamente espressi sulle pagine del giornale ma mai raccolti, sempre respinti e più volte denigrati.
Sono queste le ragioni che ci hanno persuasi, non senza dolore, a non partecipare alla formazione della nuova cooperativa, di cui non ci è chiara né la prospettiva politico-editoriale né la discontinuità amministrativo-gestionale. E che nasce da una consapevole messa in mora, per non dire da un sostanziale disprezzo, di quello stile delle nostre relazioni che dicevamo all'inizio. Se ne può trarre la conclusione che noi ci siamo allontanati dal manifesto: ma solo dopo che il manifesto, «questo» manifesto, si era allontanato da noi. Quanto al domani, è tutto da scrivere.

*** Loris Campetti, Mariuccia Ciotta, Marco Cinque, Astrit Dakli, Ida Dominijanni, Sara Farolfi, Tiziana Ferri, Marina Forti, Maurizio Matteuzzi, Angela Pascucci, Francesco Piccioni, Gabriele Polo, Doriana Ricci, Miriam Ricci, Roberto Silvestri, Roberto Tesi (Galapagos)
LA RISPOSTA DELLA DIREZIONE
Dispiace che le compagne e i compagni firmatari di questa lettera non abbiano voluto raccogliere il significato dell'articolo "Una nuova storia", pubblicato a nome di tutti noi. Stupisce l'affermazione sulla "programmatica eliminazione" del conflitto politico. Molte delle firme in coda a questa lettera hanno connotato la prima pagina del manifesto sempre, e nessuno può confermarlo meglio dei nostri lettori. Direzione e rappresentanze sindacali non hanno "avocato" alcun potere. Ogni cosa è stata decisa con il voto del collettivo. Chi propone strade alternative ha avuto, e ha ancora, la possibilità di esprimersi. Stando dentro, non fuori il giornale. E confrontandosi, in modo aperto e franco, come abbiamo sempre fatto nella nostra storia.

Ingroia a Cambiare si può: venite anche voi al Capranica

- fonte -
ingroiadi Checchino Antonini
«Accogliamo l'invito di "Facciamo presto" e quindi aspettiamo "Cambiare si può", insieme a tutte le soggettività che hanno animato gli appuntamenti svoltisi dal primo dicembre ad oggi nelle diverse città italiane, al teatro Capranica di Roma, dove ci incontreremo venerdì per confrontarci sulla sfida ormai imminente, prima che elettorale, soprattutto politica e civile che attende il nostro Paese».
Così, in una nota congiunta Ingroia e De Magistris, ex pm di Palermo l'uno e sindaco arancione di Napoli l'altro, entrambi tra i punti di riferimento per la costituzione del quarto polo, la lista rosso-arancione autonoma dal Pd e antitetica al montismo.
«Un Paese che merita una strada alternativa sia al berlusconismo che al montismo - scrivono - che chiede una nuova stagione sul piano dei diritti sociali e della legalità, che vuole una risposta al tema della questione morale, che desidera una piena attuazione della Costituzione ed in particolare del suo articolo 1 che riconosce il diritto al lavoro come fondamento della nostra democrazia e che, soprattutto, vuole partecipare alle scelte politiche e di governo che riguardano ciascuna e ciascuno di noi.
In questo momento, infatti, occorre creare un fronte unitario di tutte quelle cittadine e di tutti quei cittadini che, insieme alle associazioni e ai movimenti, vogliono realizzare un'alternativa di cambiamento rispetto alle politiche montiane e alle logiche masso-mafiose, preferendo la giustizia sociale, la partecipazione democratica, i beni comuni e la tutela dell'ambiente, la centralità della persona"».
L'invito ufficiale a "Cambiare si può", risponde alla mossa analoga dei promotori dell'assemblea del primo dicembre e chiarisce la convergenza dei vari appelli e dei percorsi che, tra venerdì e sabato, porteranno al varo della lista dei non allineati, il polo della sinistra d'alternativa che vive una fase di dibattito vivace ma compressa dai tempi stretti impressi dalla crisi alla campagna elettorale. Domani si riunirà anche la direzione del Pdci, partito dentro cui si agitano le energie che non vorrebbero immolarsi all'agenda Monti.
«La costruzione del Quarto polo con Ingroia candidato Presidente - dice anche il leader Prc Ferrero - sta sollevando molte aspettative tra chi vuole un rovesciamento delle politiche attuate da Monti e sostenute in varie forme dal centro destra e dal centro sinistra. Un quarto polo che si presenti autonomamente alle elezioni e che ponga al centro il ripristino della sovranità democratica del popolo, a partire dalla piena attuazione della Costituzione repubblicana e dall'abbandono delle politiche basate sui sacrifici, può essere la vera novità delle prossime elezioni. Un quarto polo autonomo per aprire l'alternativa alle politiche di austerità e a chi le sostiene. In Italia non vi sono solo montiani e grillini, vi è chi tra l'austerità e l'insulto vuole costruire l'alternativa sociale e democratica».

Lettera alle compagne e ai compagni di Rifondazione Comunista

- rifondazione -
ferreropaolodi Paolo Ferrero
Care Compagne e Cari Compagni,
come deliberato in varie riunioni della Direzione nazionale e del Comitato Politico Nazionale, stiamo lavorando per la costruzione di una lista unitaria di sinistra che si presenti autonomamente alle prossime elezioni.
E’ questo un obiettivo necessario per evitare che proprio le forze che si sono opposte alle politiche del governo Monti siano escluse dal prossimo Parlamento, e con esse le ragioni dei diritti del lavoro, dell’opposizione al Fiscal Compact e alle politiche europee, della difesa del welfare. Sarebbe un fatto assai negativo per il nostro partito e per il nostro progetto politico.
Nessuna di queste forze, dall’IdV a Rifondazione Comunista, dal movimento di De Magistris ad Alba ha, da sola, la possibilità di eleggere. E’ invece evidente che una lista che tenga insieme l’arco di forze politiche, sociali e culturali che si sono opposte al governo Monti, può rappresentare un punto di riferimento reale per quanti non si riconoscono né nell’alleanza dei democratici e progressisti, né in Grillo.
Questa scelta non ha nulla a che vedere con lo scioglimento del partito o con la sua fine. Come abbiamo detto mille volte, Rifondazione Comunista è necessaria ma non sufficiente, ed in questa linea ci muoviamo.
Necessaria, quindi Rifondazione deve esserci per l’oggi e per il domani.
Non sufficiente, quindi contribuiamo alla costruzione di una lista unitaria.
Ovviamente in questo quadro, dovremo presentarci alle elezioni sotto un simbolo di coalizione, che per forza di cose non potrà coincidere con il nostro simbolo. Si tratta di una situazione presente anche in altri paesi europei – basti pensare al Izquierda Unida in Spagna, al Front de Gauche, in Francia, a Syriza in Grecia - dove i partiti comunisti o di sinistra radicale non si presentano alle elezioni con il loro simbolo ma con il simbolo della coalizione. E’ un passaggio necessario che dovremo gestire direttamente come partito, con una propaganda apposita che specifichi che Rifondazione Comunista invita a votare la lista unitaria.
Questo lavoro di costruzione della lista unitaria è tutt’ora in corso ed ha visto la nostra partecipazione attiva alle assemblee di Cambiare si può, così come abbiamo espresso una valutazione positiva sulla possibilità che sia Antonio Ingroia a svolgere la funzione di candidato presidente per il quarto polo.
Come ogni percorso unitario vi sono svariati problemi e stiamo lavorando affinché questo percorso trovi due primi momenti di sintesi nelle assemblee convocate per il 21 da Ingroia e per il 22 da “Cambiare si può”. In quel contesto si avrà una prima definizione della fisionomia del quarto polo e della lista che lo dovrà concretamente realizzare, alla quale intendiamo partecipare praticando il principio della reciprocità.
Ho ritenuto necessario rivolgervi questa lettera perché la fase è molto complicata ed in assenza del nostro giornale, vi è una seria difficoltà ad informare correttamente i compagni e le compagne su quanto sta avvenendo.
Nella convinzione di operare nella giusta direzione per la causa di tutti noi.

Cipro, il paradiso fiscale perduto

di Agenor - fonte -

La nuova crisi dell’eurozona è a Cipro. 12 mld di euro salveranno le banche che speculano sul debito greco e gli investimenti in Russia. È l’occasione per cambiare le regole sui paradisi fiscali in Europa

La crisi finanziaria di Cipro – un paese dell’area euro – è un fatto noto a tutti, ma di cui nessuno parla. E che Cipro abbia avuto nei sei mesi che si chiudono a dicembre la presidenza di turno dell’Unione Europea è rimasto praticamente segreto. Nel giugno scorso, a pochi giorni dal passaggio del testimone presidenziale, il primo ministro cipriota Demetris Christofias avanzava ufficialmente una richiesta d'aiuto all'Unione Europea per far fronte alla disastrosa situazione in cui tuttora versa il sistema bancario dell'isola. Un accordo non è ancora stato raggiunto ma, secondo indiscrezioni confermate dalla stampa specializzata, l'entità del bail-out richiesto è da capogiro. Si parla di almeno 12 miliardi di euro, circa due terzi del prodotto interno lordo dell'isola. Di questa cifra, un terzo servirebbe a coprire l'esposizione delle banche cipriote al debito ellenico, mentre i rimanenti otto miliardi servirebbero a ricapitalizzare il sistema finanziario cipriota che – come forse non tutti sanno – è ben noto nella comunità internazionale di tributaristi e consulenti finanziari come paradiso fiscale tra i migliori della zona euro.
Oltre a un trattamento fiscale di favore, Cipro offre totale segretezza per le società, così da renderne i proprietari irrintracciabili. E' possibile, quindi, che un cittadino UE, o un'impresa con sede in Italia o Germania, apra una società a Cipro e attraverso pratiche assolutamente legali e in linea con «le più ferree» direttive UE vi trasferisca assets e profitti così da essere tassati a un valore simbolico, rimanendo anonimi, e – soprattutto – dentro alla UE, dove, a differenza di altri sateterelli caraibici, la protezione della proprietà privata è assicurata da inattaccabili accordi comunitari e internazionali. Con le tasse sul reddito d'impresa al 10%, le più basse nell'Unione Europea, facili possibilità di elusione su capital gains (plusvalenze) e zero tasse su dividendi, eredità e donazioni, è facile intuire come sia possibile che la ricchezza finanziaria 'made in Cipro' posseduta da non-residenti sia triplicata nel giro di pochissimi anni e sia arrivata a valere più di 100 miliardi di euro nel 2009, ben sei volte il prodotto interno lordo.

L’io e la società, senza la politica

di Rossana Rossanda - sbilanciamoci -

È diventato di uso comune dire che la politica è stata divorata dall’economia, intendendo con questo che essa non ha più il potere di decidere su temi economici, come i conti pubblici, i movimenti dei capitali, l’ingigantimento della finanza, le direzioni di investimento. Questo è in gran parte vero, a condizione che sia chiaro che essa non è stata spossessata dei precedenti poteri da una guerra esterna o da colpo di stato interno, se ne è spossessata per sua scelta, attraverso regolari leggi dei suoi parlamenti, in genere sollecitate dai suoi esecutivi. Il primato dell’economico è stato insomma una scelta del politico, come erano stati gli accordi di Bretton Woods e il “compromesso capitale-lavoro” dopo la seconda guerra mondiale in Europa. Va ricordato perché l’antipolitica di destra e di sinistra, nella sua alterna polemica con i partiti e il notabilato che ne tiene le redini, ama dimenticarlo. Gran parte delle nuove sigle antipartito che si presentano sulla scena, non solo italiana, si considerano vergini dall’influenza del vecchio notabilato nato nel seno dei partiti o dei sindacati, dando luogo alla corruttela o, quanto meno, ai personalismi oggi imperanti.

La movenza di Alba “Facciamo esprimere tutti prima di decidere qualsiasi cosa” e, non troppo differentemente, di tutti i “Cambiare si può” e della diffidenza di molti movimenti verso qualsiasi forma di organizzazione dà per scontato che il vizio principale dei partiti o dei sindacati sia costituito non dai loro programmi ma dai loro vertici decisionali, anche quando eletti nella forma più democratica. Ogni potere superiore a un altro, anche se delegato, e dotato di una durata sia pur transitoria, diventa oppressione, sosteneva Bakunin contro Marx, che pure al di là di un sistema dei consigli non si spingeva.
Ma questa tesi, che per Bakunin portava a un anarchismo sistematico, oggi induce diverse sigle alla consultazione preliminare di tutti prima di una decisione finale presa per maggioranze, come se una società altro non fosse che l’addizione dei suoi componenti. Ma ciascuno di loro può essere bene intenzionato, e tuttavia la somma delle singole intenzioni non corrisponde all’interesse principale della società di cui essi sono membri – fra l’individuo e la società di cui fa parte non si tratta semplicemente di una diversità di grandezza, ma della distanza fra l’interesse individuale e quello di una collettività di uguali diritti, ma non di uguali bisogni e desideri.
Di qui la necessità di avere dei corpi intermedi che regolano il passaggio da bisogni e desideri dei singoli a quelli del gruppo, che si formano – come del resto anche nel singolo – dall’intessersi di interessi materiali (di classe, dei proletari e non) e immateriali (idee di società, ideologie, primato delle aristocrazie o dell’uguaglianza, in una cultura laica e inscritta nel tempo, o nel comando invariante di una religione, ecc.). L’abominio che ha colto da un trentennio a questa parte le idee di società e di giustizia – tutte catalogate nella formula negativa di “ideologie”– in favore di una maggioranza matematica dei bisogni o desideri dei più, invece che di una elaborazione degli uni e degli altri, è alla base dell’attuale confusione dei linguaggi, cui resta in comune soltanto il rifiuto di ogni verifica storica e la riduzione della democrazia a somma delle spontaneità e delle immediatezze individuali. Di qui l’odio del partito e del sindacato, come di qualsiasi forma di organizzazione che si assegni un tempo e delle regole, fondandosi da un lato su un bilancio di esperienza, cioè di storia e cultura, dall’altro su una scala di valori agganciata a una tradizione più o meno laica o religiosa, (collegate, ma difficilmente sincroniche.)
Di qui la complessità dei rapporti fra gli io e la società. Essi sono molteplici e investono soprattutto la sinistra. La destra è sempre per il principio di inuguaglianza, se non anche politica, di mezzi, di situazione, di sapere fra una persona e l’altra; anzi, non solo fra persone, ma fra paesi, il più forte è sempre presentato come quello che sottometteva il più debole per civilizzarlo. In questi giorni si celebra il cinquantenario dell’indipendenza dell’Algeria, e tutta la Francia sente il bisogno di discutere se sia giusto o no scusarsi con gli algerini per averli oppressi durante quasi un secolo e mezzo. Quando mai! Al più si può riconoscere che non bisognava affamarli, l’atto di prepotenza della colonizzazione ha mille ragioni, niente scuse e pentimenti. E poi neanche gli algerini sono stati gentili nel liberarsi da chi li aveva fatti, per oltre un secolo, schiavi e quando si sono ribellati ci sono stati otto anni di una guerra sporca.
Ma torniamo alla sinistra, che si rifà invece a un principio di uguaglianza di diritti, e – almeno in linea di possibilità – di proprietà e di valori (il rispetto interculturale). Similmente al mercato, che poggia su dati quantitativi, anch’essa si dice che la somma dei desideri dei singoli realizzerebbe quello della “società”. Al partito più partito di tutti, che è stato quello comunista del Novecento, va sostituita la maggioranza di quelli che si definiscono democratici o simpatizzanti, sono le famose primarie, ed è ovvio che non sono più l’affare interno di un gruppo politico preciso nell’analisi e nel programma, ma di chiunque si dica vagamente interessato ad esso.
Da dove è venuta questa svolta? Sicuramente dalla insufficienza di regole democratiche nei partiti, mancanza della quale peraltro non viene indicata né l’origine né la storia. Tra il partito comunista, abominato per la sua gerarchia immutabile e il Pd, concepito come assolutamente democratico, è sicuro che malgrado il fatale “centralismo democratico” il primo implicasse un flusso dal centro alle periferie, e dalle periferie al centro, sicuramente più consistente di quello nel partito attuale, che manca del tutto. Il sedicente “centralismo democratico” era detestabile, senonché non è stato sostituito dalla messa in atto di regole strette a garanzia dei diritti del singolo iscritto, ma dalla vaghezza di confini e regole di un partito d’opinione; non tenuto a nessun programma preciso. L’essere, anche, simile a un esercito in guerra – guerra di classe – lo “proteggeva” da troppe procedure che ne avrebbero diminuito l’efficacia… argomenti che conosciamo.
Ma non si è andati verso un esame più attento delle procedure, si è andati alla liquidazione del progetto di società nella quale un partito si identificava, per il quale vi si aderiva o no. Più a fondo, la preminenza che esso dichiarava al programma di società rispetto alla persona, giungendo fino a negarne la specificità, ha indotto per primo il movimento del ’68 a spostare l’accento sulla persona, finanche sulla maggiore responsabilizzazione della persona rispetto al partito o alla società. Raramente un partito socialista o comunista ha visto emergere di colpo i suoi leader carismatici come è successo ai gruppi extraparlamentari degli anni ’70. Una parte della, peraltro transitoria, simpatia suscitata da Mario Segni veniva da questo ordine di argomentazione. Via il progetto, l’idea, l’ideologia, quelli che contano sono lui o lei, amati e rispettati o incolpabili e punibili. Siamo arrivati all’estremo dei vizi della democrazia rappresentativa.
La critica alla forma partito ha portato alla superfetazione di qualcuno che non è né l’io né il noi d’un perimetro sociale, ma un personaggio costruito in gran parte sull’immagine ed espresso più da sensazioni ed emozioni che da un ragionare su concetti ben esaminati, voltati e rivoltati.
Che in Italia questa demonizzazione della politica abbia portato tutto il parlamento ad affidarsi alla “tecnicità” del governare, a mettere al primo posto le cifre, su comando dei parametri europei, non può dunque stupire. È il reciproco dell’opinione, una politica tutta contabile e monetaria: che cosa c’è di più indiscutibile che un bilancio in pareggio? Se questo comporta una devastazione nei servizi che aiutano i meno fortunati a vivere, spostarsi o curarsi, e tutti i giovani a istruirsi, non è cosa che riguardi le matematiche e il saldo finale dopo le sottrazioni. Di addizioni in entrata il bilancio pubblico ne ha poche in tutta Europa, come documentava ieri Mario Pianta (http://www.sbilanciamoci.info/Sezioni/globi/Economia-europea-sono-pessime-quelle-previsioni-16018). Se quel che è sottratto al pubblico è ceduto a poco prezzo al privato, questo ai fini contabili può apparire perfino un arricchimento del pubblico, confuso di regola con lo stato. La corposità delle vite, la fatica, il poco spazio che resta per la salute o il riposo, l’arretramento culturale non sono voci di bilancio e con la sua qualità “tecnica” non hanno a che vedere. È un’altra idea della politica rispetto a questa innovazione che la sta liquefacendo nell’effimero dell’immagine o nell’astratto della contabilità.

Facciamo il punto.

E’ possibile costruire una lista di alternativa all’attuale quadro politico
Alfonso Gianni
– Bersani pensava di avere sistemato tutto e di avere il pallino in mano. In effetti si era mosso con abilità. La mossa di fine luglio gli aveva fruttato un notevole vantaggio. Dicendo a Casini: tu organizza i moderati che io penso ai progressisti, aveva tacitato d’un botto destra e sinistra, quella interna e quella esterna. Il clamore e la netta vittoria alle primarie avevano fatto il resto. Il Pd risultava al centro di tutto. Vendola non era andato al di là del risultato che aveva avuto Bertinotti nelle prime primarie con Prodi, l’insidioso attacco di Renzi era stato rintuzzato e comunque aveva trasformato le primarie di coalizione in una competizione interna al Pd. Con il risultato collaterale, ma non trascurabile, soprattutto per il dopo, di rafforzare l’osservanza alla carta di intenti, più volte ribadita dallo stesso Vendola in polemica con Renzi. Ovvero Bersani aveva saputo usare i due suoi competitors, per farli configgere tra loro e trarne il massimo vantaggio.
Ma c’è sempre un imprevisto in politica. Questo si è presentato con il volto grigio di Monti. Mossa imprevista e che ha spiazzato lo stesso leader del Pd. In molti si sono chiesti: chi glielo fa fare a Monti che tutto sommato ha più di una ragione per potere puntare all’alto colle? Si è sottovalutata la pressione del Vaticano, che certamente non può vedere di buon occhio l’alleanza Bersani-Vendola, per quanto la carta di intenti sia moderatissima persino sui diritti e nulla dica sui matrimoni gay. Nello stesso tempo il famoso “centro” non riesce a coagularsi se non ha un punto di riferimento fuori dal pollaio. Infine non si dimentichi che Monti è uomo della Trilateral Commission, nonché di altri think thank del capitalismo mondiale, i quali vogliono andare sul sicuro per quanto riguarda l’Italia. Ovvero preferiscono che Bersani sia fortemente condizionato e spinto ad un’alleanza postelettorale con il centro, anziché restare unico padrone del campo.
L’esito di tutto ciò è ancora oscuro, ma è già evidente che il mare calmo del centrosinistra (che tra l’altro non si chiama neppure così, visto che il termine sinistra ingenera tremore di per sé) si è notevolmente increspato. Di fronte a questa situazione il Pd avrebbe di fronte due possibili strade: o quella della contrapposizione con Monti o la competizione sul suo stesso terreno. La prima strada comporterebbe una virata a sinistra. Ma questa non pare proprio nelle corde del gruppo dirigente del Pd. Del resto la notevole affermazione dei renziani qualche cosa vorrà pur dire. Resta perciò la seconda che implica un ulteriore scivolamento su posizioni moderate della coalizione presumibilmente vincente.
In questo quadro, in parte nuovo e comunque in movimento, l’ipotesi della costruzione di una lista alternativa e di sinistra non solo diventa più necessaria, ma anche possibile. Certo non si può pretendere quello che comunque non potrebbe essere. In pochi giorni non si fa né un nuovo partito né una solida coalizione. Porsi obiettivi di questa natura significa ingannare se stessi oppure prepararsi a bypassare completamente l’appuntamento elettorale lavorando nella prospettiva di tempi più lunghi. In questo modo però si lascerebbe una prateria ai grillini e si alimenterebbe l’area dell’astensione.
Conviene perciò fare di tutto per tentare la strada della costruzione di questa lista. Da quando se ne parla sono già emerse due ipotesi: quella di una lista dai contenuti nettamente antiliberisti, la cui collocazione più naturale sarà all’opposizione e quella di una lista più incentrata su temi concernenti diritti e legalità in posizione dialogante con i futuri vincitori. A me pare che solo la prima delle due ipotesi è in grado di avere successo, anche perché l’unica delle due ad avere la potenzialità di contenere anche l’altra.

DAVID LOMON (1918-21 december 2012)
Last known survivor in England of the International Brigades
 
 

venerdì 21 dicembre 2012

Mai più senza: la nuova Agenda Monti 2013

ALESSANDRO ROBECCHI –


arobecchi

E’ il regalo di Natale che molti sognano e che verrà donato anche a chi non lo vuole: l’Agenda Monti. Non si parla d’altro, non c’è oggetto più desiderato, imitato, evocato, persino falsificato e venduto abusivamente sulle bancarelle del PdL – parlandone da vivo – e del Pd. E’ il gadget che non può mancare nel bagaglio dell’uomo politico italiano di destra, centro, centrosinistra, sinistra moderata, nonché nelle filiali di banca, centri decisionali piccoli, grandi e medi. Una vera febbre. Per ricordare un simile boom di richieste bisogna riandare ai tempi del Tamagochi o del primo I-phone. Già dalla caduta del governo dei tecnici si sono formate grandi code di acquirenti, ognuno bramoso di sventolare come un trofeo la sua Agenda Monti.
Ne esistono, ovviamente, molti tipi. C’è quella lussuosa, rilegata in pelle di esodato. Ne esistono circa 300.000 esemplari, anche se in un primo tempo il governo aveva detto di averne stampate solo 65.000, poi 120.000: un piccolo imbroglio sulla tiratura. Poi esistono edizioni meno costose e raffinate. Come quella in dotazione ai dirigenti del Pd, che sostengono di tenerne sempre sottomano una copia leggermente modificata rispetto all’originale. Non manca la versione più popolare, naturalmente, in formato tascabile, dedicata ai lavoratori dipendenti, ai precari, ai salariati in genere, per i quali però l’Agenda Monti sarà obbligatoria, e dovranno adottarla volenti o nolenti, chiunque sceglieranno alle urne.
Ma quali sono le peculiarità di questo oggetto tanto desiderato e ostentato dalla classe dirigente come uno status symbol e consegnato ai cittadini come un’imposizione dell’Europa? Intanto, l’Agenda Monti non ha domeniche, né sabati: si lavora sempre, perché pause e momenti di relax sarebbero mal interpretati dai mercati. Le festività sono pochissime. Tra queste, il 17 luglio (compleanno di Angela Merkel), Sant’Anselmo protettore dei conti correnti, oltre alle date (variabili) in cui bisogna effettuare il versamento del modulo F24, dell’Iva, dell’Imu e altre sacre ricorrenze. Non mancano, come nei migliori diari scolastici dedicati ai giovani e nei calendari popolari, piccole massime, proverbi, spigolature e consigli pratici di bricolage: come tagliarsi da soli la pensione, come aumentare la disoccupazione giovanile, come prorogare i contratti precari che si era promesso di regolarizzare addirittura con una riforma. Insomma, l’Agenda Monti si configura come una sapiente via di mezzo tra il calendario di Frate Indovino e un omaggio della banca.
Ma cosa determina il clamoroso successo dell’Agenda Monti? Semplice. Intanto il fatto che nessun altro ha un’agenda. Al PdL ne hanno una sì, ma è piena di appunti con le date delle udienze, delle prescrizioni e di indirizzi dove far scappare i testimoni. Al Pd ne hanno una con molte pagine bianche: la gara d’appalto per decidere chi dovrà finire di stamparla è ancora aperta tra la Tipografia Vendola e le Arti Grafiche Casini. L’Agenda Grillo è in fase di stesura, ma già si sa che chi la prenderà in mano non potrà scriverci quello che vuole: dovrà aspettare ferree direttive da Genova. In sostanza, dunque, l’Agenda Monti è l’unica che abbiamo a disposizione e questo – insieme all’aggressivo marketing elaborato in Europa – la rende imprescindibile per la prossima legislatura. In effetti, un caso di monopolio politico-economico di cui l’antitrust dovrebbe occuparsi. Se non avesse, a sua volta, ricevuto il gentile omaggio di due Tir di Agende Monti in edizione extralusso.
Alessandro Robecchi
(19 dicembre 2012)

Ocse, così le differenze di genere frenano il Pil

di Leopoldo Tartaglia e Silvana Cappuccio
Nei giorni scorsi l’Ocse ha presentato il rapporto Chiudere il gap di genere: agire ora (Closing the Gender Gap: Act Now) relativo alle persistenti differenze nella partecipazione al mercato del lavoro, nei ruoli dirigenziali e imprenditoriali e nelle condizioni salariali per le donne nei 34 paesi membri dell’organizzazione. Il rapporto mostra come, nella media dei paesi Ocse, a parità di lavoro e di posizione professionale le donne guadagnino il 16% in meno degli uomini. Differenza che sale al 21% nelle posizioni professionali più alte. Ancora, la media della differenza salariale tra uomini e donne in famiglie con uno o più figli sale al 22%, mentre scende al 7% per le coppie senza figli.
Le donne, in generale, pagano una penalizzazione salariale per avere figli, con una punta massima del 14% in Corea del Sud, mentre questa tendenza sarebbe quasi inesistente in Spagna e in Italia, dove, secondo i dati Ocse, il gap salariale sarebbe tra i più bassi. Ma questo dato “positivo” sarebbe, in realtà, il risultato dell’abbandono del mercato del lavoro da parte di una quota consistente di donne che riceverebbero i salari più bassi.L’Italia, infatti, è tra gli ultimi paese per partecipazione femminile al mercato del lavoro: solo il 51% contro una media Ocse del 65%. Solo due paesi dell’Ocse, Turchia e Messico, hanno un tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro più basso di quello italiano.
L’organizzazione parigina, poi, sottolinea l’importanza delle politiche dell’istruzione e della formazione, dei servizi sociali e della tassazione per la partecipazione delle donne al mercato del lavoro e per il raggiungimento dell’eguaglianza salariale con i maschi. E, ancora una volta, le condizioni in Italia non sono particolarmente favorevoli: meno del 30% dei bambini sotto i tre anni usufruisce dei servizi per l’infanzia e il 33% delle donne italiane sono costrette al part-time per conciliare lavoro e responsabilità familiari, contro una media Ocse del 24%.
Anche nel settore manageriale e imprenditoriale il differenziale di genere è elevato: nel 2010 le donne erano un terzo dei manager e solo il 7% dei membri dei consigli di amministrazione delle aziende quotate in borsa; nello steso anno le donne rappresentavano il 22% degli imprenditori con dipendenti, ma il loro reddito era solo la metà di quello dei maschi nella stessa categoria sociale. Se, a parità di altre condizioni, nel 2030 il tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro raggiungesse quello maschile, nelle previsioni del dossier la forza lavoro italiana crescerebbe del 7% e il Pil procapite salirebbe dell’1% l’anno.

Il pm e de Magistris rassicurano i “civici ” «Non faremo come l’Arcobaleno »

- lavorincorsoasinistra -

Luca Sappino – Due lettere, in contemporanea, sono arrivate sulle scrivanie dei volti più noti (e più influenti) del cosiddetto quarto polo, recapitate a Di Pietro, de Magistris e Ingroia. La prima è firmata da Alba, dal movimento di Marco Revelli e Paul Ginsborg, e dai firmatari di “Cambiare si può”.
La seconda da 70 personalità della cultura, dell ’impegno civile e del giornalismo, da Oliviero Beha a Fiorella Mannoia e Gino Strada. Il messaggio era più o meno lo stesso: non è piaciuto, alle componenti più civiche del movimento arancione, l’eccessivo protagonismo dei partiti, dell’Idv e dei comunisti di Diliberto in particolare, dimostrato nell ’organizzazione dell’incontro di venerdì a Roma, dove Ingroia dovrebbe ufficializzare la sua discesa in campo, sotto il motto “Io ci sto”.
Non è piaciuto, insomma, l’odore della Sinistra Arcobaleno, di partiti della sinistra (chi più o chi meno) disastrati che si mettono insieme, si rifanno il trucco, si riempiono la bocca di «società civile», ma poi fanno tutto da soli.
Fuori dai giri di parole, insomma, il succo è così facilmente riassunto: «Chiediamo – dice la seconda lettera, firmata anche dallo scrittore Aldo Nove, dal logico Piergiorgio Odifreddi, e da Guido Viale – un atto di grande generosità e di altruismo da parte dei vertici dei partiti più vicini a questo progetto, Italia dei Valori e Rifondazione in testa, perché rinuncino al nome e al simbolo così come alla spartizione delle liste arancioni». Recapitate le lettere si sono succeduti incontri e telefonate. E ieri, in serata, è arrivata la risposta. Il senso è presto sintetizzato: non vi preoccupate, questa volta non sarà come fu con la Sinistra Arcobaleno.
«In questo momento – scrivono a due mani Ingroia e de Magistris – occorre creare un fronte unitario di tutte quelle cittadine e di tutti quei cittadini che, insieme alle associazioni e ai movimenti, vogliono realizzare un’alternativa di cambiamento rispetto alle politiche montiane e alle logiche massomafiose, preferendo la giustizia sociale, la partecipazione democratica, i beni comuni e la tutela dell’ambiente, la centralità della persona». I partiti, dunque, non vengono neanche nominati. Perché i partiti ci sono, ma dovranno vedersi poco. «Accogliamo – scrivono infatti i due – l’invito contenuto negli appelli che abbiamo ricevuto, e quindi aspettiamo “Cambiare si può”, insieme a tutte le soggettività che hanno animato gli appuntamenti svoltisi dal 1 dicembre ad oggi nelle diverse città italiane, al teatro Capranica di Roma, dove ci incontreremo venerdì per confrontarci sulla sfida ormai imminente, prima che elettorale, soprattutto politica e civile che attende il nostro Paese».
Insomma, si fa sul serio e si deve fare in fretta. Perché il Paese, declamano ancora Ingroia e De Megistris «merita una strada alternativa sia al berlusconismo che al montismo, che chieda una nuova stagione sul piano dei diritti sociali e della legalità, che dia una risposta al tema della questione morale e una piena attuazione della Costituzione ed in particolare del suo articolo 1 che riconosce il diritto al lavoro come fondamento della nostra democrazia». Serve un’alternativa – se mai non fosse chiaro – «che vuole partecipare alle scelte politiche e di governo che riguardano ciascuna e ciascuno di noi». Quindi serve una lista. E quindi servono dei candidati. E serve una modalità di selezione. Se le primarie sembrano fuori tempo massimo, una proposta arriva sempre dalla lettere: «chiediamo la creazione di un comitato elettorale di garanzia – diceva l’appello “Facciamo presto” – per arrivare alle liste delle candidature e dare il via alla campagna elettorale». I saggi è facile immaginarli. Non ad altro ruolo hanno intenzione di candidarsi Luciano Gallino e Paul Ginsborg. Poi ci sono de Magistris e magari Orlando (che non corrono perché appena eletti), e c’è Ingroia stesso, capace di garantire (perché da sempre molto vicino) anche i partiti, e soprattutto il Pdci. Qualche altro nome («magari una donna, no?») e si potrebbe procedere.
Il messaggio è comunque arrivato: «Ingroia non si candida per un partito, ma in nome della società civile – ha detto Di Pietro a Tgcom24 – e l’Idv sarà ben felice se Ingroia scioglierà la riserva venerdì sera a Roma. La sua candidatura significherebbe un ricambio generazionale e io sono disponibile a partecipare al cambiamento, senza però mettere il cappello a Ingroia». Vedremo.

Cambiare si deve e si può. Una risposta a Guido Viale.

Autore: Roberta Fantozzi*
- Controlacrisi - 
L’articolo di Guido Viale pubblicato ieri sul Manifesto solleva nodi di fondo sul “se” e il “come” del quarto polo e sugli scenari complessivi della politica in Italia ed in Europa. Vorrei affrontarli partendo da un’autodenuncia, quella di essere iscrivibile nella categoria dei dinosauri, in quanto parte della segreteria di un partito, nella fattispecie Rifondazione Comunista. Secondo alcuni probabilmente, i capofila dei dinosauri, combinando insieme l’essere partito e l’essere comunista, in coppia quanto di più d’antan possa darsi. Tuttavia su questo vorrei tornare più avanti, convinta come sono che si dovrebbe cercare di mettere in ordine i ragionamenti secondo una gerarchia di priorità, che per me ha, alla sua testa, tutt’altra urgenza. Un’urgenza che si riassume in una domanda. Quale sarà il rapporto tra politica e società in Italia tra qualche mese, compiuto il passaggio elettorale, nel mezzo di una crisi profondissima e in relazione alle dinamiche prevedibili del quadro politico, pur nelle fibrillazioni dei soggetti che compongono quel quadro?

I vari “l’uscita dalla crisi è vicina” o “c’è una luce in fondo al tunnel” con cui il mainstream politico-mediatico anestetizza coscienze e comportamenti da quasi un quinquennio ormai, sono facilmente identificabili per quello che sono: operazioni di pura propaganda. La realtà è che le scelte adottatate in Europa per rispondere alla più grave crisi economica da quasi un secolo a questa parte - una crisi che è esito del neoliberismo cioè della forma assunta dal capitalismo negli ultimi trent’anni - non fanno che riproporre in forma sempre più estremistica le politiche che della crisi sono causa. Nessuna reale riregolamentazione della finanza, distruzione di ogni diritto del lavoro, nuove privatizzazioni. Trasformato il debito di banche e finanziarie in debito pubblico, capovolta l’imputazione di responsabilità della crisi, al centro dell’attacco è ogni residuo bene pubblico, dai servizi locali a quel che resta del welfare. Sono politiche che trovano nel Fiscal Compact la loro folle sintesi, che stanno producendo e produrranno tanto un’inasprirsi mai conosciuto di spoliazioni e disuguaglianze, quanto il peggioramento drammatico della crisi.

L’alleanza dei democratici e progressisti, in cui scompare ogni riferimento persino simbolico alla sinistra, pone a base del proprio programma di governo, il rispetto dei vincoli internazionali sottoscritti dal governo Monti, cioè del Fiscal Compact, modificabile eventualmente solo in sede europea, e che il maggior rappresentante del PSE governante Francois Hollande, ha ratificato, pur avendo affermato in campagna elettorale che sarebbe stato oggetto di ricontrattazione. Peraltro Bersani, in giro per l’Europa per accreditarsi agli occhi dei mercati finanziari e contenere gli effetti della possibile scesa in campo di Monti, si fa garante quanto mai esplicito della continuità con quelle politiche, che certo cercherà se possibile di temperare, in cui certo lavorerà se possibile per introdurre qualche minore iniquità, ma la cui direzione di marcia resta definita. Del resto “l’articolo 18 è una partita chiusa”e pure l’articolo 8 che il “patto sulla produttività” finanzia sostanziosamente. Non so se pecco di pessimismo, ma il quadro che può determinarsi nei prossimi mesi a me pare di pericolosità estrema. Il PD al governo nel quadro delle compatibilità di questa Europa, la destra all’opposizione con tutta la carica populista scatenata, Grillo fin qui catalizzatore di malcontenti ed “alterità” in possibile crisi, dentro un quadro economico e sociale che continua a deteriorarsi.

Il senso dei comunisti per Ingroia - “Per dire no a Monti e ai vaffanculo"

Fonte: Il Fatto quotidiano | Autore: Caterina Perniconi
  Intervista a Paolo Ferrero - Loro ci stanno. Gli ultimi comunisti. Che non temono di definirsi tali, sono pronti a farsi guidare verso il parlamento da Antonio Ingroia. Rifondazione comunista e Comunisti italiani convergeranno nel “quarto polo” con i Verdi, Ida, movimento arancione e pezzi della società italiana.
Paolo Ferrero ma che c’entrate con gli arancioni?
Siamo accomunati dall’opposizione a Monti e alle politiche del rigore. Vogliamo esprimere l’innovazione

Ingroia domani scioglierà la riserva?

Non lo so.

Un magistrato in politica sarebbe l’innovazione?
Ha fatto bene il suo mestiere, ha dimostrato di avere la schiena dritta. Il mondo è pieno di signorsì.

Vi manca all’appello solo il leader della Fiom Landini.
Lui è un dirigente sindacale vero nel mezzo di una battaglia e nessun generale abbandona le sue truppe al fronte.

Farete la corte a Pd e Sel?
Loro vogliono il proseguimento dell’agenda Monti. Semmai se ne parla dopo le elezioni. In tempo di crisi può succedere di tutto.
Sa cosa mi dicono quando vado in giro a presentare il libro su questo tema?

Prego.

È pieno di gente che non voleva votare e invece starà con noi, al nord anche leghisti.

Quante copie ha venduto?
Diecimila.

Ecco, come farete a superare la soglia di sbarramento del 4 per cento?
Siamo maggioranza nel Paese.

Sta scherzando?
La nostra testimonianza è come quella di “Occupy Wall Street”, siamo il 99 per cento, ci rivolgiamo a tutti quelli contrari alle politiche liberiste di Monti. C’è uno spazio politico evidente.

O il rischio di un flop, come con la lista Arcobaleno nel 2008.
Quella era una lista di parlamentari.

Questa no?
È un percorso diverso, protesta ma anche con proposta, contro Monti e i “vaffanculo”.

Un movimento 5 stelle più istituzionale?
Per carità, Grillo è più istituzionale. La nostra parola chiave è “coalizione”, tutti indispensabile e nessuno autosufficiente.

Non è che invece vi coalizzate proprio perché non siete autosufficienti?
Ognuno va alle elezioni per eleggere rappresentanti. Noi ce la faremo.

E che sondaggi avete in mano?
Nessuno.
MAYA
“OK, a mistake, it is not the end of the world!!!”
 
 

giovedì 20 dicembre 2012

Il pm e de Magistris rassicurano i “civici ” «Non faremo come l’Arcobaleno »

- lavorincorsoasinistra -       

Luca Sappino –
Due lettere, in contemporanea, sono arrivate sulle scrivanie dei volti più noti (e più influenti) del cosiddetto quarto polo, recapitate a Di Pietro, de Magistris e Ingroia. La prima è firmata da Alba, dal movimento di Marco Revelli e Paul Ginsborg, e dai firmatari di “Cambiare si può”.
La seconda da 70 personalità della cultura, dell ’impegno civile e del giornalismo, da Oliviero Beha a Fiorella Mannoia e Gino Strada. Il messaggio era più o meno lo stesso: non è piaciuto, alle componenti più civiche del movimento arancione, l’eccessivo protagonismo dei partiti, dell’Idv e dei comunisti di Diliberto in particolare, dimostrato nell ’organizzazione dell’incontro di venerdì a Roma, dove Ingroia dovrebbe ufficializzare la sua discesa in campo, sotto il motto “Io ci sto”.
Non è piaciuto, insomma, l’odore della Sinistra Arcobaleno, di partiti della sinistra (chi più o chi meno) disastrati che si mettono insieme, si rifanno il trucco, si riempiono la bocca di «società civile», ma poi fanno tutto da soli.
Fuori dai giri di parole, insomma, il succo è così facilmente riassunto: «Chiediamo – dice la seconda lettera, firmata anche dallo scrittore Aldo Nove, dal logico Piergiorgio Odifreddi, e da Guido Viale – un atto di grande generosità e di altruismo da parte dei vertici dei partiti più vicini a questo progetto, Italia dei Valori e Rifondazione in testa, perché rinuncino al nome e al simbolo così come alla spartizione delle liste arancioni». Recapitate le lettere si sono succeduti incontri e telefonate. E ieri, in serata, è arrivata la risposta. Il senso è presto sintetizzato: non vi preoccupate, questa volta non sarà come fu con la Sinistra Arcobaleno.
«In questo momento – scrivono a due mani Ingroia e de Magistris – occorre creare un fronte unitario di tutte quelle cittadine e di tutti quei cittadini che, insieme alle associazioni e ai movimenti, vogliono realizzare un’alternativa di cambiamento rispetto alle politiche montiane e alle logiche massomafiose, preferendo la giustizia sociale, la partecipazione democratica, i beni comuni e la tutela dell’ambiente, la centralità della persona». I partiti, dunque, non vengono neanche nominati. Perché i partiti ci sono, ma dovranno vedersi poco. «Accogliamo – scrivono infatti i due – l’invito contenuto negli appelli che abbiamo ricevuto, e quindi aspettiamo “Cambiare si può”, insieme a tutte le soggettività che hanno animato gli appuntamenti svoltisi dal 1 dicembre ad oggi nelle diverse città italiane, al teatro Capranica di Roma, dove ci incontreremo venerdì per confrontarci sulla sfida ormai imminente, prima che elettorale, soprattutto politica e civile che attende il nostro Paese».
Insomma, si fa sul serio e si deve fare in fretta. Perché il Paese, declamano ancora Ingroia e De Megistris «merita una strada alternativa sia al berlusconismo che al montismo, che chieda una nuova stagione sul piano dei diritti sociali e della legalità, che dia una risposta al tema della questione morale e una piena attuazione della Costituzione ed in particolare del suo articolo 1 che riconosce il diritto al lavoro come fondamento della nostra democrazia». Serve un’alternativa – se mai non fosse chiaro – «che vuole partecipare alle scelte politiche e di governo che riguardano ciascuna e ciascuno di noi». Quindi serve una lista. E quindi servono dei candidati. E serve una modalità di selezione. Se le primarie sembrano fuori tempo massimo, una proposta arriva sempre dalla lettere: «chiediamo la creazione di un comitato elettorale di garanzia – diceva l’appello “Facciamo presto” – per arrivare alle liste delle candidature e dare il via alla campagna elettorale». I saggi è facile immaginarli. Non ad altro ruolo hanno intenzione di candidarsi Luciano Gallino e Paul Ginsborg. Poi ci sono de Magistris e magari Orlando (che non corrono perché appena eletti), e c’è Ingroia stesso, capace di garantire (perché da sempre molto vicino) anche i partiti, e soprattutto il Pdci. Qualche altro nome («magari una donna, no?») e si potrebbe procedere.
Il messaggio è comunque arrivato: «Ingroia non si candida per un partito, ma in nome della società civile – ha detto Di Pietro a Tgcom24 – e l’Idv sarà ben felice se Ingroia scioglierà la riserva venerdì sera a Roma. La sua candidatura significherebbe un ricambio generazionale e io sono disponibile a partecipare al cambiamento, senza però mettere il cappello a Ingroia». Vedremo.

il sistema sta cercando di aprire una breccia nel Movimento

- byoblu -               
Beppe Grillo Gianroberto Casaleggio

premessa di Paolo Becchi

L'intervista che ho rilasciato a Paolo Crecchi domenica 2 dicembre 2012 al Secolo xix ( p. 19) la storica testata genovese , corrisponde al mio pensiero e mi sembra rappresenti un modo diverso di rapportarsi della stampa al moVimento. Lungi pero' da me l'idea di voler assumere il ruolo di ideologo di un movimento per sua natura antiideologico , ne' tanto meno di contrappormi a Gianroberto Casaleggio , senza la cui opera il moVimento non avrebbe la forza che ora ha .
di Paolo Crecchi (crecchi@ilsecoloxix.it)

Sarà il faccione barbuto di Beppe Grillo a campeggiare nei cartelloni del Movimento Cinque Stelle, nei giorni roventi della prossima campagna elettorale, anche se il Vate di Sant’Ilario non diventerà mai presidente del consiglio. A spiegare perché è Paolo Becchi, professore di filosofia del diritto a Giurisprudenza e intellettuale d’area, si sarebbe detto una volta: «I partiti e i gruppi politici che si candidano a governare», spiega citando l’articolo 14 bis del cosiddetto Porcellum, «depositano il programma elettorale nel quale dichiarano il nome e cognome della persona da loro indicata come capo della forza politica. Non premier, capo: le stesse parole usate da Grillo all’indomani del trionfo siciliano, quando spiegò che la sua figura sarebbe stata quella del garante».
Una mossa geniale ma del resto, dal punto di vista del marketing, il duo Grillo & Casaleggio sono dei maestri. Becchi è qualcosa di più, però, docente universitario di pensiero lucido, specializzato in temi scabrosi come eutanasia, clonazione, morte cerebrale. Solo una persona curiosa e intellettualmente onesta come lui poteva scovare quello che pensava Norberto Bobbio, e dunque un padre della patria, a proposito della tanto vituperata democrazia diretta. Utopia? Ma certo, «salvo a fare l’ipotesi (e non escludo che un giorno ci si arrivi) di un immenso computer cui ogni cittadino, standosene a casa o andando al più vicino terminal, possa trasmettere il suo voto premendo un bottone». Il grande filosofo lo scriveva nel 1976, in un saggio pubblicato da Einaudi dal titolo oggi improponibile, «Quale socialismo?».

Difficile continuare a bollare il Movimento come antipolitico, dunque, se si considera che Bobbio - al di là di qualche scivolone, come l’orgogliosa professione di fascismo esternata per lettera a Mussolini allo scopo di ottenere una cattedra - è sempre stato considerato un punto di riferimento per la democrazia. «Io non li conoscevo, Grillo e Casaleggio. Mai parlato con nessuno dei due. Poi mi telefona uno dei Cinque Stelle e mi chiede se può farmi un’intervista. Quando vuole, rispondo. Le domande sono sul governo Monti, sull’euro, sui modelli alternativi di sviluppo. Domande intelligenti, che presuppongono una preparazione. Credo che non troveremo mai una Minetti nel Movimento, e già questo è qualcosa». Il professor Becchi parla nell’ufficio che fu di Giovanni Tarello, il filosofo del diritto scomparso a soli 52 anni per un tumore ai polmoni. Ricorda sospirando come nei cassetti e sugli scaffali continuassero a essere ritrovate, fino a pochi anni fa, stecche di Gauloises blu. «Grillo e i suoi», riflette, «sono molto legati ai bisogni del territorio. Hanno occupato il posto di un ecologismo che in Italia non c’è mai stato, o quanto meno non è mai stato degnamente interpretato dai Verdi. Oggi rappresentano tutto meno che l’antipolitica, anzi sono la massima espressione della voglia di far politica. Vedete, la tanto sbandierata democrazia rappresentativa è un feticcio, ha partorito una classe dirigente convinta che la sua sia una professione. Avete presente Montaldo, l’assessore regionale alla sanità? Ha sempre fatto l’assessore, anche in Comune, crede che il suo mestiere sia quello di fare l’assessore. Sarà meglio oppure no un gruppo di lavoro che elabora una proposta di legge confidando su esperti, studi, ricerche e poi l’affida a un politico a tempo, che funziona da portavoce?».

Secondo Becchi la legge elettorale in via di elaborazione ha l’unico scopo di fermare il Movimento. «C’è in giro un malessere diffuso, ci si comincia a rendere conto che la politica di Monti e la subalternità all’euro hanno bruciato i destini di almeno due generazioni. E la partitocrazia anziché riflettere su se stessa studia come fermare Grillo, ha compreso che se arriva al 25 o 30 per cento il premio di maggioranza è suo... Secondo me la legge elettorale non la cambiano più, però. Il centrodestra è imploso, al limite potrebbe favorire soltanto Bersani: gli altri non ci staranno mai».

«Dicono che nel Movimento non c’è democrazia. Ma a parte il fatto che i militanti hanno una testa, e sicuramente migliore di quella delle varie Minetti che ci hanno governato di recente, com’è che tutti parlano della Salsi a Bologna e nessuno di Bugani, uno che dalla mattina alla sera fa quello che gli è stato chiesto dagli elettori anziché andare a perdere tempo in televisione? Lo spiego io: perché il sistema sta cercando di aprire una breccia nel Movimento. Pensate a Santoro, Floris, Vespa senza gli attori del teatrino. Cosa fanno? E pensate agli attori del teatrino che vanno a pavoneggiarsi in televisione mentre gli altri lavorano in Parlamento. Finisce un’era, capite»?

Becchi sostiene che «se la Rete incontra la piazza allora Napolitano Primo lo sente eccome, il boom». Un presidente della Repubblica che ha già deciso come deve andare, «perché nella loro testa sono il capo dello stato e i partiti che devono legittimare il governo, mica i cittadini. Così Monti non deve candidarsi, perché la sua eventuale legittimazione passerà attraverso gli accordi di palazzo».

Cinquantasei anni, una barba bianca d’altri tempi, il Movimento si è trovato in casa un ideologo più presentabile di Casaleggio, personaggio che resta ambiguo e ogni tanto scivola nel visionario. «Alla peggio, in parlamento ci sarà una grande forza di opposizione. Qualcosa cambierà comunque: io li voto.».

CAMBIARE SI DEVE – Comunicato del comitato operativo di ALBA

- soggettopoliticonuovo -

Un mese e mezzo fa è stato lanciato il percorso di ‘Cambiare si può’, in condizioni difficili, con un paese dilaniato da conflitti sociali ma allo stesso tempo ‘stregato’ dai proclami di uscita dalla crisi di Monti o dalle dinamiche delle primarie del PD. Ma c’era un’altra Italia che chiaramente non si lasciava incantare: quell’Italia che alle regionali siciliane si asteneva dalle urne per il 50%, sentendosi lontana da schemi partitici e da quelle logiche novecentesche nelle quali non si riconosceva.
Oggi ‘Cambiare si può’ ha raggiunto 9000 adesioni sul suo sito, così come sono proliferate pagine di Facebook create da circoli locali: un’affollata e intensa assemblea il 1 dicembre al teatro Vittoria a Roma e, il fine settimana scorso, più di 100 assemblee locali con la partecipazione di più di 15.000 donne e uomini.
Noi, come ALBA siamo orgogliosi di far parte di questo processo, che è parte integrante del percorso lanciato già mesi fà, ed al cui sviluppo abbiamo attivamente contribuito fin dalla proposta.
I report delle assemblee (laddove i partiti affacciatisi non hanno cercato di imporre le vecchie logiche spartitorie) riportano ovunque un sentimento comune di senso di emancipazione: movimenti, associazioni, comuni cittadine e cittadini liberati dalle vecchie logiche autoreferenziali dei partiti e felici, sì, felici di ritrovarsi per esprimere forme nuove della politica. Tutto questo in nome di un senso nuovo di comunità: quella comunità che si sente schiacciata dalle politiche di austerity promosse da BCE e Commissione Europea, che vuole pensare a forme nuove del lavoro e dell’economia, che chiede un radicale capovolgimento delle politiche del welfare in nome dei lavoratori, dei precari e dei disoccupati, dei servizi sociali, del sistema educativo e della ricerca, della sanità, della cultura, dei servizi pubblici locali, del patrimonio pubblico. In nome di reali beni comuni.
Ma le 15.00 persone non si sono ritrovate solo su questioni di contenuto, pur forti e radicali: hanno posto fermamente una questione di metodo, affermando l’indispensabile esigenza di riprendersi, con dinamiche pratiche di democrazia partecipata, il diritto alla propria rappresentanza.. Il ‘Cambiare si può’ si è trasformato coralmente in un ‘Cambiare si deve’, aprendo una vera e propria rivoluzione democratica.
Per questo ALBA ribadisce che si tratta di costruire non un nuovo soggetto politico ma una lista di cittadinanza e di società politica attiva, che come tale sia composta da singole persone,indipendentemente dalle tessere che possano avere oppure non avere, e che si fondi su una reale partecipazione al processo di creazione di questa lista e sulla parità di genere (alternando donne e uomini) come cardine primario di democrazia.
Proponiamo che si formalizzi un comitato Promotore e di Garanzia per la formazione della lista, che sia composto da persone riconosciute collettivamente come affidabili ed autorevoli che hanno promosso il processo politico Cambiare si può e il Movimento Arancione.
Chiediamo ai soggetti collettivi (partiti, associazioni) di credere e di stare attivamente in questo progetto ma avendo un ruolo diverso rispetto al solito, facendo due passi indietro, non ponendosi come protagonisti della lista, ma che con le proprie identità dichiarino l’appoggio al progetto (come ha già deciso ALBA stessa), formando un Comitato di sostegno sul modello dei referendum vittoriosi del 2011.
E che questo abbia un riflesso immediato sulle candidature, per questo abbiamo detto e ripetiamo che ciò comporta “che le persone da candidare non abbiano avuto ruoli di direzione politica né di rappresentanza istituzionale nell’ultimo decennio – a livello di partiti nazionali, parlamento italiano ed europeo, regioni.”
Tutto questo è stato ben ribadito dal nuovo l’appello che ieri è stato lanciato da vari firmatarie e firmatari (fra i quali Fiorella Mannoia, Gino Strada, Piergiorgio Oddifreddi, Moni Ovadia, e tante di quelle persone meno note ma non meno protagoniste di quelle tante assemblee (http://www.soggettopoliticonuovo.it/2012/12/17/appello-facciamo-presto/) nel richiamarci tutte e tutti a ‘Fare presto’, chiedendo un atto di generosità ai partiti nel rinunciare a spartizioni, simboli e nomi.
L’onda oramai è partita e ovunque si è più volte affermato che questo processo non si ferma alle elezioni del 2013, ma vuole andare avanti, nel riconquistarsi col tempo gli spazi negati. A pochi giorni dall’assemblea del 22 dicembre (Roma – Teatro Quirino), apprendiamo del ritorno in Italia di Antonio Ingroia, la cui disponibilità è stata subito rilanciata dai giornali e fatta propria dai vari segretari di partito. Quello slogan ‘Io ci sono’ (già enunciato dallo stesso Ingroia nell’assemblea di CSP del 1 dicembre) rischia però di diventare un ‘Ci sono’ rispetto a vecchie logiche, a segretari che, incapaci di uscire dalle proprie profonde crisi, scorgono nel nuovo leader la via di salvezza, l’uomo che li riporterà in Parlamento.
Ma ALBA è convinta che anche in questo ‘Cambiare si deve’: e che Ingroia sappia bene interpretare il profondo entusiasmo che in queste poche settimane si è liberato. Il carattere innovativo e partecipativo di questo processo non può rimanere ingabbiato dentro a meccanismi stantii: perché la rivoluzione democratica andrebbe comunque avanti, pronta a nuove sfide, in nome di un lento ma inesorabile percorso di aggregazione, e non si riconoscerebbe affatto in una Lista che non ne portasse responsabilmente e con coerenza i segni. Perché indietro non si può tornare.
ALBA – Comitato operativo nazionale

mercoledì 19 dicembre 2012

Terapie mortali. Intervista a Marco Revelli sulla crisi dell’Europa


- agoravox -
Marco Revelli, storico e sociologo italiano, figlio del partigiano Nuto Revelli, insegna Scienze della Politica presso l’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”. Fondatore e membro di Lotta Continua, collabora con il quotidiano «il manifesto». Ha scritto numerosi libri con Laterza, Fazi, Chiarelettere, Einaudi. La sua ultima opera è I demoni del potere (ed. Laterza, 2012, già alla sua terza edizione).
Si continua a parlare di “Europa in crisi”. Perché?
È vero: l’Europa è in crisi, continuiamo a constatarlo, a toccarlo con mano, a leggerne sui giornali. L’Europa sembra ancora incapace di immaginare se stessa come un’entità complessiva, come un attore unico in un momento in cui l’egoismo dei singoli Stati sembra prendere il sopravvento, in cui l’atteggiamento verso i più deboli fa pensare all’esclusione piuttosto che all’unione. Si pensi ad esempio al destino atroce che l’Europa continua a riservare alla Grecia - che in qualche modo è sua madre: l’Europa sta compiendo una sorta di matricidio lento nei confronti di quella che è stata la culla della sua civiltà. Per dire che, allo stato attuale, l’Europa è “inguardabile”, per troppi aspetti è ancora lontana dai progetti dei grandi europeisti del ‘900.

Si tratta solo di problemi economici o c’è dell’altro?
No, a me sembra che i problemi economici siano il riflesso di un decadimento culturale; o di un’assenza di cultura - cioè di un’assenza di visione, nel senso di un ripiegamento su se stessi e sul proprio egoismo (egoismo che è sempre legato a una fondamentale incapacità di visione, di elaborazione, di immaginazione). L’Europa oggi ha come unico nucleo normativo l’aridissima visione totalizzante dell’economia, di un’economia sempre più separata dalla società, di un’economia dogmaticamente interpretata alla luce di pochi e fallimentari principi di un neoliberismo che sta naufragando in tutto il mondo; tuttavia l’economia continua a essere il sapere che alimenta i tecnocrati, da quelli della Banca Centrale ai Commissari europei, figure per altro verso molto mediocri, uomini di cui per la maggior parte non conosciamo neanche il nome, ruoli non legittimati da un consenso elettorale, perché nominate direttamente dalla politica. In più, l’assenza di una Costituzione europea è un problema gigantesco... dico tutte queste cose non perché sia ostile all’Europa, ma perché sono un europeista non conciliato con l’esperienza esistente, osservo che il sogno europeo - a mio avviso una grande costruzione dell’intelligenza e della nostra cultura - venga quotidianemente umiliato dalla pratica di elite di bassissimo profilo, a cominciare dalla grande Germania, che si si affida passivamente all’operato di piccoli funzionari che non arrivano neanche alle ginocchia dei loro predecessori.

Sono stati fatti degli errori in particolare nella costruzione dell’Europa?
Credo ne siano stati fatti molti e tutti concentrati nell’ultimo ventennio. Fino alla metà degli anni ‘90 a me sembra che la marcia - per quanto cauta e lenta - fosse stata una marcia positiva e sempre in avanti. Poi la scelta di edificare dapprima le basi monetarie (la scelta cioè di procedere per prima cosa alla costruzione della moneta unica e poi all’unità politica - che non è mai venuta) è stato un errore clamoroso, così come lo è stato quello di separare così direttamente il potere legislativo, nella figura del parlanmento, dal poerter esecutivo, nella figura della Commissione europea, sottraendo al primo qualsiasi controllo sul secondo, e immaginando un potere esecutivo nominato dai governi e non eletto, oltre che non sottoposto a un organo elettivo - struttura che non trova riscontro in nessuno stato federale del mondo. Si poteva scegliere la forma presidenziale, o del parlamentarismo e del semipresidenzialismo, insomma una qualunque delle forme di governo conosciute: si sono scelti invece un’architettura e un assetto bizzarro, senza nessun precedente, con un potere esecutivo sottratto praticamente al controllo di qualsiasi organo elettivo. Un sistema che non ha nessun riscontro nel modello democratico.

Si tratta di un errore da principianti, o di un piano studiato ad arte per qualche motivo?
Si tratta del frutto di un deficit intellettuale, politico e morale. In realtà coloro che hanno immaginato questo percorso hanno scelto di bypassare tutti i possibili ostacoli, hanno scelto di praticare a ogni passaggio la strada più semplice.

BRUNELLO DI MONTALCINO
600 HECTOLITRES OF BRUNELLO TROWN DOWN ON THE SEWERS

“Facciamo presto”, appello degli intellettuali per “l’unione civica arancione”

Fonte

“Un atto di grande generosità e di altruismo da parte dei vertici dei partiti più vicini a questo progetto, Italia dei Valori e Rifondazione in testa, perché rinuncino al nome e al simbolo così come alla spartizione delle liste arancioni”. E’ la richiesta di una settantina di personalità del mondo dell’arte, della cultura e dell’impegno civile – tra cui Fiorella Mannoia, Gino Strada, Moni Ovadia, Aldo Nove, Piergiogio Odifreddi, Guido Viale… – che rivolgono un appello, dal titolo esplicativo “facciamo presto”, a favore della costituzione di “un unico progetto di unione civica arancione in vista delle elezioni del 2013” che proprio le dispute tra e con i partiti potrebbero complicare.
Secondo i firmatari dell’appello “le prossime elezioni politiche saranno un momento costituente per la ricostruzione del nostro paese”. E “ad aprire questa porta verso il futuro saranno i cittadini e le cittadine: non le banche, non i poteri forti, non le cancellerie europee”. In quest’ottica i promotori di “Facciamo presto” rilevano che “nelle ultime settimane si è andata formando, per molti versi in modo spontaneo e fuori dagli apparati dei partiti, un’area civica e politica che si ispira alla pagina più bella della storia italiana recente: quella dei referendum vittoriosi sull’acqua, sul nucleare e sul legittimo impedimento; quella dei nuovi sindaci che hanno vinto a sorpresa in tanti comuni piccoli e grandi”. Quest’area civica e politica a detta dei firmatari “sta già attraendo decine di migliaia di semplici cittadini così come di attivisti di associazioni, movimenti, sindacati, ma anche militanti di base ed elettori di partiti già esistenti come Sinistra Ecologia e Libertà, Partito democratico, Italia dei Valori, Federazione della sinistra, Verdi, Radicali e altri ancora”.
Perciò con l’appello “Facciamo presto” si domanda “che ci si organizzi rapidamente in un unico progetto di unione civica arancione in vista delle elezioni del 2013”. Rivolgendosi per questo ai partiti perché depongano le pretese che potrebbero pregiudicare il progetto. E chiedendo al tempo stesso “un atto di grande responsabilità ad Antonio Ingroia, a Luigi De Magistris e ai promotori di Cambiare si può! perché si impegnino in prima persona e insieme nella definizione dell’unione civica arancione e nella creazione di un comitato elettorale di garanzia per arrivare alle liste delle candidature e dare il via alla campagna elettorale”.
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La finanziarizzazione come effetto della crisi

Gianni Del Panta* intervista Guglielmo Carchedi - sinistrainrete -

Non confondere le conseguenze con le cause della crisi. La correttezza dell'analisi di Marx e il fallimento di quella di Keynes. Intervista a Guglielmo Carchedi.

Guglielmo Carchedi, è uno studioso marxista, professore di Economia Politica all’Università di York, Toronto (Canada) e per molti anni professore all'università di Amsterdam. Collabora da molti anni con Contropiano. Vedi il suo saggio "Dalla crisi di plusvalore alla crisi dell'euro" sull'ultimo numero della rivista Contropiano e la sua relazione nel volume "Il vicolo cieco del capitale" a cura della Rete dei Comunisti.


Nel dibattito sulla natura dell’attuale crisi del sistema capitalistico, non mancano neanche a sinistra interpretazioni volte a presentarla come il portato di un’eccessiva finanziarizzazione dell’economia. Personalmente mi sembrerebbe invece corretto leggere il ricorso alla finanza come effetto e non causa delle presenti difficoltà economiche?


Ha perfettamente ragione, la finanziarizzazione dell’economia è certamente l’effetto e non la causa dell’attuale crisi. Mi permetta però in apertura di avanzare dubbi anche sulla bontà del termine. Infatti, il costante utilizzo della parola finanziarizzazione sembra presupporre una mutazione quasi genetica nel sistema. Tuttavia la realtà è in questo caso assai meno complessa di come vogliamo immaginarla: l’attuale sistema tende infatti necessariamente verso la crisi attraverso dei cicli economici. La traslazione di ingenti risorse dalle attività direttamente produttive a quelle speculative (dove il tasso di profitto è maggiore, almeno fino a quando la bolla speculativa non scoppia) è quindi semmai il tentativo di arginare una decrescente redditività del capitale investito, dovuto in primis alla caduta tendenziale del saggio di profitto. Questa è a sua volta il portato dell’aumento di quella che Karl Marx chiamava la composizione organica del capitale, ovvero la riduzione del capitale variabile rispetto a quello costante, un fenomeno che deve essere considerato come l’effetto diretto delle innovazioni tecnologiche.


Simili letture non trovano però grande spazio sui principali media, spesso propensi a presentare l’attuale crisi come il portato di un debito pubblico eccessivo e di un allegra gestione della macchina statale da parte degli amministratori che si sono successi alla guida del Paese.


Quella che ho menzionato non è però l’unica interpretazione che cerca di affermare la bontà delle proprie riflessioni. Provando a semplificare un quadro certamente complesso possiamo sostenere come le teorie più rilevanti che tentano di fornire spiegazioni all’origine dell’attuale crisi siano sostanzialmente tre. La prima è quella che muove dalle riflessioni e dagli argomenti offerti dall’economista inglese John Maynard Keynes (1883-1946). In essenza, la cosiddetta teoria keynesiana individua l’origine della crisi nei salari eccessivamente bassi che determinerebbero una diminuzione nel potere d’acquisto delle classi lavoratrici e conseguenti difficoltà per i produttori nella vendita dei beni di consumo. Una siffatta situazione porterebbe quindi ad una riduzione dei profitti per i capitalisti, che di fronte ad una contrazione delle merci vendute risponderebbero con licenziamenti di massa. La spirale innescata, come semplice da capire, tenderebbe quindi ad auto-alimentarsi.

La seconda teoria è quella neoliberista. Spesso mi riferisco a questa attraverso un neologismo: definendola quindi come “austeriana”, da austerità. La visione qui proposta è opposta alla precedente e si fonda, semplificando molto, sul presupposto che le crisi sarebbero provocate da salari eccessivamente elevati e da conseguenti limitati profitti per le imprese.

martedì 18 dicembre 2012

Con Antonio, a sinistra


Conto alla rovescia per la formalizzazione del movimento degli Arancioni, con in campo l’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Più di un rumor visto che secondo Skytg24 il magistrato avrebbe chiesto l’aspettativa al Consiglio Superiore della Magistratura per motivi elettorali.
Le elezioni politiche in Italia «si terranno anticipatamente», dice il procuratore aggiunto di Palermo. «Ad oggi, però, non ho deciso di essere in lizza per le consultazioni che daranno un nuovo Parlamento e un nuovo governo al nostro Paese. Sto ancora riflettendo, ma venerdì 21 dicembre saro’ a Roma per illustrare il manifesto ‘Io ci sto’ di cui, peraltro, sono il primo firmatario».
Il magistrato era stato invitato nei giorni scorsi dal leader del movimento arancione, Luigi De Magistris, a candidarsi premier.Ingroia è infatti il primo firmatario del Manifesto “Io ci sto”, insieme ai sindaci di Palermo, Leoluca Orlando e di Napoli, Luigi de Magistris, in rappresentanza del Comitato promotore. E per venerdì 21 dicembre alle 17,30 al teatro Capranica di Roma è convocata l`assemblea, appunto, ‘Io ci sto’ che verrà aperta da Antonio Ingroia, che sarà appositamente di ritorno dal Guatemala.
L’appuntamento è sostenuto Manifesto politico in dieci punti che rappresentano “10 ragioni per la guida per un serio governo riformista e democratico”. Ed è “per realizzare i dieci obiettivi del ‘Manifesto’- è scritto- che si decide di aprire il confronto con i movimenti e le forze democratiche del Paese”.
«I promotori – è scritto nel manifesto degli Arancioni ‘Io ci sto’- sono espressione della società civile e della politica pulita che vuole costruire un’alternativa di governo al berlusconismo e alle scelte liberiste: economiche, sociali e culturali del governo Monti.
L`alternativa di governo si costruisce con una forza riformista che ha il coraggio di un proprio progetto per uscire dalla crisi e rilanciare l`Italia finalmente liberata dalle mafie e dalla corruzione. Abbiamo come riferimento imprescindibile la Costituzione Repubblicana, a partire dall’art. 1 secondo cui il lavoro deve essere al centro delle scelte economiche. Per noi l`Unione Europea deve diventare autonoma dai poteri finanziari con organismi istituzionali eletti dai popoli ed è fondamentale il cambiamento della Casta politica e burocratica italiana mentre lo sviluppo del mezzogiorno è l`unica scelta per unificare il Paese».
Quanto ai dieci punti del manifesto, essi sanciscono che: “1)Vogliamo che la legalità e la solidarietà siano il cemento per la ricostruzione del Paese.
2)Vogliamo uno Stato laico, che assuma i diritti della persona e la differenza di genere come un`occasione per crescere 3)Vogliamo una scuola pubblica che abbia sia per gli insegnanti che per gli studenti il criterio del merito, con l`università e la ricerca scientifica pubbliche non sottoposte al potere economico dei privati e una sanità pubblica con al centro il paziente, la prevenzione e il riconoscimento professionale del personale medico e infermieristico”
E quindi. “4)Vogliamo una politica antimafia nuova che abbia come obiettivo ultimo non solo il contenimento, ma l’eliminazione della mafia, e la colpisca nella sua struttura finanziaria e nelle sue relazioni con gli altri poteri, a cominciare dal potere politico 5)Vogliamo che lo sviluppo economico rispetti l`ambiente, la vita delle persone, i diritti dei lavoratori e la salute dei cittadini e la scelta della pace e del disarmo sia la strada per dare significato alla parola “futuro”. Vogliamo che la cultura sia il motore della rinascita del Paese”.
E infine:”6)Vogliamo che gli imprenditori possano sviluppare progetti, ricerca e prodotti senza essere soffocati dalla finanza, dalla burocrazia e dalle tasse 7) Vogliamo la democrazia nei luoghi di lavoro e ripristinare il diritto al reintegro sul posto se una sentenza giudica illegittimo il licenziamento 8) Vogliamo che i partiti escano da tutti i consigli di amministrazione, a partire dalla RAI e dagli enti pubblici e che l`informazione non sia soggetta a bavagli 9)Vogliamo selezionare i candidati alle prossime elezioni con il criterio della competenza, del merito e del cambiamento 10) Vogliamo che la questione morale aperta in Italia diventi una pratica comune, mentre ci vogliono regole per l`incandidabilità dei condannati e di chi è rinviato a giudizio per reati gravi, finanziari e contro la pubblica amministrazione.
Vogliamo ripristinare il falso in bilancio e una vera legge contro il conflitto di interessi
Queste 10 ragioni sono la guida per un serio governo riformista e democratico.Per realizzare i dieci obiettivi del “Manifesto” si decide di aprire il confronto con i movimenti e le forze democratiche del Paese.
red.

Keynesismo (2)

di Zag in ListaSinistra (in risposta all'articolo seguente)

E siccome a me la trippa piace , sopratutto quella fiorentina e quella romana , mi ci butto a pesce!
L'articolo proposto, con merito, non  aggiunge niente di nuovo al dibattito che in alcune sedi si svolge.Niente di nuovo sopratutto nell'evidenziare che la finanzia nel ciclo capitalistico è si intrinseco al meccanismo stesso, ma oggi la natura è capovolta. Il capitalismo così come conosciuto fin'ora nel suo svolgersi, ha utilizzato il credito , fin dall'epoca del mercantilismo come anticipo per innescare il ciclo D-M-D . Era la produzione di merci che richiamava capitale e la finanza era al servizio del capitalismo produttivo. Certo , nelle sue molteplici e cicliche crisi di sovraproduzione o di depauperamento del tasso di profitto, il rifugio nella finanzia per cercare di trarre valore la dove la produzione non garantiva più , si è sempre avuto. Ma questa volta, e questo che la scuola keynesiana, non può ammettere per sua stessa natura, la scala gerarchica della natura del capitale si è rivoltata.
Mi spiego meglio.
Fino al secolo scorso, dicevo, era il capitale produttivo che chiedeva al capitalismo finanziario anticipo di capitale in cambio di plusvalore che avrebbe prodotto in la nel tempo. In cambio avrebbe restituito il capitale e parte del plusvalore prodotto( sotto forma di interessi. Questi variavano al variare del tasso di profitto all'interno del ciclo produttivo). AL centro del circo vi era la produzione e intorno girava la finanza e la commercializzazione, pre e post la produzione, entrambi al suo servizio al fine di ottenere parte del plusvalore nelle produzione generato.
Con l'evolversi dei rapporti di produzione e sopratutto dei fattori della produzione e nello strenuo tentativo nel cercare controtendenze alla caduta del tasso di profitto, oggi dopo questa crisi, il centro del circo si è capovolto. E' la finanza che comanda il giro. E' la finanza che comanda alla produzione di produrre plus valore , e alla commercializzazione di estrarlo dalle merci prodotte.  AL termine del ciclo il tutto ritorna alla finanza la quale paga la produzione per i costi di produzione , la commercializzazione, per i costi della circolazione delle merci, il resto rimane alla finanza che fa ricominciare la ruota della ri-produzione e ri-accumulazione.

Al termine niente è cambiato , apparentemente, rispetto a prima. Il ciclo è sempre D-M-D , il plus valore per essere prodotto deve sempre passare attraverso la produzione di merci, si sono solo scambiati i rapporti di potere fra capitale finanziario e capitale produttivo. Questo comporta che lo sviluppo, la crescita che prima poteva essere vantato( ma solo come mistificazione)  come intrinseco  al ciclo capitalistico, ora ancor più il fine non è la produzione, ma la finarizzazione . Se prima, mistificando, si poteva ( i riformisti, compresa la scuola keynesiana) ) pensare al patto fra produttori ( insieme capitale produttivo e lavoratori al fine della produzione) , oggi la testa ( la finanzia) e le braccia ( lavoro) sono ancor più allontanate interposte dal capitalismo produttivo che scompare ( tendenzialmente) per apparire solo come una componente sufficiente, e necessaria , nei mille risvolti e passaggi necessari al fine della ri-accumulazione del capitale.

E questo velo che si interpone, che ha anche fatto gridare al miracolo a tanti post operaisti( anche economisti di estrazione sraffiana), che hanno visto in questa trasmutazione del capitalismo, la fine dello stesso capitalismo e la produzione del valore attraverso il danaro.
Questo non è altro che un altro passaggio epocale di trasformazione delle forme del capitalismo e del conseguente aumento dello sfruttamento della componente lavoro,.

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