Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 23 luglio 2011

Anatomia di una crisi.



di Mario Pianta in Il Manifesto. Fonte: comedonchisciotte
«La rotta d'Europa». Prime risposte alle domande poste da Rossana Rossanda sul perché il progetto europeo è finito, fin dalla nascita, nelle trappole della finanza. Con la ricchezza travasata dai salari a profitti e rendite. Una crisi imprevista e rischiosa anche per la democrazia
La mitologia ci racconta di una giovinetta, Europa. Zeus la vede, si trasforma in toro, la fa salire sul dorso, la porta oltre il mare a Creta, la possiede. Ai giorni nostri il toro è il simbolo dei mercati finanziari, e il ratto e la violenza d'Europa sono un'efficace metafora di quanto sta accadendo. La nostra Europa non è una giovinetta, è l'economia più grande del mondo, con 27 paesi nell'Unione e 17 nell'area dell'euro, una complessa costruzione politica, una potenza mondiale. Come è potuto succedere che il toro della finanza la trascini sulle onde della speculazione, la pieghi alla sua volontà, la getti nella depressione?
Le domande che pone Rossana Rossanda - aprendo la discussione del manifesto e sbilanciamoci.info sulla «rotta d'Europa» - interrogano la crisi europea, il collasso di un progetto nato per rafforzare le economie del continente, allargarne l'autonomia politica, difenderne il modello sociale. Vediamo alcuni meccanismi che in vent'anni hanno portato la costruzione europea all'impasse di oggi.

1. L'integrazione europea

Il 7 febbraio 1992 i governi europei hanno firmato a Maastricht il Trattato sull'Unione europea che apriva la strada all'Unione economica e monetaria e alla creazione dell'euro. Era appena stato introdotto il mercato unico e liberalizzati del tutto, per la prima volta, i movimenti di capitale. Era finita la guerra fredda, caduti i regimi dell'est europeo, riunificata la Germania. Neoliberismo e finanza erano diventate le stelle polari dell'integrazione europea. L'orizzonte era quello di far arretrare il lavoro e aumentare profitti e rendite finanziarie. Il progetto europeo puntava sulle capacità del mercato di trainare la crescita attraverso più efficienza e investimenti favoriti da capitali mobili. La condizione necessaria era abbassare inflazione e tassi d'interesse, stabilizzare i cambi, ridurre deficit e debito pubblico, in modo da avvicinare tra loro - in termini finanziari - le economie interessate all'Unione monetaria. In altre parole, i governi europei rinunciavano agli strumenti «keynesiani» che avevano sorretto la crescita del dopoguerra (spesa pubblica e svalutazione del cambio) e confidavano nelle potenzialità della domanda privata per investimenti ed esportazioni in un'economia in via di globalizzazione.

Capitalismo tossico


di Vladimiro Giacchè. Fonte: sinistrainrete
In questi giorni, in cui la crisi sembra riesplodere con la violenza dell'autunno 2008, è particolarmente importante possedere delle bussole per capire cosa accade. Anche oggi - come allora - la stampa e la pubblicistica dominanti ci parlano di "speculazione da imbrigliare". Ma mentre allora si "riscopriva" lo Stato, implorandolo di fare il bagnino e di riportare a riva le grandi imprese finanziarie (e non solo) che affogavano nei loro debiti, oggi la parola d'ordine è "disciplina di bilancio!". E sul banco degli accusati ci sono gli Stati, a causa dei debiti di cui si sono fatti carico. Il conto lo presentano proprio quei "mercati" che erano stati salvati. E gli Stati, contriti e ubbidienti, stanno girando la parcella ai lavoratori.

Per combattere contro questa ennesima beffa è importante capirne i meccanismi di fondo. Contro tutti i luoghi comuni. E' quanto fanno Marco Bertorello e Danilo Corradi nel loro Capitalismo tossico. Crisi della competizione e modelli alternativi (Roma, Alegre, 2011, euro 16). Smontando la tesi, in fondo rassicurante, che contrappone una finanza "malata" ad un'economia reale "sana". Al contrario: è proprio "l'intreccio inestricabile tra finanza e produzione" ciò che caratterizza lo sviluppo economico degli ultimi trent'anni, che ha risolto a suo modo la crisi degli anni Settanta. Soprattutto nei paesi anglosassoni (ma non soltanto lì), lo sviluppo del credito e della finanza ha fatto da contrappeso alla caduta dei salari e alimentato i consumi grazie alla crescita di valore delle azioni e allo sviluppo del credito al consumo, dando così respiro a imprese industriali dei settori maturi (si pensi all'industria dell'auto), che oltretutto sempre più spesso hanno ricavato profitti direttamente da attività speculative. La storia di questa crisi è la storia dell'implodere di questo modello di crescita drogata. Gli autori lo dimostrano con semplicità argomentativa ma anche con il sostegno di molti dati. Il problema è che a questa crisi, che ha posto in luce con straordinaria chiarezza l'incapacità di autoregolazione del capitalismo, non ha corrisposto un riequilibrio dei poteri dal privato verso il pubblico: lo Stato ha accettato di fare il maggiordomo. È stata così possibile quella che Slavoj Zizek chiama "la spoliticizzazione della crisi": le scelte di violenta ristrutturazione delle imprese, e adesso di drastica riduzione dei servizi offerti dallo Stato, vengono così presentate non come scelte di classe, ma come risposte tecniche e necessarie.

Ma è proprio questo assunto che deve essere rovesciato praticamente. In che modo? Facendo emergere "nuove rigidità con cui quelle dominanti dovranno fare i conti", ricostruendo un pensiero e una volontà popolare radicalmente antagonistici. È un compito difficile. Ma - come ci ricorda Riccardo Bellofiore nella preziosa postfazione che chiude il volume - "o la sinistra recupera il senso dell'utopia, il senso della possibilità contro il senso della realtà, o è un morto che cammina".
22 july 1987
24 years ago NAJI, palestinian cartoonist was assasinated in London
This being that I have invented will certainly not cease to exist after me, and perhaps it is no exaggeration to say that I will live on with him after my death” Naji Al- Ali
in commemoration of the Nakbah day.

venerdì 22 luglio 2011

La redde rationem dell’Europa.

Fonte: economiaepolitica di Sergio Cesaratto - 21 Luglio 2011
1. Le giornate nere del debito

L’accelerazione della crisi europea è impressionante. Ce lo aspettavamo. L’assenza di politiche europee credibili nei riguardi della crisi dei piccoli paesi periferici ha alla fine generato quello che qualunque persona intelligente poteva prevedere: il contagio a Spagna e Italia. L’aumento dei tassi di interesse sui titoli di questi paesi avvicina la loro situazione a quella in cui caddero i piccoli birilli da biliardo lo scorso anno. Spagna e Italia sono però birilli da bowling. L’accelerazione nell’approvazione della manovra ma, soprattutto, le voci di un intervento della BCE a sostegno dei titoli italiani ha evitato martedì 12 l’irreparabile. Pur tuttavia il differenziale di interesse con i titoli tedeschi ha raggiunto un livello incompatibile con la sostenibilità nel lungo periodo del debito italiano. Ovvero se lo stock del debito italiano dovesse essere progressivamente rifinanziato a tassi così elevati, esso comincerebbe a crescere in maniera insostenibile per il mero pagamento degli interessi, a meno di imponenti avanzi primari del bilancio pubblico che a loro volta genererebbero recessione in una spirale senza fine. Siamo vicini alla situazione in cui si trovarono i piccoli periferici un anno fa, e da cui non sono in grado di uscire. Come insegnano le esperienze di questi ultimi, infatti, feroci manovre di aggiustamento dei conti accelerano la crisi debitoria. I mercati lo sanno. Martedì sera l’agenzia di rating Moody’s ha, infatti, ridotto anche i titoli del debito pubblico irlandese a spazzatura. Che fare allora?

L'Italia spende 23 miliardi per la guerra. Ma non lo dice

di Fabio Sebastiani Fonte: Liberazione
All'ottavo posto al mondo per spese militari, nel 2010 l'Italia spende oltre i 20 miliardi di euro per la difesa. Mentre la spesa complessiva per le strutture e il personale ha subito ritocchi, anche per "far posto" agli oneri del modello dell'esercito professionale, quella specifica per gli armamenti si avvicina sempre di più ad incrementi a due cifre. Luca Galassi ha fatto i conti in tasca alla difesa dalle colonne di "PeaceReporter": a lievitare sono i fondi destinati agli "acquisti" per i nuovi armamenti, un incremento dell'8,4%, (mentre l'incremento complessivo è almeno un terzo di questa percentuale) pari a quasi tre miliardi e mezzo, ovvero 266 milioni in più rispetto al 2010.
L'Italia spende mezzo miliardo di euro all'anno per la campagna in Afghanistan, ed ha messo in cantiere una operazione da 16 miliardi per acquistare 131 bombardieri invisibili F-35, aerei "stealth" di ultima generazione, attrezzato per trasportare Nh-90testate nucleari (471,8 milioni di euro l'uno). Altri 309 milioni saranno destinati all'acquisto degli elicotteri Nh-90 della AgustaWestland, mentre la lista della spesa militare 2011 contempla anche due sottomarini U-212, del costo di 164,3 milioni, e di altri elicotteri Ch-47 F Chinhook (per 137 milioni), oltre all'ammodernamento dei caccia multiruolo Tornado (178,3 milioni). Per il caccia Eurofighter Typhoon, il jet Aermacchi M-346 da addestramento, le modernissime fregate Fremm e i veicoli corazzati da combattimento Freccia verranno reperite risorse dal ministero dello Sviluppo economico, «chiamato a contribuire con poco meno di un miliardo di euro». E' proprio tenendo conto della "partecipazione" del ministero dello Sviluppo economico che la spesa complessiva lievita di ben tre miliardi.

Palestina: la prossima nazione del mondo.

Fonte: avvaz - Pubblicato il: 22 Luglio 2011
Fra quattro giorni si riunirà il Consiglio di Sicurezza dell'ONU, e il mondo intero avrà la possibilità di adottare una nuova proposta che potrebbe segnare il cambio di rotta di decenni di negoziati di pace fra israeliani e palestinesi: il riconoscimento da parte dell'ONU dello stato palestinese.

Oltre 120 nazioni del Medio Oriente, Africa, Asia e America Latina hanno già dato la loro adesione all'iniziativa, ma il governo di destra in Israele e gli Stati Uniti sono fortemente contrari. L'Italia e altri paesi chiave dell'Europa sono ancora indecisi, e un'enorme pressione da parte dell'opinione pubblica potrebbe convincerli a votare in favore di questa opportunità per mettere fine all'occupazione.

I negoziati di pace guidati dagli Stati Uniti, che vanno avanti ormai da decenni, hanno fallito, mentre Israele ha imprigionato il popolo palestinese, confiscato le sue terre e bloccato la Palestina dal diventare un'entità politica sovrana. Questa nuova coraggiosa iniziativa potrebbe liberare il popolo palestinese dalla prigionia, ma perché ciò avvenga l'Europa deve guidare l'operazione. Costruiamo una chiamata globale enorme rivolta all'Italia e ad altri leader europei per dichiarare il nuovo stato ora, e facciamo sì che il sostegno dei cittadini di tutto il mondo a questa proposta legittima, nonviolenta e diplomatica sia chiaro e forte.
Firma la petizione e fai il passaparola con tutti!
http://www.avaaz.org/it/independence_for_palestine_eu/?cl=1176867537&v=9661

giovedì 21 luglio 2011

Yogurt greco fatto in casa.

di Beppe Grillo. Fonte: beppegrillo
I politici greci sono fortunati. Quando si fanno vedere in giro (il meno possibile...) gli tirano lo yogurt. E quello greco è tra i migliori del mondo... I nostri invece li arrestano. Rimpiangono con nostalgia le monetine di Craxi. Se gli tirassero pezzi da 10 centesimi sarebbero contenti. Si muovono con la scorta, nelle auto blu con i vetri oscurati, come squali nel traffico, per non farsi riconoscere dalla gente. La temono. Le forze antisommossa dovrebbero chiamarsi, in realtà, forze antiretata parlamentare. Sono l'ultima barriera tra politici e cittadini. Pensate alla gioia di una maxi retata fatta dai magistrati in Parlamento. Per gli italiani sarebbe come vincere la Coppa del mondo di calcio.
Questi soggetti inquisiti, condannati in primo secondo, terzo grado, che nessuno ha eletto, si giudicano e si assolvono da soli. Decidono, per motivi misteriosi al popolo, chi può essere arrestato, come è avvenuto per Papa del pdl, e chi invece può farla franca, come Tedesco del pdmenoelle.
Basta un cerino acceso, un fiammifero dimenticato e si può scatenare la rivolta sociale. Loro lo sanno. Il Paese è indebitato a partire dallo Stato fino al più piccolo comune. Il debito di ciascun cittadino è la somma del debito di comune + provincia + regione + Stato. Un parmigiano, ad esempio, oltre a 31.000 euro di debito pubblico statale, ha sulle spalle 630 milioni di debito comunale, pari a 1.940 euro a testa compresi i neonati. Parma è comunque fortunata rispetto a Torino, la città più indebitata d'Italia. Affoghiamo nei debiti che qualcuno ha contratto al nostro posto. Più debiti significano meno servizi sociali, città invivibili, trasporti locali al collasso. Prima di qualunque altra spesa, infatti, devi pagare gli interessi sul debito per non fallire.
Ogni giorno un nuovo bollettino giudiziario. Si passa dal pluriarrestato Prosperini del pdl per mazzette a Filippo Penati,vice presidente del Consiglio regionale lombardo del pdmenoelle indagato per concussione e corruzione in un'inchiesta sull'area ex Falck di Sesto San Giovanni. In un Paese in cui Alfonso Papa si dichiara da Poggioreale "prigioniero politico" come un brigatista d'altri tempi e dove il pdl contesta il voto per Papa con la motivazione "Basta elettronica, si torni alle palline", sono le palline dei cittadini che ruotano vorticosamente. Chi deve andare in galera va deciso dai giudici, non dai sodali degli imputati e chi è accusato di gravi reati deve dimettersi. Nel mentre, Bersani dello Scudo Fiscale, del no alle province, della gestione dell'acqua privatizzata, della Tav e con imputati eccellenti nel suo partito chiede nuove elezioni. Sono d'accordo. Prima però deve sciogliere il pdmenoelle. Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.

Il nuovo attacco alla CASTA nasconde il progetto di governo tecnico direttamente gestito dai mercati.

di Rodolfo Ricci. Fonte: sinistrainrete
Come già accaduto in altre situazioni critiche nel recente passato, in Italia si è di nuovo scatenata la grande campagna contro la casta politica: la pagina su facebook, creata tre giorni fa e gestita, sembra, da un ex dipendente di Montecitorio nel frattempo licenziato (che si presenta con lo pseudonimo di Spider Truman) ha acquisito in 60 ora di presenza sul web, oltre 200 mila contatti.
Nella pagina sono state pubblicate una serie di indiscrezioni e di documenti che danno un quadro impressionante e desolante dei privilegi dei parlamentari e che diventano, in occasione del varo della ennesima manovra lacrime e sangue di 80 miliardi di Euro per placare il grande Minotauro -“i mercati”- e la grande finanza speculativa mondiale, un vero e proprio giustificato incitamento alla protesta.

L’operazione, è parte di una campagna molto ben supportata da diversi importanti media e organi di stampa (vedi La Repubblica, e il TG3, fra gli altri), che cerca di orientare il malcontento contro la classe politica e in particolare contro la maggioranza berlusconiana che, ponendo la fiducia, ha rifiutato di approvare, tra gli altri, un emendamento del PD che mirava alla riduzione dei costi della politica.

Questo emendamento, riduceva i costi della politica di 80 milioni di Euro circa, a fronte di un costo complessivo della politica in Italia stimato tra i 4 e i 5 miliardi all’anno. Quindi, ben poca cosa, anche se ovviamente superiore ai 7 milioni di Euro che la maggioranza si è autoridotta con la manovra, essenzialmente attraverso una norma che riduce l’uso delle auto-blu.

Una riduzione utile dei costi della politica, in un frangente come quello attuale, dovrebbe essere di ben altro spessore: almento 500 milioni / un miliardo, altrimenti, su un piano di contribuzione alla riduzione del debito pubblico, serve davvero a poco ed è essenzialmente demagogica.

Non è stato invece evidenziato da nessuno o da pochissimi, che tra gli emendamenti del PD, ve ne era uno, decisivo, che mirava allo smembramento della SNAM rete gas dall’ENI, e la messa sul mercato quindi, della parte più redditizia della multinazionale energetica a partecipazione pubblica; lo stesso emendamento conteneva la proposta di mettere sul mercato tutte le quote eccedenti il 20% di proprietà pubblica di ENI, Enel, Poste, Ferrovie e Finmeccanica e di privatizzare totalmente le circa 20.000 imprese partecipate degli enti locali (regioni, provincie, comuni, ecc.), secondo la visione salvifica della crisi del debito italiano, offerta da Enrico Letta, nella sua intervista a La Repubblica dell’11 luglio.

La farsa dell’emergenza economica.

di Andrea Fumagalli. Fonte: sinistrainrete
L’emergenza ha sempre caratterizzato le decisioni salienti della politica italiana, soprattutto quando si tratta di tematiche socio-economiche. La politica dell’emergenza – si sa – è diventata lo strumento principale dell’arte del comando. Certo, da sola, rischia di non essere sufficiente, se non è accompagnata anche da una “predisposizione istituzionale” che accomuna maggioranza e opposizione, sotto l’egida del presidente della repubblica.
Nell’estate del 1992, la necessità di operare in fretta e firmare accordi capestro ai danni dei lavoratori e delle lavoratrici (abolizione della scala mobile) era dettata dall’emergenza di entrare nell’Europa dell’euro.

Nell’estate 2011, la necessità di operare in fretta e promulgare leggi finanziarie draconiane, oltre ad accompagnarsi ad accordi sindacali, di nuovo a danno dei lavoratori e delle lavoratrici (ridimensionamento del contratto collettivo di lavoro) è dettata, invece, dalla necessità di non uscire dall’Europa dell’euro.

Tutti d’accordo, dunque, nel fare presto, “per dare un segnale chiaro e inequivocabile alla speculazione finanziaria”, ma pochi entrano nel merito dei contenuti della manovra correttiva.

In primo luogo, occorre osservare che sono due i provvedimenti che si stanno varando. Il primo è il decreto legge che imposta la finanziaria per il periodo 2011-2014 e intende recuperare 33,3 mld di euro. Il secondo è invece la legge delega fiscale, che richiederà tempi più lunghi e che prevede interventi per 14,7 mld. Tale legge delega è stata modificata nel passaggio dal Senato alla camera. Nel testo presentato a Palazzo Madama, sia nel 2011 che nel 2012, le maggiori entrate producevano un effetto marginale sui saldi, mentre nel biennio successivo la riduzione del deficit operava prevalentemente attraverso il contenimento delle spese: circa il 61% nel 2013 e il 74% nel 2014. Ora dal testo licenziato dalle Camere, nel 2011 all’apporto più significativo delle entrate, cui è affidato circa l’89% della correzione, si unisce una contenuta riduzione della spesa. Nel 2012 l’apporto alla manovra netta è interamente legato alle entrate, a fronte di un aumento delle spesa. Nel biennio successivo, entrambe le componenti contribuiscono al miglioramento dei saldi, anche se resta prevalente l’apporto delle entrate: 54,6% nel 2013 e 60,1% nel 2014.

The parlament voted for the arrest of the minister Alfonso Papa for corruption

mercoledì 20 luglio 2011

Euro. Perché salvare il sogno della destra?


Con il pretesto di evitare il crollo della moneta unica, le autorità europee continuano a imporre devastanti misure ultraliberiste. Ma l'unione monetaria è un progetto conservatore fin dai suoi esordi.
di Mark Weisbrot. 13 luglio 2011 - The Guardian Londra
Fonte: presseurop
L’euro sta precipitando verso i minimi storici nei confronti del franco svizzero e i tassi di interesse sui bond italiani e spagnoli hanno raggiunto tassi da record. Quest’ultimo sviluppo della crisi della zona euro è dovuto ai timori che il contagio stia per estendersi all’Italia, che con un’economia da 1.400 miliardi di euro e un debito di 1.700 miliardi è “troppo grande per fallire”, come si usa dire. Di conseguenza le autorità europee sono fortemente preoccupate.
Anche se al momento ci sono pochi presupposti che i tassi d’interesse italiani possano salire al punto da mettere davvero a repentaglio la solvibilità, i mercati finanziari stanno agendo irrazionalmente e incrementando sia i timori sia l’eventualità che la profezia si auto-avveri. Il fatto che le autorità europee non riescano neppure ad accordarsi su come gestire il debito greco – un’economia pari a meno di un sesto di quella italiana – non ispira molta fiducia nella loro capacità di gestire una crisi più grande. Le economie più deboli della zona euro – Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna – sono già di fronte alla prospettiva di anni di sacrifici economici, oltre ad altissimi livelli di disoccupazione (rispettivamente del 16, 12, 14 e 21 per cento).

Se teniamo conto del fatto che al fondo di questa condanna auto-inflitta c’è il proposito di salvare l’euro, è sicuramente opportuno chiedersi se valga davvero la pena salvarlo, e bisogna formulare questa domanda dall’ottica della stragrande maggioranza degli europei che si guadagnano da vivere, quindi da una prospettiva progressista.

Si afferma di frequente che l’unione monetaria – che ormai comprende 17 paesi – deve essere mantenuta per il bene dell’intero progetto europeo. Ciò implica ideali apprezzabili come la solidarietà europea, l’adozione di standard comuni sui diritti umani, l’integrazione sociale, la sorveglianza del nazionalismo di destra e naturalmente l’integrazione economica e politica che sta alla radice di questo progresso.

Ma ciò significa confondere l’unione monetaria, ovvero la zona euro, con l’Unione europea stessa. Danimarca, Svezia e Regno Unito, per esempio, appartengono all’Ue ma non all’unione monetaria. Non vi è dunque motivo per il quale il progetto europeo senza l’euro non possa andare avanti e portare comunque a un’Unione prospera.

Ci sono buone ragione per sperarlo. Il problema è che l’unione monetaria, diversamente dall’Ue, è un progetto della destra. Se ciò non è stato chiaro sin dall’inizio dovrebbe diventarlo adesso che le economie più deboli della zona euro sono soggette provvedimenti punitivi riservati in passato ai paesi a basso o medio reddito caduti nella morsa del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e del G7. Invece di cercare di uscire dalla recessione tramite stimoli e incentivi di natura fiscale e/o monetaria, come hanno fatto la maggior parte dei governi di tutto il mondo nel 2009, questi governi sono stati costretti a fare esattamente il contrario, con un enorme sacrificio a livello sociale.

La rotta d'Europa.


di Rossana Rossanda. Fonte: ilmanifesto
Qualche anno fa Romano Prodi si è felicitato di aver fatto l’unità dell’Europa cominciando dalla moneta. Se avessimo cominciato dalla politica – è stato il suo argomento – non ci saremmo arrivati mai data la storica rissosità dei singoli stati. Mi domando se lo ripeterebbe oggi.
E’ vero che la moneta unica, l’euro, c’è ed è diventata la seconda moneta internazionale del mondo, ma lui medesimo, che aveva a lungo diretto la Commissione, Jacques Delors, che l’aveva preceduto - nonché Felipe Gonzales, presidente all’epoca del governo spagnolo ed altri minori responsabili di quegli anni - hanno scritto sabato su “Le Monde” un preoccupato testo sul suo destino. Quattro paesi dell’Unione, Grecia, Portogallo, Spagna e Italia sono indebitati fino agli occhi e sono entrati in una zona di turbolenza pericolosa per tutto il continente. Soprattutto i padri dell’euro riconoscono che “certe misure” che si sarebbero dovute prendere a suo tempo, “come un coordinamento delle politiche economiche”, non sono state prese e “si stanno elaborando oggi “ e “nel dolore”. Di furia, perché siamo alle strette. Se ho capito bene, si tratta di alleggerire il debito greco con l’emissione di Eurobonds che se ne assumono una parte a lunga scadenza (e senza specularci sopra come hanno fatto le banche tedesche e francesi) e poi andare a un programma economico di tutti i paesi europei che cessi di lasciare ciascuno a cavarsela da sé. E non getti sui cittadini greci tutto il “dolore” e il peso del rientro del debito e della ricostruzione di una economia. Paghino una parte del conto “i grossi investitori istituzionali”, cioè le banche estere: hanno investito a rischio, e affrontarne i costi sta nel loro mestiere.

Parole prudenti, ma sufficienti, penso, a non trovare l’accordo dei paesi che si riuniranno giovedì 21 a Bruxelles - per cui la Germania sarebbe stata incline a prendere più tempo. Un suo illustre economista sostiene, una pagina più in là, che bisogna invece mettere la Grecia temporaneamente fuori dall’euro a spicciarsela con le sue dracme, una loro energica svalutazione e senza l’aiuto degli Eurobonds. E’ la linea liberista. Che si incrocia, in tutt’altra prospettiva, con quella di Amartya Sen, di alcuni economisti e sociologi francesi come Jacques Sapir e Emmanuel Todd e di politici di sinistra come Mélenchon e una parte dell’amletico Partito socialista, e dell’estrema destra di Marine Le Pen - via dall’euro e per sempre.

Non so - non trovando traccia delle procedure di abbandono dell’euro nelle varie bozze di trattati - se sia fattibile né ho capito in che cosa migliorerebbe le condizioni della Grecia un ripescaggio della dracma; la poderosa svalutazione si accompagnerebbe, certo, a una maggiore possibilità di esportare i suoi prodotti (ammesso che ne abbia di appetibili oltre il turismo) ma anche a un aumento, di proporzioni pari, del debito con le banche tedesche. O sbaglio?

La Grecia, vittima e metafora delle finzioni europee.


di Franco Romanò. Fonte: megachipinfo

Quel che sta accadendo in Grecia è solo la punta di un iceberg che non si vuole vedere, a parte le poche personalità politiche per lo più ai margini del dibattito pubblico televisivo, che da anni ripetono che stiamo andando a tutta velocità verso lo schianto finale. La questione del debito greco va vista al di là del teatrino dei conti fasulli spacciati per veri: tale pratica ha ormai precedenti talmente illustri (dalla Enron alla Parmalat e alla Cirio, da Lehman Brothers a Goldman Sachs), che si dovrebbe se mai prendere atto che la pratica del falso in bilancio è una necessità contabile.
Una pratica che accomuna grandi poteri privati e pubblici (stati compresi). La mitologia delle loro differenze reali tende a scomparire nell´epoca della finanziarizzazione selvaggia, contrassegnata proprio dalla necessaria mancanza di regole, dal venir meno delle barriere - labili ma ancora esistenti fino a qualche anno fa - fra comportamenti legali e comportamenti criminali, ormai fin dentro l´ambito di quella che dovrebbe essere l´economia legale.

I greci non pagano per i conti pubblici falsificati, di cui peraltro erano tutti al corrente e su cui nulla si diceva finché è stato conveniente non dirlo, ma perché tutta la politica finanziaria europea è un mostro dai piedi d’argilla che per continuare a sopravvivere deve mangiare i suoi figli uno ad uno, e cioè i popoli europei, destinati a un massacro sociale senza precedenti.

La crisi, naturalmente, non investe solo l´Europa: i nuovi interventi di emergenza ipotizzati dalla presidenza Obama sono lì a dimostrarlo. Nessun provvedimento serio è stato preso dall´amministrazione statunitense, a parte le demagogiche promesse della campagna elettorale. Tuttavia è sull´Europa ai tempi dell’Euro che vorrei soffermarmi.

È ormai evidente che, dopo aver scaricato sui cosiddetti stati deboli dell´Europa i costi di questo progetto del tutto sconsiderato (e dopo avere veicolato l’ideologia delle “due velocità” europee, dei “ritardi storici” dei popoli del Sud dell´Europa e così via), uno dopo l´altro saranno i tutti gli stati europei a finire sotto il tiro di quella che impropriamente si chiama speculazione internazionale.

Una manovra al giorno? (... certo, se serve per tranquillizzare i mercati!)


di Tommaso De Berlanga (il manifesto del 19/07/2011)Fonte: controlacrisi
La speculazione non si ferma. A piazza Affari la peggiore chiusura d'Europa. Napolitano convoca il premier e chiede compattezza. Il Pd: «Si torni alle urne». I mercati snobbano la manovra più mostruosa mai approvata. Milano perde il 3% e i titoli pubblici superano il 6% di interesse effettivo. Ma è tutto il mondo a ballare al ritmo imposto da una crisi mai finita
Facile fare previsioni quando tutti gli elementi sono già squadernati sul tavolo. La manovra sanguinosa che il governo ha fatto passare in soli cinque giorni, grazie al pressing di Giorgio Napolitano e alla condiscendenza «temporale» del Pd, a tutto poteva servire tranne che a «tranquillizzare i mercati». Che infatti ieri si sono scatenati come se nulla fosse stato.
Piazza Affari ha perso un altro 3%, con tutto il settore bancario stracciato via (oltre il 6% in un solo giorno), nonostante tutti i giornali internazionali titolassero che «gli istituti italiani e spagnoli si sono rivelati i migliori alla prova degli stress test» (un discutibile esercizio contabile per stabilire la loro capacità teorica di resistere a una nuova crisi stile 2008-2009). Soprattutto i titoli di stato - italiani e iberici, ma persino quelli francesi e tedeschi - hanno ballato come non si vedeva da mesi la danza del deprezzamento. Il differenziale di rendimento tra i Btp caserecci e i mitici Bund germanici è di nuovo salito a 337 punti (il 3,37%); vuol dire che per rifinanziare il debito sul mercato è necessario offrire titoli con rendimenti più alti (o, che è lo stesso, prezzi più bassi).
Se si vuole un'immagine per descrivere la reazione dei mercati alla manovra, dunque, eccone una: un governo screditato e sotto pressione si è rivelato prontissimo a sacrificare le condizioni di vita dei suoi cittadini pur di «tranquillizzare noi mercati». Bene, allora «possiamo battere cassa» con ancora più convinzione, certi che faranno di tutto e di più per riempirci le tasche; basta insistere ancora un po'.
"the newspapers, not a word..."
..."Immagine the full page titles if it was happening in Siria"

martedì 19 luglio 2011

Eurotruffatori e bugiardi


di Paolo Ferrero. Fonte: ilconfrontodelleidee
In questi giorni stiamo vivendo sulla nostra pelle una campagna di disinformazione di massa di dimensioni mai viste. Nei giorni scorsi è stata approvata - con il beneplacito delle opposizioni parlamentari e la benedizione del Presidente della Repubblica - una stangata pazzesca sul popolo italiano. Questa stangata è stata giustificata con la necessità di bloccare la speculazione finanziaria e rilanciare la crescita. Nulla di più falso.
La manovra è iniqua socialmente: non tocca i ricchi, non tocca la casta e mette i ticket. Si tratta cioè di una manovra che toglie ai due terzi più poveri del paese e nulla toglie ai più ricchi.
La manovra è recessiva perché i tagli della spesa sociale sommati all’aumento della tassazione diretta e indiretta produrranno una decisa riduzione del potere d’acquisto dei cittadini. Spendendo di meno i cittadini si venderanno meno merci e quindi l’economia scenderà. La manovra aggrava la crisi.
La manovra non serve nulla contro la speculazione per il semplice motivo che non attacca la speculazione. Ne abbiamo avuto la riprova nei giorni scorsi quando, dopo l’approvazione della manovra, la speculazione ha ricominciato tranquillamente a speculare al ribasso sui titoli di stato italiani. Nella manovra non è stata nemmeno presa una misura come la proibizione della vendita allo scoperto sul mercato azionario dei titoli di stato, che altri governi europei hanno già preso – Germania in testa – e che costituirebbe un importante elemento di freno alla speculazione.
La manovra appena approvata è identica a quelle approvate nell’ultimo anno in Grecia, manovre che hanno impoverito la popolazione greca, arricchito gli speculatori e portato il paese alla bancarotta.
Ci troviamo cioè di fronte ad una manica di truffatori che dicono notizie false tutti i giorni e che ripetendo le falsità a reti unificate e su tutti i giornali, le fanno diventare vere. La menzogna viene ripetuta in continuazione da tutti e vengono regolarmente censurate le nostre posizioni che svelano la menzogna. Così tutti gli italiani, pur lamentandosi della manovra, pensano che è l’unica cosa che si poteva fare. Le politiche neoliberiste, che sono alla base della crisi e della filosofia della manovra, vengono presentate come neutrali e naturali e la gente se le beve non capendo come altro fare.
Da parte del centrosinistra si dice che la speculazione continua perché il governo non è credibile. Certo il governo non è credibile ma il centro sinistra non dice che l’origine della speculazione sta nelle politiche europee che sono condivise anche da loro. In Grecia e in Spagna , vi sono governi socialisti eppure la speculazione li sta massacrando allegramente. Come mai? Perché l’origine della speculazione risiede nelle politiche neoliberiste attuate a livello europeo e costituzionalizzate dai vari trattati a partire da quello di Maastricht.

Una manovra con stile.



di Alessandro Robecchi. Fonte: ilmanifesto
Chiamiamo le cose con il loro nome: la manovra economica varata dal governo è senza ombra di dubbio una manovra di classe. E che classe, gente! Chissà se gli onorevoli indagati, tipo quel simpatico Milanese, si sono presentati a votare la manovra con al polso cinque o sei orologi da migliaia di euro. Ci vuole una certa classe per fare come quel Papa che qualcuno vorrebbe arrestare: qualche macchinone chiuso in garage, la Jaguar regalata all'amica, la fuoriserie lucida per correre a votare i tagli agli asili nido. Classe, gente, non c'è altra parola! E don Silvio, allora? Chiuso nel suo silenzio operoso potrà gioire del fatto che l'Italia non è la Grecia grazie soprattutto ai ticket sanitari e alla bastonatura dei bassi redditi. E, con una certa classe, potrà sorvolare il paese sui due nuovi superelicotteri da cinquanta milioncini della Presidenza del consiglio. Cadauno. O, se preferite, cadano tutti e due!, che sarebbe comprensibile preghiera. Ci vuole una certa classe per tagliare le agevolazioni fiscali alle famiglie più povere in misura doppia che a quelle più ricche. È commovente sapere che gente che vive di consulenze milionarie, che spende un miliardo di euro all'anno per andare a casa con l'autista, trovi il tempo per far pagare ai cittadini la visita al pronto soccorso. La classe non è acqua. E del resto è giusto che l'esempio venga dall'alto, che la classe dirigente e le massime autorità del governo mostrino sensibilità, moderazione nei costumi, propensione al risparmio. Tipo vivere gratis a casa di un amico come ha fatto il ministro dell'economia. Fatelo anche voi e non avrete gli aggravi previsti per i mutui. Ci vuole polso fermo per guidare un paese, ma anche un po' di stile non guasta, la forma è importante. Chissà come apprezzano gli otto milioni di italiani poveri. Diranno ammirati: però, che manovra di classe!

L'odio per l'occidente.


Jean Ziegler. Titolo: L'odio per l'occidente. Edizione Tropea, Milano, 2010,
Fonte: tecalibri
Prefazione all'edizione italiana.


La giornata era fredda, solo un timido sole trapelava fra le nubi. Pennsylvania Avenue era gremita di gente. Davanti alla facciata occidentale del Campidoglio era stato eretto un podio addobbato con i colori della bandiera americana.
Un uomo di quarantotto anni, slanciato, dal volto scuro e lo sguardo limpido che indossava un cappotto blu, è avanzato verso il centro del podio.
Il presidente della Corte suprema ha letto la formula del giuramento.
Barack Obama l'ha ripetuta.
Al suo fianco, la moglie Michelle e le sue due bambine, Sasha e Malia.
Il bisavolo di Michelle si chiamava Dolphus Shields. Era nato schiavo in una piantagione di cotone della Carolina del Sud nel 1859.
Tra l'immensa folla che si accalcava davanti al Campidoglio e lungo tutta Pennsylvania Avenue, molti avevano le lacrime agli occhi.
Era mercoledì 20 gennaio 2009.

Nel 2009, l'elezione di Barak Obama a 44esimo presidente degli Stati Uniti costituisce di certo l'evento più stupefacente che ha avuto luogo sul nostro pianeta. Frutto, per prima cosa, del risveglio e della mobilitazione della memoria ferita di milioni di persone, i discendenti degli africani deportati e gli appartenenti ad altre minoranze, questa vittoria ha fatto nascere ovunque nel mondo, ma soprattutto nell'emisfero Sud, un'immensa speranza.

Una speranza oggi in frantumi.

Nella più grande prigione militare del mondo, a Bagram, in Afghanistan, gli agenti dei servizi di sicurezza americani continuano a torturare i loro prigionieri. Le «Commissioni militari» sono rimaste al loro posto, e ai detenuti, «combattenti ostili» o semplici sospetti, non si applicano le Convenzioni di Ginevra.

L'avvocata newyorkese Tina Forster, che a Bagram si occupa, per conto dell'International Justice Network, di tre detenuti, due yemeniti e un tunisino, afferma: «Non c'è alcuna differenza tra l'amministrazione Obama e l'amministrazione Bush».

Obama porta avanti due guerre... e riceve il Nobel per la Pace!
Alla fine di novembre 2009, quattro giorni prima della cerimonia solenne durante la quale avrebbe ritirato, a Oslo, il riconoscimento, il presidente degli Stati Uniti ha deciso di intensificare la guerra in Afghanistan annunciando l'invio di altri trentamila soldati. D'ora in avanti i bombardieri americani saranno ufficialmente autorizzati a operare nelle zone tribali del Pakistan occidentale, dichiarate aree di ripiegamento e di rifornimento dei talebani. Sono soprattutto gli aerei telecomandati da una base militare sotterranea del Nevada, i droni, a compiere i massacri più terribili tra la popolazione civile di quella regione. Gli attacchi dei droni sulle città e i villaggi pashtun sono destinati ad aumentare considerevolmente.
THE SUBTRACTION OF THE FISHES

lunedì 18 luglio 2011

Scandalosa povertà.


Autore: Revelli, Marco. Fonte: edduburg
Il neoliberismo provoca maggiore povertà dei poveri in tutto il mondo, ma in Italia è peggio che altrove. Il manifesto, 16 luglio 2011
La nota Istat su «La povertà in Italia», relativa al 2010, ci restituisce l'immagine di un'Italia povera. Di un paese socialmente fragile, con un esercito di 8.272.000 individui (462.000 in più rispetto al 2009) in condizione di povertà relativa (costretti cioè a una spesa mensile inferiore a una soglia che per una famiglia di due membri è pari a 992 euro). E con 1.156.000 famiglie in condizione di povertà assoluta, per le quali cioè risulta impossibile procurarsi un pacchetto di beni e servizi considerati il minimo indispensabile per condurre una vita decente. Era così prima della crisi. Continua ad esserlo durante la tempesta.

Soprattutto però i dati Istat confermano la persistenza, anzi l'aggravamento, di tutte le caratteristiche che sono state indicate come tipiche del "modello di povertà" italiano. Un modello patologico, senza confronti in Europa. Esse sono tre. In primo luogo lo squilibrio nord-sud, con un differenziale territoriale che per la povertà relativa raggiunge le 5 volte: il 67% della povertà italiana continua a concentrarsi nel Mezzogiorno, nonostante vi risieda appena il 31% della popolazione. In secondo luogo l'altissima incidenza della povertà tra le famiglie numerose, in particolare quelle con figli minori a carico, che fa dell'Italia la maglia nera in Europa per quanto riguarda la più scandalosa delle povertà, quella dei minori, che qui raggiunge la percentuale record del 25% (secondo l'agenzia statistica europea Eurostat). Infine l'alto livello di povertà, sia relativa che assoluta, tra i lavoratori. La presenza, imbarazzante, dei working poor, dei "poveri al lavoro". O, se si preferisce, di coloro che sono poveri sebbene lavorino (più del 6% sono in condizione di povertà assoluta!).

La linea di Confindustria sul debito pubblico: privatizzazioni.


di Domenico Moro. Fonte: sinistrainrete
Il fondo del Sole24ore di sabato 9 luglio, all’indomani dell’attacco dei mercati finanziari contro l’Italia, delinea la linea di politica economica di Confindustria che, anziché salvare il “malato”, può definitivamente ucciderlo. Pur ammettendo l’importanza della crescita nella soluzione del problema del debito pubblico, secondo i due editorialisti, Perotti e Zingales, “non c’è più tempo per operare su di essa”. Bisogna agire in fretta per dare una risposta rassicurante ai mercati finanziari. La risposta consisterebbe nel “raggiungere il pareggio di bilancio in un anno. (…) Si tratta di lacrime e sangue. Ma le lacrime e sangue saranno ben maggiori se non abbiamo il coraggio di agire subito”. Non basta aumentare le entrate, bisogna tagliare le spese, a cominciare da quelle previdenziali. Ma anche questo non sarebbe sufficiente. Per risolvere la situazione “bisogna riprendere le privatizzazioni (per esempio Eni, Enel, Poste, Finmeccanica, Rai)”. Eccoci, quindi, al punto. La questione del debito pubblico diventa il grimaldello per attuare la definitiva privatizzazione di quello che rimane dell’intervento statale in economia. Si direbbe che dall’esperienza si sia imparato poco. Un decennio di stagnazione, seguito alle grandi privatizzazioni, ha dimostrato che il problema del debito pubblico non solo non viene risolto, bensì viene aggravato dalle privatizzazioni. Vediamo per quali ragioni.

1. Le privatizzazioni hanno smantellato o indebolito i pochi settori industriali dove il nostro Paese era all’avanguardia. La crescita del Pil italiano degli ultimi quindici anni è stata ben al di sotto di quella dei principali Paesi Ue, a causa della contrazione della produttività. Ciò è avvenuto anche perché i settori di proprietà statale più avanzati tecnologicamente, con più alti investimenti e più alta produttività, sono stati smantellati con le privatizzazioni e l’economia italiana si è sempre più concentrata sui settori meno produttivi, meno capital intensive e basati sui bassi salari.

Costruire convergenza tra le lotte – Intervista a Samir Amin.


Movimenti mondiali e questione nazionale, nuove risposte per vecchie sfide
Intervista a Samir Amin, economista. Fonte: laprospettiva
1) Su diversi giornali e siti si parla di Primavera Araba, così come in passato si è utilizzata l’espressione Primavera Sudamericana. Si tenta anche di collegare questi processi con le varie forme di protesta europee, dagli indignados ai referendum italiani. Nonostante questo collegamento è evidente l’assenza dello spirito di Genova 2001, un senso di unità che in molti riassumevano con lo slogan “un altro mondo è possibile”. C’è stata una perdita di unità ed è mai realmente esistito un movimento mondiale anticapitalista?

Alla questione è difficile rispondere. I movimenti sono evidentemente diversi l’uno dall’altro, da un paese all’altro: ognuno ha delle condizioni specifiche. C’è un grosso pericolo nel parlare di “mondo arabo”, perché si rischia di ignorare le molte differenze che esistono tra le vicende di Tunisia ed Egitto rispetto alla fase di Siria e Libia. Questo vale ovviamente di più per il collegamento con un realtà così distante come quella sudamericana, che presenta delle differenze anche al suo interno, dal Brasile al Venezuela cambia molto. Lo stesso discorso vale per i movimenti di Europa e Stati Uniti, che hanno caratteristiche proprie, legate alle specificità delle loro basi sociali.

C’è comunque qualcosa di comune in tutto questo: non sono solo movimenti di protesta ma di lotta contro il capitalismo odierno, quello del monopolio generalizzato e finanziario. Ovviamente si attaccano a un aspetto o a un altro, sono lotte segmentarie, ma la pluralità di questa lotta converge nella lotta generale contro il sistema, tanto nel mondo arabo quanto in quello sudamericano ed europeo. È un grande movimento mondiale che ha un fondamento comune, anche se non siamo ancora arrivati a una capacità del movimento di stabilire delle corrispondenze sufficienti per trasformare il momento di lotta locale o nazionale a un movimento, se non unificante, almeno convergente. Continuano a essere movimenti molto diversi tra loro.

Non ho mai amato la frase “un altro mondo è possibile”. Il mondo è in trasformazione permanente, ogni giorno l’avvenire è diverso dal presente. Il futuro muta ogni giorno e può essere migliore come peggiore. L’avvenire che vogliamo costruire è l’avvenire socialista e la prospettiva è quella comunista. Una prospettiva che non possiamo realizzare immediatamente, o in qualche anno e mese. Dobbiamo però conservare una visione di prospettiva generale.

Per me il comunismo non è un nuovo modo di produzione, migliore del capitalismo. È uno stato della civilizzazione avanzata. Serve una stagione della civilizzazione umana che non si può realizzare con un movimento dal basso estemporaneo. I movimenti però possono contribuire a costruire un modo diverso di gestione della società e della economia. Questo è il comunismo, e credo fosse questa la visione di Marx, anche se non ho il monopolio per parlare di marxismo.

Come si conquista un Paese.


Come si conquista un Paese: l'attacco della finanza internazionale all'Italia'
Tratto da http://www.clarissa.it - Fonte: senzasoste
L'attacco della speculazione che venerdì 8 luglio 2011 è stato diretto dalla finanza internazionale contro la Borsa italiana, provocando un ribasso del 3,47% pari a una perdita di 14,1 miliardi di capitalizzazione, non è una semplice operazione finanziaria. Chi continua a parlare dei "mercati finanziari" come di una divinità che organizza la vita delle società contemporanee sa perfettamente che questi anonimi "mercati finanziari" hanno nomi e cognomi. Sono uomini e gruppi che hanno precisi interessi e chiari obiettivi. Come in ogni operazione di destabilizzazione di un intero Paese, cioè, vi sono degli scopi ed essi sono oggi chiaramente individuabili.
L'Italia viene attaccata perché in realtà è uno dei Paesi dell'Occidente che meglio ha retto fino ad oggi la crisi finanziaria del 2007, grazie al fatto che i suoi cittadini e la rete delle sue piccole e medie imprese non hanno mai completamente dato ascolto alle sirene della globalizzazione finanziaria. Alcune sue imprese, le sue banche e le sue compagnie assicurative rappresentano quindi oggi un appetitoso obiettivo per chi spera di poterle ricomprare fra qualche mese a prezzi stracciati.
L'Italia viene attaccata perché un suo tracollo economico-finanziario rappresenterebbe il colpo definitivo all'euro e quindi al processo di unificazione europea che sulla moneta unica ha puntato (erroneamente) tutta la propria credibilità; e non vi sono dubbi che, senza l'ultimo presidio del Vecchio Continente, una visione sociale dei rapporti economici verrebbe definitivamente seppellita dalle forze montanti del capitalismo finanziario, da un lato, e dei nuovi capitalismi di Stato, come quello cinese, che, dall'altro, stanno avanzando senza freni sullo scenario mondiale.
L'Italia viene attaccata perché il nostro Paese ha una posizione determinante rispetto ai futuri assetti del Mediterraneo e del Medio Oriente e la confusa ma ancora in qualche modo persistente difficoltà italiana ad allinearsi completamente ad una politica forsennatamente filo-israeliana e di democracy building all'americana nei Paesi arabo-islamici, rappresenta oggi un ostacolo che deve essere rimosso in breve tempo.

domenica 17 luglio 2011

Islanda: governo costretto alle dimissioni, Costituzione rifatta sui social network, banche nazionalizzate. Una rivoluzione nel silenzio.

Di Chiara Pica. Fonte: ilpuntodivistaonline
L’islanda, il paese che con le sue eruzioni vulcaniche è stato in grado di bloccare il traffico aereo per giorni, è ora il protagonista di un’eruzione forse ancora più imponente: la rivoluzione democratica. Un’esplosione democratica che terrorizza i poteri economici e le banche di tutto il mondo, che porta con se messaggi rivoluzionari: di democrazia diretta, autodeterminazione finanziaria, annullamento del sistema del debito. Un paese con la democrazia probabilmente più antica del mondo, le cui origini vanno indietro all’anno 930 e che, da occupante il primo posto nel rapporto dell’ ONU sull’indice dello sviluppo umano 2007/2008, viene messo tra i dimenticati dai media. Perché questo silenzio su cambiamenti così epocali? Cosa fa così paura da tenere la cosa sotto censura? Vediamo come si sono svolti i fatti così capiremo come e perché un intero popolo si è risvegliato.

L’islanda ha visto negli ultimi 15 anni crescere notevolmente il benessere economico, tuttavia legato a un modello neoliberista puro, sinonimo di privatizzazione dei servizi pubblici, liberalizzazione di ogni settore e fine di ogni chiusura doganale; un modello economico spinto a tal punto che nel 2003 tutte le banche del paese erano state privatizzate. Esse cercarono di attrarre gli investimenti stranieri attraverso conti online con tassi di interesse piuttosto alti. Tutto ciò portò ad un notevole innalzamento del debito estero di queste banche, che dal 200% del PIL arrivò nel 2007 al 900%. Il colpo di scure arrivò con la crisi dei mercati finanziari del 2008: le tre principali banche del paese, la Landsbanki, la Kaupthing e la Glitnir, fallirono e vennero nazionalizzate; il crollo della corona sull’euro, che perse l’85 per cento, peggiorò drasticamente le cose tanto che alla fine dell’anno il paese andò in bancarotta. Il governo fu costretto a chiedere l’aiuto del Fondo Monetario Internazionale, mentre nel frattempo serpeggiò il malcontento nella popolazione: questa costituì un presidio prolungato davanti al parlamento che portò a gennaio al crollo del governo.

Se a votare sono i mercati.


di Guido Viale. Fonte: ilmanifesto
«A votare sono stati i mercati». Credo di aver letto per la prima volta questa espressione, o qualcosa di simile, sul quotidiano La Repubblica nella prima metà degli anni '90. Meno di un anno dopo il fallimento della banca d'affari Barings - una delle più antiche e "rispettabili" del Regno Unito - aveva aperto uno squarcio sul mistero dei mercati che «votano». Lì per lì la colpa era stata data a un giovane e intraprendente impiegato della filiale di Singapore che, all'insaputa dei suoi dirigenti, aveva perso l'equivalente di un miliardo di euro operando allo scoperto sulla borsa di Tokyo. Poi, poco a poco, si era venuto a sapere che di quei "giochi" era al corrente tutto lo staff dirigente della banca. E quelli di molte altre banche, che facevano esattamente la stessa cosa, su altri titoli o su altre piazze.
Già allora c'erano dunque tutti gli elementi per capire alcune cose: primo, che quelle operazioni, e altre consimili, si dovevano impedire; ma nessuna delle maggioranze al governo dei principali paesi dell'Occidente lo volle fare. E nessuna delle forze di opposizione - politica, o sociale, o associativa, o culturale - ne aveva fatto, né ne avrebbe fatto in seguito, la sua bandiera.
Eppure - secondo punto - la questione era della massima importanza; perché se a votare sono «i mercati» (e che mercati!), è chiaro che il voto dei cittadini non conta più; e alla democrazia si sostituisce la dittatura della finanza.
Oggi siamo a una resa dei conti. La finanza globale, con il suo «voto», controlla ormai il mondo intero. Ma non controlla se stessa. Quello che succede non è il risultato di un lucido piano concordato a tavolino, ma l'effetto di un meccanismo cieco che si chiama accumulazione del capitale. L'accumulazione del capitale non ha paura delle crisi, anche di quelle che provocano gigantesche distruzioni di ricchezza, comprese le guerre. E infatti, le conseguenze delle misure prese per fare fronte alla crisi finanziaria sono l'equivalente di un bombardamento sulla popolazione, sui posti di lavoro, sui redditi, sulle strutture produttive, sulla residua integrità del territorio di un paese. L'importante è che dopo la crisi o la distruzione si ricominci; perché è il meccanismo, e non il risultato, quello che va salvato.
Questo è il modo in cui procede la "crescita"; invocarla per porre rimedio all'impasse attuale vuol dire sostenere una continua riproposizione di quel meccanismo.

Manovra - Miracolo italiano


di Nicola Melloni (Liberazione del 16/07/2011) Fonte: controlacrisi Una pagina nera viene scritta in queste ore nel nostro Parlamento. La manovra economica viene approvata in quattro e quattr'otto sotto gli auspici del Presidente della Repubblica che ha definito «un miracolo» l'accordo tra maggioranza e opposizione. Certo, l'accordo non è sul merito della finanziaria, che il Pd critica, ma sulle tempistiche della approvazione, in fretta e furia per rassicurare i mercati. Purtroppo si tratta di una differenza di facciata. Anche il Pdl voleva cambiare la manovra, ma sia loro che il Pd (ed il resto delle forze parlamentari) hanno deciso di ritirare gli emendamenti, nei fatti svuotando il Parlamento delle sue prerogative in nome di un presunto bene superiore, la salvezza del Paese. Un miracolo? Vediamo meglio.
Ci sono due ordini di considerazioni da fare, su democrazia ed economia. Le modalità di approvazione di questa manovra ci portano a parlare di emergenza democratica, sulla falsariga di quel che è successo in Grecia. Certo, la manovra italiana è stata ideata da Tremonti e non dall' Unione Europea o dal Fondo Monetario Internazionale, ma il procedimento di approvazione è esattamente lo stesso ad Atene e a Roma dove i Parlamenti diventano semplicemente passa carte che si limitano ad approvare le leggi senza discuterle. Dove è finita la democrazia? Ha ancora un senso questa parola? In democrazia i cittadini eleggono il Parlamento che decide le priorità del Paese e vota di conseguenza le leggi. Il Parlamento si occupa certamente di tante cose (il nostro, purtroppo, ben poco), ma la legge finanziaria, e con essa soprattutto l'utilizzo delle nostre tasse che è il fondamento di ogni contratto sociale, è la legge per eccellenza. Ora invece la legge finanziaria è appaltata ad altri, a Tremonti, e non è dunque il Parlamento, il Paese, a decidere, ma un singolo, il trionfo della tecnocrazia.

Il default degli Stati Uniti



Di Beppe Grillo. Fonte

Il 3 agosto 2011, quasi dieci anni dopo le Torri Gemelle, si potrebbe consumare la vendetta di Bin Laden. Gli Stati Uniti sono sull'orlo del default. Se il Congresso non troverà entro il 2 agosto un accordo per alzare il tetto del debito, fissato per legge a 14.294 miliardi di dollari, il Paese più potente del mondo andrà in bancarotta. Sembra fantaeconomia, ma è tutto vero. Cosa c'entra Osama con il debito pubblico americano? Prima dell'11 settembre, il debito era sotto controllo, inferiore ai 6.000 miliardi. Dopo gli attentati è esploso a causa delle spese militari per le guerre in Iraq e in Afghanistan. Oggi ha largamente superato i 14.000 miliardi. Una jihad economica di Al Qaeda. Gli Stati Uniti spendono ogni anno in armamenti circa 10 volte più di ogni altro Paese, pari a circa 680 miliardi di dollari (dato 2010). Le basi USA sono ovunque, dal Giappone all'Italia, dalla Bosnia alla Turchia, dal Perù alla Corea del Sud. E' paradossale che la Cina, il principale avversario economico dell'America, ne finanzi l'apparato militare (che la circonda...) con l'acquisto dei suoi titoli pubblici. Peraltro, le ultime aste dei titoli sono ormai surreali. I titoli si stanno trasformando in carta straccia. La Fed, la banca centrale americana, infatti, acquista il 70% dei titoli emessi dal Tesoro. Si stampano i titoli e se li comprano. Farebbero prima a venderne solo il 30%. Gli Stati Uniti, per continuare a vivere, hanno bisogno di chiedere in prestito ogni giorno 4,5 miliardi di dollari (*). Sono il mendicante più in vista del pianeta. Un barbone con la tripla A, ma non dovrebbe avere la tripla C? Su che basi le agenzie valutano il rating statunitense, la sua solidità? Sul numero di testate atomiche che possiede? Democratici e repubblicani stanno discutendo da mesi su come ridurre il debito. Sembrano la brutta copia del Parlamento italiano, e ce ne vuole. Da una riduzione di 4.000 miliardi in dieci anni si è passati a una di 2.000 miliardi. Semplificando, i democratici vogliono più tasse per le classi abbienti, i repubblicani tagli dello Stato sociale. Eppure la soluzione è semplice. Si tolgano dai coglioni dal resto del mondo con i loro sommergibili atomici, ordigni nucleari, droni, basi militari, eserciti, portaerei, cacciabombardieri. Eviteranno il default e staranno meglio anche gli altri.
(*) fonte Financial Times

QUELLA MIOPIA POLITICA , DELLE MISURE DI AUSTERITA'.


Da "LA REPUBBLICA" di giovedì 14 luglio 2011. Fonte
di LUCIANO GALLINO

Le drastiche misure di austerità che i governi europei, incluso il nostro, stanno infliggendo ai loro cittadini non riguardano soltanto l`economia. Pongono questioni cruciali per il futuro della democrazia nella Ue. Prima que- stione: le organizzazioni cui i governi mostrano di avere ceduto la sovranità economica, qualiilFmi, laBce, laCommissione europea e le agenzie di valutazione, non godono di alcuna legittimazione politica. Inoltre si sono mostrate incapacisia di capirele cause reali della crisi, sia di predisporre interventi efficaci per rimediarvi.
Come sispiega alloral`atteggiamento disupina deferenzacheverso di loro mostrano i governi? Dopodiché occorre chiedersi quale sbocco politico le misure di austerità potrebbero avere nel medio periodo. Sia la storia del Novecento che molti segni recenti attestano che lo sbocco più probabile potrebbero essere regimi autoritari di destra.

Come uscire dalla crisi. Intervista a Emiliano Brancaccio.



In più occasioni ci è capitato di leggere dell’Europa come di un continente destinato al declino. C’è ancora spazio per il “vecchio mondo” o siamo destinati a essere “periferia dell’economia mondiale”?
L’Unione europea è il più grande esportatore mondiale di manufatti e servizi. Definirla una “periferia” mondiale è un errore. Seguendo una chiave interpretativa ancora attuale, fondata sulla categoria di imperialismo, l’Unione europea si situa tuttora al “centro” degli assetti del capitale mondiale, e mantiene un rapporto di controllo sulle periferie che orbitano attorno ad essa. Si tratta di un controllo economico ma anche politico e militare, come la guerra in Libia sta dimostrando in questi mesi.

Il grande limite dell’Europa, rispetto agli USA, risiede principalmente nella moneta. Gli Stati Uniti, forti della posizione di dominio monetario internazionale garantita dal dollaro, hanno per lungo tempo governato endogenamente lo sviluppo nazionale e mondiale. L’Europa invece si è mossa al traino, in una posizione che sul piano macroeconomico è stata quasi sempre subordinata agli USA. La stessa moneta unica non è nata con il proposito di diventare una moneta internazionale realmente alternativa al dollaro, ma sembra piuttosto essersi proposta quale baluardo della stabilità monetaria, una sorta di rifugio per il capitale ogni volta che il dollaro fosse stato soggetto a crisi e fluttuazioni eccessive. Fino ad oggi, dunque, le autorità europee non hanno quasi mai messo seriamente in discussione il primato macroeconomico e monetario americano.

Un ruolo nuovo e alternativo dell’Europa potrebbe allora consistere nel contribuire a delineare, con la Cina e gli altri paesi emergenti, un credibile sentiero di uscita dall’era del dollaro. Si tratta di una operazione complessa e potenzialmente rischiosa. Bisogna infatti capire che il passaggio da un regime monetario internazionale a un altro non avviene mai spontaneamente a seguito di una crisi, ma costituisce sempre un dirompente atto politico.
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