Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 8 settembre 2012

CRISI: IN GRECIA ARRIVA LA LEGGE CHE AVVIA LE PRIVATIZZAZIONI. LA TROIKA E GLI AVVOLTOI GIOISCONO

Fonte: controlacrisi.org
 
Si apre in Grecia la strada delle privatizzazioni, condizione imposta dai creditori internazionali di Atene per continuare a dare il loro aiuto economico al Paese. Il Consiglio dei ministri ha deciso l'abolizione della quota che lo Stato greco doveva possedere per ogni società, quota che variava dal 34% al 51% del capitale azionario per ogni società a partecipazione statale. In base a questa decisione lo Stato greco potrà in futuro possedere solo una piccola quota del capitale oppure vendere per intero la sua partecipazione. Questa decisione avrà come effetto l'avvio delle procedure per la privatizzazione di nove grandi imprese a partecipazione statale, come la Società per i petroli (Elpe), la compagnia per la produzione di energia elettrica (Deh), la società per le scommesse calcistiche (Opap), quella per le scommesse dei cavalli (Odie), per le compagnie per le acque di Atene e di Salonicco (Eydap e Eyath), la compagnia delle Poste (Elta), le compagnie che controllano i porti di Pireo e di Salonicco (Olp e Olth) e 10 altri porti di minore importanza.
La Troika (Fmi, Bce e Ue) e gli avvoltoi internazionali, dalle banche ai fondi fino alle multinazionali, gioiscono e iniziano a calcolare i guadagni sulle 'svendite' greche.

Usano il panico da deficit per smantellare il sociale

Usano il panico da deficit per smantellare il sociale
di Paul Krugman
L’AGENDA DELL’AUSTERITY
“Il tempo giusto per le misure di austerità è durante un boom, non durante la depressione”. Questo dichiarava John Maynard Keynes 75 anni fa, ed aveva ragione. Anche in presenza di un problema di deficit a lungo termine (e chi non ce l’ha?), tagliare le spese quando l’economia è profondamente depressa è una strategia di auto-sconfitta, perché non fa altro che ingrandire la depressione.

Allora come mai la Gran Bretagna (e l’Italia, la Grecia, la Spagna, ecc. NDR) sta facendo esattamente quello che non dovrebbe fare?
Al contrario di paesi come la Spagna, o la California, il governo britannico può indebitarsi liberamente, a tassi storicamente bassi.
Allora come mai sta riducendo drasticamente gli investimenti, ed eliminando centinaia di migliaia di lavori nel settore pubblico, invece di aspettare che l’economia recuperi?

Nei giorni scorsi, ho fatto questa domanda a vari sostenitori del governo del primo ministro David Cameron. A volte in privato, a volte in TV. Tutte queste conversazioni hanno seguito la stessa parabola: sono cominciate con una metafora sbagliata, e sono terminate con la rivelazione di motivi ulteriori (alla ripresa economica NDR).

La cattiva metafora – che avrete sicuramente ascoltato molte volte – equipara i problemi di debito di un’economia nazionale, a quelli di una famiglia individuale. La storia, pressappoco è questa: Una famiglia che ha fatto troppi debiti deve stringere la cinghia, ed allo stesso modo, se la Gran Bretagna ha accumulato troppi debiti – cosa che ha fatto, anche se per la maggior parte si tratta di debito privato e non pubblico – dovrebbe fare altrettanto!

COSA C’È DI SBAGLIATO IN QUESTO PARAGONE?

La risposta è che un’economia non è come una famiglia indebitata. Il nostro debito è composto in maggioranza di soldi che ci dobbiamo l’un l’altro; cosa ancora più importante: il nostro reddito viene principalmente dal venderci cose a vicenda. La tua spesa è il mio introito, e la mia spesa è il tuo introito.

E allora cosa succede quando tutti, simultaneamente, diminuiscono le proprie spese nel tentativo di pagare il debito? La risposta è che il reddito di tutti cala – il mio perché tu spendi meno, il tuo perché io spendo meno.- E mentre il nostro reddito cala, il nostro problema di debito peggiora, non migliora.

Questo meccanismo non è di recente comprensione. Il grande economista americano Irving Fisher spiegò già tutto nel lontano 1933, e descrisse sommariamente quello che lui chiamava “deflazione da debito” con lo slogan:”Più i debitori pagano, più aumenta il debito”. Gli eventi recenti, e soprattutto la spirale di morte da austerity in Europa, illustrano drammaticamente la veridicità del pensiero di Fisher.

Questa storia ha una morale ben chiara: quando il settore privato sta cercando disperatamente di diminuire il debito, il settore pubblico dovrebbe fare l’opposto, spendendo proprio quando il settore privato non vuole, o non può. Per carità, una volta che l’economia avrà recuperato si dovrà sicuramente pensare al pareggio di bilancio, ma non ora. Il momento giusto per l’austerity è il boom, non la depressione.

Come ho già detto, non si tratta di una novità. Allora come mai così tanti politici insistono con misure di austerity durante la depressione? E come mai non cambiano piani, anche se l’esperienza diretta conferma le lezioni di teoria e della storia?

Beh, qui è dove le cose si fanno interessanti. Infatti, quando gli “austeri” vengono pressati sulla fallacità della loro metafora, quasi sempre ripiegano su asserzioni del tipo: “Ma è essenziale ridurre la grandezza dello Stato”.

Queste asserzioni spesso vengono accompagnate da affermazioni che la crisi stessa dimostra il bisogno di ridurre il settore pubblico. Ciò e manifestamente falso. Basta guardare la lista delle nazioni che stanno affrontando meglio la crisi. In cima alla lista troviamo nazioni con grandissimi settori pubblici, come la Svezia e l’Austria.

Invece, se guardiamo alle nazioni così ammirate dai conservatori prima della crisi, troveremo che George Osborne, ministro dello scacchiere britannico e principale architetto delle attuali politiche economiche inglesi, descriveva l’Irlanda come “un fulgido esempio del possibile”. Allo stesso modo l’istituto CATO (think tank libertario americano) tesseva le lodi del basso livello di tassazione in Islanda, sperando che le altre nazioni industriali “imparino dal successo islandese”.

Dunque, la corsa all’austerity in Gran Bretagna, in realtà non ha nulla a che vedere col debito e con il deficit; si tratta dell’uso del panico da deficit come scusa per smantellare i programmi sociali. Naturalmente, la stessa cosa sta succedendo negli Stati Uniti.

In tutta onestà occorre ammettere che i conservatori inglesi non sono gretti come le loro controparti americane. Non ragliano contro i mali del deficit nello stesso respiro con cui chiedono enormi tagli alle tasse dei ricchi (anche se il governo Cameron ha tagliato l’aliquota più alta in maniera significativa). E generalmente sembrano meno determinati della destra americana ad aiutare i ricchi ed a punire i poveri. Comunque, la direzione delle loro politiche è la stessa, e fondamentalmente mentono alla stessa maniera con i loro richiami all’austerity.

Ora, la grande domanda è se il fallimento evidente delle politiche di austerità porterà alla formulazione di un “piano B”. Forse. La mia previsione è che se anche venissero annunciati piani di rilancio, si tratterà per lo più di aria fritta. Poiché il recupero dell’economia non è mai stato l’obiettivo; la spinta all’austerity è per usare la crisi, non per risolverla. E lo è tutt’ora.

http://cambiailmondo.org

UN NUOVO ORDINE EUROPEO?

UN NUOVO ORDINE EUROPEO?

Fonte

di Elio Lannutti - 7 Settembre 2012

Il MES (Meccanismo Europeo di Stabilità) è stato approvato dal Parlamento il 19 luglio scorso. Pochi sanno cosa sia e quali ricadute abbia sui cittadini dei Paesi che lo hanno sottoscritto. E’ una sorta di mostro europeo con poteri incontrollati e quasi illimitati leggendo il suo statuto...

Perché si è sentita l'esigenza di creare ex novo un istituto come il Meccanismo Europeo di Stabilità?

Con il cosiddetto Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), si crea una sorta di mostro giuridico, un mostro di LochMES come l'ho ribattezzato, in cui tecnocrati, oligarchi, cleptocrati possono agire senza rispondere ad alcuno del proprio operato. L'Italia, in 5 anni, dovrà versare a questo meccanismo 125,4 miliardi di Euro (25 miliardi l'anno), mediante emissione di nuovo debito pubblico, e poi questi signori, che godono di ampie immunità, non pagheranno le tasse, faranno tutto quello che vogliono, decideranno se e a quali condizioni, e anche a quali tassi di interesse, prestare i soldi. Ciò significa che il popolo, cioè noi, abbiamo perso la sovranità popolare, che adesso appartiene agli oligarchi, ai tecnocrati i quali, nel caso in cui ci dovessero servire i soldi, potranno dire: vi posso dare i prestiti a questi tassi di interesse e però in cambio, voi dovete tagliare ancora di più le pensioni, dovete finire di azzerare i diritti che sono frutto di conquiste, di sudore e sangue dei lavoratori e di dure battaglie sociali. Questo è il mostro di LochMES.

Nello Statuto del MES, si legge che i membri e i loro atti sono coperti dall'immunità da ogni forma di giurisdizione. Perché conferire loro questi "superpoteri"? Con quale mandato agiscono?

E' semplice: vogliono l'immunità perché se si comportano come nell'antichità si comportarono i principi e i despoti, non vogliono avere rivalse, non vogliono finire sotto processo, è questa la ragione! Dunque, è un grave errore aver accettato lo Statuto del MES da parte di queste morenti democrazie europee, perché quando si delegano alla Bce prima, al MES poi, poteri che attengono al popolo, ai cittadini, a quelli che sono stati rapinati in questi anni di diritti e spesso anche di dignità, vuol dire che non c'è più la democrazia in Europa.

Quali implicazioni avrà il Mes sulla vita dei cittadini europei?

Premetto che non condivido le politiche allegre fatte in questi anni, e che hanno cagionato, come nel caso dell'Italia, l'accumulo di un enorme debito pubblico. Ciò detto, ci basta guardare quello che sta succedendo in Grecia dopo l'intervento della cosiddetta Troika, Fmi, Bce e Commissione europea: anche i magistrati stanno scioperando, perché si stanno dimezzando le pensioni, stanno venendo meno tutti i diritti, tutte le conquiste del '900 ottenute con le lotte e il sangue dei lavoratori. Ecco quello che succederà: una ristretta cerchia deciderà per tutti i cittadini, un governo delle élite che potrà dire: non mi basta quello che stai facendo, se ti devo dare il prestito e ti devo salvare, devi demolire quel che resta dei diritti e dello Stato sociale.
Io ho speso una vita per denunciare le malefatte delle banche, della finanza, per inchiodare alle loro responsabilità le agenzie di rating (adesso oggetto delle indagini rigorose della procura di Trani) le quali hanno procurato un danno quantificato dalla Corte dei Conti in 120 miliardi. Persino il dipartimento della giustizia americana, che inizialmente non voleva collaborare con Trani, ha chiesto e acquisito gli atti dell'inchiesta, le intercettazioni telefoniche che inchioderanno queste agenzie.
La gente deve capire che c'è una cricca fatta di queste agenzie di rating, di banche d'affari come Goldman Sachs, di fondi comuni come Black Rock che gestiscono 3500 miliardi, che decide le sorti del mondo. E' da loro che dobbiamo imparare a difenderci, contro cui dobbiamo lottare come fanno i ragazzi di Occupy Wall Street, che per fortuna in America si costituiranno in movimento politico e probabilmente andranno alle elezioni, che sono l'unico modo per cambiare le cose.
In Italia, ormai, c'è solo la parvenza della democrazia, di fatto siamo stati commissariati e siamo in mano ai moderni dittatori, quelli che speculano ogni giorno con 700 mila miliardi di dollari di derivati, contro un Pil che misura la fatica degli uomini da 60 mila miliardi e mediante meccanismi ad alta frequenza come HFT (HIgh Frequency Trading) e decidono come speculare, dove indirizzare quelle immani masse monetarie, quali Paesi premiare e quali salvare.
Dobbiamo conoscere, lottare per cercare di salvare l'Europa e il futuro dei nostri figli.

Tanto rigore per nulla e alla fine Draghi tira fuori il bazooka. Ma l’austerità non è finita

 
Da 537 (24 luglio) a 370 punti (ieri, 6 settembre) con la possibilità concreta di ulteriori ribassi: tanto è sceso lo spread tra Buoni del Tesoro italiani e titoli di stato tedeschi al solo annuncio di “acquisti illimitati” dei titoli dei paesi periferici da parte della banca centrale. A Mario Draghi non è servito, per ora, neppure muovere un dito per tenere a bada i “mercati” (o per essere più precisi la speculazione). E’ quello che molti hanno definito il “bazooka” della BCE, contro il quale nessuno speculatore può confrontarsi. Secondo la Bundesbank, che ha votato contro, la BCE sta violando i trattati. Ma questo davvero ora non importa a nessuno.

Qualche riflessione, quindi, è d’obbligo. La prima è che tutto ciò che è stato raccontato sull’attenzione dei mercati alle politiche fiscali (restrittive) dei paesi, sulla “credibilità”, sulla “fiducia”, era poco più che propaganda. I mercati hanno tranquillamente ignorato il fiscal compact, la costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, la riforma dell’art.18, il taglio alle pensioni (e le migliaia di esodati). Tutte queste politiche non hanno e non potevano avere un’influenza positiva sullo spread. Ma l’hanno avuta e l’avranno ancora, di segno negativo, sull’economia reale.
La seconda riflessione consegue dalla prima: se tutto quanto si è fatto finora è stato pressoché inutile (a parte le manovre della BCE), allora si potevano adottare le misure annunciate ieri da Draghi già all’inizio della crisi dei debiti sovrani, risparmiando all’Europa tre anni di pena. Ovviamente non vi erano le condizioni politiche per farlo, ma ciò non toglie nulla all’obiezione. Se Draghi non sta violando i trattati oggi, non li avrebbe violati neppure ieri.
La terza riflessione riguarda il futuro. Il presidente della BCE ha ribadito più volte che gli acquisti saranno “condizionati” al rispetto di impegni da parte dei governi e al coinvolgimento del Fondo Monetario Internazionale. Pur senza entrare nei dettagli, è chiaro di cosa Draghi stava parlando: austerità di bilancio, riduzione dei salari (in ogni rapporto la BCE insiste su questo punto), ridimensionamento del welfare.
Ma chi sta già attuando politiche di questo genere non sta affatto migliorando le sue performance economiche. Al contrario.
L’Irlanda dal 2008 vede il suo prodotto nazionale lordo in continua caduta, mentre il PIL è tornato a contrarsi all’inizio del 2012. Non solo: nonostante la contrazione della spesa pubblica, il deficit irlandese è peggiore di quello greco.
In Portogallo, altro paese “aiutato”, l’economia si sta contraendo (-3,3%) più delle già pessime aspettative, mentre le entrate fiscali diminuiscono a causa della recessione. Una strategia quindi che non solo distrugge l’economia reale, ma anche nel breve termine compromette le stesse finanze pubbliche. Certo, lo spread di questi paesi è sceso, ma è una ben magra consolazione di fronte ad una economia in caduta libera.
In Grecia la situazione è ormai oltre il limite della civiltà. La Spagna è ad un passo dalla richiesta di aiuti per le sue disastrose finanze.
Per quel che riguarda l’Italia le previsioni peggiorano: ieri l’OCSE ha annunciato un crollo del 2,4% del PIL nel 2012, contro l’1,7% delle previsioni precedenti. E il Financial Times sembra non avere dubbi: anche l’Italia chiederà gli “aiuti” europei entro l’anno, delegando le politiche economiche alla trojka BCE-UE-FMI.
L’ultima riflessione riguarda l’efficacia delle mosse annunciate dalla BCE. Lo scenario migliore sarebbe quello in cui la banca centrale non fosse costretta ad attivare concretamente i programmi di acquisto. C’è da sperare cioè che i mercati percepiscano la minaccia del bazooka come insuperabile, così che la speculazione sui titoli dei paesi periferici si fermi senza nessun atto concreto della Banca centrale. Se invece così non fosse, l’ulteriore rigore dei bilanci pubblici al quale gli acquisti verrebbero subordinati procurerebbe danni forse peggiori che lo spread stesso, come spiegato in precedenza.
Infine è ancora da chiarire come la BCE “sterilizzerà” l’acquisto dei titoli dei paesi periferici per non incrementare l’offerta di moneta e quindi (nella sua visione) alimentare l’inflazione.
Intanto l’Europa rimane ancora per qualche giorno con il fiato sospeso: il 12 settembre la Corte costituzionale tedesca deciderà se l’ESM è conforme alla legge fondamentale.
Concludiamo con una nota positiva. Il quotidiano tedesco Welt ieri ha titolato nell’edizione on line: “I mercati finanziari festeggiano la morte della Bundesbank”. E questa sarebbe davvero una bella notizia.
OBAMA
“NOW millions get emergency health care, before they couldn’t even dream about it”
“DEADLY right”

venerdì 7 settembre 2012

Inutile vendere palazzi

Occorre una strategia di uscita dall'euro

Gianluca Roselli intervista Emiliano Brancaccio - sinistrainrete -

«Da questa crisi si esce riformando profondamente l’Unione europea oppure diventerà inevitabile uscire dall’euro». L’economista Emiliano Brancaccio (docente di Economia politica alla Facoltà di Scienze economiche e aziendali dell’Università del Sannio, a Benevento) non è ottimista sul futuro della moneta unica. Che, a suo parere, sta favorendo l’economia tedesca e impoverendo tutti gli altri Paesi, a cominciare dall’Italia.
Brancaccio, davvero quello che era considerato impossibile fino a qualche mese fa, ovvero l’uscita dall’Italia dall’euro, ora è una possibilità reale?
«Sì, perchè l’euro non ha raggiunto gli obiettivi per cui è stato creato. L’auspicato compromesso tra i paesi forti come la Germania da un lato e la Francia e l’area mediterranea dall’altro non si è mai realizzato. Gli Stati hanno interessi divergenti che non si riescono a ricomporre. E ognuno va per la sua strada. Così l’euro si configura sempre di più come un vestito tagliato su misura per l’economia tedesca. Che ne trae vantaggi a livello di competitività delle sue imprese a scapito dei Paesi periferici. Così la zona euro è fortemente sbilanciata in favore degli interessi dell’economia più forte. E la crisi lo dimostra, perché colpisce in modo asimmetrico: La Germania è toccata in misura minore, mentre altri vanno a picco».
 
Insomma, l’euro ha fallito la sua missione?
«Nell’attuale configurazione sì. E lo dimostra il fatto che l’area euro si è dimostrata la più fragile del mondo di fronte all’onda di crisi che veniva dagli Stati Uniti».

Quindi si va verso la fine della moneta unica?
«Il problema è che in Germania non sembrano convinti che convenga salvare l’euro.
I gruppi dirigenti tedeschi reputano sostenibile il costo dell’uscita dall’euro per le loro imprese e le loro banche. L’unico fattore che spaventa la Germania è che la deflagrazione della moneta unica ponga fine anche al mercato comune europeo. Il motivo è che i tedeschi hanno lungamente prosperato sulla libera circolazione dei capitali e delle merci e vogliono preservarla. Ma nessuno, tanto meno Monti, sembra avere il coraggio di minacciare una opzione “neo-protezionista” da parte dei paesi deboli per indurre la Germania a rendere più equilibrata l’Unione. Allo stato attuale, dunque, è improbabile che l’euro sopravviva. La Bce può anche continuare a comprare i titoli dei paesi in difficoltà, ma non potrà farlo per sempre anche perché nel Consiglio direttivo le opinioni sono discordanti. Può al limite prolungare l’agonia, ma col passare del tempo l’attuale zona euro è destinata a saltare».

Quando succederà?
«George Soros ha parlato di un orizzonte di pochi mesi. E il Fondo Monetario Internazionale anziché smentirlo si è accodato. Dopo le dichiarazioni di Draghi questo orizzonte si è allargato, ma non credo di molto. Comunque, piuttosto che continuare così, sarebbe meglio tagliare i legami ora piuttosto che essere costretti a farlo dopo, quando la desertificazione produttiva del Paese sarà compiuta».

Quindi l’Italia deve decidere l’uscita?
«Non mi pare che si annuncino svolte credibili a favore di un effettivo rilancio e di un coordinamento dello sviluppo europeo, e quindi sarebbe bene iniziare a preparare una strategia di uscita. Oltretutto senza l’Italia la zona euro non sopravviverà, ci sarà un effetto a catena che porterà alla fine della moneta unica, almeno nella versione attuale».

Una decisione che alcuni giudicano catastrofica.
«Bisogna evitare una sterile contrapposizione tra catastrofisti e iperottimisti. L’uscita dall’euro non sarebbe certo una passeggiata. E’ urgente definire i possibili criteri di uscita, che avrebbero implicazioni diverse sui diversi gruppi sociali. A mio avviso, per esempio, un meccanismo di indicizzazione dei salari sarebbe assolutamente necessario. Inoltre, rendere esplicita la possibilità che i paesi deboli limitino la libera circolazione dei capitali e delle merci potrebbe mettere in chiaro i rischi che la stessa Germania sta correndo. A date condizioni, dunque, il ritorno alla sovranità monetaria potrebbe avere un effetto benefico sull’occupazione e i redditi. Del resto, l’analisi va fatta confrontandoci con le alternative: restare in questo stallo per anni sarebbe peggio. Così non si può continuare».

Una decisione di questa portata può essere presa dal governo Monti o dovrebbe essere presa da un esecutivo politico?
«Dubito che Monti possa prendere una decisione simile. Questo dovrebbe essere un tema centrale del dibattito politico ed elettorale. In Italia bisognerebbe tornare a un governo espressamente politico, anche perché la pretesa di attribuire ai tecnocrati proprietà taumaturgiche si è dimostrata infondata. Dalle crisi economiche non si esce affidando il timone ai tecnici, come viene da tempo preconizzato dalla Trilateral Commission. Al contrario, bisognerebbe rivitalizzare i processi democratici».

Quindi lei non salva nulla della politica economica del governo Monti? E’ appena stata approvata la spending review. E’ stato annunciato un piano anti-debito con la vendita di patrimonio pubblico.
«Sotto il termine spending review si nasconde in realtà un pezzo ulteriore di manovra, a scoppio ritardato. Vedo pochi tagli agli sprechi e molti tagli indiscriminati, basti vedere la stretta nei confronti di importanti enti di ricerca. Per quanto riguarda le vendite del patrimonio pubblico, anche ammettendo per pura ipotesi che si possa arrivare a un introito di 400 miliardi di euro, con gli interessi sul debito al 4 per cento in realtà il risparmio annuo dello Stato si aggirerebbe intorno ai 15 miliardi. Insomma, un piano colossale che rischia di partorire un topolino».

Il suo ultimo libro si intitola “L’austerità è di destra e sta distruggendo l’Europa”. E’ questa la causa del fallimento dell’Ue?
«Il titolo vuole essere un monito anche alla sinistra. Significa che le politiche di taglio alla spesa pubblica e di aumento della pressione fiscale colpiscono in primo luogo le fasce più deboli, e a cascata riducono la capacità delle famiglie e delle imprese, deprimendo la domanda di merci, con le imprese che abbattono la produzione e licenziano. E i redditi cadono, il che rende più difficile il rimborso dei debiti. In questo senso le politiche di austerità perseguite da tutti i governi, di destra e di sinistra, stanno impoverendo e, quindi, distruggendo l’Europa.

A proposito di capitale fittizio, stato e ricette anticrisi

di Dante Lepore - Bandiera Rossa - Fonte -


È opportuno premettere che l’atteggiamento ostile verso la «speculazione» è comune a tutte le posizioni. Sembra che questa speculazione sia un corpo (essi la chiamano «sfera») estraneo che causa la malattia del capitalismo, che, senza di essa, sarebbe sostanzialmente un corpo sano. Come quando la malattia è concepita come l’antitesi assoluta della salute (vista anch’essa come stato assoluto di beatitudine) anziché come il rovescio dialettico della salute. Non si trova nessuno che affermi che la speculazione sia una cosa buona; anche quando andava bene, al massimo la si accettava per costume pragmatico, perché sembrava si fossero acquisiti quei meccanismi conoscitivi che permettevano di arricchire in fretta con l’inflazione pletorica del capitale. Fino a quando, negli ultimi due anni, l'aumento del debito pubblico superava la riduzione del debito privato, anche i mercati crescevano, al punto che gli stessi privati si indebitavano sempre più sotto l’effetto del sistema Ponzi; ma quando l'aumento del debito privato, coi mutui, assicurazioni, ecc., ha superato l'aumento del debito pubblico, i mercati si sono fermati.

Per capire lo stretto legame tra capitale fittizio e indebitamento pubblico e privato, basta considerare come esso altro non sia che il rovescio speculare del credito: se si prende del denaro a credito, da un lato esso è prestito, in mano al finanziere (banche, ecc.), dall’altro è debito (Stati, comuni, famiglie, imprese, privati cittadini). Ci si indebita con i muti per la casa, ma anche per i consumi quotidiani, e persino per pagare gli interessi per i debiti contratti. E fino ad un certo punto, ossia fino a quando il rapporto tra consumo produttivo e dispendio improduttivo non è sbilanciato verso quest’ultimo, la cosa funziona: nel 2007, il settore industriale (esclusa edilizia) pesava negli USA per il 12%, di contro al 23% della Germania e al 43% della Cina, e dunque ilconsumo produttivo tedesco era doppio rispetto a quello americano, mentre quello cinese era di tre volte e mezzo rispetto a quello USA e circa doppio rispetto al tedesco. Ormai, ad oggi, i livelli di indebitamento medio superano, per i lavoratori dipendenti, il salario medio. Significa che il salario, quando va in mano a chi lo percepisce, non basta a coprire i debiti già contratti, sia per i monoreddito che, ormai, anche per i plurireddito. I lavoratori, in Italia come in tutti i Paesi capitalisti, si indebitano sia quando i consumi tirano e il credito è facile che quando, con la crisi, il credito è più oneroso e devono indebitarsi per sopravvivere. Ora che questi meccanismi, osannati dai tecnocrati della finanza alla von Mises, si sono brutalmente inceppati, tutti ne dicono peste e corna, inclusi Obama e Tremonti… e Monti e Draghi che ci assicurano di volerla «regolamentare». Le differenze sono appunto sul come contenerla, arrestarla, regolamentarla, ma non abolirla (ci mancherebbe!).

Qui comincia il sospetto: se si abolisse la speculazione, e con essa la perversione dell’in-debitamento, il capitalismo (che, fino a prova contraria, nessuno ha ancora «abolito») non si abolirebbe anch’esso?

Curioso è che per tutti, tranne per coloro che da decenni se ne attendevano il «crollo», ci sarebbe un’economia migliore, reale, buona per tutti, un capitalismo “dal volto umano” come si diceva fino a ieri. Quelli che se ne aspettavano il crollo da decenni, puntualmente smentiti dopo ogni previsione di tale crollo, preferiscono ora parlare non più di crisi ma di «declino», perché han finalmente capito (forse?) che le crisi sono dei momenti di trasformazione in cui qualcosa muore, ma non del tutto, e qualcosa nasce, ma mai dal niente, e sempre il nuovo era già contenuto nel vecchio. In questa ottica, avrebbero anche ragione coloro che vogliono semplicemente «regolamentare» la speculazione, limitarla nelle dimensioni e nei ritmi. Insomma si tratterebbe di disciplinare i «grandi speculatori», lasciando credere che i piccoli, tra cui si annoverano anche i lavoratori, ne sarebbero sollevati. In effetti, anche i lavoratori speculano, anche se in piccolo, quando comprano a rate o scommettono, ecc.

GRECIA: Se Atene processa il Fondo monetario internazionale

di Matteo Zola - Fonte -

Crisi Grecia6
La notizia è passata un po’ in sordina, ma ha dell’interessante. Si è aperta ad Atene un’indagine giudiziaria nei confronti del Fondo monetario internazionale (Fmi). L’indagine è stata ordinata dal Procuratore ellenico per l’Economia in seguito alle dichiarazioni di Panagiotis Rumeliotis, ex rappresentante della Grecia presso il Fmi. Rumeliotis ha rilasciato delle dichiarazioni secondo le quali l’organismo internazionale era al corrente sin dall’inizio che il programma di risanamento economico del Paese ellenico non avrebbe avuto successo.
L’indagine si è aperta con la deposizione in Procura dell’ex ministro dell’economia, Luca Katseli, cui ne seguiranno altre: ministri, soprattutto, dei tanti che dal 2009 si sono succeduti nei governi ellenici preda della crisi. Alla fine delle deposizioni il Procratore deciderà se procedere contro il Fmi, inviando formale richiesta al parlamento. Non è difficile immaginare la portata di un tale atto. La Grecia, stritolata dall’austerity, avrebbe allora ingurgitato litri di medicinali scaduti, inadeguati a risolvere la crisi in cui versa. Non solo. Quanto fatto fin qui non sarebbe stato altro che tempo perso, compresi i sacrifici, l’indigenza e i suicidi.
Ipotizziamo che, in uno slancio di autonomia, la Grecia “processi” davvero il Fmi. La prima domanda sarebbe, ma il Fmi cosa ci guadagna dal somministrare consapevolmente ricette sbagliate? Ci guadagna che si crea un sistema di debitocrazia che consolida le economie forti e distrugge quelle deboli (il Fmi è al soldo di chi lo finanzia), favorendo processi di colonizzazione economica. Il Fmi è la voce delle economie più potenti, che versano maggiormente i loro quattrini indirizzandone, di fatto, le politiche. Come osservato da Joseph Stigliz, in Europa orientale, alla fine del comunismo, il Fmi ha appoggiato coloro che si pronunciavano per una privatizzazione rapida, che in assenza delle istituzioni necessarie ha danneggiato i cittadini e rimpinguato le tasche di politici corrotti e uomini d’affari disonesti. E’ ovvio che chi presta denaro chieda condizioni. Le condizioni chieste dal Fmi sono sempre le stesse: austerità, liberalizzazioni, specializzazione economica. Queste “condizioni” sono anche figlie della lezione ultraliberista, quella di von Hayek per intenderci, tanto cara a Regan e alla Tatcher, che tutt’ora resistono malgrado l’evidente fallimento di tali concezioni nella crisi in corso.
Le misure chieste dal Fmi infatti svuotano lo Stato de suo patrimonio che, liberalizzato, diventa proprietà di holding e società estere. La specializzazione economica, inoltre, rende i singoli Paesi produttori d’eccellenza in certi settori rendendoli però dipendenti dalle importazioni. Infine l’austerità – per dirla con Paul Krugman – serve a cavalcare la crisi, non a risolverla: “la corsa all’austerity in realtà non ha nulla a che vedere col debito e con il deficit; si tratta dell’uso del panico da deficit come scusa per smantellare i programmi sociali”.
Smantellare lo stato sociale (welfare state) è forse pre-requisito fondamentale affinché le nostre società possano competere con l’economia cinese o indiana? Certo, i costi dello stato sociale sono elevati ma, diceva Keynes: “Il tempo giusto per le misure di austerità è durante un boom, non durante la depressione”. Gli fa eco Krugman che, il 4 agosto scorso, sulle colonne del NY Times scrive: “Anche in presenza di un problema di deficit a lungo termine (e chi non ce l’ha?), tagliare le spese quando l’economia è profondamente depressa è una strategia di auto-sconfitta, perché non fa altro che ingrandire la depressione”.
La spiegazione è semplice. Dice Krugman: “Il nostro debito è composto in maggioranza di soldi che ci dobbiamo l’un l’altro; cosa ancora più importante: il nostro reddito viene principalmente dal venderci cose a vicenda. La tua spesa è il mio introito, e la mia spesa è il tuo introito. E allora cosa succede quando tutti, simultaneamente, diminuiscono le proprie spese nel tentativo di pagare il debito? La risposta è che il reddito di tutti cala – il mio perché tu spendi meno, il tuo perché io spendo meno.- E mentre il nostro reddito cala, il nostro problema di debito peggiora, non migliora”.
Il Fmi, nel costringere i Paesi che hanno fatto richiesta di un prestito a misure di austerità, produce un secondo effetto negativo (il primo, secondo Krugman, è quello di peggiorare la crisi): la riduzione della democrazia. Secondo il Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, il Fmi impone le sue decisioni ai governi democraticamente eletti che si trovano così a perdere la sovranità sulle loro politiche economiche. Va però detto che quei governi hanno prima accettato l’aiuto economico del Fondo e che la sovranità nazionale può non essere un dogma (si pensi all’Unione Europea che è, anch’essa, una riduzione volontaria di sovranità nazionale). Si tratta comunque di un problema grave in quanto il Fmi è l’unico offerente e rifiutarne l’aiuto può voler dire andare incontro alla bancarotta. Accettarlo, invece, significa applicare misure di austerità che possono colpire gravemente lo stato sociale (pensioni, sanità, istruzione) senza escludere che si può comunque andare in bancarotta (il Senegal e l’Argentina sono lì a dimostrarlo). I mali del Fmi li riassume bene Michel Chossudovsky, importante economista canadese, che spiega come le politiche economiche del Fmi sono obbligatorie, e scavalcano la consultazione dei cittadini: la democrazia ne esce perciò impoverita. I cittadini, esasperati dalla disoccupazione e dall’inflazione, protestano invano contro le misure di austerità e contro i governi che le hanno introdotte (accettando l’aiuto del Fondo). Il fatto è che le misure imposte dal Fondo non sono negoziabili. Le proteste, fosì frustrate, si fanno sempre più violente. Diventa allora necessario rafforzare gli organi di sicurezza e reprimere il dissenso. Così la democrazia viene messa ulteriormente in serio pericolo.
Ecco perché quanto sta avvenendo in Grecia potrebbe avere ripercussioni notevoli: nell’utopico e assurdo caso in cui il Fmi venisse riconosciuto colpevole di aver imposto misure economiche di cui sapeva l’inefficacia, si aprirebbero gli spazi per una ri-definizione del ruolo del Fmi e per una discussione sui modelli economici di cui si fa portatore. Certo, non succederà. Ma intanto ad Atene l’indagine è iniziata.
 
LOST RETURNABLE
“I do not understand,given the situation…” ” … Why they don’t make me a Molotov”

Syriza, una luce in Europa

 
di Hilary Wainwright - Fonte -
La difesa del welfare in Parlamento e l'attività nel sociale, un'organizzazione aperta a chiunque voglia un'alternativa al capitalismo. Ecco come la sinistra più forte d'Europa sta creando un «modello». Con uno stile politico inedito
Nella maestosa cornice del parlamento greco, Alexis Tsipras, il presidente di Syriza, la coalizione radicale di sinistra, apre il primo incontro dei suoi 71 deputati con il suo caratteristico mix di freddezza e giovialità. Nello stesso momento in tutto il paese gli attivisti organizzano assemblee di quartiere, aprono "cucine solidali" e bazar, lavorano in centri medici volontari, proteggono gli immigrati dagli attacchi di Alba dorata, il nuovo partito fascista che ha guadagnato il 7 per cento dei voti alle elezioni, fondano le correnti di Syriza dentro il sindacato, lavorando alla transizione da una coalizione di 12 organizzazioni politiche (con 1,6 milioni di voti) a un nuovo tipo di partito.
Nel mezzo di tutto questo i militanti trovano il tempo di cucinare, ballare, dibattere e organizzare un festival anti-razzista di tre giorni. Il festival, ora alla sua sedicesima edizione, è stato creato per affrontare, nelle parole del suo fondatore Nicos Giannopolous, «la crescita di nazionalismo e razzismo nei primi anni Novanta». Nei suoi obiettivi, principi organizzativi nonché nella pluralità delle forze culturali che promuove, il festival simboleggia la forza della società civile internazionale che Syriza ha contribuito a costruire e di cui è essa stessa in buona parte frutto. Sono state coinvolte nell'organizzazione dell'evento più di 250 tra organizzazioni e partiti e più di trentamila persone di ogni età ed etnia si sono riversate nello spazio "ancora" pubblico del parco Goudi ad Atene.
L'obbiettivo comune di queste attività è trasformare il sostegno elettorale per Syriza in una forza sociale per il cambiamento, oltre a incrementarne la forza lungo il percorso sentiero elettorale che conduce al governo. Quando alle prime elezioni del 6 maggio 2012 Syriza ha ottenuto il 17 per cento dei voti molti attivisti sono rimasti sbalorditi. Soltanto tre anni prima con il 4.7 per cento dei voti l'alleanza aveva passato per un soffio la soglia di sbarramento del 3 per cento che limita l'entrata in parlamento. Alle seconde elezioni del 17 giugno 2012, i voti per Syriza sono cresciuti fino al 27 per cento, e la gente di Syriza ha iniziato a immaginare l'arrivo al governo.
Dimitris Tsoukalas, uno dei nuovi deputati di Syriza proveniente dal Pasok - la principale forza di centro-sinistra dalla sua fondazione nel 1974 - era a capo del sindacato dei bancari, ha dato le dimissioni dal Pasok il giorno prima che il Presidente George Papandreou firmasse il memorandum d'intesa sulle riforme di politica economica con Fmi, Commissione Europea e Banca Centrale Europea. Tsoukalas è poi entrato nella coalizione "No al memorandum", per contrastare il Pasok alle elezioni regionali nell'Attica, la regione nella quale il voto del Pasok è crollato dal 40 al 23 per cento. Tsoukalas è cauto: «Il voto può essere come la sabbia». E Nuova Democrazia, il principale partito di destra greco, arrivato primo alle elezioni di giugno, è stato capace di raccogliere i frutti della paura di fronte alla crisi e alla possibilità di una vittoria di Syriza.

Le origini del cambiamentoDa dove viene questa organizzazione politica, radicata nei movimenti e impegnata per cambiare lo stato? La struttura del nuovo partito dovrà essere discussa dai militanti vecchi e nuovi nei prossimi sei mesi. Ma tutti concordano che i fondamenti di Syriza non debbano cambiare. Syriza, fondata nel 2004, segue il successo di una nuova generazione di attivisti provenienti dal partito di sinistra Synaspismos, inclusi Alexis Tsipras e Andreas Karitzis. Questa generazione si è formata nei movimenti per una globalizzazione alternativa nati all'inizio di questo secolo, che hanno portato alle grandi manifestazioni di Genova nel 2001 e al Social forum mondiale ed europeo. L'esperienza del Social forum, incluso il Forum sociale greco, è stata decisiva nell'allontanare la cultura della nuova sinistra greca dalla fedeltà ad una particolare ideologia, in favore invece di pluralismo, collaborazione democratica, apertura e convinzione dell'importanza di proposte alternative.
Questa cultura ha attecchito su un terreno fertile. I giovani di Syriza sono la prima generazione che ha rifiutato il capitalismo dopo la caduta dell'Unione Sovietica; il loro impegno è per costruire un'alternativa, piuttosto che proporre un modello già elaborato da altri. «Cerchiamo di trovare un'altra strada», dichiara Karitzis. «Credo che ci sia bisogno del potere politico dello Stato, ma ciò che risulta decisivo è quello che si fa a livello dei movimenti e della società prima di assumere il potere.

giovedì 6 settembre 2012


OBAMA OR ROMNEY?
The world holding his breath about their programmes

Ricette per il welfare

di Grazia Naletto - Fonte -
Salute, istruzione, casa, pensioni. I diritti sociali, visti solo come costi, non sono più per tutti. Come fermare la deriva? Siamo in apertura di anno scolastico: ragazzi, famiglie, docenti e dirigenti scolastici dovranno confrontarsi con l’eredità dei decreti Gelmini e i tagli imposti dalla spending review. Ovvero: tagli a tempo pieno e attività extradidattiche, aumento dei costi delle mense scolastiche e delle tariffe mensili dei servizi per l’infanzia. Solo per fare alcuni esempi.
Ciò accade nel contesto di un dibattito pubblico sulle caratteristiche e gli effetti della crisi a dir poco schizofrenico: da un lato (e giustamente) le inchieste sulle aziende in crisi, sulla crescita della povertà e della disoccupazione giovanile, sulla dilatazione della povertà, sulla crescita delle disuguaglianze economiche e sociali; dall’altro la visibilità pressoché esclusiva delle opinioni di “tecnici”, governativi e non, a sostegno di quella che viene proposta come “l’unica via di uscita” dalla crisi: quella dell’austerity e del contenimento della spesa pubblica, in primo luogo di quella sociale.
Tale schizofrenia non è certo casuale: risente di un dibattito internazionale egemonizzato dalla teoria neoliberista che ha imposto l’assioma dell’esistenza di una relazione di incompatibilità tra welfare ed efficienza economica. Così, a partire dagli anni ’80, i governi europei hanno eroso sistematicamente le garanzie offerte dal sistema di welfare. È stato messo in discussione il principio che sta alle fondamenta dello stato sociale: la scelta universalista in base alla quale lo Stato è tenuto a farsi carico di alcuni bisogni sociali fondamentali (salute, istruzione, abitazione, pensioni) trasformandoli in diritti per tutti.
In Italia l’argomentazione in base alla quale questa scelta sarebbe indotta dai costi eccessivi delle politiche pubbliche non regge: la spesa sociale italiana è nella media europea e non si capisce perché i soldi mancano per gli asili e le scuole pubbliche, per l’edilizia pubblica residenziale, per gli ospedali, ma ci sono se si tratta di partecipare alle “missioni umanitarie”, di finanziare nuovi sistemi d’arma o le scuole private.
È opinabile anche l’argomentazione secondo la quale il privato garantirebbe una “migliore efficienza”: di sicuro sino ad oggi i tagli ai servizi sociali hanno significato un aumento dei costi per i cittadini (si pensi soltanto al vero e proprio ruolo di sostituzione del welfare svolto dalle assistenti familiari, per lo più straniere, i cui costi ricadono sulle famiglie).
Infine risulta più che discutibile la tesi che individua nella spesa pubblica un “costo” che ostacola la crescita economica: investire nella scuola, nell’università, nella ricerca, riorganizzare i sistemi di protezione sociale territoriale, intervenire a sostegno delle persone non autosufficienti, significa anche creare lavoro e favorire l’innovazione del nostro sistema produttivo, oltre che sostenere la coesione sociale (si leggano i molti contributi pubblicati su www.sbilanciamoci.info).
I cambiamenti demografici, le trasformazioni nel mondo del lavoro, l’invecchiamento della popolazione, la crescita dell’occupazione femminile, le migrazioni pongono certo il problema di misurarsi con bisogni sociali in aumento e di tipo nuovo. Ma la risposta sta in un diverso utilizzo delle risorse, nel riorientamento e nella riqualificazione dell’intervento pubblico, anziché nella sua costante riduzione.
La difesa dell’intervento pubblico nelle politiche sociali rappresenta dunque una via da seguire: ci sono servizi e attività che non possono essere consegnate al mercato. Di conseguenza, un sistema fiscale ispirato ai principi di progressività ed equità (l’introduzione di una patrimoniale seria sulle rendite e i grandi patrimoni e di una tassa sulle transazioni finanziarie), resta lo strumento fondamentale per finanziare servizi che devono essere garantiti a tutti.
Ambito strettamente connesso alle politiche di welfare, inoltre, è quello del mercato del lavoro: la deregolamentazione introdotta in Italia negli ultimi anni, lungi dall’aver prodotto un aumento dell’occupazione, ha comportato danni crescenti in termini di coesione sociale. Né certo i contenuti della recente riforma del lavoro, che ha modificato l’art.18 e innalzato i costi dei rapporti di lavoro atipico (rinunciando all’annunciata riduzione delle tipologie di lavoro “flessibile”, evitando di abbassare i costi del rapporto di lavoro dipendente e di ampliare il sistema di protezione sociale per i lavoratori precari), sembrano mutare le linee seguite sino ad oggi.
È dunque necessario un welfare nuovo che sappia rispondere alle nuove necessità di una società che a causa della crisi vede aumentare le persone precarie, povere e sempre più sole. Poiché siamo i primi a diffidare delle “ricette facili”, torniamo a discuterne collettivamente a Capodarco dal 7 al 9 settembre.

La terza via di Sbilanciamoci!

di Giulio Marcon - Fonte -

Il dibattito politico non affronta il merito dei problemi economici e sociali. La politica dimentica i soggetti sociali e il loro disagio. Per discutere dei contenuti e delle alternative concrete, la campagna Sbilanciamoci! riunisce associazioni, esperti e movimenti alla decima edizione della “Contro-Cernobbio”, a Capodarco di Fermo

Dalle discussioni estive sulle alleanze politiche in vista delle prossime elezioni e sulle prospettive di governo sta mancando completamento il merito: il programma e gli obiettivi che sarebbe necessario darsi per fronteggiare la crisi e avviare un modello di sviluppo radicalmente diverso da quello che abbiamo conosciuto fino ad oggi. E scompaiono – dal dibattito politico – da una parte la società con le sue sofferenze e dall'altra i soggetti (il lavoro, i movimenti, la società civile) che dovrebbero essere il perno di un cambiamento radicale del paese.
Prevale, per parafrasare – modificandolo – il detto gramsciano, una logorante “guerra di posizionamento” in cui a farla da padrone sono le continue mosse e giravolte tattiche, le battute e la loro esegesi, il detto e il non detto, gli equilibrismi sul nulla, i minuetti che cambiano di tonalità ogni giorno, le foto più o meno sfocate: cioè il rito di una politica autoreferenziale a destra come – ahinoi – a sinistra. Nella migliore delle ipotesi con l'obiettivo di andare a governare (ma per fare cosa?), nella peggiore di prendere qualche voto in più e garantire posti, prebende, accontentare clientele e cordate.
Nel merito, tutto il dibattito (quando c'è) si sta riducendo ad essere a favore o contro il “montismo” (la scelta è scontata), come se si trattasse di una sorta di mantra che ci evita di affrontare le questioni concrete che abbiamo sul tappeto e che Sbilanciamoci ed altri hanno posto in questi mesi: il modello di sviluppo che vogliamo (i SUV a Mirafiori o i bus della Irisbus, il Ponte sullo stretto o le piccole opere, i treni per i pendolari o i trafori delle alpi, i pannelli solari o il carbone, i diritti del lavoro o la flessibilità?), la redistribuzione necessaria della ricchezza contro le rendite e la finanza (la patrimoniale, la tobin tax, ecc.), una politica economica espansiva e keynesiana invece di un'austerity tutta sulle spalle della povera gente.
Tra un inconcludente programma elettorale di 281 pagine (quello dell'Unione del 2006) e una generica “carta d'intenti” (quella del PD – e forse del centro sinistra – di un mese fa dove accanto a belle parole come uguaglianza, beni comuni e lavoro sono riproposte le vincolanti compatibilità europee dell'austerity) ci dovrà pur essere una “terza via”.
È quella che Sbilanciamoci prova ad avanzare (con proposte specifiche e concrete) nella tre giorni della sua “controcernobbio” a Capodarco di Fermo (per info: www.sbilanciamoci.org) mettendo al centro, da una parte la critica ed il superamento del paradigma neoliberista (quello che, dopo un po' di restyling verrà riproposto negli stessi giorni a Cernobbio) che ci ha portato alla crisi e che ancora ne sta dominando l'orizzonte e dall'altra la costruzione di un'economia diversa fondata sul lavoro, la qualità sociale ed i diritti, la sostenibilità ambientale, i saperi. Quello che interessa sono i contenuti e le scelte di merito, gli schieramenti vengono dopo. La stagione delle cooptazioni e dei collateralismi – per una gran parte dei movimenti – è finita per sempre. Non ci si può che associare alla Fiom quando dice che non vuole dar vita ad una forza politica, né tanto meno dare un endorsement a qualcuno dei soggetti in campo.
Magari facendo molta più attenzione a quello che succede in Europa e cominciando a dire che il problema non è se continuare o meno la politica di Monti, ma se fare o meno quella di Hollande e a capire che si sta propagando un diffuso rifiuto delle politiche di austerity, come ci daranno testimonianza (dopo la Grecia) le prossime elezioni nella ultraliberista Olanda. Ed è proprio per questo che l'agenda dei contenuti e delle proposte che Sbilanciamoci rilancerà a Capodarco per un “cambio di rotta” si ricollega ai due forum promossi in collaborazione con il manifesto il 28 giugno ed il 9 luglio scorsi per un'altra Europa. Si esce dalla crisi – in Italia ed in Europa – rimettendo al centro il lavoro ed i diritti, il welfare e la conoscenza, la sostenibilità e l'ambiente. Il neoliberismo e le politiche di austerity hanno fallito: si tratta di mettere in cantiere un progetto di radicale cambiamento dell'economia e di costruzione di una vera democrazia in Italia come in Europa. Sono queste le sfide – più che le schermaglie politiciste e i tatticismi sugli schieramenti – che ci piacerebbe affrontare nei prossimi mesi.

mercoledì 5 settembre 2012

Italo Calvino. La camicia dell'uomo contento.


IPSE DIXIT



«Un Re aveva un figlio unico e gli voleva bene come alla luce dei suoi occhi. Ma questo Principe era sempre scontento. Passava giornate intere affacciato al balcone, a guardare lontano.

    – Ma cosa ti manca? – gli chiedeva il Re. – Che cos’hai?

    – Non lo so, padre mio, non lo so neanch’io.

    – Sei innamorato? Se vuoi una qualche ragazza dimmelo, e te la farò sposare, fosse la figlia del Re più potente della terra o la più povera contadina!

    – No, padre, non sono innamorato.

    E il Re a riprovare tutti i modi per distrarlo! Teatri, balli, musiche, canti; ma nulla serviva, e dal viso del Principe di giorno in giorno scompariva il color di rosa.

    Il Re mise fuori un editto, e da tutte le parti del mondo venne la gente più istruita: filosofi, dottori e professori. Gli mostrò il Principe e domandò consiglio. Quelli si ritirarono a pensare, poi tornarono dal Re. Maestà, abbiamo pensato, abbiamo letto le stelle; ecco cosa dovete fare. Cercate un uomo che sia contento, ma contento in tutto e per tutto, e cambiate la camicia di vostro figlio con la sua.

    Quel giorno stesso, il Re mandò gli ambasciatori per tutto il mondo a cercare l’uomo contento.

    Gli fu condotto un prete: – Sei contento? – gli domandò il Re.

    – Io sì, Maestà!

    – Bene. Ci avresti piacere a diventare il mio vescovo?

    – Oh, magari, Maestà!

    – Va’ via! Fuori di qua! Cerco un uomo felice e contento del suo stato; non uno che voglia star meglio di com’è.

    E il Re prese ad aspettare un altro. C’era un altro Re suo vicino, gli dissero, che era proprio felice e contento: aveva una moglie bella e buona, un mucchio di figli, aveva vinto tutti i nemici in guerra, e il paese stava in pace. Subito, il Re pieno di speranza mandò gli ambasciatori a chiedergli la camicia.

    Il Re vicino ricevette gli ambasciatori, e: – Sì, sì, non mi manca nulla, peccato però che quando si hanno tante cose, poi si debba morire e lasciare tutto! Con questo pensiero, soffro tanto che non dormo alla notte! – E gli ambasciatori pensarono bene di tornarsene indietro.

    Per sfogare la sua disperazione, il Re andò a caccia. Tirò a una lepre e credeva d’averla presa, ma la lepre, zoppicando, scappò via. Il Re le tenne dietro, e s’allontanò dal seguito. In mezzo ai campi, sentì una voce d’uomo che cantava la falulèle. Il Re si fermò: "Chi canta la Faluella non può che essere contento!" e seguendo il canto s’infilò in una vigna, e tra i filari vide un giovane che cantava potando le viti.

    – Buon dì, Maestà, – disse quel giovane. – Così di buon’ora già in campagna?

    – Benedetto te, vuoi che ti porti con me alla capitale? Sarai mio amico.

    – Ahi, ahi, Maestà, no, non ci penso nemmeno, grazie. Non mi cambierei neanche col Papa.

   – Ma perché, tu, un così bel giovane…

    – Ma no, vi dico. Sono contento così e basta.

    – "Finalmente un uomo felice!", pensò il Re. – Giovane, senti: devi farmi un piacere.

    – Se posso, con tutto il cuore, Maestà.

    – Aspetta un momento, – e il Re, che non stava più nella pelle dalla contentezza, corse a cercare il suo seguito: – Venite! Venite! Mio figlio è salvo! Mio figlio è salvo –. E li porta da quel giovane. – Benedetto giovane, – dice, – ti darò tutto quel che vuoi! Ma dammi, dammi…

    – Che cosa, Maestà?

    – Mio figlio sta per morire! Solo tu lo puoi salvare. Vieni qua, aspetta! – e lo afferra, comincia a sbottonargli la giacca. Tutt’a un tratto si ferma, gli cascano le braccia.
    L’uomo contento non aveva camicia.» - Italo Calvino

Un debito lungo 150 anni – Piero Bevilacqua (Il Manifesto)

- fonte -

Anche all’indomani dell’Unità d’Italia, i nostri governanti pensarono di far fronte ai debiti contratti per le guerre d’indipendenza mettendo in vendita il patrimonio pubblico. Oggi si tratterebbe di una vera e propria svendita, viste le condizioni del mercato. Inoltre, il nostro Paese ha il 60% del patrimonio artistico dell’umanità. E va difeso dal mercato
È già accaduto che l’Italia si sia trovata in condizioni di gravi difficoltà finanziarie, gravata da un considerevole debito pubblico. Anzi, si può dire che il nostro Stato-nazione sorge, nel 1861, su una montagna di debiti contratti per sostenere le nostre guerre d’indipendenza. L’Italia, dunque, nasce indebitata, ma per ragioni ben diverse da quelle dei nostri anni. E tuttavia, allora come oggi, i gruppi dirigenti pensarono di trovare una soluzione mettendo in vendita il nostro patrimonio: in quel caso il vasto complesso dei demani ereditati dai vari Stati regionali. Si trattava di un immenso complesso di terreni ed annessi che si pensò di vendere ai privati per risanare le esauste casse del pubblico erario.
Come ha ricordato una giovane storica, Roberta Biasillo, sulle pagine di questo giornale (3 aprile 2012) contro questa scelta si levò la voce di un giurista dell’Italia liberale, Antonio Del Bon, che in un «manifesto» del 1867, elencava con grande saggezza e competenza le ragioni che sconsigliavano la vendita del nostro patrimonio immobiliare. Egli consigliava, al contrario, di offrire ai privati le terre demaniali con un contratto di fitto venticinquennale, così da non prosciugare i capitali di chi investiva, stimolando al contrario l’utilizzo produttivo dei terreni e lasciare tuttavia i demani in proprietà dello Stato, quale «Tesoro della Nazione… un tesoro produttivo indefinitivamente» da conservare anche per le future generazioni.
Ora, a consigliare di non vendere i nostri beni pubblici, ma di utilizzarli in altro modo per abbassare il livello del nostro debito, concorrono più ragioni che è bene non dimenticare. Innanzi tutto – e questo è noto anche agli uomini del governo – nell’attuale situazione di mercato l’operazione si configurerebbe come una vera e propria svendita. E ciò a prescindere dalla riuscita tecnica dell’operazione. L’obiezione secondo cui tramite un fitto di lungo periodo la somma che lo Stato incasserebbe sarebbe insufficiente, ha scarso valore, perché questo accadrà comunque. Vendere beni pubblici è difficile. E il rischio che lo Stato corre è di privarsi di un immenso patrimonio, con manufatti anche di grande valore, ricavando alla fine somme irrisorie. Questo è accaduto anche negli anni ’60 dell’800. Come ha ricordato la Biasillo, nel 1872 l’allora ministro delle Finanze Quintino Sella dichiarò alla Camera che dalla privatizzazione di beni il cui valore era 700.798.613 di lire, lo Stato aveva incassato solo 277 milioni. Non diverso esito si è avuto dalle vendite recenti. Dalle ultime due operazioni di cartolarizzazione del Governo Tremonti, a fronte di una privatizzazione di beni per 16 miliardi di euro, alle casse dello Stato ne sono arrivati solo due.
Ma occorre richiamare alla memoria una lezione storica che vale perfettamente anche per il presente. Tutte le esperienze di vendita di beni, sia statali che ecclesiastici, lungo l’intera la storia nazionale, mostrano un effetto che costituisce una costante per così dire perversa di simili operazioni. Esse producono un generale rafforzamento dell’attitudine redditiera dei privati e deprimono, di converso, l’ardimento imprenditoriale e l’attitudine al rischio. È un fenomeno elementare, facile da comprendere anche per gli economisti neoliberali. Chi esborsa un significativo capitale per l’acquisto, è poi in genere restìo a impegnarsi in ulteriori investimenti di valorizzazione produttiva. E’ facile immaginare che la vendita creerebbe una nuova manomorta in mano privata e sottrarrebbe capitali all’iniziativa imprenditoriale.

La ritirata

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In Europa è scattata la sirena dell' "Ognuno per sé e l'euro per tutti". Le continue manovre, incontri istituzionali, vertici europei, nuove elezioni e rimozioni di primi ministri che si sono susseguiti in questi anni hanno avuto un primario, e non dichiarato obiettivo: diminuire il rischio di Francia e Germania verso i Paesi indebitati. Quindi verso Grecia, Spagna, Italia, Portogallo e Irlanda: i PiGS. In caso di default dell'Italia e della Spagna l'intero sistema economico europeo potrebbe infatti collassare. Persino la piccola Grecia, con un Pil del 3% rispetto a quello dell'intera UE, ha messo in pericolo la stabilità delle banche francesi. Banche e investitori esteri hanno venduto a piene mani i titoli dei maiali che sono stati comprati dalle banche dei maiali grazie al prestito di mille miliardi di euro erogato alle banche dalla BCE. Il debito sta ritornando al Paese di emissione, mentre gli investimenti dall'estero verso i PIGS si stanno prosciugando. Dalla crisi finanziaria del 2008 le banche tedesche si sono alleggerite di 301 miliardi di esposizione verso i PIGS, le banche francesi di 204 miliardi. Francia e Germania sono quindi a metà del guado. La Germania ha tagliato del 49,7% l'esposizione verso i Paesi mediterranei e l'Irlanda, e la Francia del 33,4%. Ancora due anni e per loro il rischio PIGS e, di conseguenza il rischio euro, saranno annullati. Forse, allora il loro interesse al mantenimento della moneta cosiddetta unica, cosiddetta in quanto adottata solo da alcuni Paesi europei, diminuirà. L'esposizione PIGS di Francia e Germania è scesa di circa 45 miliardi verso la Grecia, di 170 verso l'Italia, 153 Spagna, 19, 5 Portogallo, 119 Irlanda. Un buon lavoro, indubbiamente, ottenuto però con la recessione dei PIGS e il loro continuo sprofondare nella disoccupazione e nella chiusura delle aziende. Il fenomeno della vendita di titoli dei PIGS sta accelerando. Solo nell'ultimo anno circa il 10% dei titoli pubblici in circolazione di Italia e Spagna sono stati venduti dalle banche estere e ricomprati dalle banche italiane e spagnole. Un altro prestito di 1.000 miliardi di euro della BCE alle banche dei PIGS, finanziato in gran parte proprio dai PIGS!, e il problema sarà risolto. Euro o non euro!
[Fonte: Financial Times; BIS]

La città dove la disoccupazione è allo 0% e l'affitto costa 15 euro

Così si vive a Marinaleda (Andalusia) dove i lavoratori governano una città e quando serve occupano le terre e fanno la spesa proletaria nei supermercati
- cadoinpiedi -

 
Così si vive a Marinaleda (Andalusia) dove i lavoratori governano una città e quando serve occupano le terre e fanno la spesa proletaria nei supermercati
Una insolita isola socialista che resiste alla crisi in Spagna. Così si vive a Marinaleda (Andalusia) dove i lavoratori governano una città e quando serve occupano le terre e fanno la spesa proletaria nei supermercati.

Juan Manuel Sánchez Gordillo, che ha dominato le prime pagine nei giorni scorsi dopo aver condotto un "spesa proletaria" di cibo nei supermercati per consegnarlo ai bisognosi insieme al Sindacato Andaluso dei Lavoratori (SAT), è certamente un leader singolare all'interno della classe politica spagnola.

Eterodosso tra gli eterodossi, le sue azioni passate hanno attirato critiche anche nei ranghi di Izquirda Unida di cui fa parte dal 1986 la sua organizzazionenel quadro del Blocco Andaluso-IU.

Insieme a Diego Cañamero, Sánchez Gordillo è stato un leader storico del Sindacato dei Lavoratori del Campo (SOC), la spina dorsale della corrente SAT. Inoltre, dal 1979 è il sindaco di Marinaleda, una piccola città di circa 2.600 abitanti tra Cordova e Siviglia (chiamata la "padella dell'Andalusia" per il caldo, NdT) dove negli ultimi 40 anni ha esercitato una egemonia autorevole ed assoluta. Il sostegno e l'impegno degli abitanti del paese ha contribuito a lanciare un vero e proprio esperimento politico ed economico, una specie di isola socialista nel mezzo della campagna andalusa.

La rossa Marinaleda ha camminato attraverso la storia della Spagna, con la transizione, con l'entrata in Europa e la caduta dell'Unione Sovietica, fino al ventunesimo secolo. Infine, è arrivata la crisi economica e questa città andalusa ha avuto la possibilità di verificare se la sua utopia particolare, atuata in 25 chilometri quadrati, sia davvero un'alternativa ai mercati.

L'attuale tasso di disoccupazione a Marinaleda è pari a 0%. Gran parte degli abitanti sono impiegati nella Cooperativa Humar - Marinaleda SCA, creata dagli stessi lavoratori, dopo anni di lotta. Per molti anni, i contadini hanno occupaato le terre di Smoky, dove oggi sono organizzati in cooperativa, e spesso sono stati sfrattati dalla Guardia Civil. Infine, nel 1992 raggiunto il loro obiettivo: "la terra a chi la lavora" e la proprietà divenne della cooperativa. Sul loro sito web è scritto in chiaro che il suo "obiettivo non è il profitto privato, ma la creazione di posti di lavoro con la vendita di prodotti agricoli sani e di qualità".

Tutti gli stipendi della cooperativa sono uguali: circa 1.200 euro al mese. Nei loro campi si coltivano fagioli, carciofi, peperoni rossi (pipas) e olio extravergine di oliva, controllati dai lavoratori in tutte le fasi della produzione. Il terreno, che si trova nella Vega Genil, di proprietà della "comunità", e hanno anche una fabbrica di conserve, un mulino, serre, strutture di allevamento e un negozio. I salari di tutti i lavoratori, non importa quale sia la loro posizione, è di 47 euro al giorno, sei giorni alla settimana, al ritmo di 1.128 euro al mese per 35 ore settimanali.

Una Merkel «no global»

Fonte: il manifesto | Autore: Francesco Piccioni
        
«I mercati non sono al servizio del popolo, bruciano il lavoro». Draghi: «l’acquisto di titoli di stato a breve è nel mandato Bce, ma metteremo condizioni ferree»
La Merkel ha indossato per un giorno i panni no global per riconquistare i suoi scalpitanti alleati cristiano-sociali di Baviera. Nelle stesse ore Mario Draghi, presidente della Bce, veniva «controinterrogato» dagli eurodeputati all’interno del Parlamento europeo sulle misure che sta per prendere per «salvare l’euro».
L’udienza di Bruxelles era a porte chiuse, così il Draghi-pensiero è stato riportato da volenterosi deputati. Poi, in serata, le agenzie hanno potuto ascoltare il discorso registrato. La notizia-bazooka è che la Bce considera l’acquisto dei titoli di stato «fino a tre anni» come perfettamente legittimo alla luce dei trattati europei; «non è creazione monetaria», ha precisato. La distinzione è sulle scadenze: se la Bce comprasse bond a lungo termine «ci troveremmo in una situazione molto delicata, ma se compriamo titoli a breve termine, con scadenza a 1, 2 o anche tre anni, l’effetto di finanziamento monetario è quasi nullo». Insomma, «ciò che la Bce sta facendo è la strada per rispettare il nostro mandato: mantenere la stabilità dei prezzi».
Ma ha anche avvertito che la Bce non può farlo «in una situazione molto frammentata com’è quella attuale dell’eurozona, caratterizzata da paesi in cui c’è molta liquidità e paesi in cui ce n’è poca». In questa realtà «i cambiamenti nei tassi di interesse riguardano solo un paese, al massimo due; ecco perché dobbiamo ricostruire l’eurozona» superando la frammentazione.
Quindi la Bce si appresta ad acquistare bond (spagnoli e italiani, in primo luogo) «sul mercato secondario», ma imponendo allo stesso tempo «condizionalità strette e effettive» ai paesi interessati. Perché è vero che «certi paesi hanno fatto sforzi enormi per le riforme economiche, ma non possiamo escludere» che possano fermarsi a causa della «fatica del risanamento».
Ma davvero questa operazione non è «creazione di moneta»? Nelle alchimie contabili si nascondono molti diavoli; se la Bce conteggia i titoli di stato a breve termine come «massa monetaria», allora l’affermazione ha un senso. Ma molti economisti potrebbe legittimamente affermare che si tratta solo di un gioco di parole che copre la creazione di nuova moneta. In ogni caso, il segnale politico è stato chiaro («la Bce interverrà presto», con le borse subito a festeggiare), delineando in parte le proposte che giovedì lo stesso Draghi presenterà al board di Francoforte.
Nel pacchetto ci sarà probabilmente anche una proposta di sorveglianza bancaria molto digeribile per i tedeschi, che non vogliono assolutamente l’occhio critico della Bce a curiosare sulle loro landesbanken. Draghi ha parlato infatti di una «soluzione mista», con Francoforte a vigilare sui 25 (o forse qualcuno in più) grandi istituti «a rischio sistemico», mentre le circa 6.000 banche di dimensioni medio-piccole dovrebbero restare nel recinto delle banche centrali nazionali.
Draghi ha inoltre bocciato l’ipotesi che il fondo salvastati Esm possa ricevere una licenza bancaria: «sarebbe un finanziamento diretto agli stati». Ha così tolto di mezzo l’ultimo teorico appiglio a una improbabile bocciatura dell’Esm da parte della Corte costituzionale tedesca, la cui sentenza attesa il 12 settembre. Lo stesso ministro delle finanze, Wolfgang Schaeuble, si è detto ieri «sicuro» di una sentenza positiva.
È stata invece Angela Merkel a seminare panico tra i paladini del liberismo finanziario: «i mercati non sono al servizio del popolo», negli ultimi cinque anni «hanno consentito a poca gente di arricchirsi a spese della maggioranza». Addirittura «non bisogna consentire ai mercati di distruggere i frutti del lavoro della gente». Possibile sia lo stesso premier che ha consegnato la Grecia e il suo popolo alla devastazione generale? Certo che sì. I governi, secondo il suo discorso di ieri, «non devono dipendere dai mercati a causa del loro debito eccessivo». Ma se si sono indebitati troppo allora bisogna riportarli sulla retta via, a suon di «riforme strutturali» dolorose, vendita degli asset pubblici, privatizzazioni, ecc.
«La vera questione riguardo alla democrazia è questa – ha spiegato – possiamo in Germania e in Europa vincere le elezioni quando congiuntamente stabiliamo di avere finanze solide e quando non spendiamo più di quello che incassiamo?». Sorge il sospetto che chi non rispetta la seconda frase dovrà fare a meno anche della democrazia, ritrovandosi un «programma di governo» scritto altrove e contro.

Nei sotterranei, di una collina a Longare (Vicenza),

Plutone riemerge dagli inferi
di Manlio Dinucci
«Site Pluto» (sito Plutone) era, durante la guerra fredda, il maggiore deposito di armi nucleari dello U.S. Army in Italia. Nei suoi sotterranei, all'interno di una collina a Longare (Vicenza), si tenevano oltre 200 ordigni nucleari «tattici»: missili a corto raggio, proiettili di artiglieria e mine da demolizione. Pronti a scatenare l'inferno nucleare sul territorio italiano. Dismesso ufficialmente nel 1992 come deposito, il sito è stato in parte adibito a comunicazioni satellitari. È andato, cioè, quasi in letargo. Ora però Plutone si sta risvegliando, pronto a riassumere la sua piena funzione bellica. Sono in corso lavori all'interno del suo perimetro recintato e presidiato.
Il progetto prevede la costruzione di un edificio di 5mila m2, in cui saranno addestrati con tecnologie d'avanguardia i soldati Usa, soprattutto quelli della 173a brigata di stanza a Vicenza. Nessuno sa però quali reali attività si svolgeranno dietro il suo muro di «protezione», alto 6 metri. Né, tantomeno, a quale uso saranno adibiti i sotterranei del sito. Continuano così i misteri di Plutone, sotto la cappa del segreto militare, garantito al Pentagono dagli accordi segreti tra i due governi. Nessun mistero, invece, sul fatto che la riattivazione del sito rientra nel rafforzamento dell'intera rete di basi militari Usa nel territorio di Vicenza: qui si è insediato lo U.S. Army Africa e la potenziata 173a brigata è stata autorizzata nel 2007 dal governo Prodi a costruire una nuova base nell'area del Dal Molin. Si apre a questo punto uno scenario ancora più inquietante: come dichiarato da Francesco Cossiga il 28 febbraio 2007 al senato, la 173a brigata è «strumento del piano di dissuasione e di ritorsione, anche nucleare, denominato Punta di diamante». Gli Usa - conferma la Federazione degli scienziati americani in un rapporto del maggio 2012 - mantengono 50 bombe nucleari per aereo ad Aviano (Pordenone) e 20 a Ghedi Torre (Brescia). Non sono residuati bellici della guerra fredda, ma efficienti bombe B-61, oltre dieci volte più potenti di quella di Hiroshima, che a lotti verranno sostituite da una nuova bomba nucleare, la B61-12, molto più potente. Le bombe sono tenute in speciali hangar insieme ai caccia pronti per l'attacco nucleare: F-16 statunitensi ad Aviano e Tornado italiani a Ghedi Torre. L'aeronautica italiana ha partecipato all'esercitazione Usa di guerra nucleare «Steadfast Noon», nel maggio 2010 ad Aviano e nel settembre 2011 a Volkel AB in Olanda. Non è quindi escluso che il riesumato «Site Pluto» servirà anche a esercitazioni di guerra nucleare ed eventualmente, di nuovo, come deposito e centro di manutenzione di armi nucleari. Soprattutto quando gli F-16 e i Tornado verranno sostituiti dai caccia F-35 di quinta generazione, per i quali è stata progettata la nuova bomba nucleare B61-12. Al cui lancio si prepareranno anche gli F-35 italiani. L'Italia continuerà così a violare il Trattato di non-proliferazione che ha sottoscritto, impegnandosi solennemente a «non ricevere da chicchessia armi nucleari, né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente». Questo e altro si cela nei sotterranei di «Site Pluto», sulla cui superficie verrà costruito un edificio che, si garantisce, sarà a basso impatto ambientale, dotato di pannelli fotovoltaici per non inquinare.
il manifesto 4 settembre 2012
 
HISTORY OF ITALY
THEY CAN’T TALK
(Judges Falcone and Borsellino, killed by mafia)
THEY WAN’T TALK
(President Napolitano and former Justice minister Mancuso. Connection between state and mafia still a mistery)

La compagna Angela

compagna Angela di Alessandro Robecchi
La stagione dei testacoda è lunga e complessa. Il “compagno” Fini che mandava a quel paese il principale era già una follia. Il “compagno” Monti che usava la parola “equità” era una visione. E ora, come dovremmo catalogare il duro attacco della “compagna” Angela Merkel nientemeno che al moloch più potente e inafferrabile del pianeta, il famigerato mercato che tremare il mondo fa? “I mercati non hanno servito il popolo”, ha detto la Merkel in Baviera, ospite dei soci-cugini della Csu. Una frase che probabilmente in tedesco suona benissimo, ma che pareva credibile soltanto – finora – se detta un secolo e mezzo fa da un filosofo con grossa barba e idee chiare non ancora passate di moda. Invece no. A tuonare contro i mercati che “hanno permesso a pochi di arricchirsi e invece hanno impoverito la maggioranza” è proprio Angela Merkel, e come testacoda non c’è male davvero. Contrordine, liberali! Avete presente quella manina che tutto sistema, che tutto livella, che lasciata senza regole se la lasci fare sistema tutto lei tipo Padre Pio in stato di grazia che fa il miracolo? Ecco, invece era una falce sterminatrice, una specie di veleno che frega i molti per far felici pochi, pochissimi, anzi, che possono essere felici solo nella misura in cui gli altri patiscono. Liberisti di tutto il mondo, pentitevi! Se lo dice Angela, che del mercato ha fino a ieri tenuto la bandiera, la spada e i cordoni della borsa (chiedete ai greci!), allora i casi sono due. O il testacoda è clamoroso e inaudito – qualcosa che potrebbe cambiare gli equilibri europei, se non mondiali – oppure la tattica comanda, le elezioni si avvicinano, la Merkel e la sua Cdu annusano aria di disastro, e le parole in libertà non sono una peculiarità solo italiana. La seconda ipotesi sembra la più probabile, ovvio, anche se la tentazione di alzare il ditino e dire: “Noi lo diciamo da sempre” è forte. Ma c’è un’altra possibilità da prendere in considerazione. Che la “compagna” Merkel, campionessa di un mercato finora florido e vincente (industria, manifattura, fabbriche, prodotti), veda alfine lo strapotere di un altro mercato: finanza, speculazione, strumenti avvelenati di economia senza produttori. Insomma: ecco il padrone di un’economia materiale che si accorge (era l’ora!) che un altro mercato – non meno cinico, non meno baro – lo minaccia da vicino. Questo spiegherebbe il plurale (i mercati), ma rivelerebbe anche una vecchia immutabile realtà: che nel mondo del Capitale, ognuno è proletario a qualcun altro, che il mercato alla fine frega tutti, anche gli alfieri del mercato che tirano i cordoni della borsa agli altri. Può sembrare giustizia, alla fine, ma è un abbaglio: è la solita ingiustizia del mercato, singolare o plurale che sia.

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