Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...
(di classe) :-))
Francobolllo
Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.
Europa, SVEGLIA !!
mercoledì 3 settembre 2014
Quali alternative al neoliberismo?
Fonte: Sbilanciamoci.info | Autore: Massimiliano Lepratti
Nonostante la gravissima crisi in corso il campo delle teorie critiche non riesce a offrire un orientamento che metta in crisi l'egemonia culturale del neoliberismo
Nonostante la gravissima crisi attraversata dall'Europa e la fallacia delle ricette neoliberiste finora sperimentate in risposta, il campo delle teorie critiche si mostra incapace di offrire un solido orientamento di politica economica che metta in crisi l'egemonia culturale del neoliberismo e funga da guida per progettare una società egualitaria, inclusiva e sostenibile. Di conseguenza laddove un'ideologia culturalmente egemone non venga contrastata sul suo stesso terreno di teoria capace di dettare le agende, anche i tentativi di politiche alternative tendono a divenire timidi, inclini a mediare al ribasso e a piegarsi ai principi dominanti: l'Italia di Prodi/Padoa Schioppa o (peggio) di Renzi/Padoan ne sono solo alcuni esempi. Eppure i materiali culturali per sostenere la costruzione di un pensiero diverso a sinistra non mancherebbero: i grandi classici (da Smith a Ricardo a Marx) e i classici della dinamica dello sviluppo (ancora Marx, oltre a Keynes, e Schumpeter) continuano ad essere forieri di eccellenti spunti di analisi il cui livello scientifico e la cui capacità di lettura realistica del mondo sono senza dubbio superiori rispetto a quelli che per semplicità qui chiamiamo neoliberisti.
Detto questo, i motivi per cui ci troviamo in questa situazione di subalternità sono molteplici, ma due appaiono più significativi di altri:
il pensiero mainstream è in grado senza dubbio di dispiegare una quantità di mezzi culturali tali da spingere verso la minorità le idee alternative: mezzi giornalistici, comunicativi, istruzione – si pensi ai manuali economici studiati nelle università, l'assenza dell'economia politica nelle scuole superiori... - l'insieme di questo fuoco di fila riduce progressivamente da almeno 40 anni lo spazio per pensieri diversi. Keynes aveva spesso torto quando pensava che la forza delle idee fosse più forte degli interessi costituiti e gli esperimenti di psicologia sociale di Solomon Asch dimostrano invece quanto le persone tendano ad adeguarsi ai comportamenti delle maggioranze (anche quando li percepiscono come errati);
la dispersione delle teorie alternative in una grande pluralità di rivoli, molti dei quali portatori di analisi interessanti e affilate, ma poco coordinati e divisi nelle proposte. La litigiosità ideologica è tipica di chi si ponga un compito enorme come il cambiamento dell'ordine dominante (mentre chi difende i propri puri interessi materiali tende a dividersi meno sul piano delle idee), ma oggi, dato lo squilibrio di forze, si pone la necessità nella sinistra critica di un passaggio di paradigma dal mondo dell'aut/aut (per cui tutto ciò che non aderisce strettamente al mio pensiero mi è totalmente estraneo), al mondo dell'et/et in cui la valorizzazione dialogica degli elementi di somiglianza e di complementarità fra punti di vista diventi la base per un processo di costruzione cooperativa del sapere, delle teorie, delle proposte.
Nonostante la gravissima crisi attraversata dall'Europa e la fallacia delle ricette neoliberiste finora sperimentate in risposta, il campo delle teorie critiche si mostra incapace di offrire un solido orientamento di politica economica che metta in crisi l'egemonia culturale del neoliberismo e funga da guida per progettare una società egualitaria, inclusiva e sostenibile. Di conseguenza laddove un'ideologia culturalmente egemone non venga contrastata sul suo stesso terreno di teoria capace di dettare le agende, anche i tentativi di politiche alternative tendono a divenire timidi, inclini a mediare al ribasso e a piegarsi ai principi dominanti: l'Italia di Prodi/Padoa Schioppa o (peggio) di Renzi/Padoan ne sono solo alcuni esempi. Eppure i materiali culturali per sostenere la costruzione di un pensiero diverso a sinistra non mancherebbero: i grandi classici (da Smith a Ricardo a Marx) e i classici della dinamica dello sviluppo (ancora Marx, oltre a Keynes, e Schumpeter) continuano ad essere forieri di eccellenti spunti di analisi il cui livello scientifico e la cui capacità di lettura realistica del mondo sono senza dubbio superiori rispetto a quelli che per semplicità qui chiamiamo neoliberisti.
Detto questo, i motivi per cui ci troviamo in questa situazione di subalternità sono molteplici, ma due appaiono più significativi di altri:
il pensiero mainstream è in grado senza dubbio di dispiegare una quantità di mezzi culturali tali da spingere verso la minorità le idee alternative: mezzi giornalistici, comunicativi, istruzione – si pensi ai manuali economici studiati nelle università, l'assenza dell'economia politica nelle scuole superiori... - l'insieme di questo fuoco di fila riduce progressivamente da almeno 40 anni lo spazio per pensieri diversi. Keynes aveva spesso torto quando pensava che la forza delle idee fosse più forte degli interessi costituiti e gli esperimenti di psicologia sociale di Solomon Asch dimostrano invece quanto le persone tendano ad adeguarsi ai comportamenti delle maggioranze (anche quando li percepiscono come errati);
la dispersione delle teorie alternative in una grande pluralità di rivoli, molti dei quali portatori di analisi interessanti e affilate, ma poco coordinati e divisi nelle proposte. La litigiosità ideologica è tipica di chi si ponga un compito enorme come il cambiamento dell'ordine dominante (mentre chi difende i propri puri interessi materiali tende a dividersi meno sul piano delle idee), ma oggi, dato lo squilibrio di forze, si pone la necessità nella sinistra critica di un passaggio di paradigma dal mondo dell'aut/aut (per cui tutto ciò che non aderisce strettamente al mio pensiero mi è totalmente estraneo), al mondo dell'et/et in cui la valorizzazione dialogica degli elementi di somiglianza e di complementarità fra punti di vista diventi la base per un processo di costruzione cooperativa del sapere, delle teorie, delle proposte.
Partendo da quest'ultimo punto ci pare di poter rintracciare fin da oggi un primo elenco di principi e di temi capaci di attrarre e rendere complementari (o dialoganti) posizioni finora molto differenziate. Ben sapendo che il primo che mette su carta un elenco di questo tipo inevitabilmente si attrae un sacco di osservazioni e di critiche, ci prendiamo il rischio e proviamo a procedere.
Sulla metodologia di analisi
A livello di principi generali con cui leggere la realtà ci pare che almeno due possano essere considerati centrali per opporsi positivamente alla lettura neoliberista:
1) il contrasto alle metodologie basate sull'individualismo economico il cui portato più recente si trova in frasi del tipo “lo Stato deve comportarsi come un buon padre di famiglia”, utilizzate abbondantemente per suggerire ricette di austerity. La differenza irriducibile tra analisi micro (riferite a singole imprese, singoli individui, singole famiglie) e analisi macro (riferite ad enti ben più complessi e interrelati quali lo Stato) è un presupposto indispensabile per qualunque teoria sociale critica;
2) La centralità del lavoro. Il lavoro è l'attività attraverso la quale gli esseri umani modificano l'ambiente per rispondere ai propri bisogni individuali e sociali (trasformando pezzi di legno grezzi in tavoli e sedie, trasformando metalli in parti di computer etc.). Poiché quasi nessun essere umano è in grado di prodursi autonomamente tutto quanto soddisfa i suoi bisogni, le persone entrano in relazione acquisendo (spesso in cambio di denaro) pezzi di lavoro altrui. Nel capitalismo questo processo ha subito un enorme potenziamento e le produzioni lavorative industriali scambiate via denaro sono diventate la base grandemente predominante della creazione di valore economico, agganciando intorno ad esse servizi sempre più sofisticati. Tutto questo per dire che il tema del lavoro non è riducibile alla sua componente sindacale in senso stretto, ma in quanto processo cooperativo di trasformazione della natura per soddisfare bisogni umani il lavoro resta pur sempre il nodo centrale di ogni progetto progressista di cambiamento socio economico.
Sui problemi della domanda e dell'offerta
Spesso gli economisti utilizzano un linguaggio apodittico e i due termini di cui si discuterà non hanno significato univoco; in questo scritto quando ci si riferisce al problema della domanda si intende la necessità di avere una domanda aggregata (ossia composta dalla somma della domanda di famiglie, imprese, Stato, acquirenti esteri) sufficiente a stimolare la produzione. Gli ambiti entro i quali è possibile dare una risposta progressista al problema della domanda potrebbero essere principalmente due:
la lotta alla diseguaglianza, non solo in quanto fattore di iniquità sociale, ma anche come produttrice di distorsioni rispetto all'efficienza economica (la diseguaglianza riduce la domanda aggregata, sfavorendo la propensione marginale al consumo). Qui i terreni di azione concreti possono essere molti: un diverso sistema fiscale, una diversa politica del mercato del lavoro etc.
la ridistribuzione sociale degli aumenti di produttività: anche laddove la produzione venisse acquistata da una domanda aggregata sufficiente il continuo aumento di produttività (frutto del progresso tecnologico) tenderebbe spontaneamente a mettere in moto effetti sociali negativi traducendosi in licenziamenti, o in puro aumento di profitti. É quindi fondamentale prospettare politiche redistributive dei guadagni di produttività, indirizzate sia verso l'aumento di reddito delle classi popolari e medie, sia verso l'aumento dei servizi sociali e culturali disponibili, sia infine verso una suddivisione equa del lavoro rimasto, attraverso politiche di riduzione di orario.
Per problema dell'offerta si intende invece principalmente il dibattito sul cosa e come produrre ed offrire (a livello di sistema industriale, agricolo etc.). Anche qui i temi da porre al dibattito possono essere almeno un paio, entrambi di grosso peso strategico:
La necessità di un indirizzo pubblico di politica economica che orienti il sistema nazionale verso una produzione industriale innovativa, capace di anticipare i bisogni/consumi futuri di imprese e famiglie.
Il contemporaneo contrasto a rendite e speculazioni. Occorre porre severi vincoli legislativi a livello europeo alle speculazioni finanziarie (che sono un effetto e una causa della crisi della produzione industriale), ed occorre scoraggiare ogni forma di monopoli/oligopoli di rendita – cosa ben diversa dai monopoli naturali.
Come forse si noterà i problemi della domanda e dell'offerta hanno spesso profili complementari (una produzione industriale innovativa tende ad offrire posti di lavoro meglio remunerati, un contrasto alla speculazione finanziaria per mezzo di tasse dissuasive tende a produrre un'entrata che può essere destinata a servizi sociali, etc.) per cui mal si giustifica l'incomunicabilità tra gli studiosi dei due campi.
Oltre il progressismo
Le proposte indicate non hanno nulla di rivoluzionario e si limitano a porre alcuni indirizzi compatibili con le migliori tradizioni del liberalismo progressista, crediamo pertanto che nessuno nel campo della sinistra critica sia contrario a priori ai suggerimenti citati, al limite il terreno di discussione/divisione si può collocare sugli ordini di priorità e sul livello di profondità degli interventi.
Il campo si fa più accidentato e conflittuale quando invece si muovono passi ulteriori verso un'economia che si distacchi più nettamente dal capitalismo. La discussione è comunque estremamente interessante e niente affatto incompatibile con le proposte citate in precedenza. Anche qui i temi da suggerire potrebbero essere molti, ma per semplicità ci limiteremo a due argomenti di discussione:
Cosa è socialmente utile produrre? La domanda è importantissima soprattutto laddove si ricordi la centralità del lavoro non solo come fonte del valore economico, ma anche come strumento necessario e insostituibile per rispondere ai bisogni collettivi. Con queste premesse il tema dell'innovazione industriale diviene più complesso: per quanto una capacità sistemica di anticipazione dei bisogni sia un valore in termini di efficienza economica, in termini sociali non è indifferente stabilire verso quali bisogni orientarla e con quali strumenti guidarla (sappiamo ad esempio che il settore militare produce abbondanti ricadute di innovazione, ma orientare prioritariamente la ricerca verso altri settori, ad esempio la tutela ambientale, non è un compito socialmente più desiderabile? E se lo è quanto di questo compito deve essere affidato allo Stato? )
Esiste il diritto effettivo di scegliersi il lavoro? Se ancora la riduzione di orario lavorativo è uno strumento di efficienza socio economica (assicura una migliore allocazione delle risorse, aumenta la domanda aggregata fornendo reddito a una quantità maggiore di persone, migliora la qualità della vita...), non sarebbe compito di una società più avanzata offrire alle persone non solo una minore quantità di lavoro obbligato, ma anche la possibilità di scegliersi un impiego soddisfacente (e se si accetta questo presupposto è difficile non discutere di reddito universale incondizionato, di riforme profonde del sistema dell'istruzione etc.)
L'invito ai lettori è quello di non concentrarsi solo sulle singole proposte, quanto nuovamente sull'invito iniziale ad un lavoro di cooperazione intellettuale che ponga le basi per un'idea complessiva di politica economica sulla quale possa valere la pena mobilitare forze sociali, politiche ed intellettuali.
Sulla metodologia di analisi
A livello di principi generali con cui leggere la realtà ci pare che almeno due possano essere considerati centrali per opporsi positivamente alla lettura neoliberista:
1) il contrasto alle metodologie basate sull'individualismo economico il cui portato più recente si trova in frasi del tipo “lo Stato deve comportarsi come un buon padre di famiglia”, utilizzate abbondantemente per suggerire ricette di austerity. La differenza irriducibile tra analisi micro (riferite a singole imprese, singoli individui, singole famiglie) e analisi macro (riferite ad enti ben più complessi e interrelati quali lo Stato) è un presupposto indispensabile per qualunque teoria sociale critica;
2) La centralità del lavoro. Il lavoro è l'attività attraverso la quale gli esseri umani modificano l'ambiente per rispondere ai propri bisogni individuali e sociali (trasformando pezzi di legno grezzi in tavoli e sedie, trasformando metalli in parti di computer etc.). Poiché quasi nessun essere umano è in grado di prodursi autonomamente tutto quanto soddisfa i suoi bisogni, le persone entrano in relazione acquisendo (spesso in cambio di denaro) pezzi di lavoro altrui. Nel capitalismo questo processo ha subito un enorme potenziamento e le produzioni lavorative industriali scambiate via denaro sono diventate la base grandemente predominante della creazione di valore economico, agganciando intorno ad esse servizi sempre più sofisticati. Tutto questo per dire che il tema del lavoro non è riducibile alla sua componente sindacale in senso stretto, ma in quanto processo cooperativo di trasformazione della natura per soddisfare bisogni umani il lavoro resta pur sempre il nodo centrale di ogni progetto progressista di cambiamento socio economico.
Sui problemi della domanda e dell'offerta
Spesso gli economisti utilizzano un linguaggio apodittico e i due termini di cui si discuterà non hanno significato univoco; in questo scritto quando ci si riferisce al problema della domanda si intende la necessità di avere una domanda aggregata (ossia composta dalla somma della domanda di famiglie, imprese, Stato, acquirenti esteri) sufficiente a stimolare la produzione. Gli ambiti entro i quali è possibile dare una risposta progressista al problema della domanda potrebbero essere principalmente due:
la lotta alla diseguaglianza, non solo in quanto fattore di iniquità sociale, ma anche come produttrice di distorsioni rispetto all'efficienza economica (la diseguaglianza riduce la domanda aggregata, sfavorendo la propensione marginale al consumo). Qui i terreni di azione concreti possono essere molti: un diverso sistema fiscale, una diversa politica del mercato del lavoro etc.
la ridistribuzione sociale degli aumenti di produttività: anche laddove la produzione venisse acquistata da una domanda aggregata sufficiente il continuo aumento di produttività (frutto del progresso tecnologico) tenderebbe spontaneamente a mettere in moto effetti sociali negativi traducendosi in licenziamenti, o in puro aumento di profitti. É quindi fondamentale prospettare politiche redistributive dei guadagni di produttività, indirizzate sia verso l'aumento di reddito delle classi popolari e medie, sia verso l'aumento dei servizi sociali e culturali disponibili, sia infine verso una suddivisione equa del lavoro rimasto, attraverso politiche di riduzione di orario.
Per problema dell'offerta si intende invece principalmente il dibattito sul cosa e come produrre ed offrire (a livello di sistema industriale, agricolo etc.). Anche qui i temi da porre al dibattito possono essere almeno un paio, entrambi di grosso peso strategico:
La necessità di un indirizzo pubblico di politica economica che orienti il sistema nazionale verso una produzione industriale innovativa, capace di anticipare i bisogni/consumi futuri di imprese e famiglie.
Il contemporaneo contrasto a rendite e speculazioni. Occorre porre severi vincoli legislativi a livello europeo alle speculazioni finanziarie (che sono un effetto e una causa della crisi della produzione industriale), ed occorre scoraggiare ogni forma di monopoli/oligopoli di rendita – cosa ben diversa dai monopoli naturali.
Come forse si noterà i problemi della domanda e dell'offerta hanno spesso profili complementari (una produzione industriale innovativa tende ad offrire posti di lavoro meglio remunerati, un contrasto alla speculazione finanziaria per mezzo di tasse dissuasive tende a produrre un'entrata che può essere destinata a servizi sociali, etc.) per cui mal si giustifica l'incomunicabilità tra gli studiosi dei due campi.
Oltre il progressismo
Le proposte indicate non hanno nulla di rivoluzionario e si limitano a porre alcuni indirizzi compatibili con le migliori tradizioni del liberalismo progressista, crediamo pertanto che nessuno nel campo della sinistra critica sia contrario a priori ai suggerimenti citati, al limite il terreno di discussione/divisione si può collocare sugli ordini di priorità e sul livello di profondità degli interventi.
Il campo si fa più accidentato e conflittuale quando invece si muovono passi ulteriori verso un'economia che si distacchi più nettamente dal capitalismo. La discussione è comunque estremamente interessante e niente affatto incompatibile con le proposte citate in precedenza. Anche qui i temi da suggerire potrebbero essere molti, ma per semplicità ci limiteremo a due argomenti di discussione:
Cosa è socialmente utile produrre? La domanda è importantissima soprattutto laddove si ricordi la centralità del lavoro non solo come fonte del valore economico, ma anche come strumento necessario e insostituibile per rispondere ai bisogni collettivi. Con queste premesse il tema dell'innovazione industriale diviene più complesso: per quanto una capacità sistemica di anticipazione dei bisogni sia un valore in termini di efficienza economica, in termini sociali non è indifferente stabilire verso quali bisogni orientarla e con quali strumenti guidarla (sappiamo ad esempio che il settore militare produce abbondanti ricadute di innovazione, ma orientare prioritariamente la ricerca verso altri settori, ad esempio la tutela ambientale, non è un compito socialmente più desiderabile? E se lo è quanto di questo compito deve essere affidato allo Stato? )
Esiste il diritto effettivo di scegliersi il lavoro? Se ancora la riduzione di orario lavorativo è uno strumento di efficienza socio economica (assicura una migliore allocazione delle risorse, aumenta la domanda aggregata fornendo reddito a una quantità maggiore di persone, migliora la qualità della vita...), non sarebbe compito di una società più avanzata offrire alle persone non solo una minore quantità di lavoro obbligato, ma anche la possibilità di scegliersi un impiego soddisfacente (e se si accetta questo presupposto è difficile non discutere di reddito universale incondizionato, di riforme profonde del sistema dell'istruzione etc.)
L'invito ai lettori è quello di non concentrarsi solo sulle singole proposte, quanto nuovamente sull'invito iniziale ad un lavoro di cooperazione intellettuale che ponga le basi per un'idea complessiva di politica economica sulla quale possa valere la pena mobilitare forze sociali, politiche ed intellettuali.
domenica 31 agosto 2014
La generazione perduta di Atene
di Filippomaria Pontani
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Padri e figli/Mentre i giornali mainstream parlano di crescita, romanzi e poesie raccontano tutta un'altra vita nella Grecia stravolta dalla scelta europea
Nella Seul del 2014, il 68% dei giovani non pensa nemmeno ad andar via di casa perché ostacolato da un sistema di affitti obsoleto e un po' assurdo, lo jeonsae (che obbliga, in sostanza, a pagare le rate di anni in un'unica soluzione anticipata). Nella Grecia della crisi questa situazione è ormai endemica da anni, e ha stravolto la geografia dei rapporti tra le generazioni in modo talora tragico: un racconto dell'attrice Lena Kitsopulu, così politicamente schierata da essere oggetto di volgari attacchi e minacce neonaziste sul web, mette in scena la disperazione di un giovane disoccupato che si arrovella sul telefonino senza sapere cosa scrivere alla donna che ama, vergognandosi di non avere una casa degna per ospitarla, una macchina per scarrozzarla in giro, i soldi per invitarla al cinema, una bocca sana per baciarla, e dopo aver mangiato conserve e cibi da niente finisce aggredito dal cancro senza nemmeno una mano femminile ad accarezzarlo ("Addio, povero Kostas", in: L'impronta della crisi, Metechmio 2013).
Questa realtà, così ovvia che unisce nel dolore – ipse audivi – gli ingegneri di Salonicco e le albergatrici di Santorini, inizia a diventare un topos letterario: tra gli altri, si segnala il recente romanzo in forma diaristica di Alexandra Deligiorgi Anestios (letteralmente «senza estia », «privo di focolare», ma anche senza punti di riferimento, senza centro di gravità), in cui un elettricista senzatetto narra i propri vagabondaggi per le strade di un'Atene caotica e indifferente, in preda a una solitudine che solo la scrittura riesce provvisoriamente a lenire. A un livello più "corale", è notevole il tentativo del trentenne cipriota Kiriakos Margaritis, Quando usciranno i leoni baciami (Psichoghiòs 2013), in cui s'intrecciano le storie di una generazione perduta, tra avvocatesse disoccupate che fanno le cameriere, volontari attivisti per i diritti dei migranti, musicisti anarchici che cercano l'ispirazione, e neonazisti che si autoproclamano giustizieri della notte: un quadro generazionale frammentato, precario, senza alcuna speranza di coerenza né illusione di senso (all'infuori dell'amore), in un mondo che non è più un'agorà ma un'impietosa fossa dei leoni.
Eppure, a leggere i giornali greci in questa estate 2014, a sentire gli scampoli di dibattito pubblico sopravvissuti alla chiusura della televisione nazionale e al clima pacificante di «sforzo collettivo», sembra di vivere nel mondo dei dissòi logoi, quegli esercizi retorici degli antichi sofisti volti a sostenere prima una tesi e subito dopo quella diametralmente opposta. Da un lato (per esempio in molte pagine del Vima, per non dire di Kathimerinì e di altri media governativi) si ribadisce l'immagine della success story, di una Grecia riammessa al mercato dei titoli, rivalutata da Moody's (da Caa3 a Caa1!) e finalmente pronta a tornare grande, battendo i pugni sul tavolo e liberandosi dai vincoli della trojka ; si insiste sulla grande fioritura delle recenti iniziative culturali, dal nuovo Museo dell'Acropoli all'imminente riapertura della Pinacoteca Nazionale, dalle affollate platee di Epidauro ai modernissimi musei di Iraklio; e si annuncia una lotta senza quartiere alla disoccupazione, sperando nelle startup, nei posti promessi dalla multinazionale Unilever, nei 600 milioni dell'Unione Europea destinati a impiegare 140 mila giovani per 2 anni.
D'altra parte, per esempio su Eleftherotypía e su Avghì (rispettivamente il giornale socialista e quello di Syriza), si racconta una realtà diversa, in cui spiccano la nuova pesantissima patrimoniale sugli immobili, le difficoltà e gli insuccessi dell'agenzia preposta a privatizzare enti, aeroporti e perfino isole (Taiped), gli intoppi nella lotta all'evasione fiscale, la progressiva riduzione dei mezzi di trasporto pubblici, il permanere di una corruzione pervasiva e il galoppo inarrestabile della disoccupazione. È, questa, un'ottica in cui i successi delle strutture culturali vengono interpretati nonostante l'assenza di una politica ad hoc (per inciso, si attendono tagli fino al 18% ai finanziamenti per le università nel nuovo anno accademico), e la creazione di posti di lavoro (anche quelli dei fondi europei) risulta sempre precaria, a termine, non rinnovabile; è, questa, un'ottica di totale sfiducia nella politica "europea" degli ultimi governi di coalizione, de facto commissariati da Bruxelles, da Francoforte e dal Fmi.
Così, il destino della gioventù più irrequieta rimane sospeso alle scelte estreme, che siano la vita d'espedienti, l'emigrazione di manovali e studenti (sarà casuale, proprio quest'estate, la pièce che narra il "salvataggio" francese di un gruppo di giovanissimi intellettuali greci, sottratti alla catastrofe post-bellica nel dicembre del '45 e portati a studiare a Parigi sulla nave Mataroa?), o perfino la clandestinità del terrorismo (molti sono i ventenni tra gli arrestati nelle indagini sui nuovi gruppi di fuoco che percorrono il Paese).
La Grecia, la nuova Grecia che secondo alcuni paga ancora gli strascichi di una guerra civile mai suturata, matura insomma un problema di identità che sperava di aver risolto. Con l'entrata nell'euro nel 2001 (propiziata da conti truccati e dalla grave negligenza dei problemi di corruzione e bassa competitività) il destino del Paese sembrava ancorato una volta per tutte all'Occidente, dunque lontano dalle mollezze orientali come dagli avventurismi e dalle dittature terzomondiste. Ora che gli indicatori sincronici e retrospettivi denunciano tutti i limiti di quella scelta (checché ne dica il suo principale artefice, l'allora premier Kostas Simitis, per il quale le responsabilità vanno addossate alle politiche successive: si veda il suo libro L'uscita di strada, Polis 2012), la carta dell'Europa si deforma come quelle, ominose e inquietanti, disegnate dall'ottuagenario artista Konstandinos Xenakis (L'île Nowhere), per il quale i trattati di Maastricht equivalgono, come potenzialità distruttiva, a quelli di Versailles del 1919.
Ecco allora che il recentissimo dibattito sull'insolvenza argentina, scoppiato più veemente che in ogni altro Paese europeo, assume una duplice valenza: da un lato quella della politique politicienne, con i partiti di governo pronti ad additare la presunta insipienza di Tsipras, il quale ebbe a pronunciare anni fa in Parlamento, con riferimento al default del 2001, la celebre frase «Magari la Grecia avesse fatto come l'Argentina» (ma queste schermaglie polemiche vanno lette nel quadro dell'attesa di prossime elezioni anticipate, con le quali Syriza, che dopo le Europee è diventato ufficialmente il primo partito, si appresta a conquistare il governo del Paese, anche tramite nuove alleanze con altre forze di sinistra moderata); d'altra parte, un valore di autocoscienza più profonda, un modo di tracciare il perimetro del proprio futuro e di misurare la propria distanza economica e culturale rispetto al meridiano di Greenwich, di Roma, di Parigi.
«This is the end / Hold your breath and count to ten» ha scritto a caratteri cubitali – citando Skyfall di Adele – il giovane calligrafo urbano Simon Silaidis su un ampio tetto piatto di Atene. A sentirsi immersi nel countdown, ad onta dell'ottimismo dei giornaloni, sono molti giovani, quasi tutti i lavoratori precari (per esempio le donne delle pulizie che reclamano i loro salari non pagati, da Atene a Trikkala), una parte non trascurabile dell'ambiente (i boschi della Macedonia minacciati da fantomatiche miniere d'oro; le zone industriali dismesse, in attesa di bonifiche troppo costose; i siti naturalistici e archeologici dichiarati d'emblée edificabili per rivitalizzare l'edilizia; i ruderi dei faraonici impianti per le Olimpiadi del 2004 a Marussi e al Fàliro), e soprattutto gli immigrati stranieri. Ha suscitato scalpore la recente assoluzione in tribunale dei latifondisti e dei commercianti greci che nell'aprile 2013, nelle campagne di Manolada in Elide, aprirono il fuoco sui raccoglitori di fragole bengalesi che reclamavano vivacemente i loro stipendi non pagati. La coscienza civile del Paese è così tornata a interrogarsi, dopo gli orrori dei campi di Patrasso e dei naufragi di Lesbo, su quell'animo xenofobo che si diffonde specialmente fra i giovani, e che occupa anche l'ultimo giallo di Petros Màrkaris, Titoli di coda, la cui protagonista – la figlia del leggendario commissario Charitos – agisce come avvocatessa proprio per tutelare i diritti dei migranti, e finisce vittima delle violenze di Alba Dorata.
«Ovunque io viaggi, la Grecia m'accora», scriveva il premio Nobel Giorgio Seferis. E oggi la popolarissima decana dei poeti greci, Kikì Dimulà, lo prende alla lettera: «Il viaggio viene rimandato. // Viaggiare ora / con questa crisi? // chi può pagare i barcaioli // ma che fare se sei chiamato a forza / con mezzi propri senza dubbio // il sonno è gratis, non discuto // ma comunque chi darebbe la sua ultima moneta // per non tornare più? // Certo, il fallimento garantisce agevolazioni / nel pagamento // ma come pagare a rate / l'Acheronte // non scherziamo, dove si è mai sentito / un Acheronte a rate // ci irridono / in sostanza ci derubano perché // quel pedaggio / l'abbiamo pagato quattro volte tanto / per le precedenti morti in vita // e ora che ti vengano a parlare / dell'Acheronte a rate // son tutte favole / così appena sali sulla barca / ti spogliano ti portano via tutto // ti portan via perfino la coscienza // che allo sbarco / non ti aspetta nessuno // nemmeno un niente» (Crisi, in: «Neo Planodion» 1, inverno 2013-2014).
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info. Questa realtà, così ovvia che unisce nel dolore – ipse audivi – gli ingegneri di Salonicco e le albergatrici di Santorini, inizia a diventare un topos letterario: tra gli altri, si segnala il recente romanzo in forma diaristica di Alexandra Deligiorgi Anestios (letteralmente «senza estia », «privo di focolare», ma anche senza punti di riferimento, senza centro di gravità), in cui un elettricista senzatetto narra i propri vagabondaggi per le strade di un'Atene caotica e indifferente, in preda a una solitudine che solo la scrittura riesce provvisoriamente a lenire. A un livello più "corale", è notevole il tentativo del trentenne cipriota Kiriakos Margaritis, Quando usciranno i leoni baciami (Psichoghiòs 2013), in cui s'intrecciano le storie di una generazione perduta, tra avvocatesse disoccupate che fanno le cameriere, volontari attivisti per i diritti dei migranti, musicisti anarchici che cercano l'ispirazione, e neonazisti che si autoproclamano giustizieri della notte: un quadro generazionale frammentato, precario, senza alcuna speranza di coerenza né illusione di senso (all'infuori dell'amore), in un mondo che non è più un'agorà ma un'impietosa fossa dei leoni.
Eppure, a leggere i giornali greci in questa estate 2014, a sentire gli scampoli di dibattito pubblico sopravvissuti alla chiusura della televisione nazionale e al clima pacificante di «sforzo collettivo», sembra di vivere nel mondo dei dissòi logoi, quegli esercizi retorici degli antichi sofisti volti a sostenere prima una tesi e subito dopo quella diametralmente opposta. Da un lato (per esempio in molte pagine del Vima, per non dire di Kathimerinì e di altri media governativi) si ribadisce l'immagine della success story, di una Grecia riammessa al mercato dei titoli, rivalutata da Moody's (da Caa3 a Caa1!) e finalmente pronta a tornare grande, battendo i pugni sul tavolo e liberandosi dai vincoli della trojka ; si insiste sulla grande fioritura delle recenti iniziative culturali, dal nuovo Museo dell'Acropoli all'imminente riapertura della Pinacoteca Nazionale, dalle affollate platee di Epidauro ai modernissimi musei di Iraklio; e si annuncia una lotta senza quartiere alla disoccupazione, sperando nelle startup, nei posti promessi dalla multinazionale Unilever, nei 600 milioni dell'Unione Europea destinati a impiegare 140 mila giovani per 2 anni.
D'altra parte, per esempio su Eleftherotypía e su Avghì (rispettivamente il giornale socialista e quello di Syriza), si racconta una realtà diversa, in cui spiccano la nuova pesantissima patrimoniale sugli immobili, le difficoltà e gli insuccessi dell'agenzia preposta a privatizzare enti, aeroporti e perfino isole (Taiped), gli intoppi nella lotta all'evasione fiscale, la progressiva riduzione dei mezzi di trasporto pubblici, il permanere di una corruzione pervasiva e il galoppo inarrestabile della disoccupazione. È, questa, un'ottica in cui i successi delle strutture culturali vengono interpretati nonostante l'assenza di una politica ad hoc (per inciso, si attendono tagli fino al 18% ai finanziamenti per le università nel nuovo anno accademico), e la creazione di posti di lavoro (anche quelli dei fondi europei) risulta sempre precaria, a termine, non rinnovabile; è, questa, un'ottica di totale sfiducia nella politica "europea" degli ultimi governi di coalizione, de facto commissariati da Bruxelles, da Francoforte e dal Fmi.
Così, il destino della gioventù più irrequieta rimane sospeso alle scelte estreme, che siano la vita d'espedienti, l'emigrazione di manovali e studenti (sarà casuale, proprio quest'estate, la pièce che narra il "salvataggio" francese di un gruppo di giovanissimi intellettuali greci, sottratti alla catastrofe post-bellica nel dicembre del '45 e portati a studiare a Parigi sulla nave Mataroa?), o perfino la clandestinità del terrorismo (molti sono i ventenni tra gli arrestati nelle indagini sui nuovi gruppi di fuoco che percorrono il Paese).
La Grecia, la nuova Grecia che secondo alcuni paga ancora gli strascichi di una guerra civile mai suturata, matura insomma un problema di identità che sperava di aver risolto. Con l'entrata nell'euro nel 2001 (propiziata da conti truccati e dalla grave negligenza dei problemi di corruzione e bassa competitività) il destino del Paese sembrava ancorato una volta per tutte all'Occidente, dunque lontano dalle mollezze orientali come dagli avventurismi e dalle dittature terzomondiste. Ora che gli indicatori sincronici e retrospettivi denunciano tutti i limiti di quella scelta (checché ne dica il suo principale artefice, l'allora premier Kostas Simitis, per il quale le responsabilità vanno addossate alle politiche successive: si veda il suo libro L'uscita di strada, Polis 2012), la carta dell'Europa si deforma come quelle, ominose e inquietanti, disegnate dall'ottuagenario artista Konstandinos Xenakis (L'île Nowhere), per il quale i trattati di Maastricht equivalgono, come potenzialità distruttiva, a quelli di Versailles del 1919.
Ecco allora che il recentissimo dibattito sull'insolvenza argentina, scoppiato più veemente che in ogni altro Paese europeo, assume una duplice valenza: da un lato quella della politique politicienne, con i partiti di governo pronti ad additare la presunta insipienza di Tsipras, il quale ebbe a pronunciare anni fa in Parlamento, con riferimento al default del 2001, la celebre frase «Magari la Grecia avesse fatto come l'Argentina» (ma queste schermaglie polemiche vanno lette nel quadro dell'attesa di prossime elezioni anticipate, con le quali Syriza, che dopo le Europee è diventato ufficialmente il primo partito, si appresta a conquistare il governo del Paese, anche tramite nuove alleanze con altre forze di sinistra moderata); d'altra parte, un valore di autocoscienza più profonda, un modo di tracciare il perimetro del proprio futuro e di misurare la propria distanza economica e culturale rispetto al meridiano di Greenwich, di Roma, di Parigi.
«This is the end / Hold your breath and count to ten» ha scritto a caratteri cubitali – citando Skyfall di Adele – il giovane calligrafo urbano Simon Silaidis su un ampio tetto piatto di Atene. A sentirsi immersi nel countdown, ad onta dell'ottimismo dei giornaloni, sono molti giovani, quasi tutti i lavoratori precari (per esempio le donne delle pulizie che reclamano i loro salari non pagati, da Atene a Trikkala), una parte non trascurabile dell'ambiente (i boschi della Macedonia minacciati da fantomatiche miniere d'oro; le zone industriali dismesse, in attesa di bonifiche troppo costose; i siti naturalistici e archeologici dichiarati d'emblée edificabili per rivitalizzare l'edilizia; i ruderi dei faraonici impianti per le Olimpiadi del 2004 a Marussi e al Fàliro), e soprattutto gli immigrati stranieri. Ha suscitato scalpore la recente assoluzione in tribunale dei latifondisti e dei commercianti greci che nell'aprile 2013, nelle campagne di Manolada in Elide, aprirono il fuoco sui raccoglitori di fragole bengalesi che reclamavano vivacemente i loro stipendi non pagati. La coscienza civile del Paese è così tornata a interrogarsi, dopo gli orrori dei campi di Patrasso e dei naufragi di Lesbo, su quell'animo xenofobo che si diffonde specialmente fra i giovani, e che occupa anche l'ultimo giallo di Petros Màrkaris, Titoli di coda, la cui protagonista – la figlia del leggendario commissario Charitos – agisce come avvocatessa proprio per tutelare i diritti dei migranti, e finisce vittima delle violenze di Alba Dorata.
«Ovunque io viaggi, la Grecia m'accora», scriveva il premio Nobel Giorgio Seferis. E oggi la popolarissima decana dei poeti greci, Kikì Dimulà, lo prende alla lettera: «Il viaggio viene rimandato. // Viaggiare ora / con questa crisi? // chi può pagare i barcaioli // ma che fare se sei chiamato a forza / con mezzi propri senza dubbio // il sonno è gratis, non discuto // ma comunque chi darebbe la sua ultima moneta // per non tornare più? // Certo, il fallimento garantisce agevolazioni / nel pagamento // ma come pagare a rate / l'Acheronte // non scherziamo, dove si è mai sentito / un Acheronte a rate // ci irridono / in sostanza ci derubano perché // quel pedaggio / l'abbiamo pagato quattro volte tanto / per le precedenti morti in vita // e ora che ti vengano a parlare / dell'Acheronte a rate // son tutte favole / così appena sali sulla barca / ti spogliano ti portano via tutto // ti portan via perfino la coscienza // che allo sbarco / non ti aspetta nessuno // nemmeno un niente» (Crisi, in: «Neo Planodion» 1, inverno 2013-2014).
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Padri e figli
di Dimosthenis Papamarkos
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Il lavoro non si vede, di lavoro non si parla. È un argomento tabù, la cui narrazione è affidata alle retoriche aziendaliste, mentre la realtà parla di disoccupazione, precarietà e sfruttamento. E la crisi fa deflagrare il conflitto generazionale, con i padri che svolgono il ruolo dei figli
Sul parapetto, vicino al corrimano della scala che portava al metrò, qualcuno aveva lasciato un biglietto. Era timbrato, ma lo guardai e vidi che valeva ancora una mezzoretta. Ero fortunato. Non solo perché il tragitto fino a casa era di venti minuti scarsi, ma anche perché un simile evento era raro ormai. Quando avevano aumentato i prezzi del biglietto per la prima volta, la reazione alla nuova misura si era manifestata in un modo singolare. I nuovi biglietti rimanevano validi per un'ora e mezza dalla timbratura: ma un'ora e mezza era troppo anche per andare da un capo all'altro della città. Così, quando uno usciva dalla metropolitana o dall'autobus, aveva quasi sempre in mano un biglietto che consentiva un'altra mezzora di viaggio. Quando la gente se ne accorse, invece di gettarlo via iniziò a lasciarlo in posti nei quali potesse reperirlo il prossimo viaggiatore; molte volte ti trovavano davanti alle macchinette e prima che tu ne comprassi uno nuovo ti mettevano in mano il loro. Disobbedienza legale. E così nessuno pagava il prezzo, né del biglietto né della disobbedienza. Ma col tempo anche questo finì. Non so perché. Non conosco nessuno, cioè, che sia finito nei guai per aver dato a un altro il suo biglietto convalidato. Forse la gente ha pensato che donare il proprio tempo a un terzo è in qualche modo un atto di tracotanza. Un turbamento dell'ordine. Non solo di quello legale, ma anche di quello fondamentale dell'esistenza stessa, l'ordine cosmico. Gli uomini non sono capaci di essere generosi con il tempo.
Cacciai il biglietto nella tasca posteriore e discesi la scala mobile. Non mi soffermai sulle cause della mia buona sorte. Ultimamente era in difetto, e non volevo stuzzicarla con pensieri sul perché e il per come. Del resto non è che non avessi cose più serie a cui pensare.
Quando arrivai a casa non trovai nessuno. Per fortuna, perché non avevo voglia di parlare. Ero stanco e l'unica cosa che volevo era coricarmi. A mia memoria non ho praticamente mai dormito il pomeriggio. Ma da qualche mese non riesco a sfangare la giornata se non mi corico anche solo una mezzora. Anche se non faccio nulla, anche se esco semplicemente e vado in centro, quando torno sono sfinito. Come se fossi continuamente a pezzi, per dire. Al principio non ci avevo dato importanza, ma col tempo mi ero inquietato ed ero andato dal medico. Nessuna patologia, mi aveva detto. Mi prescrisse degli esami del sangue, per togliermi il sospetto – disse – ma non me ne curai. Mi aveva detto che non avevo nulla, non vedevo perché perderci tempo. Non avevo mai avuto simili ipocondrie, né soldi da spenderci appresso. Andai dritto verso il frigorifero, ingurgitai mezza bottiglia d'acqua, poi entrai in camera mia e senza nemmeno spogliarmi né chiudere le persiane mi coricai sul letto e mi addormentai.
Mi svegliò un messaggio sul cellulare. Era Eleni. Non volevo rispondere in quel momento e dunque non lo aprii per vedere cosa diceva, perché l'icona sarebbe scomparsa dallo schermo e magari me ne sarei dimenticato. Mi alzai, mi tolsi la maglietta madida di sudore, e andai in cucina a farmi un caffè. Erano le quattro. Qualcuno stava girando la chiave nella toppa.
L'estate è la stagione peggiore. Sin da bambino non l'ho mai amata. Era un vero tormento. Ci lasciavano liberi tre mesi per vedere com'era la vita, per poi riportarci nel recinto a settembre. Come darti mezzo boccone di un dolce. Anche da grande non la sopportavo. Caldo, un caldo impossibile, ma ugualmente a lavorare. E appena prendevi le ferie, hop hop subito tirar su famiglia e carabattole e via una ventina di giorni a correre ora dai suoceri ora dai genitori. Tutto l'anno di corsa, di corsa anche l'estate con la canicola e il solleone. Anche una volta in pensione, l'estate ho continuato a detestarla. Certo, hai tutti i giorni per te: ma non sai che farci. Se uno avesse trenta, quarant'anni, per dire. Io andavo per i settantacinque suonati. Non è un'età per vivere. «Gli anziani prestino attenzione alle giornate afose: è meglio non uscire e restare in luoghi freschi»: non lo dicono anche alla tivù? L'altro giorno in metrò ho visto un manifesto su un tale che era scomparso. Un anziano, dicevano. Di anni cinquantotto. Un bambino, in confronto a me. Che dire. Alla mia età, anche se volessi, l'estate non dovrebbe piacermi. È pericolosa.
Penso a tutto ciò mentre sudo e mi affanno cercando di salire la strada di casa. Un tempo il bus mi lasciava a dieci metri dall'entrata, ma qualche mese fa hanno ridotto l'itinerario e dalla fermata ho dieci minuti a piedi. Sono quasi le quattro e il sole cade a picco sul solco in cui cammino in mezzo ai condominî. Mi pento di essere uscito, ma non potevo farne a meno. Non volevo trovarlo nel momento in cui tornava a casa. Le cose già così sono difficili, e appena posso fare qualcosa, dargli un po' di respiro, anche così, devo farlo. Altrimenti non se ne esce. Capii che era lui perché lasciò le chiavi sul tavolino accanto alla porta. Era il solo che faceva così. «Buonasera» esclamò ancora sulla porta. «Buonasera, sei uscito?» «Sì, ero andato al bar e ho incontrato Andonis. Te lo ricordi? Un compagno di lavoro, erano anni che non lo vedevo. Lavora ancora lì, ma mi dice che il negozio non va per niente bene». «Ce n'è forse uno che va bene?» buttai lì, perché non volevo proseguire quella conversazione. «Tu come butta?» Con la coda dell'occhio notai che non mi stava guardando. Faceva finta di rovistare nel frigorifero. Fingeva che non gli interessasse. Che stesse chiedendo per pura curiosità. Era non meno imbarazzato di me che giravo il caffè quasi sperando di essere risucchiato dal vortice che si era formato nella tazza.
«Come sempre».
«Hai mangiato?»
«Sì, sì. Ho messo qualcosa sotto i denti quando sono tornato. Vabbè. Vado un po' in camera, ho delle cose da fare al computer».
«Ok. Se accendo la tv ti dà noia?»
«No. Allora a dopo».
Mi rinchiusi nuovamente in camera mia. Non reggevo queste conversazioni scontrose. Parlavamo senza guardarci neanche più in faccia. Tutto era stato corrotto dalla ripetizione. Che cosa dovevo dirgli? Che anche stavolta non avevo passato nemmeno un colloquio? Che mi avevano detto «Grazie, lasci il curriculum e le faremo sapere»? Che aspettavo? Che cosa poi? Se lui non la prendesse seriamente quanto la prendo io, forse le cose sarebbero più semplici. Se si arrabbiasse, se urlasse che qualcosa in me non va, che non regge più questa situazione, forse le cose sarebbero migliori. Forse potrei guardarlo in faccia, urlare anch'io, dirgli lasciami in pace, faccio quello che posso. Cerco ovunque. Bar, caffè, ovunque. I miei diplomi firmati ce li ho. Cerco un lavoro. Uno qualsiasi. Un lavoro. Non lo vedi? Pensi che stia qui a spassarmela? Pensi che per me vada tutto bene? Un tempo avevo pensato di dirgli che non mi aiutava stando così tanto dalla mia parte. Ma sarebbe stato un torto ancora peggiore. Uno non può diventare ingrato per proteggere il proprio egoismo.
Non avevo nulla di serio da fare al computer. Gettai un'occhiata alle notizie e poi mi ricordai il messaggio di Eleni. Mi proponeva di andare al cinema. Le scrissi che ero al verde. Cinque minuti dopo mi rispose dicendo che il film che voleva vedere lo davano a un festival e che l'ingresso era gratuito. Le dissi di sì e stabilimmo di trovarci direttamente al parco dove veniva proiettato il film. Avevo tempo prima dell'appuntamento, così bevvi il caffè cazzeggiando ancora un po' prima di iniziare a prepararmi.
Lo trovo in cucina e dal modo in cui sta chino sul caffè capisco che anche oggi è andata uno schifo. Lo sapevo, lo sapevo ma, come si dice, la speranza è l'ultima a morire. Nel frattempo però ti dà il tormento. Faccio finta di non capire e provo a parlare d'altro, ma lui non ha voglia di discorsi. Allora gli faccio la domanda, per liberare tutti e due del peso, caso mai si sbottonasse e potessimo avere una conversazione normale. Altro errore. Lì per lì se ne va in camera. Si vergogna ancora di guardarmi in faccia.
Sbuccio un’arancia e mi siedo davanti alla tv. Resto così per cinque, dieci minuti. Con la tv spenta. Com’è possibile che non riusciamo a fare nemmeno un discorso, a sederci come uomini senza che uno cerchi di sfuggire all’altro? So bene perché e per come. Quello che non so è come far sì che lui si segga a parlare. Come liberarci entrambi di questo peso. Ho sempre paura di peggiorare le cose. Non sono bravo con le parole.
Accendo la tv e la metto un poco alta. Anzitutto per lui, affinché non creda che mi sono dispiaciuto per le sue notizie e che sto lì a rimuginarci sopra. Ma la mia mente è sempre lì. Al coraggio che mi manca di prenderlo e parlargli, di alleggerirci tutti e due. Ma non so se tutto ciò abbia senso ormai. Ci siamo arresi da un pezzo.
Lo trovai in salotto dinanzi alla tv. Camicia aperta, braccia stese lungo i braccioli della poltrona. L’aveva colto il sonno. Pareva che quell’esaurimento che mi tormentava da mesi fosse diventata una malattia contagiosa. Certo non era giovane, ma nemmeno tanto vecchio. Non troppo tempo fa, prima che iniziasse la nostra convivenza, me lo ricordo tutto pieno di vita. Ormai era diventato come un gatto. Appena il suo corpo si trovava a suo agio chiudeva gli occhi. In pochi mesi era invecchiato. L’avevo invecchiato; e alla prima occasione il sonno diventava la sua via di scampo.
Camminai in punta di piedi verso la porta, ma le suole delle scarpe sul nudo marmo mi tradirono. Sì guardò attorno come sperduto e quando mi vide mi disse:
«Esci?»
«Mi vedo con Eleni» gli dissi girandogli le spalle, come cercando le chiavi.
«Soldi ne hai?»
La mano mi andò inavvertitamente alla tasca e lì si gelò. Non sapevo che rispondere. Non ne avevo, ma nemmeno ne volevo. Aveva sempre cura di chiedermi prima che chiedessi io, per preservarmi dalla vergogna. Ma così mi logorava ancor di più. Non era una questione di orgoglio. Era che capivo di essere diventato una preoccupazione, oltre che un peso economico. E a quell’età lui non meritava di sopportare né l’una cosa né l’altra. A quell’età, erano le mie spalle che dovevano sostenere ogni suo peso. Non per dovere. Ma perché volevo trovare un modo più tangibile di mostrargli quanto lo penso, quanto gli voglio bene. Per liberarlo finalmente da tutto ciò che non gli appartiene. Che potesse pensare esclusivamente a come passare la giornata. Come meritava una persona a cui non avevano mai regalato niente.
«Ne ho». mentii, «grazie», e feci per andar via.
«Sei sicuro di non volerne? Vieni qui che ti do qualcosa».
«Sicuro, sicuro. Scappo che sono in ritardo. Un bacio».
Non mi voltai a guardarlo. Un tempo riuscivo a comprendere la generosità del suo affetto, ormai non riuscivo nemmeno ad affrontarla.
Esce di casa sempre come un ladro.
Quando siamo in bagno o dormiamo. Butta lì in fretta «io esco, ho da fare, mi vedo con il tale» e lascia dietro di sé solo lo sbam della porta.
Così anche stavolta, sgattaiola via mentre dormo. Mi viene in mente di fingere di dormire e di lasciarlo andare, ma gli parlo. Mi fa male sapere che va in giro come un bambino con cinque euro in tasca, e gli chiedo se vuole soldi. Mi fa male, perché è un uomo di trentacinque anni e non può fare nemmeno la metà della vita che facevo io alla sua età. Mi fa male, perché so che non è colpa sua. Mi fa male, perché io l’ho cresciuto e so che si sente menomato a non poter uscire nemmeno con la sua ragazza se non lo rifornisco io. E anche se non gli ho mai chiesto il rendiconto dei soldi, si sente sempre in dovere di farmelo. Di chiedermi a modo suo il permesso, di giustificarsi per qualunque cosa faccia, quasi andasse ancora a scuola. Capisco che lui lo sente come un dovere. Che mi sfrutta. Che mi pesa. E io voglio dirgli che non è così. Che le famiglie ci sono per questo, per i momenti difficili. Che lo so che non lo fa volontariamente. Che verrà il momento in cui le cose cambieranno. Che tutti abbiamo cedimenti e non è un male che qualcuno ci dia una mano quando siamo a terra. Ma non gli dico niente. Ho paura. Ho paura quasi fossimo a un funerale e io parlassi del morto e poi qualcuno scoppiasse in lacrime e poi... Come guardarci in faccia? Ci vergogniamo l’uno di aprire il cuore all’altro, perché da anni abbiamo imparato che gli uomini tirano dritto senza fiatare. Che questo vuol dire essere forti.
Chiude la porta dietro di sé e riapro il volume della tv.
Eleni non se ne curava affatto. Non ne avevamo mai parlato, ma la vedo. Si vede da come si muove per casa. Non le dà fastidio. Assolutamente sciolta. Io invece mi angoscio. Un giorno le avevo detto di mettersi qualcosa di più lungo, di non girare per casa solo con la mia maglietta, e mi disse «ma perché fai così? sto andando solo in bagno! Sei totalmente conservatore, Ghiannis. Totalmente piccoloborghese». Stavo per dirle che non era questione di conservatorismo, ma era già entrata in bagno, aveva chiuso la porta e aperto il rubinetto perché scorresse l’acqua. Le urlai tu lasci scorrere l’acqua affinché io non ti senta pisciare, e poi il piccoloborghese sono io. La casa è piccola ribatté si sente tutto. Appunto dico risposi La casa è piccola, dunque... Non continuai. Non aveva senso. Avrebbe seguitato a fare come aveva imparato. E aveva imparato diversamente.
La casa è piccola e diventa ancora più piccola perché non abito da solo. Eleni viene a trovarmi spesso e volentieri e qualche volta rimane anche la sera. Sono i giorni in cui siamo in quattro "coinquilini". Sono i giorni più difficili. Non è tanto il problema di chi deve andare in bagno o di chi o quando ha lasciato piatti sporchi nel lavandino e chi li laverà tutto questo è risolto. Il mio problema è un problema di spazio. Non lo spazio che si misura in metri e metriquadri, ma lo spazio personale, quello che ha a che fare con come disponi del tuo tempo quando ti ci muovi dentro. Il non sentire che la vita è sempre esposta agli sguardi degli altri, per quanto tuoi cari. Dovere dar conto del tuo abbigliamento, giustificarti in qualche modo perché alla tale ora ti è venuto di fare questo o quello. Non che nessuno mi dica nulla. Io non tollero che gli altri mi tollerino. Per quindici anni sani questa non è stata casa mia. Era loro e solo loro. E adesso arrivo io e la mia agenda, la mia vita mangia spazio alla loro, e invece di lamentarsi si fanno da parte e mi offrono altro spazio ancora. Come quando mi crescevano ed ero la loro prima e unica preoccupazione. Soprattutto questo non tollero. Vedere un’altra volta la loro vita passare in secondo piano affinché io viva la mia nel modo più comodo possibile. Di questo mi angoscio. Della loro angoscia.
Il film era una bufala. Colpa forse anche della mia disposizione d’animo. Eleni invece era entusiasta e mi rimproverò che mi lamentavo per ogni cosa. Dalle banalità della sceneggiatura alla fotografia mediocre. Certe volte sei intollerabile, mi disse. Nemmeno una commediola riesci a goderti. Sempre a cavillare e a criticare. Giunsi a un pelo dal mandarla al diavolo, ma capii che non tutte le persone prendono le cose così sul serio. In questo io e lei eravamo diversi, e forse era per questo che stavamo ancora insieme. A Eleni non disturbava abitare ancora con i suoi. Anche lei, come me, aveva perso il lavoro ed era stata costretta a disdire l’affitto e a tornare su due piedi nella sua stanza di bambina, ma la cosa la divertiva. «Dormo di nuovo con i miei orsacchiotti» mi diceva così quasi graziosamente. Nel frattempo era riuscita a trovare un lavoretto con qualche lezione privata e almeno copriva le spese. «Fa una grande differenza» le dissi una volta. Disse di no. «Non è il lavoro che mi rende ottimista. È che so di sapere ancora nuotare. Nuotare e non annegare». Io non sapevo più cosa sapevo ancora e cosa avevo dimenticato.
Tornai a casa da solo. Alla fine non eravamo riusciti a non litigare. Mi propose di continuare con una birra da qualche parte e le dissi che non avevo soldi. Mi disse che avrebbe offerto lei e a quel punto persi la testa e feci tutta una predica sul parassitismo, la dipendenza, e che era una vergogna permettersi certi lussi in una simile situazione. «Mi serve un lavoro le dissi non birra e relax. Rilassato lo sono già». Mi rispose che sono uno stupido e un miserabile, mi piantò lì e presi da solo l’autobus verso casa. In tutto il tragitto mi rifiutai perfino di mettere le cuffie e di ascoltare musica, perché la giornata era andata di merda e dunque non era opportuno provare a risollevarsi l’animo anche di poco. Ma solo subire la città e l’odore dell’immondizia, come un’arancia tagliata di fresco, che si mescolava con l’umidità e si confondeva con il mio sudore.
Non riesco a dormire. Mi sono coricato e ho provato, ma il sonno non tiene. Forse è che la routine si è spezzata questi giorni in cui Katerina è andata al paesello a trovare sua madre. Forse penso che dovremmo finalmente affrontarlo, quel discorso. Mi verso un dito di vino e lo aspetto in cucina.
La porta di casa non era chiusa a chiave, dal che si capiva che non dormiva ancora. Se non avessi già inserito la chiave e non mi avesse dunque per forza sentito, avrei fatto dietrofront e sarei andato via, a girare per le strade finché passasse un altro po’ di tempo e lui andasse a dormire. Non riuscivo a stargli davanti. Non riuscivo a stargli davanti quando tornavo a casa dopo un’uscita. Lui sulla sua poltrona e io di ritorno con i suoi soldi. Ladro del suo tempo e della sua felicità.
Lo sento che apre ed entra. Non lo vedo ancora.
«Buonasera. Vado a letto. Sono stanco».
«Prendi un bicchiere e vieni a sederti un po’ qui con me».
«Un’altra volta, adesso...»
«Ho detto vieni e siediti. Basta con queste fesserie».
«Quali fesserie? Che cosa dici? Hai voglia di litigare?»
«Ghiannis, ho detto siediti. Dobbiamo parlare».
«È successo qualcosa? Ti ha chiamato la mamma? La nonna sta male?»
«Tutti stanno bene. Voglio parlarti di me. Ecco. Il vino è lì. Stavo pensando, sai. Quanto tempo è? Tre anni che sono andato in pensione? Cioè ora ho, potremmo dire, 70-71 anni. Dico dunque: quanti anni buoni ho ancora? Pochi; molti certo non saranno. Al punto in cui sono, sai, dovrei augurarmi che i giorni passino lentamente. Come dire, figlio mio, che siano pieni minuto dopo minuto. Che un giorno sia come dieci e che nonostante ciò io mi trovi a dire che è passato in fretta. Ma al contrario mi rode la pena che non passino rapidamente. Ecco, dovessero passare come i secondi sarei entusiasta. E sai perché? Perché i giorni li trascorro aspettando e quando non fai che aspettare non è più vita, è un turno di guardia. Mi dirai, cosa aspetti papà? Aspetto che arrivi la fine del mese, Ghiannis, per avere i miei soldi, e poter comandare ancora. Pensavo questo, sai, e dentro di me ho detto, sbagli. Sbagli di grosso. E per tutto questo tempo né io né te l’abbiamo capito. Perché io ti vedo così curvo e per abitudine mi incurvo anch’io, e poco a poco dimentichiamo che questa cosa non è vita. E va bene per te che non capisci, ma io ho vissuto qualcosina in più di te e non ho giustificazione. No. Non dirmi niente. Ora parlo io e voglio che tu mi stia a sentire. Capisco tutto, tutto. Io ti ho cresciuto e so chi è mio figlio. Vedo che ti angosci e fai come se ci fosse un modo di congelare la giornata, di farla diventare un mese e un anno per sfoderarla con i venti euro che ti ho dato affinché tu non abbia bisogno di richiedermene altri. Sei un condannato dell’orologio, figlio mio. Tu come un vecchio e io come un giovane. Tu con la paura e io con la spavalderia. Hai capito? Tutto sottosopra. La vita non funziona così. In questa casa io non ti ho né come genero né come figlio. Non è uno scambio. Siamo fissi sulla stessa trincea tutti e due, e uno deve aiutare l’altro. Oggi posso io, domani potrai tu. Così va la faccenda. Non vergognarti di chiedere e io non mi vergognerò di darti. Affronti una lotta difficile e non ti arrendi. Non so né come né quando finirà, ma quando uno affronta una lotta noi altri dobbiamo sostenerlo. Ho davanti a me un uomo che non si è arreso. Così ti vedo. E per questo so che posso avere fiducia in te come compagno, non solo come figlio. Per questo ti dico, questo deve finire. Sia io che te sbagliamo. Possiamo andare avanti assieme? Questa è l’incognita. Perché comunque sia, nulla dura per sempre. Né le cose buone né quelle cattive».
La riproduzione di questo articolo è autorizzata a condizione che sia citata la fonte: www.sbilanciamoci.info. Cacciai il biglietto nella tasca posteriore e discesi la scala mobile. Non mi soffermai sulle cause della mia buona sorte. Ultimamente era in difetto, e non volevo stuzzicarla con pensieri sul perché e il per come. Del resto non è che non avessi cose più serie a cui pensare.
Quando arrivai a casa non trovai nessuno. Per fortuna, perché non avevo voglia di parlare. Ero stanco e l'unica cosa che volevo era coricarmi. A mia memoria non ho praticamente mai dormito il pomeriggio. Ma da qualche mese non riesco a sfangare la giornata se non mi corico anche solo una mezzora. Anche se non faccio nulla, anche se esco semplicemente e vado in centro, quando torno sono sfinito. Come se fossi continuamente a pezzi, per dire. Al principio non ci avevo dato importanza, ma col tempo mi ero inquietato ed ero andato dal medico. Nessuna patologia, mi aveva detto. Mi prescrisse degli esami del sangue, per togliermi il sospetto – disse – ma non me ne curai. Mi aveva detto che non avevo nulla, non vedevo perché perderci tempo. Non avevo mai avuto simili ipocondrie, né soldi da spenderci appresso. Andai dritto verso il frigorifero, ingurgitai mezza bottiglia d'acqua, poi entrai in camera mia e senza nemmeno spogliarmi né chiudere le persiane mi coricai sul letto e mi addormentai.
Mi svegliò un messaggio sul cellulare. Era Eleni. Non volevo rispondere in quel momento e dunque non lo aprii per vedere cosa diceva, perché l'icona sarebbe scomparsa dallo schermo e magari me ne sarei dimenticato. Mi alzai, mi tolsi la maglietta madida di sudore, e andai in cucina a farmi un caffè. Erano le quattro. Qualcuno stava girando la chiave nella toppa.
L'estate è la stagione peggiore. Sin da bambino non l'ho mai amata. Era un vero tormento. Ci lasciavano liberi tre mesi per vedere com'era la vita, per poi riportarci nel recinto a settembre. Come darti mezzo boccone di un dolce. Anche da grande non la sopportavo. Caldo, un caldo impossibile, ma ugualmente a lavorare. E appena prendevi le ferie, hop hop subito tirar su famiglia e carabattole e via una ventina di giorni a correre ora dai suoceri ora dai genitori. Tutto l'anno di corsa, di corsa anche l'estate con la canicola e il solleone. Anche una volta in pensione, l'estate ho continuato a detestarla. Certo, hai tutti i giorni per te: ma non sai che farci. Se uno avesse trenta, quarant'anni, per dire. Io andavo per i settantacinque suonati. Non è un'età per vivere. «Gli anziani prestino attenzione alle giornate afose: è meglio non uscire e restare in luoghi freschi»: non lo dicono anche alla tivù? L'altro giorno in metrò ho visto un manifesto su un tale che era scomparso. Un anziano, dicevano. Di anni cinquantotto. Un bambino, in confronto a me. Che dire. Alla mia età, anche se volessi, l'estate non dovrebbe piacermi. È pericolosa.
Penso a tutto ciò mentre sudo e mi affanno cercando di salire la strada di casa. Un tempo il bus mi lasciava a dieci metri dall'entrata, ma qualche mese fa hanno ridotto l'itinerario e dalla fermata ho dieci minuti a piedi. Sono quasi le quattro e il sole cade a picco sul solco in cui cammino in mezzo ai condominî. Mi pento di essere uscito, ma non potevo farne a meno. Non volevo trovarlo nel momento in cui tornava a casa. Le cose già così sono difficili, e appena posso fare qualcosa, dargli un po' di respiro, anche così, devo farlo. Altrimenti non se ne esce. Capii che era lui perché lasciò le chiavi sul tavolino accanto alla porta. Era il solo che faceva così. «Buonasera» esclamò ancora sulla porta. «Buonasera, sei uscito?» «Sì, ero andato al bar e ho incontrato Andonis. Te lo ricordi? Un compagno di lavoro, erano anni che non lo vedevo. Lavora ancora lì, ma mi dice che il negozio non va per niente bene». «Ce n'è forse uno che va bene?» buttai lì, perché non volevo proseguire quella conversazione. «Tu come butta?» Con la coda dell'occhio notai che non mi stava guardando. Faceva finta di rovistare nel frigorifero. Fingeva che non gli interessasse. Che stesse chiedendo per pura curiosità. Era non meno imbarazzato di me che giravo il caffè quasi sperando di essere risucchiato dal vortice che si era formato nella tazza.
«Come sempre».
«Hai mangiato?»
«Sì, sì. Ho messo qualcosa sotto i denti quando sono tornato. Vabbè. Vado un po' in camera, ho delle cose da fare al computer».
«Ok. Se accendo la tv ti dà noia?»
«No. Allora a dopo».
Mi rinchiusi nuovamente in camera mia. Non reggevo queste conversazioni scontrose. Parlavamo senza guardarci neanche più in faccia. Tutto era stato corrotto dalla ripetizione. Che cosa dovevo dirgli? Che anche stavolta non avevo passato nemmeno un colloquio? Che mi avevano detto «Grazie, lasci il curriculum e le faremo sapere»? Che aspettavo? Che cosa poi? Se lui non la prendesse seriamente quanto la prendo io, forse le cose sarebbero più semplici. Se si arrabbiasse, se urlasse che qualcosa in me non va, che non regge più questa situazione, forse le cose sarebbero migliori. Forse potrei guardarlo in faccia, urlare anch'io, dirgli lasciami in pace, faccio quello che posso. Cerco ovunque. Bar, caffè, ovunque. I miei diplomi firmati ce li ho. Cerco un lavoro. Uno qualsiasi. Un lavoro. Non lo vedi? Pensi che stia qui a spassarmela? Pensi che per me vada tutto bene? Un tempo avevo pensato di dirgli che non mi aiutava stando così tanto dalla mia parte. Ma sarebbe stato un torto ancora peggiore. Uno non può diventare ingrato per proteggere il proprio egoismo.
Non avevo nulla di serio da fare al computer. Gettai un'occhiata alle notizie e poi mi ricordai il messaggio di Eleni. Mi proponeva di andare al cinema. Le scrissi che ero al verde. Cinque minuti dopo mi rispose dicendo che il film che voleva vedere lo davano a un festival e che l'ingresso era gratuito. Le dissi di sì e stabilimmo di trovarci direttamente al parco dove veniva proiettato il film. Avevo tempo prima dell'appuntamento, così bevvi il caffè cazzeggiando ancora un po' prima di iniziare a prepararmi.
Lo trovo in cucina e dal modo in cui sta chino sul caffè capisco che anche oggi è andata uno schifo. Lo sapevo, lo sapevo ma, come si dice, la speranza è l'ultima a morire. Nel frattempo però ti dà il tormento. Faccio finta di non capire e provo a parlare d'altro, ma lui non ha voglia di discorsi. Allora gli faccio la domanda, per liberare tutti e due del peso, caso mai si sbottonasse e potessimo avere una conversazione normale. Altro errore. Lì per lì se ne va in camera. Si vergogna ancora di guardarmi in faccia.
Sbuccio un’arancia e mi siedo davanti alla tv. Resto così per cinque, dieci minuti. Con la tv spenta. Com’è possibile che non riusciamo a fare nemmeno un discorso, a sederci come uomini senza che uno cerchi di sfuggire all’altro? So bene perché e per come. Quello che non so è come far sì che lui si segga a parlare. Come liberarci entrambi di questo peso. Ho sempre paura di peggiorare le cose. Non sono bravo con le parole.
Accendo la tv e la metto un poco alta. Anzitutto per lui, affinché non creda che mi sono dispiaciuto per le sue notizie e che sto lì a rimuginarci sopra. Ma la mia mente è sempre lì. Al coraggio che mi manca di prenderlo e parlargli, di alleggerirci tutti e due. Ma non so se tutto ciò abbia senso ormai. Ci siamo arresi da un pezzo.
Lo trovai in salotto dinanzi alla tv. Camicia aperta, braccia stese lungo i braccioli della poltrona. L’aveva colto il sonno. Pareva che quell’esaurimento che mi tormentava da mesi fosse diventata una malattia contagiosa. Certo non era giovane, ma nemmeno tanto vecchio. Non troppo tempo fa, prima che iniziasse la nostra convivenza, me lo ricordo tutto pieno di vita. Ormai era diventato come un gatto. Appena il suo corpo si trovava a suo agio chiudeva gli occhi. In pochi mesi era invecchiato. L’avevo invecchiato; e alla prima occasione il sonno diventava la sua via di scampo.
Camminai in punta di piedi verso la porta, ma le suole delle scarpe sul nudo marmo mi tradirono. Sì guardò attorno come sperduto e quando mi vide mi disse:
«Esci?»
«Mi vedo con Eleni» gli dissi girandogli le spalle, come cercando le chiavi.
«Soldi ne hai?»
La mano mi andò inavvertitamente alla tasca e lì si gelò. Non sapevo che rispondere. Non ne avevo, ma nemmeno ne volevo. Aveva sempre cura di chiedermi prima che chiedessi io, per preservarmi dalla vergogna. Ma così mi logorava ancor di più. Non era una questione di orgoglio. Era che capivo di essere diventato una preoccupazione, oltre che un peso economico. E a quell’età lui non meritava di sopportare né l’una cosa né l’altra. A quell’età, erano le mie spalle che dovevano sostenere ogni suo peso. Non per dovere. Ma perché volevo trovare un modo più tangibile di mostrargli quanto lo penso, quanto gli voglio bene. Per liberarlo finalmente da tutto ciò che non gli appartiene. Che potesse pensare esclusivamente a come passare la giornata. Come meritava una persona a cui non avevano mai regalato niente.
«Ne ho». mentii, «grazie», e feci per andar via.
«Sei sicuro di non volerne? Vieni qui che ti do qualcosa».
«Sicuro, sicuro. Scappo che sono in ritardo. Un bacio».
Non mi voltai a guardarlo. Un tempo riuscivo a comprendere la generosità del suo affetto, ormai non riuscivo nemmeno ad affrontarla.
Esce di casa sempre come un ladro.
Quando siamo in bagno o dormiamo. Butta lì in fretta «io esco, ho da fare, mi vedo con il tale» e lascia dietro di sé solo lo sbam della porta.
Così anche stavolta, sgattaiola via mentre dormo. Mi viene in mente di fingere di dormire e di lasciarlo andare, ma gli parlo. Mi fa male sapere che va in giro come un bambino con cinque euro in tasca, e gli chiedo se vuole soldi. Mi fa male, perché è un uomo di trentacinque anni e non può fare nemmeno la metà della vita che facevo io alla sua età. Mi fa male, perché so che non è colpa sua. Mi fa male, perché io l’ho cresciuto e so che si sente menomato a non poter uscire nemmeno con la sua ragazza se non lo rifornisco io. E anche se non gli ho mai chiesto il rendiconto dei soldi, si sente sempre in dovere di farmelo. Di chiedermi a modo suo il permesso, di giustificarsi per qualunque cosa faccia, quasi andasse ancora a scuola. Capisco che lui lo sente come un dovere. Che mi sfrutta. Che mi pesa. E io voglio dirgli che non è così. Che le famiglie ci sono per questo, per i momenti difficili. Che lo so che non lo fa volontariamente. Che verrà il momento in cui le cose cambieranno. Che tutti abbiamo cedimenti e non è un male che qualcuno ci dia una mano quando siamo a terra. Ma non gli dico niente. Ho paura. Ho paura quasi fossimo a un funerale e io parlassi del morto e poi qualcuno scoppiasse in lacrime e poi... Come guardarci in faccia? Ci vergogniamo l’uno di aprire il cuore all’altro, perché da anni abbiamo imparato che gli uomini tirano dritto senza fiatare. Che questo vuol dire essere forti.
Chiude la porta dietro di sé e riapro il volume della tv.
Eleni non se ne curava affatto. Non ne avevamo mai parlato, ma la vedo. Si vede da come si muove per casa. Non le dà fastidio. Assolutamente sciolta. Io invece mi angoscio. Un giorno le avevo detto di mettersi qualcosa di più lungo, di non girare per casa solo con la mia maglietta, e mi disse «ma perché fai così? sto andando solo in bagno! Sei totalmente conservatore, Ghiannis. Totalmente piccoloborghese». Stavo per dirle che non era questione di conservatorismo, ma era già entrata in bagno, aveva chiuso la porta e aperto il rubinetto perché scorresse l’acqua. Le urlai tu lasci scorrere l’acqua affinché io non ti senta pisciare, e poi il piccoloborghese sono io. La casa è piccola ribatté si sente tutto. Appunto dico risposi La casa è piccola, dunque... Non continuai. Non aveva senso. Avrebbe seguitato a fare come aveva imparato. E aveva imparato diversamente.
La casa è piccola e diventa ancora più piccola perché non abito da solo. Eleni viene a trovarmi spesso e volentieri e qualche volta rimane anche la sera. Sono i giorni in cui siamo in quattro "coinquilini". Sono i giorni più difficili. Non è tanto il problema di chi deve andare in bagno o di chi o quando ha lasciato piatti sporchi nel lavandino e chi li laverà tutto questo è risolto. Il mio problema è un problema di spazio. Non lo spazio che si misura in metri e metriquadri, ma lo spazio personale, quello che ha a che fare con come disponi del tuo tempo quando ti ci muovi dentro. Il non sentire che la vita è sempre esposta agli sguardi degli altri, per quanto tuoi cari. Dovere dar conto del tuo abbigliamento, giustificarti in qualche modo perché alla tale ora ti è venuto di fare questo o quello. Non che nessuno mi dica nulla. Io non tollero che gli altri mi tollerino. Per quindici anni sani questa non è stata casa mia. Era loro e solo loro. E adesso arrivo io e la mia agenda, la mia vita mangia spazio alla loro, e invece di lamentarsi si fanno da parte e mi offrono altro spazio ancora. Come quando mi crescevano ed ero la loro prima e unica preoccupazione. Soprattutto questo non tollero. Vedere un’altra volta la loro vita passare in secondo piano affinché io viva la mia nel modo più comodo possibile. Di questo mi angoscio. Della loro angoscia.
Il film era una bufala. Colpa forse anche della mia disposizione d’animo. Eleni invece era entusiasta e mi rimproverò che mi lamentavo per ogni cosa. Dalle banalità della sceneggiatura alla fotografia mediocre. Certe volte sei intollerabile, mi disse. Nemmeno una commediola riesci a goderti. Sempre a cavillare e a criticare. Giunsi a un pelo dal mandarla al diavolo, ma capii che non tutte le persone prendono le cose così sul serio. In questo io e lei eravamo diversi, e forse era per questo che stavamo ancora insieme. A Eleni non disturbava abitare ancora con i suoi. Anche lei, come me, aveva perso il lavoro ed era stata costretta a disdire l’affitto e a tornare su due piedi nella sua stanza di bambina, ma la cosa la divertiva. «Dormo di nuovo con i miei orsacchiotti» mi diceva così quasi graziosamente. Nel frattempo era riuscita a trovare un lavoretto con qualche lezione privata e almeno copriva le spese. «Fa una grande differenza» le dissi una volta. Disse di no. «Non è il lavoro che mi rende ottimista. È che so di sapere ancora nuotare. Nuotare e non annegare». Io non sapevo più cosa sapevo ancora e cosa avevo dimenticato.
Tornai a casa da solo. Alla fine non eravamo riusciti a non litigare. Mi propose di continuare con una birra da qualche parte e le dissi che non avevo soldi. Mi disse che avrebbe offerto lei e a quel punto persi la testa e feci tutta una predica sul parassitismo, la dipendenza, e che era una vergogna permettersi certi lussi in una simile situazione. «Mi serve un lavoro le dissi non birra e relax. Rilassato lo sono già». Mi rispose che sono uno stupido e un miserabile, mi piantò lì e presi da solo l’autobus verso casa. In tutto il tragitto mi rifiutai perfino di mettere le cuffie e di ascoltare musica, perché la giornata era andata di merda e dunque non era opportuno provare a risollevarsi l’animo anche di poco. Ma solo subire la città e l’odore dell’immondizia, come un’arancia tagliata di fresco, che si mescolava con l’umidità e si confondeva con il mio sudore.
Non riesco a dormire. Mi sono coricato e ho provato, ma il sonno non tiene. Forse è che la routine si è spezzata questi giorni in cui Katerina è andata al paesello a trovare sua madre. Forse penso che dovremmo finalmente affrontarlo, quel discorso. Mi verso un dito di vino e lo aspetto in cucina.
La porta di casa non era chiusa a chiave, dal che si capiva che non dormiva ancora. Se non avessi già inserito la chiave e non mi avesse dunque per forza sentito, avrei fatto dietrofront e sarei andato via, a girare per le strade finché passasse un altro po’ di tempo e lui andasse a dormire. Non riuscivo a stargli davanti. Non riuscivo a stargli davanti quando tornavo a casa dopo un’uscita. Lui sulla sua poltrona e io di ritorno con i suoi soldi. Ladro del suo tempo e della sua felicità.
Lo sento che apre ed entra. Non lo vedo ancora.
«Buonasera. Vado a letto. Sono stanco».
«Prendi un bicchiere e vieni a sederti un po’ qui con me».
«Un’altra volta, adesso...»
«Ho detto vieni e siediti. Basta con queste fesserie».
«Quali fesserie? Che cosa dici? Hai voglia di litigare?»
«Ghiannis, ho detto siediti. Dobbiamo parlare».
«È successo qualcosa? Ti ha chiamato la mamma? La nonna sta male?»
«Tutti stanno bene. Voglio parlarti di me. Ecco. Il vino è lì. Stavo pensando, sai. Quanto tempo è? Tre anni che sono andato in pensione? Cioè ora ho, potremmo dire, 70-71 anni. Dico dunque: quanti anni buoni ho ancora? Pochi; molti certo non saranno. Al punto in cui sono, sai, dovrei augurarmi che i giorni passino lentamente. Come dire, figlio mio, che siano pieni minuto dopo minuto. Che un giorno sia come dieci e che nonostante ciò io mi trovi a dire che è passato in fretta. Ma al contrario mi rode la pena che non passino rapidamente. Ecco, dovessero passare come i secondi sarei entusiasta. E sai perché? Perché i giorni li trascorro aspettando e quando non fai che aspettare non è più vita, è un turno di guardia. Mi dirai, cosa aspetti papà? Aspetto che arrivi la fine del mese, Ghiannis, per avere i miei soldi, e poter comandare ancora. Pensavo questo, sai, e dentro di me ho detto, sbagli. Sbagli di grosso. E per tutto questo tempo né io né te l’abbiamo capito. Perché io ti vedo così curvo e per abitudine mi incurvo anch’io, e poco a poco dimentichiamo che questa cosa non è vita. E va bene per te che non capisci, ma io ho vissuto qualcosina in più di te e non ho giustificazione. No. Non dirmi niente. Ora parlo io e voglio che tu mi stia a sentire. Capisco tutto, tutto. Io ti ho cresciuto e so chi è mio figlio. Vedo che ti angosci e fai come se ci fosse un modo di congelare la giornata, di farla diventare un mese e un anno per sfoderarla con i venti euro che ti ho dato affinché tu non abbia bisogno di richiedermene altri. Sei un condannato dell’orologio, figlio mio. Tu come un vecchio e io come un giovane. Tu con la paura e io con la spavalderia. Hai capito? Tutto sottosopra. La vita non funziona così. In questa casa io non ti ho né come genero né come figlio. Non è uno scambio. Siamo fissi sulla stessa trincea tutti e due, e uno deve aiutare l’altro. Oggi posso io, domani potrai tu. Così va la faccenda. Non vergognarti di chiedere e io non mi vergognerò di darti. Affronti una lotta difficile e non ti arrendi. Non so né come né quando finirà, ma quando uno affronta una lotta noi altri dobbiamo sostenerlo. Ho davanti a me un uomo che non si è arreso. Così ti vedo. E per questo so che posso avere fiducia in te come compagno, non solo come figlio. Per questo ti dico, questo deve finire. Sia io che te sbagliamo. Possiamo andare avanti assieme? Questa è l’incognita. Perché comunque sia, nulla dura per sempre. Né le cose buone né quelle cattive».
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Sacco e Vanzetti
Vite di classe.
Sacco
e VanzettiDal Blog. di Vittoria Oliva
Bartolomeo Vanzetti: vite proletarie
NON
PIANGETE LA MIA MORTE (LETTERE AI FAMILIARI)
Ritenni il diritto della libertà di coscienza inalienabile, come quello della vita. Cercai con tutte le mie forze di convergere lo scibile umano a benefizio di tutti. So per esperienza che diritti e privilegi si acquistarono e si mantennero colla forza, e che cosí sarà finché l’umanità non avrà migliorato se stessa.
Nella vera futura storia umana, abolite le classi e i privilegi, gli antagonismi d’interesse tra uomo e uomo, il progresso e i mutamenti saranno determinati solo dall’intelligenza e dalla comune generale convenienza.
Se noi e la generazione che portano in grembo le nostre donne non arriveremo a questo risultato, non avremo ottenuto nulla di reale, e l’umanità continuerà ad essere ognora piú misera ed infelice.
Riconosciuta la necessità della forza a invocare al servizio del bene, contro il regno del male, sono e sarò sino al supremo istante (se non m’accorgerò di essere in errore) comunista anarchico perché credo che il comunismo sia la piú umana forma di contratto sociale, perché so che solo con la libertà l’uomo si eleva, si nobilita e si completa.
Lettere ai familiari
Cuneo, 26 giugno 1901
Caro padre,
con questa mia, ti domando scusa di una mia negligenza.
Ieri fu un giorno lieto e di propizia occasione per esprimerti l’affezione ardente che nutro per te. Fu il tuo onomastico!
Io dimenticai di mandarti un piccolo regalo e perciò pensai di mandartelo oggi. Il mio cuore immerso nel piacere, nell’amore e in quelle speranze che formano i vincoli dell’avvenire, la guida del mio futuro, non è capace di esprimerti l’amore e l’affezione che ti porto per quanto tu meriti.
con questa mia, ti domando scusa di una mia negligenza.
Ieri fu un giorno lieto e di propizia occasione per esprimerti l’affezione ardente che nutro per te. Fu il tuo onomastico!
Io dimenticai di mandarti un piccolo regalo e perciò pensai di mandartelo oggi. Il mio cuore immerso nel piacere, nell’amore e in quelle speranze che formano i vincoli dell’avvenire, la guida del mio futuro, non è capace di esprimerti l’amore e l’affezione che ti porto per quanto tu meriti.
Una vita proletaria
La mia vita non può assurgere a valore
di esempio, comunque considerata. Anonima nella folla anonima, essa trae luce
dal pensiero, dall’ideale che sospinge l’umanità verso migliori destini. E
questo ideale io riassumo come balena nel mio pensiero.
Nacqui l’11 giugno 1888 da Giovan Battista Vanzetti, e da Giovanna Nivello, in Villafalletto, provincia di Cuneo, Piemonte. Questo comune che sorge sulla sponda destra della Maira, ai piedi di una bellissima catena di colline, è eminentemente agricolo. Qui vissi fino all’età di tredici anni, in seno alla famiglia.
Frequentai le scuole locali; amavo lo studio e ottenni il primo premio all’esame di proscioglimento, il secondo nel catechismo. Mio padre era indeciso se farmi studiare o darmi un mestiere. Un giorno lesse su La gazzetta del popolo che a Torino quarantadue avvocati avevano concorso per un impiego da 45 lire al mese. Si decise. L’anno 1901 mi portò presso il signor Comino esercente una pasticceria nella città di Cuneo.
Nacqui l’11 giugno 1888 da Giovan Battista Vanzetti, e da Giovanna Nivello, in Villafalletto, provincia di Cuneo, Piemonte. Questo comune che sorge sulla sponda destra della Maira, ai piedi di una bellissima catena di colline, è eminentemente agricolo. Qui vissi fino all’età di tredici anni, in seno alla famiglia.
Frequentai le scuole locali; amavo lo studio e ottenni il primo premio all’esame di proscioglimento, il secondo nel catechismo. Mio padre era indeciso se farmi studiare o darmi un mestiere. Un giorno lesse su La gazzetta del popolo che a Torino quarantadue avvocati avevano concorso per un impiego da 45 lire al mese. Si decise. L’anno 1901 mi portò presso il signor Comino esercente una pasticceria nella città di Cuneo.
Qui lavorai una ventina di mesi; si
lavorava dalle sette antimeridiane alle dieci pomeridiane ed avevo tre ore di
libera uscita ogni quindici giorni.
Da Cuneo mi recai a Cavour presso il signor Goitre, dal quale lavorai tre anni. Le condizioni di lavoro non differivano che nell’avere cinque ore, invece di tre, di libera uscita. Il mestiere non mi piaceva, ma tiravo avanti per far piacere a mio padre e perché non avrei saputo quale altro mestiere scegliere. Nel 1905 da Cavour mi recai a Torino allo scopo di trovar lavoro. Non trovando occupazione in quella città, mi recai a Cuorgnè ove lavorai sei mesi. Da Cuorgnè tornai a Torino occupandomi in qualità di caramellista.
Da Cuneo mi recai a Cavour presso il signor Goitre, dal quale lavorai tre anni. Le condizioni di lavoro non differivano che nell’avere cinque ore, invece di tre, di libera uscita. Il mestiere non mi piaceva, ma tiravo avanti per far piacere a mio padre e perché non avrei saputo quale altro mestiere scegliere. Nel 1905 da Cavour mi recai a Torino allo scopo di trovar lavoro. Non trovando occupazione in quella città, mi recai a Cuorgnè ove lavorai sei mesi. Da Cuorgnè tornai a Torino occupandomi in qualità di caramellista.
Sacco e Vanzetti erano militanti dell’ IWW
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Agosto 1927, l’esecuzione di Sacco e Vanzetti
Una
mobilitazione operaia, nel mondo intero,
contro un crimine di Stato
Il
23 agosto 1927, vicino a Boston
(Usa), poco dopo la mezzanotte, Nicolas Sacco veniva condotto al supplizio.
Prima dell’esecuzione sulla sedia elettrica gridò “Viva l’anarchia”. Qualche
minuto dopo, Bartolomeo Vanzetti subì
la stessa sorte.
In
seguito all’entrata in guerra degli Usa, nell’aprile del 1917, il presidente
Wilson, che ci è sempre
stato presentato come un “liberal”,
aveva fatto promulgare leggi sempre più repressive. L’apice venne raggiunto a partire dal 1919,
sotto il suo ministro per la giustizia, Palmer. Venne promossa una caccia isterica
agli anarchici, “ai rossi”, agli emigrati. Il 2 gennaio 1920, appena prima
dell’inizio della vicenda, ebbero
luogo i “Palmers raids”. Intrentatre città, quel giorno, ci
furono delle retate di massa, migliaia di arresti, senza imputazione, per mesi,
con il pretesto di un imminente “complotto bolscevico”. La borghesia americana
si vendicava dello scacco subito col proprio intervento militare in Siberia
contro la Russia dei soviet, e della paura che aveva suscitato in lei l’ondata
operaia.del 1919.
Sacco e Vanzetti avevano il profilo ideale di capri
espiatori. Erano anarchici rivoluzionari, tornavano dal Messico dove si
erano incontrati mentrefuggivano
la coscrizione per la guerra imperialista che condannavano.
Vanzetti fu anche condannato a
quindici anni di prigione per una rapina a mano armata che non aveva
commesso. Ma non era
sufficiente. Allora venneistituito
un secondo processo, per un'altra rapina a mano armata, che aveva provocato due
morti. E sempre senza prove, Sacco e Vanzetti venneroquesta volta condannati a morte,
come volevano le autorità.
Non si trattò solamente di un “errore
giudiziario”, come ammisero certi liberali borghesi, ma di un vero e proprio
assassinio politico con l’intenzione di colpire gli animi e voluto come tale
dai rappresentanti dell’ordine. Tutte le prove di innocenza dei due militanti,
comprese le confessioni di uno dei veri autori della rapina a mano armata, non
servirono a niente. Sacco e Vanzetti restarono sei anni nel corridoio
della morte.
Malgrado i
tempi difficili…
Fu allora che si sviluppò una campagna di
solidarietà operaia internazionale, sotto la bandiera della difesa dei
militanti in lotta per l’emancipazione della classe operaia. Forse la sola che fu condotta da un capo
all’altro del mondo sotto questa bandiera.
Era un’epoca difficile, marcata da un
arretramento politico e sociale che attraversava il mondo intero. Il regime
fascista si era insediato in Italia. Decine di paesi vivevano sotto una
dittatura più o meno dura.
La reazione politica toccò anche la Russia , con l’avanzata dello stalinismo
che andò aincancrenire tutto
il movimento comunista internazionale.
Questo non impedì che a partire dal 1926 e soprattutto
durante tutto il 1927 il movimento di solidarietà a Sacco e Vanzetti guadagnasse in ampiezza e
segnasse in modo profondo e duraturo la coscienza di milioni di proletari nel
mondo. Si era ovviamente mobilitato il movimento anarchico. Ma ciò che dette un carattere così
ampio alla protesta operaia, fu la partecipazione di tutte le organizzazioni
comuniste nel mondo con la III ° Internazionale, l’Internazionale Comunista
(IC): i Partiti Comunisti certamente, ma anche il Soccorso Rosso Internazionale,
e soprattutto il movimento sindacale, con l’Internazionale Sindacale Rossa. I
partiti comunisti dettero particolare impulso a queste manifestazioni in quanto
l’IC stava prendendo una svolta “ultrasinistra”, con la politica di “classe
contro classe”. Ma il suo radicalismo toccò
l’emozione profonda di milioni di lavoratori. In tutti i paesi, tutto quello
che esisteva di forze militanti e contestatarie nel movimento operaio si mobilitò, benché i
partiti socialisti, per la maggior parte, puntassero i piedi.
…una enorme
mobilitazione operaia internazionale.
Nessun continente fu risparmiato dagli
scioperi e dalle manifestazioni, in Africa del Sud come in Africa del Nord,
fino all’Oceania. Anche negli Usa, il PC e il movimento operaio
contestatario erano molto
deboli, il sindacato ufficiale, l’AFL, totalmente sottomesso al potere, ma il
movimento di protesta e gli scioperi mobilitarono in modo massiccio i
lavoratori. Nel luglio 1927 New York
conobbe il più grande sciopero della sua storia, con la partecipazione di
centinaia di migliaia di lavoratori che reclamavano salva la vita per Sacco
e Vanzetti. A Boston, a
Chicago, sulla costa del Pacifico, in moltissime città industriali ci furono
scioperi, manifestazioni e scontri con la polizia. La protesta guadagnò il
Canada.
Tutto il movimento operaio dell’America
del Sud si sollevò. Grandi scioperi generali ebbero luogo per tutto il 1927, in
Argentina, in Paraguay, in Uruguay, ma anche in Brasile, in Cile, in Messico e
in Venezuela. Centinaia di migliaia di manifestanti affrontavano le forze di
repressione e le ambasciate degliUSA erano
protette dall’esercito.
In
Europa, anche in paesi alle prese con la repressione, la protesta si
sviluppò malgrado i
rischi, in Polonia sotto il giogo di Pilsudki, e anche in Italia sotto quello
di Mussolini. Sicuramente il
movimento guadagnò la Germania dove
il movimento comunista era forte. In
Gran Bretagna il paese usciva da uno sciopero generale interrotto l’anno
precedente; il sentimento di solidarietà internazionale era forte; numerosi
sindacati e l’ala sinistra del movimento laburista si mobilitarono. A
Londra, in particolare, ci furono scioperi e manifestazioni potenti, in cui si
riunirono decine di migliaia di lavoratori.
In
Francia in prima linea furono la CGTU (la confederazione sindacale che riuniva
i lavoratori più combattivi) e il PC. La CGT diretta dal riformista Jouhauxrifiutò di associarsi al
movimento. Il governo radicale del “Blocco delle sinistre” faceva guerra ai
contestatari. All’avvicinarsi della data dell’esecuzione il movimento si radicalizzò. In luglio e
all’inizio di agosto
scioperi e manifestazioni di grande ampiezza si susseguirono in tutto il paese.
Il giorno dell’esecuzione, il 23 agosto 1927,
quasi centomila manifestanti si riversarono su Parigi. Ci furono degli
scontri particolarmente violenti. Ci furono numerosi feriti e degli arresti tra
i manifestanti, ma furono feriti anche più di 120 poliziotti. Le manifestazioni,
e talvolta gli scontri con la polizia,ebbero
luogo fin nelle più piccole città operaie.
Un movimento che aveva affermato l’unità della classe operaia nel mondo
Un movimento che aveva affermato l’unità della classe operaia nel mondo
Il 23 agosto 1927, la collera
operaia esplose ovunque nel mondo per protestare contro l’assassinio dei due
martiri. Anche a Ginevra
migliaia di manifestanti si riversarono nel centro della città dove ci furono
degli scontri di rara violenza, e l’esercito dovette essere dispiegato a
protezione del consolato americano.
Niente
aveva fatto cedere il giudice Thayer,
il governatore del Massachusetts,
né il presidente degli Stati Uniti. In Francia, i grandi quotidiani di
destra,Le Tempe, Le Figaro, avevano applaudito
anticipatamente l’omicidio. Non si trattò dell’opposizione tra partigiani e
avversari dell’innocenza di Sacco eVanzetti,
ma di una scelta di classe. Era questa la realtà, ciascun campo ne aveva coscienza. Ci furono decine
di morti nel corso di queste manifestazioni nel mondo, in Asia come nelle
Americhe. La protesta e gli scioperi si prolungarono ancora per settimane.
Vanzetti aveva gridato in faccia ai
suoi giudici “Questa agonia sarà il nostro trionfo”. Quando disse “Noi”, parlava di lui e
il suo compagno, sicuramente, ma anche del movimento operaio che aspirava a
liberare la terra dall’oppressione capitalista. I milioni di proletari
mobilitati per due dei loro non avevano potuto fermare la mano del boia. Ma la loro lotta aveva segnato nelle
coscienze milioni di lavoratori, mostrando loro di appartenere ad una sola e
unica classe sociale.
PaulSOREL
Cinquant’anni dopo l’esecuzione di
Sacco e Vanzetti, il 23 agosto 1977, l’allora
governatore del Massachusetts pronunciò la
riabilitazione dei due uomini. Ma questo non toglie
niente all’infamia che costituì il loro processo, la loro condanna e la loro
esecuzione.
Lutte Ouvrière n°2038 del 24 agosto 2007
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Manifestazioni di protesta a Londra a favore di Sacco e Vanzetti.
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