Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 3 agosto 2013

Dal blog del comico.

Letta, facce Tarzan!


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Le movenze di Capitan Findus Letta, un po' legnose, e il naso affilato in crescita telegiornale dopo telegiornale, ne rivelano la vera essenza collodiana, pinocchiesca. Il suo eloquio è meno effervescente di quello dello psiconano, ma la sostanza è sempre quella della balla in prima serata. Dal milione di posti di lavoro di una volta ai 200.000 giovani occupati. Racconta il Nipote di suo Zio, sparandole più grosse del barone di Münchhausen: "È un intervento significativo, coperto in parte con fondi nazionali e in parte con fondi europei. Servirà ad assumere in 18 mesi 200 mila giovani con un’intensità maggiore nel centro Sud. Ma è un provvedimento che riguarda tutto il Paese. Vogliamo dare un colpo duro alla piaga della disoccupazione giovanile.".
Un ragazzo per dire addio alla piaga della disoccupazione e dare questo "colpo duro" deve:
- essere privo di impiego regolarmente retribuito da almeno sei mesi
- essere privo di un diploma di scuola media superiore o professionale
- vivere da solo con una o più persone a carico.
Quindi per accedere devi essere un disoccupato cronico (se sei a casa da cinque mesi non vale), essere un semianalfabeta (se hai studiato sono cazzi tuoi), non vivere con i genitori ma da solo (infatti un giovane senza reddito esce sempre di casa) e avere a carico la vecchia nonna o moglie e figli. Chi, in nome di Dio, possiede questi requisiti in Italia?
Nel caso il disoccupato cronico, semianalfabeta, con famiglia a carico acceda "all'intervento significativo" di Letta, questo, come si legge nel decreto, verrà corrisposto all'azienda "per un periodo di 12 mesi ed entro i limiti di 650 euro mensili per lavoratore nel caso di trasformazione a tempo indeterminato". Letta, adesso facce anche Tarzan...

Il buon gusto di dimmettersi

Americanità o Europa

Scritto da Diego Fusaro

Dopo la polverizzazione dei sistemi socialisti e la scomparsa dell’alternativa possibile sotto le macerie del Muro (Berlino, 9.11.1989), il programma di Novalis, Cristianità o Europa, si è sempre più perversamente riconfigurato in una nuova e macabra forma: Americanità o Europa.
La potenza vincitrice della Guerra Fredda ha rinsaldato quel processo esiziale di americanizzazione integrale del vecchio continente avviato fin dal 1945. Ciò si determina evidentemente nella cultura, non solo quella di massa delle canzonette in inglese della radio, ma anche nella ristrutturazione capitalistica della scuola, sempre più simile a un’azienda, con debiti e crediti, presidi managers e studenti ridotti a consumatori di formazione; ma emerge poi anche nelle politiche sociali, id est nella demolizione del nobile sistema europeo dell’assistenza sociale e dell’attenzione per gli ultimi.
Infatti, la storia delle vicende europee successive alla caduta del Muro e alla tragicomica implosione dell’Unione Sovietica (la più grande tragedia geopolitica del Novecento) si inscrive a pieno titolo nel processo di imposizione del modello americano di capitalismo senza eticità residua contro il paradigma europeo del capitale ancora mitigato dal welfare state e da robusti elementi di eticità (tutti guadagnati sul campo tramite le lotte, e non certo donati generosamente dal capitale). L’Europa sta sempre più diventando una colonia americana: i singoli Stati europei stanno agli Stati Uniti come i satelliti dell’Unione Sovietica stavano al paese che aveva monopolizzato il materialismo storico.
L’ultima prova di questo scenario scandaloso risale alla settimana scorsa e allo stupore per le oscene pratiche di spionaggio degli Stati Uniti nei confronti degli “alleati” (che più opportuno sarebbe chiamare “subordinati”). Lo scrivente, dal canto suo, si stupisce per lo stupore. Perché meravigliarsi? È forse una novità che tra gli Stati europei e gli Stati Uniti non si dà un rapporto inter pares? Dove sta la novità? Ci si aspettava forse che l’Impero del Bene trattasse l’Italia, la Germania e la Spagna come soggetti liberi e uguali?
Nel quadro dell’odierna “quarta guerra mondiale” – così l’ha efficacemente definita Costanzo Preve – avviatasi nel 1991, la potenza americana è in lotta contro ogni forza che non si pieghi al suo dominio: i cosiddetti “alleati” sono costretti ogni volta (dall’Iraq del 1991 alla Libia del 2011!) a servire il padrone, prendendo parte attivamente alle sue aggressioni imperialistiche. Di ciò si può legittimamente sostenere quel che Carl Schmitt scriveva nel Concetto del politico (1927): “se un popolo si lascia prescrivere da uno straniero, in forma di sentenza o in qualsiasi altra maniera, chi è il suo hostis, e contro chi esso può combattere o no, esso non è più un popolo politicamente libero, ma è coordinato o subordinato a un altro sistema politico”. Questa l’Europa di oggi, appunto.
È sempre più lampante che la cultura imperiale dello Stato che, vincitore della Guerra Fredda, oggi sottomette ogni forza che non ne riconosca il dominio e il codice simbolico (subito condannata come rogue State, “Stato canaglia”) è strutturalmente incapace di relazionarsi autenticamente con l’Altro. Infatti, gli nega aprioristicamente ogni possibile legittimità, presentandolo sempre come luogo instabile del terrorismo e delle dittature o, semplicemente, classificandolo come the rest of the world. Gli Stati Europei non fanno eccezione: hanno diritto di esistere come colonie della madrepatria, così recita l’ideologia imperiale americana.
A questa prerogativa, propria di pressoché tutte le forme di imperialismo che si sono registrate nella storia, deve esserne accostata un’altra, connessa con la specifica ideologia puritano-protestante, di origine veterotestamentaria, che caratterizza l’odierna “monarchia universale” (per inciso, l’espressione Universalmonarchie è di Kant, che la impiega nel suo trattato Per la pace perpetua). Quest’ultima, in forza di tale formazione ideologica, è costantemente indotta a ritenersi il “popolo eletto”, quando non il solo indispensabile, con tutte le conseguenze che ininterrottamente ne discendono sul piano geopolitico.
“America stands alone as the world’s indispensable nation”: così nel discorso di Bill Clinton del 20 gennaio 1997. Se l’America è la sola nazione indispensabile del mondo, tutte le altre sono legittimate a esistere come sue alleate subordinate, come sue colonie appunto.
Alfiere divino della special mission, l’“impero del bene” subito etichetta come terrorismo la legittima e benemerita resistenza dei popoli oppressi e di tutti gli Stati che, nonostante le loro macroscopiche contraddizioni interne, non si piegano alla mondializzazione capitalistica, svolgendo per ciò stesso un prezioso ruolo sul piano geopolitico (dall’Iran a Cuba, dalla Corea del Nord al Venezuela), ricordando anche a noi europei che resistere è possibile (con buona pace del titolo di un fortunato best-seller che recita “resistere non serve a nulla”).
In rivendicata antitesi con il coro virtuoso del politically correct e dei pentiti sempre pronti a schernire come pura nostalgia il recupero di categorie in grado di mettere in luce le contraddizioni di cui il presente è gravido, il recupero della critica dell’imperialismo è oggi di vitale importanza. Con buona pace della manipolazione organizzata e della propaganda ufficiale, che dichiarano tale categoria un ferrovecchio, l’imperialismo è oggi più che mai vivo – sia pure in forme nuove e flessibili, compatibili con il nuovo assetto del pianeta globalizzato – e la tendenza dominante a liquidarlo come categoria desueta rivela la mal celata volontà di anestetizzare la critica dichiarando morto il suo oggetto proprio quando esso è nel pieno delle forze.
Con Voltaire, ci ripeteremo finché non saremo capiti: non può esservi democrazia in Europa finché il suo territorio sarà occupato da basi militari atomiche statunitensi. Non può esservi l’Europa senza la sovranità geopolitica. Non può esservi un’Europa democratica di Stati liberi e uguali finché il vecchio continente sarà una semplice colonia della monarchia universale, o finché esisterà solo nella forma perversa del sistema eurocratico. Stupirsi per lo spionaggio è degno delle inguaribili anime belle di ogni tempo. Occorre, invece, adoperarsi per eliminare le condizioni che rendono possibili simili eventi.

Un'alternativa europeista al crollo dell'euro

di Andrea Ricci *

Le maggiori perplessità suscitate dalla prospettiva di una fine dell’euro sono principalmente dovute all’incertezza su ciò che avverrà dopo, al timore storicamente fondato del ritorno di un’Europa divisa e conflittuale al suo interno.

Infatti, che l’euro sia stato un brutto affare per l’Italia e per gli altri Paesi mediterranei sono ormai in molti a pensarlo. Brutto affare perché, in assenza di una politica fiscale e di bilancio comune, la moneta unica rende socialmente drammatico il problema dei divari strutturali di competitività tra i Paesi membri.

Meno diffusa è invece l’opinione che l’euro sia stato un brutto affare anche per l’Europa. E invece così è stato. Il fallimento dell’euro e l’ostinazione con cui le classi dirigenti continuano a negarlo hanno messo in profonda crisi l’idea stessa d’integrazione, rinfocolando odi e pregiudizi che in un recente passato furono la culla dei peggiori sciovinismi reazionari. Oggi a dividere i popoli europei, a far riemergere atavici sentimenti di rivalità nazionale è paradossalmente proprio l’unica cosa che essi hanno in comune sul piano politico ed economico, ovvero la moneta unica.

L’idea che la fine dell’euro porti con sé la fine dell’Europa come entità politica e culturale è forse il principale ostacolo che s’incontra, soprattutto a sinistra, nell’affrontare con lucidità e realismo la più grande crisi economica e sociale dal secondo dopoguerra. L’incapacità di formulare una piattaforma europeista di superamento dell’euro è oggi il più grande limite teorico e politico della sinistra europea. Tutto ciò lascia un vuoto enorme nello spazio politico, che rischia di essere occupato da movimenti populistici di varia natura che rivendicano il puro e semplice ritorno all’antica sovranità nazionale non solo in campo monetario, ma in ogni sfera della vita civile. Ancor peggio di questo, l’afasia della sinistra lascia alle classi dirigenti europee completa autonomia di decisione su quando e come l’euro, nella sua attuale e insostenibile configurazione, dovrà essere abbandonato.

Paradigmatica di questa incapacità, frutto di un’inconsapevole subalternità culturale al pensiero dominante, è la posizione espressa da alcune forze della sinistra europea, tra cui in Italia da Rifondazione Comunista. La proposta di una dichiarata violazione, da parte del Governo e del Parlamento, dei Trattati e dei Patti europei in materia di bilancio pubblico senza abbandonare la moneta unica è tanto strampalata quanto assurda. Come ha dovuto drammaticamente costatare la Grecia, tale iniziativa conduce in un vicolo cieco e probabilmente alla resa senza condizioni ai poteri europei.

È noto che il programma di acquisto di titoli pubblici da parte della Banca Centrale Europea è espressamente condizionato al pieno e integrale rispetto delle politiche di abbattimento del deficit e del debito pubblico, monitorate dalla Troika (FMI, Commissione europea e la stessa BCE). Qualora ciò non si verificasse, Draghi ha ufficialmente dichiarato che non soltanto verrebbe sospeso ogni ulteriore acquisto di titoli del Paese ribelle, ma verrebbe messo in vendita anche lo stock precedentemente acquistato sul mercato secondario dalla BCE (che, secondo l’ultimo bilancio, al 31 dicembre 2012 ammontava a 103 miliardi di euro di titoli italiani), come forma di pressione estrema e come misura prudenziale per salvaguardare la posizione patrimoniale dell’istituzione.

In tale contesto, i tassi di interesse sui titoli italiani schizzerebbero alle stelle perché difficilmente troverebbero compratori, nazionali o stranieri. Lo Stato non riuscirebbe più a finanziarsi sui mercati e, mancando di una propria moneta sovrana, non potrebbe nemmeno monetizzare il proprio deficit. Il primo atto necessario, prima della bancarotta, sarebbe inevitabilmente la sospensione immediata e sine die di tutti i pagamenti pubblici, a cominciare dai salari e dagli stipendi dei dipendenti della pubblica amministrazione.

Arrivati a quel punto, e i tempi sarebbero rapidissimi, torneremmo al dilemma di oggi: o subire i diktat europei o uscire dall’euro. Soltanto che il ritorno alla situazione di partenza avverrebbe in condizioni disperate, con una forza contrattuale ridotta pressoché a zero, senza alcuna preparazione per affrontare l’ignoto e presumibilmente con un’opinione pubblica interna disorientata e spaventata.
È evidente quindi che la proposta di RC non si pone l’obiettivo di indicare una strada possibile di cambiamento ma, ancora una volta, rappresenta una scorciatoia propagandistica per eludere i problemi sul tappeto. Di questo è morta la sinistra italiana.

Ma allora quali possono essere i connotati dell’abbandono dell’euro in una prospettiva di rilancio del processo d’integrazione europea? La prima cosa da dire a questo proposito, a evitare equivoci e timidezze, è che questo problema si porrebbe soltanto in seguito ad una decisione unilaterale dell’Italia o di altri Paesi di fuoriuscita dall’area monetaria europea. È questo il primo passo necessario e ineludibile, l’hic Rhodus hic salta, della situazione attuale.

I Tedeschi cattivi

di Ars Longa

Quando qualcuno ha diffuso la notizia che la Finlandia avrebbe l’intenzione di uscire dall’euro mi sono ricordato di un money game che Thomas Friedman pubblicò sul New York Times alla fine del 1996. Immaginate – diceva Friedman – una Finlandia che ha i conti in ordine ma li ha perché si basa su due soli settori: telefonia e carta. Immaginate che uno dei due settori vada in crisi. Che vada in crisi la Nokia o che i russi dopo anni di difficoltà tornino sul mercato della carta e spazzi via come birilli svedesi, norvegesi e – appunto – finlandesi. La Finlandia dentro l’euro non può battere moneta e quindi non può svalutare il cambio. Se vuole sopravvivere deve fare esattamente due cose: o esce dall’euro o comincia ad abbassare i salari.Non essendoci una politica fiscale europea i finlandesi dovrebbero andarsi a cercare lavoro altrove. Money game. Come vedete vi cito un giornalista e non un articolo di qualche convegno o di qualche economista. Il problema c’era e bastava capire l’abc.

Il problema non è l’intuibilità dei problemi di un cambio fisso. Il problema non è neppure la sovranità nazionale sulla moneta. I Tedeschi non ne avevano bisogno. A loro interessava il sistema del Mercato Unico che funzionava benissimo anche senza moneta unica. I tedeschi sapevano benissimo che bisognava andare cauti. Due dirigenti politici della CDU: Wolfgang Schäube e Karl Lammers lanciarono l’idea della Kerneuropa. Un euro nel quale per almeno due anni dovessero stare fuori Portogallo, Spagna, Italia e Grecia. E di questa idea era Chirac, l’allora ministro delle finanze Wagel, gli olandesi. L’articolo 105 del Trattato di Maastricht prevedeva (e prevede) che la priorità assoluta debba essere data alla stabilità dei prezzi. L’articolo 107 prevedeva e prevede l’indipendenza della BCE. Il Patto di Dublino del 1996 obbligava i paesi membri a mantenere il rapporto deficit/PIL nel tetto massimo del 3%. L’Articolo 104c, comma 11 stabiliva e stabilisce meccanismi di punizione in caso di sforamento. Punizioni che sono, di fatto, la perdita della autonomia economica del paese trasgressore. L’idea di Kerneuropa non era male. Ma noi, gli spagnoli, i portoghesi decisero di raggiungere i criteri stabiliti entro il 1997. La ragione era semplice: la distanza tra le valute del sud europa e il marco in termini di tassi diminuiva quando si faceva concreta la possibilità di una adesione immediata. Si temeva che ritardare l’entrata avrebbe comportato perdita di fiducia dei mercati. Lo spread sarebbe aumentato e la possibilità in due anni di salire sul treno dell’euro in corsa si sarebbe allontanata perché il rapporto deficit/PIL sarebbe ancora aumentato. Bisognava fare in fretta e salire subito sul treno.

Qualcuno si dimentica che nel maggio del 1996 i tedeschi non volevano che la lira rientrasse nello SME-2. Che ci fu una lunghissima e aspra trattativa. Il Frankfurter Allgemeine Zeitung preconizzava che, per sfuggire alle regole, gli italiani avrebbero creato “patti di interesse con gli altri paesi in difficoltà”. L’euro, preconizzavano, sarbbe stato più debole del marco. Ma non era per passare da una valuta forte ad una debole che i tedeschi accettavano di entrare nell’Euro. Nel novembre del 1996 il Sole24Ore pubblicava una inchiesta dalla quale risultava che i cittadini tedeschi non avrebbero voluto un euro con dentro gli italiani. Il 5 aprile del 1997 al consiglio Ecofin di Noordwijk il ministro delle finanze Tetmeyer disse. “la convergenza dei tassi di interesse a lungo termine riflette le politiche economiche e la gestione fiscale. Ma se la convergenza fosse basata solo sulle aspettative che certi Paesi diventino membri dell’unione monetaria, ciò potrebbe diventare pericoloso per i paesi interessati”.

Non vi sto dicendo questo per dirvi che i tedeschi non ci volevano nell’Euro. Questa è storia e dovrebbero conoscerla anche gli econometristi di Pescara. Non sto dicendo che nell’Euro ci siamo voluti entrare per forza o per amore noi, consapevoli di tutte le regole. Anche questo è un fatto ovvio. Quel che vi sto dicendo è che i Tedeschi l’Euro non lo volevano ma l’Euro è stato il prezzo per riunificare il Paese. Quando i Tedeschi annunciarono la loro intenzione di riunificare le due Germanie Mitterand era letteralmente imbestialito. Andò in visita ufficiale a Kieve, incontrò Gorbaciov chiedendogli esplicitamente che l’Unione Sovietica agonizzante si opponesse. Poi andò in Germani Est e pubblicamente annunciò che la Francia sosteneva l’esistenza in vita della Germania Orientale. Tutto questo succedeva nel dicembre del 1989. Poi – neppure fosse il miracolo di Lourdes – nell’aprile 1990 Kohl e Mitterand firmarono un protocollo bilaterale nel quale Parigi e Berlino annunciavano la loro intenzione di far compiere all’Unione Europea un passo in avanti. L’Euro in cambio della riunificazione. E Berlino accettò la proposta francese ma pretese alcune garanzie che sono poi quelle del Trattato di Maastricht. Ma le garanzie chieste dalla Germania – appunto – non sono state scritte di nascosto. Stavano lì. Nessuno ha costretto nessuno. E non si vede perché la Germania avrebbe dovuto accettare di passare da un Marco forte ad un Euro debole senza regole. Il tentativo di far fare anticamera all’Italia e agli altri Paesi del sud Europa attraverso il progetto della Kerneuropa mirava a ridurre il sapore di una polpetta indigesta per i Tedeschi.

Intervista a John Bellamy Foster

di C.J.Polychroniou

CJP: Quella che è iniziata come una crisi finanziaria nel 2007 è diventata una delle maggiori crisi di disoccupazione del mondo capitalista avanzato. Questo può forse voler dire che la crisi del 2007-08 non è stata in realtà causata dalla finanza in sé, ma ha avuto piuttosto le proprie cause sottostanti nell’economia reale?
JBF: Non c’è alcun dubbio che sia stato lo scoppio della bolla finanziaria a condurre alla crisi economica. Dunque, in questo senso, la causa prossima della crisi è stata finanziaria. Ma le risposte più profonde vanno ricercate nella cosiddetta “economia reale”, cioè nel regno della produzione. Una grave crisi economica come la Grande Crisi Finanziaria è invariabilmente il prodotto di fattori strutturali che sono andati sommandosi nel corso di molti anni e ha sempre radici nella produzione. I tassi di crescita dell’economia reale delle economie mature, di capitalismo monopolistico della Triade – Stati Uniti/Canada, Europa e Giappone – hanno cominciato a rallentare negli anni ’70 e sono scesi fondamentalmente di decennio in decennio da allora. Il principale fattore di bilanciamento di tale rallentamento dell’economia è stato la finanziarizzazione, che si può definire come consistente in: (1) crescita della dimensione della finanza (struttura del credito-debito) rispetto alla produzione; (2) una quota accresciuta di profitti finanziari in seno ai profitti complessivi delle imprese e (3) la crescita dei ritorni finanziari come elemento sempre più dominante anche nelle operazioni delle imprese non finanziarie.
Questo processo di finanziarizzazione ha avuto inizio alla fine degli anni ’60 e si è ampliato in misura massiccia negli anni ’80.
Di fronte alla saturazione del mercato e al declinare delle opportunità d’investimento le imprese e gli investitori individuali si sono trovati di fronte a problemi di assorbimento del surplus. La loro reazione è consistita nel collocare una quota sempre maggiore del surplus economico a loro disposizione nel settore finanziario, in cerca di opportunità speculative associate all’apprezzamento dei patrimoni. Le istituzioni finanziarie hanno accolto questo enorme afflusso di capitale inventando strumenti finanziari sempre più esotici. L’intero processo di finanziarizzazione ha fatto crescere l’economia più di quanto sarebbe cresciuta altrimenti, dando una base alla crescita economica.
Ma dato che il processo di finanziarizzazione era esso stesso una reazione a un’economia sempre più stagnante, che non poteva curare, quelle che sono emerse da questo processo sono state bolle finanziarie sempre più grosse e più frequenti sommate a una base economica debole. Ciò ha portato a una stretta creditizia dietro l’altra, ciascuna più grave della precedente, con la Federal Reserve e le altre banche centrali intervenute in continuazione come prestatori di ultima istanza in uno sforzo disperato di impedire che crollasse l’intero castello di carte. Ogni volta è stato allontanato il crollo finanziario completo, preparando il terreno per problemi più grossi nel futuro. Contemporaneamente la finanziarizzazione era globalizzata, poiché tutti i paesi erano costretti ad adottare la stessa architettura finanziaria. Alla fine era destinata a determinarsi una situazione in cui gli effetti di scala dello scoppio di una bolla finanziaria avrebbero superato la capacità delle banche centrali di impedire gravi danni all’economia. Ciò è successo con la Grande Crisi Finanziaria del 2007-08. Tuttavia è stato evitato un crollo finanziario completo mediante il processo relativo del “troppo grande per fallire”, cioè al salvataggio delle grandi istituzioni finanziarie, con i costi trasferiti a carico del pubblico.
La maggior parte delle discussioni sull’intera Grande Crisi Finanziaria, anche a sinistra, ha teso a concentrarsi sugli aspetti e i sintomi superficiali, ignorando le contraddizioni a lungo termine sia nell’ambito della produzione sia in quello della finanza. Per contro sono orgoglioso di dire che la Monthly Review, basandosi inizialmente sul lavoro di Harry Magdoff e di Paul Sweezy, ha seguito da vicino gli sviluppi di queste contraddizioni in articoli scritti in un periodo di quattro decenni e più.
Il principale problema dell’economia capitalista, oggi, non è ovviamente tanto la crisi finanziaria, quanto la stagnazione. Persino economisti liberali come Paul Krugman oggi parlano di “stagnazione permanente”. Il periodo attuale è caratterizzato da una crescita economica estremamente lenta nelle economie mature, un fenomeno emerso in seguito alla Grande Crisi Finanziaria. Il sistema preso in quella che nella Monthly Review abbiamo chiamato la “trappola della stagnazione-finanziarizzazione”. Senza altri boom guidati dalla finanza non c’è nulla attualmente che possa smuovere il sistema dal suo centro morto, per così dire. Ma il processo di finanziarizzazione è esso stesso ostacolato oggi dalla mancanza di prestiti bancari e dunque incapace di offrire uno stimolo sufficiente a stimolare l’economia.
Il capitale si preoccupa perciò soprattutto di rimettere in moto il processo di finanziarizzazione. Il compito prioritario consiste nel garantire la stabilità e la crescita degli attivi finanziari, che costituiscono entrambe la ricchezza della classe capitalista e che oggi sono i mezzi principali di un’ulteriore generazione di ricchezza. In pratica ciò significa rafforzare le condizioni dell’austerità neoliberale mirata a dirottare i flussi economici pubblici e privati sempre più nel settore finanziario. Lo stato capitalista è trasformato in modo tale che la sua funzione di prestatore di ultima istanza sta diventando il suo ruolo principale, con tutti gli altri fini politici subordinati a esso. In una situazione simile le vecchie strategie keynesiane di spesa in deficit e promozione dell’occupazione devono essere sacrificate all’altare dell’élite del potere finanziario. Alla fine ciò può riuscire a generare un altro boom e un’altra bolla generati dalla finanza. Ma le conseguenze finali di questo distorto processo speculativo di generazione di ricchezza, se ne sarà consentita la piena riproposizione, saranno probabilmente più gravi nel futuro.

giovedì 1 agosto 2013

Grillo: “Berlusconi è morto, viva Berlusconi”

Berlusconi è morto. Viva Berlusconi!



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Berlusconi è morto. Viva Berlusconi! La sua condanna è come la caduta del Muro di Berlino nel 1989. Il Muro divise la Germania per 28 anni. L'evasore conclamato, l'amico dei mafiosi, il piduista tessera 1816 ha inquinato, corrotto, paralizzato la politica italiana per 21 anni, dalla sua discesa in campo nel 1993 per evitare il fallimento e il carcere. Un muro d'Italia che ci ha separato dalla democrazia. Oggi questo muro, da tempo un simulacro, un'illusione ottica, tenuto in vita dagli effetti speciali dei giornali e della televisione, è caduto. Chi piangerà Berlusconi? Non i suoi che, come tutti i servi, cercheranno subito un altro padrone. E' nella loro natura. Craxi fu subito dimenticato mentre il suo tesoriere Amato divenne presidente del Consiglio (sic). Mussolini venne appeso a piazzale Loreto, ma la nomenclatura fascista entrò in massa nella democrazia cristiana. Chi è abituato a servire, cambia velocemente. I peggiori nemici di chi cade sono i suoi ex compagni. Giuda ha fatto scuola. Invece, si vestiranno a lutto i suoi finti oppositori, che hanno lucrato sulla sua figura. Se non fosse esistito il Pdl, non sarebbe nato neppure il suo doppio, il pdmenoelle. Lo piangeranno i Violante, i D'Alema, le Finocchiaro, i Bersani, i Veltroni, i Fassino che lo hanno tanto amato e a cui devono la loro fortuna. Per il pdmenoelle Berlusconi ha rappresentato l'assicurazione sulla vita, il malloppo elettorale. L'unico programma del pdmenoelle è stato quello di smacchiare il giaguaro per poi divorare insieme a lui l'Italia. Il pdmenoelle è oggi senza stampelle, senza maschera, senza rete, senza l'amico di sempre. "Ah, Berluscò, ricordati degli amici" e lui, gli va riconosciuto, si è sempre ricordato di loro. Berlusconi ha avuto l'intuizione e la capacità di scegliersi i cosiddetti nemici, di allevarli e sostenerli. Sono stati per decenni la sua polizza sulla vita. E ora? Che ne sarà di loro? Dei vedovi di Berlusconi? Degli orfani di mille leggi vergogna votate insieme? Come potranno sopravvivere senza un falso nemico, buono da combattere solo in campagna elettorale per lucrare voti? Un muro è crollato, ma altri devono ancora cadere.

mercoledì 31 luglio 2013

L'Islanda vince sull’UE: non dovrà risarcire le banche straniere


L'Islanda vince sull’UE: non dovrà risarcire le banche straniere
La piccola isola tra i ghiacci ha vinto oggi una importante battaglia legale nei confronti dell’Unione Europea in materia di compensazioni per le perdite causate agli investitori stranieri a causa de fallimento di alcune banche islandesi avvenuto cinque anni fa.

Il Tribunale dell’EFTA (Associazione Europea del Libero Commercio, alla quale aderiscono oltre ai paesi dell’UE anche Islanda, Liechtenstein e Norvegia), con sede a Lussemburgo, ha stabilito oggi che il governo dell’Islanda non ha violato la legislazione europea quando ha deciso di non risarcire gli investitori straneri della banca on-line Icesave, dipendente da una delle principali entità finanziarie fallite nel 2008.
Nella sentenza l’Efta spiega che l’Islanda non ha contravvenuto le normative europee vigenti al momento dei fatti quando decise di non risarcire gli azionisti stranieri, decisione tra l’altro avallata da un referendum appositamente convocato, attraverso il quale la maggioranza dei cittadini del paese valutarono di non investire denaro pubblico per ripianare i debiti con le banche private fallite. Il Tribunale dell’Efta ha anche stabilito che il governo islandese non ha compiuto un atto discriminatorio decidendo invece di risarcire gli azionisti del paese.
Immediatamente dopo la sentenza, il Governo di Reykiavik si è detto molto soddisfatto per la decisione del tribunale dell’organismo internazionale che ha dato ragione all’Islanda, rimarcando che il giudizio é "definitivo e non può essere oggetto di ricorso".
Giudizio opposto naturalmente da parte di vari governi europei secondo i quali c’è bisogno di una normativa più stringente per i casi simili a quelli che squassarono l’economia islandese nel 2008-2009. Piccata la Commissione Europea, secondo la quale “i rimborsi dei depositi bancari devono sempre essere garantiti, anche nel caso di una crisi sistemica”.

A investire il Tribunale dell’Efta del caso era stato un ricorso dell’Autorità di Vigilanza degli Accordi Efta contro il rifiuto dell’Islanda di pagare 3,9 miliardi di euro alla Gran Bretagna e all’Olanda. I governi di Londra e l’Aja avevano scelto di coprire le perdite dei propri cittadini, e successivamente avevano chiesto un indennizzo alle autorità di Reykjavik, richiesta impugnata dall'Islanda.
La Corte di Giustizia di Lussemburgo doveva stabilire se il governo islandese avesse l'obbligo di compensare con un risarcimento di 20 mila euro (26.000 dollari) i titolari dei conti aperti presso la Icesave, fililale online del colosso Landsbanki. Ma con la sentenza di oggi il tribunale ha respinto il ricorso ed ha dato ragione a Reykiavik, stabilendo un importante precedente. In realtà il governo dell'Islanda si è impegnato a risarcire per quanto possibile gli investitori stranieri, ma in maniera graduale e senza attingere ai fondi pubblici.

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