Movimenti mondiali e questione nazionale, nuove risposte per vecchie sfide
Intervista a Samir Amin, economista. Fonte: laprospettiva
1) Su diversi giornali e siti si parla di Primavera Araba, così come in passato si è utilizzata l’espressione Primavera Sudamericana. Si tenta anche di collegare questi processi con le varie forme di protesta europee, dagli indignados ai referendum italiani. Nonostante questo collegamento è evidente l’assenza dello spirito di Genova 2001, un senso di unità che in molti riassumevano con lo slogan “un altro mondo è possibile”. C’è stata una perdita di unità ed è mai realmente esistito un movimento mondiale anticapitalista?
Alla questione è difficile rispondere. I movimenti sono evidentemente diversi l’uno dall’altro, da un paese all’altro: ognuno ha delle condizioni specifiche. C’è un grosso pericolo nel parlare di “mondo arabo”, perché si rischia di ignorare le molte differenze che esistono tra le vicende di Tunisia ed Egitto rispetto alla fase di Siria e Libia. Questo vale ovviamente di più per il collegamento con un realtà così distante come quella sudamericana, che presenta delle differenze anche al suo interno, dal Brasile al Venezuela cambia molto. Lo stesso discorso vale per i movimenti di Europa e Stati Uniti, che hanno caratteristiche proprie, legate alle specificità delle loro basi sociali.
C’è comunque qualcosa di comune in tutto questo: non sono solo movimenti di protesta ma di lotta contro il capitalismo odierno, quello del monopolio generalizzato e finanziario. Ovviamente si attaccano a un aspetto o a un altro, sono lotte segmentarie, ma la pluralità di questa lotta converge nella lotta generale contro il sistema, tanto nel mondo arabo quanto in quello sudamericano ed europeo. È un grande movimento mondiale che ha un fondamento comune, anche se non siamo ancora arrivati a una capacità del movimento di stabilire delle corrispondenze sufficienti per trasformare il momento di lotta locale o nazionale a un movimento, se non unificante, almeno convergente. Continuano a essere movimenti molto diversi tra loro.
Non ho mai amato la frase “un altro mondo è possibile”. Il mondo è in trasformazione permanente, ogni giorno l’avvenire è diverso dal presente. Il futuro muta ogni giorno e può essere migliore come peggiore. L’avvenire che vogliamo costruire è l’avvenire socialista e la prospettiva è quella comunista. Una prospettiva che non possiamo realizzare immediatamente, o in qualche anno e mese. Dobbiamo però conservare una visione di prospettiva generale.
Per me il comunismo non è un nuovo modo di produzione, migliore del capitalismo. È uno stato della civilizzazione avanzata. Serve una stagione della civilizzazione umana che non si può realizzare con un movimento dal basso estemporaneo. I movimenti però possono contribuire a costruire un modo diverso di gestione della società e della economia. Questo è il comunismo, e credo fosse questa la visione di Marx, anche se non ho il monopolio per parlare di marxismo.
“Un altro mondo è possibile” è uno slogan utilizzato perché si è svalutato il termine socialismo. Non credo che la storia dell’URSS sia fatta solo di pagine oscure ma il movimento (il “nuovo” movimento) ha utilizzato queste per rifiutare qualsiasi riferimento al socialismo, da qui il termine “nuovo mondo”.
2) Il tema della forma partito ha occupato largo spazio all’interno del dibattito a sinistra. A livello generale, non solo europeo, quale tipo di organizzazione sarebbe adeguata per fronteggiare la crisi? Quale rapporto dovrebbe instaurarsi tra partiti e movimenti?
La forma partito è una forma storica. La II internazionale doveva inventare una forma definitiva per organizzare l’umanità: il partito. Se guardiamo alla storia reale i partiti nella II si sviluppano sulla schema “un paese-un partito”. Questo partito si è sviluppato nell’Europa Occidentale e in parte in Russia: ognuno era diverso dall’altro. Abbiamo un partito più anarco-sindacalista in Francia, uno più burocratico in Germania, uno di massa in Inghilterra, uno composto da intellettuali in Russia… l’elemento comune è “un partito per un paese”. La III internazionale ha ereditato questa concezione del partito, anche se con elementi nuovi legati al Lenin del 1929 e con una visione più universalista, valida anche per l’oriente e non solo legata all’occidente europeo.
Resta permanente quindi lo schema per cui in ogni paese deve esistere un solo partito, che deve essere il buon partito (una sorta di “forma sacra”). La II e la III internazionale hanno scelto forme che non possono essere considerate errori, dal momento che sono riuscite, nel corso delle loro epoche, a raggiungere compromessi favorevoli alle classi subalterne e a portare avanti delle rivoluzioni.
Oggi questa pagina è stata girata e dobbiamo comprendere il fatto che la lotta verso il socialismo può produrre e produrrà forme di organizzazione varie e diverse.. Non sono contro la costruzione del partito politico che reclama il comunismo ma questo non può pretendere il monopolio della lotta. All’epoca del monopolio del partito tutte le altre forme di organizzazione sociale erano considerate subalterne (compreso il sindacato, le organizzazioni femminili, …). La società attuale non permette più questo. Dobbiamo conservare una molteplicità di forme di organizzazione, mettendone alla prova l’efficacia all’interno delle lotte. Occorre costruire la combinazione di queste forme di lotta, per svilupparle attraverso la convergenza degli obbiettivi strategici comuni e quindi con battaglie comuni. Non credo del tutto alle tesi “alla Negri” per cui non avremmo bisogno di nulla e la società sarebbe capace di trasformarsi da sola. La società da sola resta sottomessa alle esigenze del capitale. Serve lucidità e volontà di costruire convergenze tra le varie forme di lotta.
Non serve partire da zero, perché se guardiamo alla I internazionale (quella di Marx) vediamo che c’erano anche Bakunin e Proudhon. Non c’era un partito per un paese ma più organizzazioni, una grande diversità di associazioni, gruppi e organizzazioni. La Quinta internazionale di cui abbiamo bisogno deve ispirarsi alla Prima.
3 – I poteri dei governi nazionali democraticamente eletti degli Stati europei sono sempre più ristretti, subordinati alle direttive economiche (Unione Europea delle borghesie, FMI, WTO) e militari (NATO) di enti sovranazionali; le destre estreme utilizzano questo elemento per far risvegliare sopiti spiriti nazionalistici. In questo contesto, e di fronte alla crisi che oggi viviamo, la sinistra dovrebbe interrogarsi sul tema della liberazione e dell’emancipazione nazionale, dell’autodeterminazione dei popoli (elemento caratterizzante della primavera latinoamericana)? Come dovrebbe affrontare la “questione nazionale”?
Il problema è reale. Non c’è legittimità sovranazionale, la sola legittimità politica resta nazionale. Non possiamo annullare la dimensione nazionale, anche se ovviamente questa non è perfetta. Non esiste un popolo europeo, non esiste una legittimità di potere sovranazionale europeo. Come si concilia la legittimità che resta esclusivamente nazionale con l’internazionalismo sovranazionale, mondiale, europeo? Questo è il problema.
La sinistra radicale, ispirata dalla tradizione socialista e comunista è capace di avanzare la risposta. Se non lo fa il pericolo che segnalate è reale, occuperanno il terreno con il nazionalismo. È quello che succede in Europa e la responsabilità è la mancanza di radicalità della sinistra “estrema”.
Questo era un aspetto della questione, l’altro è che la costruzione europea si è sviluppata su canali antidemocratici. Jean Monnet, padre dell’Europa, aveva simpatia per il fascismo italiano, considerava il nazismo come una deriva di folli ma aveva simpatie per Le Pen ed era antidemocratico.
Il modello dell’UE è quello degli USA: un paese che ha tutte le apparenza della democrazia ma in cui il potere del capitale non è messo in discussione. Questo è il modello su cui è stata costruita Bruxelles.
Durante i processi del 1951-1952 l’intento era chiaro: togliere i poteri ai parlamenti, ritenuti pieni di “demagoghi” e trasferirli ai tecnocrati. Comte ha disegnato chiaramente questa prospettiva: dare il potere a chi sa, laddove chi sa è chi è ricco.
Tutta la costruzione di Bruxelles è stata fatta seguendo un disegno che ha sottratto al popolo europeo la sua sovranità. La costruzione europea è per natura antidemocratica, la cosa è molto è più grave di un semplice deficit di democrazia. Il Parlamento Europeo non può cambiare niente. È la ragione per cui bisogna decostruire questa Europea, per trasformala, evitando delle proposte che non potrebbero mai essere messe in atto senza il consenso dell’avversario.
Spesso si introietta l’ideologia statunitense del consenso, che elimina il conflitto dal terreno sociale e lo sostituisce con la scienza, la tecnica e la conoscenza, sempre al servizio del capitale. Un esempio: la frase “dovremmo regolare le banche”. Per regolare le banche ci vuole il consenso delle banche. “Nazionalizzare le banche” invece non richiede il loro consenso. Non sto dicendo se è giusto o no nazionalizzare, mi limito a dire cose oggettive. Il virus liberale è una maledizione, l’idea del consenso è accettata su larga scala, come sostituiva rispetto al conflitto di classe.
4 – Il capitalismo mondiale, a fronte di una crisi che ha le sue radici già negli anni ’70 e ’80, ha cercato di nascondere le sue contraddizioni sempre più insostenibili con un ricorso spregiudicato alla finanza. In questi decenni come è mutato il capitalismo internazionale? Nell’attuale contesto di grave crisi, come potrebbe decidere di rilanciarsi il capitalismo e a quale costo?
La mia è una opinione personale non accettata da tutti. Il capitalismo del monopolio ha subito una trasformazione qualitativa ma non è una cosa nuova. Lenin lo vede già alla finestra del XX secolo. Oggi siamo ad un nuovo stadio del capitalismo di monopolio, per cui ci sono tre nuove caratteristiche.
1. Generalizzazione: non ci sono praticamente più segmenti di produzione autonomi dal rapporto con il monopolio, che controlla direttamente o indirettamente tutto, non solo i settori finanziario, produttivo, del commercio, di gestione, del trasporto, …. Non era così ai tempi di Lenin, esisteva un capitalismo di monopolio ma c’erano settori interi relativamente autonomi. Gli agricoltori non sono più un settore autonomo, sono sotto il controllo per quando riguarda l’accesso alle sementi, ai pesticidi, al credito. Sono sotto il controllo anche per quanto riguarda la distribuzione commerciale. L’agricoltura è subalterna su due lati.
2. Mondializzazione: il capitalismo è sempre stato su livello internazionale ma si è costituito su basi nazionali. I grandi paesi avevano i loro imperi e sono entrati in conflitti per l’egemonia mondiale. Il monopolio oggi agisce direttamente su dimensioni mondiali. Mentre prima aveva bisogno di milioni di abitanti, ossia un grande Paese e le sue colonie, oggi ha bisogno di centinaia di milioni di abitanti, molte più persone di quanti sono gli europei e gli statunitensi. Il capitalismo oggi deve lavorare direttamente su dimensioni globali, prima si costituiva in prima battuta su dimensioni nazionali e poi si ampliava. Questo comporta una conseguenza politica fondamentale: nel ‘900 assistevamo a conflitti mondiali tra interessi nazionali, oggi il monopolio ha la necessità di rivoluzionare direttamente il sistema mondiale e si creano alleanze profonde tra sistemi di produzione (come nel caso di USA-Europa-Giappone). Certo ci possono essere ancora delle piccole divergenze ma si tratta di un sistema complessivo, in cui l’Europa ricopre la parte di zona più mondializzata. Gli europei sono i “cretini” che hanno messo in pratica quanto teorizzato a dalla “scuola di Chicago”.
3. Finanziarizzazione: il dominio del monopolio generalizzato produce degli squilibri dentro la capacità di produzione e di consumo: produce una ripartizione diseguale a beneficio delle classi ricche e del capitale di monopolio. Un eccesso di profitto che non può trovare sfogo dentro l’approfondimento del sistema produttivo. La speculazione non è una deriva ma è necessaria alla riproduzione del sistema. Dicono che dovremmo limitare la finanziarizzazione, come se si potesse separare l’aspetto finanziario dal resto del capitalismo. Gli investimenti finanziari da parte di società non finanziarie, in Francia, sono passate da pochi punti percentuali del guadagno al 40-50%. La nazionalizzazione di tutto il capitale è l’unica soluzione: potenzialmente è l’apertura alla socializzazione possibile, anche se è necessaria una lunga evoluzione per scongiurare il rischio di burocratizzazione.
Un errore che è importante non commettere è parlare della speculazione come cosa altra rispetto al sistema di produzione. Dobbiamo parlare del capitalismo nel suo insieme. Scongiurare il pericolo per cui si rischia di sostenere un discorso morale per cui la speculazione coincide con il problema del sistema, che invece si riproduce di bolla in bolla: prima quella tecnologica, poi i mutui subprime, adesso quella alimentare e domani sicuramente qualcos’altro. Il sistema non può andare diversamente.
Non a caso gli argomenti contro la speculazione sono molto diffusi e popolari negli USA, perché sostituiscono la discussione politica. Ci si aggrappa alla speculazione quando non si sa dove andare a parare.
La corruzione è la penetrazione del potere politico nella gestione economica. La fusione di potere politico ed economico dà vita a un sistema che genera corruzione. In Italia per ragioni morali è popolare dire la “corruzione è male” ma ci si riferisce solo ad una forma volgare, comune a Berlusconi e Ben Alì. La corruzione è diventata un elemento di riproduzione del sistema, non una sua deviazione. Non possiamo porre fine a speculazione e corruzione senza la nazionalizzazione del capitalismo di monopolio.
Intervista a Samir Amin, economista. Fonte: laprospettiva
1) Su diversi giornali e siti si parla di Primavera Araba, così come in passato si è utilizzata l’espressione Primavera Sudamericana. Si tenta anche di collegare questi processi con le varie forme di protesta europee, dagli indignados ai referendum italiani. Nonostante questo collegamento è evidente l’assenza dello spirito di Genova 2001, un senso di unità che in molti riassumevano con lo slogan “un altro mondo è possibile”. C’è stata una perdita di unità ed è mai realmente esistito un movimento mondiale anticapitalista?
Alla questione è difficile rispondere. I movimenti sono evidentemente diversi l’uno dall’altro, da un paese all’altro: ognuno ha delle condizioni specifiche. C’è un grosso pericolo nel parlare di “mondo arabo”, perché si rischia di ignorare le molte differenze che esistono tra le vicende di Tunisia ed Egitto rispetto alla fase di Siria e Libia. Questo vale ovviamente di più per il collegamento con un realtà così distante come quella sudamericana, che presenta delle differenze anche al suo interno, dal Brasile al Venezuela cambia molto. Lo stesso discorso vale per i movimenti di Europa e Stati Uniti, che hanno caratteristiche proprie, legate alle specificità delle loro basi sociali.
C’è comunque qualcosa di comune in tutto questo: non sono solo movimenti di protesta ma di lotta contro il capitalismo odierno, quello del monopolio generalizzato e finanziario. Ovviamente si attaccano a un aspetto o a un altro, sono lotte segmentarie, ma la pluralità di questa lotta converge nella lotta generale contro il sistema, tanto nel mondo arabo quanto in quello sudamericano ed europeo. È un grande movimento mondiale che ha un fondamento comune, anche se non siamo ancora arrivati a una capacità del movimento di stabilire delle corrispondenze sufficienti per trasformare il momento di lotta locale o nazionale a un movimento, se non unificante, almeno convergente. Continuano a essere movimenti molto diversi tra loro.
Non ho mai amato la frase “un altro mondo è possibile”. Il mondo è in trasformazione permanente, ogni giorno l’avvenire è diverso dal presente. Il futuro muta ogni giorno e può essere migliore come peggiore. L’avvenire che vogliamo costruire è l’avvenire socialista e la prospettiva è quella comunista. Una prospettiva che non possiamo realizzare immediatamente, o in qualche anno e mese. Dobbiamo però conservare una visione di prospettiva generale.
Per me il comunismo non è un nuovo modo di produzione, migliore del capitalismo. È uno stato della civilizzazione avanzata. Serve una stagione della civilizzazione umana che non si può realizzare con un movimento dal basso estemporaneo. I movimenti però possono contribuire a costruire un modo diverso di gestione della società e della economia. Questo è il comunismo, e credo fosse questa la visione di Marx, anche se non ho il monopolio per parlare di marxismo.
“Un altro mondo è possibile” è uno slogan utilizzato perché si è svalutato il termine socialismo. Non credo che la storia dell’URSS sia fatta solo di pagine oscure ma il movimento (il “nuovo” movimento) ha utilizzato queste per rifiutare qualsiasi riferimento al socialismo, da qui il termine “nuovo mondo”.
2) Il tema della forma partito ha occupato largo spazio all’interno del dibattito a sinistra. A livello generale, non solo europeo, quale tipo di organizzazione sarebbe adeguata per fronteggiare la crisi? Quale rapporto dovrebbe instaurarsi tra partiti e movimenti?
La forma partito è una forma storica. La II internazionale doveva inventare una forma definitiva per organizzare l’umanità: il partito. Se guardiamo alla storia reale i partiti nella II si sviluppano sulla schema “un paese-un partito”. Questo partito si è sviluppato nell’Europa Occidentale e in parte in Russia: ognuno era diverso dall’altro. Abbiamo un partito più anarco-sindacalista in Francia, uno più burocratico in Germania, uno di massa in Inghilterra, uno composto da intellettuali in Russia… l’elemento comune è “un partito per un paese”. La III internazionale ha ereditato questa concezione del partito, anche se con elementi nuovi legati al Lenin del 1929 e con una visione più universalista, valida anche per l’oriente e non solo legata all’occidente europeo.
Resta permanente quindi lo schema per cui in ogni paese deve esistere un solo partito, che deve essere il buon partito (una sorta di “forma sacra”). La II e la III internazionale hanno scelto forme che non possono essere considerate errori, dal momento che sono riuscite, nel corso delle loro epoche, a raggiungere compromessi favorevoli alle classi subalterne e a portare avanti delle rivoluzioni.
Oggi questa pagina è stata girata e dobbiamo comprendere il fatto che la lotta verso il socialismo può produrre e produrrà forme di organizzazione varie e diverse.. Non sono contro la costruzione del partito politico che reclama il comunismo ma questo non può pretendere il monopolio della lotta. All’epoca del monopolio del partito tutte le altre forme di organizzazione sociale erano considerate subalterne (compreso il sindacato, le organizzazioni femminili, …). La società attuale non permette più questo. Dobbiamo conservare una molteplicità di forme di organizzazione, mettendone alla prova l’efficacia all’interno delle lotte. Occorre costruire la combinazione di queste forme di lotta, per svilupparle attraverso la convergenza degli obbiettivi strategici comuni e quindi con battaglie comuni. Non credo del tutto alle tesi “alla Negri” per cui non avremmo bisogno di nulla e la società sarebbe capace di trasformarsi da sola. La società da sola resta sottomessa alle esigenze del capitale. Serve lucidità e volontà di costruire convergenze tra le varie forme di lotta.
Non serve partire da zero, perché se guardiamo alla I internazionale (quella di Marx) vediamo che c’erano anche Bakunin e Proudhon. Non c’era un partito per un paese ma più organizzazioni, una grande diversità di associazioni, gruppi e organizzazioni. La Quinta internazionale di cui abbiamo bisogno deve ispirarsi alla Prima.
3 – I poteri dei governi nazionali democraticamente eletti degli Stati europei sono sempre più ristretti, subordinati alle direttive economiche (Unione Europea delle borghesie, FMI, WTO) e militari (NATO) di enti sovranazionali; le destre estreme utilizzano questo elemento per far risvegliare sopiti spiriti nazionalistici. In questo contesto, e di fronte alla crisi che oggi viviamo, la sinistra dovrebbe interrogarsi sul tema della liberazione e dell’emancipazione nazionale, dell’autodeterminazione dei popoli (elemento caratterizzante della primavera latinoamericana)? Come dovrebbe affrontare la “questione nazionale”?
Il problema è reale. Non c’è legittimità sovranazionale, la sola legittimità politica resta nazionale. Non possiamo annullare la dimensione nazionale, anche se ovviamente questa non è perfetta. Non esiste un popolo europeo, non esiste una legittimità di potere sovranazionale europeo. Come si concilia la legittimità che resta esclusivamente nazionale con l’internazionalismo sovranazionale, mondiale, europeo? Questo è il problema.
La sinistra radicale, ispirata dalla tradizione socialista e comunista è capace di avanzare la risposta. Se non lo fa il pericolo che segnalate è reale, occuperanno il terreno con il nazionalismo. È quello che succede in Europa e la responsabilità è la mancanza di radicalità della sinistra “estrema”.
Questo era un aspetto della questione, l’altro è che la costruzione europea si è sviluppata su canali antidemocratici. Jean Monnet, padre dell’Europa, aveva simpatia per il fascismo italiano, considerava il nazismo come una deriva di folli ma aveva simpatie per Le Pen ed era antidemocratico.
Il modello dell’UE è quello degli USA: un paese che ha tutte le apparenza della democrazia ma in cui il potere del capitale non è messo in discussione. Questo è il modello su cui è stata costruita Bruxelles.
Durante i processi del 1951-1952 l’intento era chiaro: togliere i poteri ai parlamenti, ritenuti pieni di “demagoghi” e trasferirli ai tecnocrati. Comte ha disegnato chiaramente questa prospettiva: dare il potere a chi sa, laddove chi sa è chi è ricco.
Tutta la costruzione di Bruxelles è stata fatta seguendo un disegno che ha sottratto al popolo europeo la sua sovranità. La costruzione europea è per natura antidemocratica, la cosa è molto è più grave di un semplice deficit di democrazia. Il Parlamento Europeo non può cambiare niente. È la ragione per cui bisogna decostruire questa Europea, per trasformala, evitando delle proposte che non potrebbero mai essere messe in atto senza il consenso dell’avversario.
Spesso si introietta l’ideologia statunitense del consenso, che elimina il conflitto dal terreno sociale e lo sostituisce con la scienza, la tecnica e la conoscenza, sempre al servizio del capitale. Un esempio: la frase “dovremmo regolare le banche”. Per regolare le banche ci vuole il consenso delle banche. “Nazionalizzare le banche” invece non richiede il loro consenso. Non sto dicendo se è giusto o no nazionalizzare, mi limito a dire cose oggettive. Il virus liberale è una maledizione, l’idea del consenso è accettata su larga scala, come sostituiva rispetto al conflitto di classe.
4 – Il capitalismo mondiale, a fronte di una crisi che ha le sue radici già negli anni ’70 e ’80, ha cercato di nascondere le sue contraddizioni sempre più insostenibili con un ricorso spregiudicato alla finanza. In questi decenni come è mutato il capitalismo internazionale? Nell’attuale contesto di grave crisi, come potrebbe decidere di rilanciarsi il capitalismo e a quale costo?
La mia è una opinione personale non accettata da tutti. Il capitalismo del monopolio ha subito una trasformazione qualitativa ma non è una cosa nuova. Lenin lo vede già alla finestra del XX secolo. Oggi siamo ad un nuovo stadio del capitalismo di monopolio, per cui ci sono tre nuove caratteristiche.
1. Generalizzazione: non ci sono praticamente più segmenti di produzione autonomi dal rapporto con il monopolio, che controlla direttamente o indirettamente tutto, non solo i settori finanziario, produttivo, del commercio, di gestione, del trasporto, …. Non era così ai tempi di Lenin, esisteva un capitalismo di monopolio ma c’erano settori interi relativamente autonomi. Gli agricoltori non sono più un settore autonomo, sono sotto il controllo per quando riguarda l’accesso alle sementi, ai pesticidi, al credito. Sono sotto il controllo anche per quanto riguarda la distribuzione commerciale. L’agricoltura è subalterna su due lati.
2. Mondializzazione: il capitalismo è sempre stato su livello internazionale ma si è costituito su basi nazionali. I grandi paesi avevano i loro imperi e sono entrati in conflitti per l’egemonia mondiale. Il monopolio oggi agisce direttamente su dimensioni mondiali. Mentre prima aveva bisogno di milioni di abitanti, ossia un grande Paese e le sue colonie, oggi ha bisogno di centinaia di milioni di abitanti, molte più persone di quanti sono gli europei e gli statunitensi. Il capitalismo oggi deve lavorare direttamente su dimensioni globali, prima si costituiva in prima battuta su dimensioni nazionali e poi si ampliava. Questo comporta una conseguenza politica fondamentale: nel ‘900 assistevamo a conflitti mondiali tra interessi nazionali, oggi il monopolio ha la necessità di rivoluzionare direttamente il sistema mondiale e si creano alleanze profonde tra sistemi di produzione (come nel caso di USA-Europa-Giappone). Certo ci possono essere ancora delle piccole divergenze ma si tratta di un sistema complessivo, in cui l’Europa ricopre la parte di zona più mondializzata. Gli europei sono i “cretini” che hanno messo in pratica quanto teorizzato a dalla “scuola di Chicago”.
3. Finanziarizzazione: il dominio del monopolio generalizzato produce degli squilibri dentro la capacità di produzione e di consumo: produce una ripartizione diseguale a beneficio delle classi ricche e del capitale di monopolio. Un eccesso di profitto che non può trovare sfogo dentro l’approfondimento del sistema produttivo. La speculazione non è una deriva ma è necessaria alla riproduzione del sistema. Dicono che dovremmo limitare la finanziarizzazione, come se si potesse separare l’aspetto finanziario dal resto del capitalismo. Gli investimenti finanziari da parte di società non finanziarie, in Francia, sono passate da pochi punti percentuali del guadagno al 40-50%. La nazionalizzazione di tutto il capitale è l’unica soluzione: potenzialmente è l’apertura alla socializzazione possibile, anche se è necessaria una lunga evoluzione per scongiurare il rischio di burocratizzazione.
Un errore che è importante non commettere è parlare della speculazione come cosa altra rispetto al sistema di produzione. Dobbiamo parlare del capitalismo nel suo insieme. Scongiurare il pericolo per cui si rischia di sostenere un discorso morale per cui la speculazione coincide con il problema del sistema, che invece si riproduce di bolla in bolla: prima quella tecnologica, poi i mutui subprime, adesso quella alimentare e domani sicuramente qualcos’altro. Il sistema non può andare diversamente.
Non a caso gli argomenti contro la speculazione sono molto diffusi e popolari negli USA, perché sostituiscono la discussione politica. Ci si aggrappa alla speculazione quando non si sa dove andare a parare.
La corruzione è la penetrazione del potere politico nella gestione economica. La fusione di potere politico ed economico dà vita a un sistema che genera corruzione. In Italia per ragioni morali è popolare dire la “corruzione è male” ma ci si riferisce solo ad una forma volgare, comune a Berlusconi e Ben Alì. La corruzione è diventata un elemento di riproduzione del sistema, non una sua deviazione. Non possiamo porre fine a speculazione e corruzione senza la nazionalizzazione del capitalismo di monopolio.
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