di Domenico Moro. Fonte: sinistrainrete
Il fondo del Sole24ore di sabato 9 luglio, all’indomani dell’attacco dei mercati finanziari contro l’Italia, delinea la linea di politica economica di Confindustria che, anziché salvare il “malato”, può definitivamente ucciderlo. Pur ammettendo l’importanza della crescita nella soluzione del problema del debito pubblico, secondo i due editorialisti, Perotti e Zingales, “non c’è più tempo per operare su di essa”. Bisogna agire in fretta per dare una risposta rassicurante ai mercati finanziari. La risposta consisterebbe nel “raggiungere il pareggio di bilancio in un anno. (…) Si tratta di lacrime e sangue. Ma le lacrime e sangue saranno ben maggiori se non abbiamo il coraggio di agire subito”. Non basta aumentare le entrate, bisogna tagliare le spese, a cominciare da quelle previdenziali. Ma anche questo non sarebbe sufficiente. Per risolvere la situazione “bisogna riprendere le privatizzazioni (per esempio Eni, Enel, Poste, Finmeccanica, Rai)”. Eccoci, quindi, al punto. La questione del debito pubblico diventa il grimaldello per attuare la definitiva privatizzazione di quello che rimane dell’intervento statale in economia. Si direbbe che dall’esperienza si sia imparato poco. Un decennio di stagnazione, seguito alle grandi privatizzazioni, ha dimostrato che il problema del debito pubblico non solo non viene risolto, bensì viene aggravato dalle privatizzazioni. Vediamo per quali ragioni.
1. Le privatizzazioni hanno smantellato o indebolito i pochi settori industriali dove il nostro Paese era all’avanguardia. La crescita del Pil italiano degli ultimi quindici anni è stata ben al di sotto di quella dei principali Paesi Ue, a causa della contrazione della produttività. Ciò è avvenuto anche perché i settori di proprietà statale più avanzati tecnologicamente, con più alti investimenti e più alta produttività, sono stati smantellati con le privatizzazioni e l’economia italiana si è sempre più concentrata sui settori meno produttivi, meno capital intensive e basati sui bassi salari.
2. La struttura industriale italiana è sempre stata meno dotata, rispetto ad altri Paesi europei, di grandi imprese, in grado di competere in un mercato sempre più mondiale. La maggior parte dei pochi gruppi di rilevanza internazionale erano e sono pubblici. Le privatizzazioni, eliminandoli, hanno indebolito e indeboliranno ancor di più tutta la struttura produttiva italiana e la sua capacità di competere. Inoltre, i grandi gruppi privati sono molto più portati a delocalizzare, come dimostra il caso Fiat.
3. Gli imprenditori italiani, anche e soprattutto i grandi, tendono a non investire capitale proprio, e spesso a basarsi sulla leva debitoria portata all’estremo (leverage buyout). Acquistare indebitandosi fortemente vuol dire dover destinare i ricavi a ripagare il debito e non a investimenti e innovazioni, indebolendo la capacità di competere. Le vicende di Telecom, seguenti alla sua vendita a Tronchetti-Provera, sono un esempio emblematico degli effetti nefasti delle privatizzazioni. Mentre in Telecom pubblica il 61,7% delle risorse erano destinate all’ammodernamento, in Telecom privatizzata solo il 31,8% è stato destinato allo stesso scopo.
4. I settori da privatizzare sono settori strategici, quali l’energia, le comunicazioni, ecc. Privatizzarli vuol dire anche privare il nostro Paese del controllo sulla sua struttura produttiva e potenzialmente abbandonarlo nelle mani di gruppi ed interessi stranieri, anche perché non è detto che si trovino capitali privati italiani disponibili a comprare, come ha dimostrato il caso Parmalat.
5. L’interesse alla privatizzazione dei gruppi statali nasce dal fatto che questi operano in mercati monopolistici, al riparo dalla concorrenza, oppure nei lucrosi servizi finanziari, come il Bancoposta. Chi vi investirà potrà beneficiare di rendite di posizione, mantenendo alti prezzi di monopolio, che certo non saranno diminuiti dalla privatizzazione (vedere il caso Autostrade). Allo stesso tempo, con lo spostamento dei capitali dai settori più esposti alla concorrenza verso i settori di monopolio diminuiranno i già declinanti investimenti fissi nel manifatturiero, rendendolo ancora meno competitivo.
6. Infine, la vendita dei “gioielli di famiglia” priva lo Stato di entrate consistenti per il suo bilancio. Solo l’Eni nel 2010 ha versato al Tesoro un dividendo di 1,21 miliardi di euro. Vendere aziende come Eni, Poste ed Enel non ha senso, perché vuol dire vendere le galline dalle uova d’oro. Per accontentare i mercati finanziari oggi, ci si priva di entrate sicure per il futuro.
I recenti innalzamenti degli interessi sui debiti di Portogallo e Grecia dimostrano che politiche di “lacrime e sangue” e privatizzazioni sono inefficaci contro la speculazione finanziaria internazionale sul debito sovrano. Mentre la crisi internazionale di questi anni evidenzia che il mercato autoregolato non funziona. Inoltre, le vicende italiane dimostrano che i privati, come ha evidenziato bene Massimo Mucchetti in “Licenziare i padroni?” sono stati padroni molto meno bravi dello Stato. Dunque, “le lacrime e il sangue” saranno ben maggiori nel futuro se oggi finiamo di smantellare la base produttiva del Paese, completando la trasformazione dell’economia italiana in quello che si potrebbe definire “capitalismo monopolistico parassitario”. Il peso del debito, ad ogni modo, si aggraverebbe. Infatti, visto che il debito viene calcolato come percentuale del Pil, incidere negativamente sulle basi strutturali di quest’ultimo significa aumentare il debito futuro indipendentemente dagli sforzi fatti per ridurlo. L’unica politica economica degna di questo nome è l’esatto opposto della ricetta di Confindustria: oltre ad impedire nuove privatizzazioni, bisogna anche e soprattutto rilanciare l’intervento pubblico in economia, a partire dalle ripubblicizzazioni dei settori privatizzati.
Il fondo del Sole24ore di sabato 9 luglio, all’indomani dell’attacco dei mercati finanziari contro l’Italia, delinea la linea di politica economica di Confindustria che, anziché salvare il “malato”, può definitivamente ucciderlo. Pur ammettendo l’importanza della crescita nella soluzione del problema del debito pubblico, secondo i due editorialisti, Perotti e Zingales, “non c’è più tempo per operare su di essa”. Bisogna agire in fretta per dare una risposta rassicurante ai mercati finanziari. La risposta consisterebbe nel “raggiungere il pareggio di bilancio in un anno. (…) Si tratta di lacrime e sangue. Ma le lacrime e sangue saranno ben maggiori se non abbiamo il coraggio di agire subito”. Non basta aumentare le entrate, bisogna tagliare le spese, a cominciare da quelle previdenziali. Ma anche questo non sarebbe sufficiente. Per risolvere la situazione “bisogna riprendere le privatizzazioni (per esempio Eni, Enel, Poste, Finmeccanica, Rai)”. Eccoci, quindi, al punto. La questione del debito pubblico diventa il grimaldello per attuare la definitiva privatizzazione di quello che rimane dell’intervento statale in economia. Si direbbe che dall’esperienza si sia imparato poco. Un decennio di stagnazione, seguito alle grandi privatizzazioni, ha dimostrato che il problema del debito pubblico non solo non viene risolto, bensì viene aggravato dalle privatizzazioni. Vediamo per quali ragioni.
1. Le privatizzazioni hanno smantellato o indebolito i pochi settori industriali dove il nostro Paese era all’avanguardia. La crescita del Pil italiano degli ultimi quindici anni è stata ben al di sotto di quella dei principali Paesi Ue, a causa della contrazione della produttività. Ciò è avvenuto anche perché i settori di proprietà statale più avanzati tecnologicamente, con più alti investimenti e più alta produttività, sono stati smantellati con le privatizzazioni e l’economia italiana si è sempre più concentrata sui settori meno produttivi, meno capital intensive e basati sui bassi salari.
2. La struttura industriale italiana è sempre stata meno dotata, rispetto ad altri Paesi europei, di grandi imprese, in grado di competere in un mercato sempre più mondiale. La maggior parte dei pochi gruppi di rilevanza internazionale erano e sono pubblici. Le privatizzazioni, eliminandoli, hanno indebolito e indeboliranno ancor di più tutta la struttura produttiva italiana e la sua capacità di competere. Inoltre, i grandi gruppi privati sono molto più portati a delocalizzare, come dimostra il caso Fiat.
3. Gli imprenditori italiani, anche e soprattutto i grandi, tendono a non investire capitale proprio, e spesso a basarsi sulla leva debitoria portata all’estremo (leverage buyout). Acquistare indebitandosi fortemente vuol dire dover destinare i ricavi a ripagare il debito e non a investimenti e innovazioni, indebolendo la capacità di competere. Le vicende di Telecom, seguenti alla sua vendita a Tronchetti-Provera, sono un esempio emblematico degli effetti nefasti delle privatizzazioni. Mentre in Telecom pubblica il 61,7% delle risorse erano destinate all’ammodernamento, in Telecom privatizzata solo il 31,8% è stato destinato allo stesso scopo.
4. I settori da privatizzare sono settori strategici, quali l’energia, le comunicazioni, ecc. Privatizzarli vuol dire anche privare il nostro Paese del controllo sulla sua struttura produttiva e potenzialmente abbandonarlo nelle mani di gruppi ed interessi stranieri, anche perché non è detto che si trovino capitali privati italiani disponibili a comprare, come ha dimostrato il caso Parmalat.
5. L’interesse alla privatizzazione dei gruppi statali nasce dal fatto che questi operano in mercati monopolistici, al riparo dalla concorrenza, oppure nei lucrosi servizi finanziari, come il Bancoposta. Chi vi investirà potrà beneficiare di rendite di posizione, mantenendo alti prezzi di monopolio, che certo non saranno diminuiti dalla privatizzazione (vedere il caso Autostrade). Allo stesso tempo, con lo spostamento dei capitali dai settori più esposti alla concorrenza verso i settori di monopolio diminuiranno i già declinanti investimenti fissi nel manifatturiero, rendendolo ancora meno competitivo.
6. Infine, la vendita dei “gioielli di famiglia” priva lo Stato di entrate consistenti per il suo bilancio. Solo l’Eni nel 2010 ha versato al Tesoro un dividendo di 1,21 miliardi di euro. Vendere aziende come Eni, Poste ed Enel non ha senso, perché vuol dire vendere le galline dalle uova d’oro. Per accontentare i mercati finanziari oggi, ci si priva di entrate sicure per il futuro.
I recenti innalzamenti degli interessi sui debiti di Portogallo e Grecia dimostrano che politiche di “lacrime e sangue” e privatizzazioni sono inefficaci contro la speculazione finanziaria internazionale sul debito sovrano. Mentre la crisi internazionale di questi anni evidenzia che il mercato autoregolato non funziona. Inoltre, le vicende italiane dimostrano che i privati, come ha evidenziato bene Massimo Mucchetti in “Licenziare i padroni?” sono stati padroni molto meno bravi dello Stato. Dunque, “le lacrime e il sangue” saranno ben maggiori nel futuro se oggi finiamo di smantellare la base produttiva del Paese, completando la trasformazione dell’economia italiana in quello che si potrebbe definire “capitalismo monopolistico parassitario”. Il peso del debito, ad ogni modo, si aggraverebbe. Infatti, visto che il debito viene calcolato come percentuale del Pil, incidere negativamente sulle basi strutturali di quest’ultimo significa aumentare il debito futuro indipendentemente dagli sforzi fatti per ridurlo. L’unica politica economica degna di questo nome è l’esatto opposto della ricetta di Confindustria: oltre ad impedire nuove privatizzazioni, bisogna anche e soprattutto rilanciare l’intervento pubblico in economia, a partire dalle ripubblicizzazioni dei settori privatizzati.
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