di C.J.Polychroniou
CJP: Quella che è iniziata come una crisi finanziaria nel 2007 è diventata una delle maggiori crisi di disoccupazione del mondo capitalista avanzato. Questo può forse voler dire che la crisi del 2007-08 non è stata in realtà causata dalla finanza in sé, ma ha avuto piuttosto le proprie cause sottostanti nell’economia reale?JBF: Non c’è alcun dubbio che sia stato lo scoppio della bolla finanziaria a condurre alla crisi economica. Dunque, in questo senso, la causa prossima della crisi è stata finanziaria. Ma le risposte più profonde vanno ricercate nella cosiddetta “economia reale”, cioè nel regno della produzione. Una grave crisi economica come la Grande Crisi Finanziaria è invariabilmente il prodotto di fattori strutturali che sono andati sommandosi nel corso di molti anni e ha sempre radici nella produzione. I tassi di crescita dell’economia reale delle economie mature, di capitalismo monopolistico della Triade – Stati Uniti/Canada, Europa e Giappone – hanno cominciato a rallentare negli anni ’70 e sono scesi fondamentalmente di decennio in decennio da allora. Il principale fattore di bilanciamento di tale rallentamento dell’economia è stato la finanziarizzazione, che si può definire come consistente in: (1) crescita della dimensione della finanza (struttura del credito-debito) rispetto alla produzione; (2) una quota accresciuta di profitti finanziari in seno ai profitti complessivi delle imprese e (3) la crescita dei ritorni finanziari come elemento sempre più dominante anche nelle operazioni delle imprese non finanziarie.
Questo processo di finanziarizzazione ha avuto inizio alla fine degli anni ’60 e si è ampliato in misura massiccia negli anni ’80.
Di fronte alla saturazione del mercato e al declinare delle opportunità d’investimento le imprese e gli investitori individuali si sono trovati di fronte a problemi di assorbimento del surplus. La loro reazione è consistita nel collocare una quota sempre maggiore del surplus economico a loro disposizione nel settore finanziario, in cerca di opportunità speculative associate all’apprezzamento dei patrimoni. Le istituzioni finanziarie hanno accolto questo enorme afflusso di capitale inventando strumenti finanziari sempre più esotici. L’intero processo di finanziarizzazione ha fatto crescere l’economia più di quanto sarebbe cresciuta altrimenti, dando una base alla crescita economica.
Ma dato che il processo di finanziarizzazione era esso stesso una reazione a un’economia sempre più stagnante, che non poteva curare, quelle che sono emerse da questo processo sono state bolle finanziarie sempre più grosse e più frequenti sommate a una base economica debole. Ciò ha portato a una stretta creditizia dietro l’altra, ciascuna più grave della precedente, con la Federal Reserve e le altre banche centrali intervenute in continuazione come prestatori di ultima istanza in uno sforzo disperato di impedire che crollasse l’intero castello di carte. Ogni volta è stato allontanato il crollo finanziario completo, preparando il terreno per problemi più grossi nel futuro. Contemporaneamente la finanziarizzazione era globalizzata, poiché tutti i paesi erano costretti ad adottare la stessa architettura finanziaria. Alla fine era destinata a determinarsi una situazione in cui gli effetti di scala dello scoppio di una bolla finanziaria avrebbero superato la capacità delle banche centrali di impedire gravi danni all’economia. Ciò è successo con la Grande Crisi Finanziaria del 2007-08. Tuttavia è stato evitato un crollo finanziario completo mediante il processo relativo del “troppo grande per fallire”, cioè al salvataggio delle grandi istituzioni finanziarie, con i costi trasferiti a carico del pubblico.
La maggior parte delle discussioni sull’intera Grande Crisi Finanziaria, anche a sinistra, ha teso a concentrarsi sugli aspetti e i sintomi superficiali, ignorando le contraddizioni a lungo termine sia nell’ambito della produzione sia in quello della finanza. Per contro sono orgoglioso di dire che la Monthly Review, basandosi inizialmente sul lavoro di Harry Magdoff e di Paul Sweezy, ha seguito da vicino gli sviluppi di queste contraddizioni in articoli scritti in un periodo di quattro decenni e più.
Il principale problema dell’economia capitalista, oggi, non è ovviamente tanto la crisi finanziaria, quanto la stagnazione. Persino economisti liberali come Paul Krugman oggi parlano di “stagnazione permanente”. Il periodo attuale è caratterizzato da una crescita economica estremamente lenta nelle economie mature, un fenomeno emerso in seguito alla Grande Crisi Finanziaria. Il sistema preso in quella che nella Monthly Review abbiamo chiamato la “trappola della stagnazione-finanziarizzazione”. Senza altri boom guidati dalla finanza non c’è nulla attualmente che possa smuovere il sistema dal suo centro morto, per così dire. Ma il processo di finanziarizzazione è esso stesso ostacolato oggi dalla mancanza di prestiti bancari e dunque incapace di offrire uno stimolo sufficiente a stimolare l’economia.
Il capitale si preoccupa perciò soprattutto di rimettere in moto il processo di finanziarizzazione. Il compito prioritario consiste nel garantire la stabilità e la crescita degli attivi finanziari, che costituiscono entrambe la ricchezza della classe capitalista e che oggi sono i mezzi principali di un’ulteriore generazione di ricchezza. In pratica ciò significa rafforzare le condizioni dell’austerità neoliberale mirata a dirottare i flussi economici pubblici e privati sempre più nel settore finanziario. Lo stato capitalista è trasformato in modo tale che la sua funzione di prestatore di ultima istanza sta diventando il suo ruolo principale, con tutti gli altri fini politici subordinati a esso. In una situazione simile le vecchie strategie keynesiane di spesa in deficit e promozione dell’occupazione devono essere sacrificate all’altare dell’élite del potere finanziario. Alla fine ciò può riuscire a generare un altro boom e un’altra bolla generati dalla finanza. Ma le conseguenze finali di questo distorto processo speculativo di generazione di ricchezza, se ne sarà consentita la piena riproposizione, saranno probabilmente più gravi nel futuro.
Interpreti la finanziarizzazione dell’economia come un risultato deliberato o anche casuale ricercato dai decisori della politica o semplicemente come parte della dinamica del processo in corso di accumulazione del capitale?
C’è stata una quantità enorme di discussioni, tra i liberali e nella sinistra, su come lo stato e i decisori della politica hanno promosso la finanziarizzazione, come se il ruolo dello stato in tutto questo fosse primario. Un buon esempio di ciò è Capitalizing on the Crisis [Sfruttare la crisi] di Greta Krippner, che affronta la finanziarizzazione principalmente come un regime politico. Ciò si adatta bene all’idea popolare e keynesiana che il problema sia stato la deregolamentazione finanziaria e la soluzione stia nella disciplina della finanza. Naturalmente non c’è dubbio che i governi della Triade siano stati pesantemente coinvolti nel promuovere la deregolamentazione della finanza e che abbiano tratto ogni vantaggio possibile dalle opportunità politiche ed economiche introdotte dalla finanziarizzazione.
Ma ricondurre il problema allo stato è mettere il carro davanti ai buoi. Come ha sostenuto Sweezy alla fine degli anni ’90, il problema cruciale dell’analisi economica oggi è capitale la “finanziarizzazione del processo di accumulazione del capitale”. Posto di fronte a una bolla dopo l’altra, derivanti dal rapporto stagnazione-finanziarizzazione, lo stato non ha avuto altra scelta, in ciascuna fase del processo, che rivolgersi alla deregolamentazione finanziaria al fine di evitare che la bolla scoppiasse, dando al regime finanziario maggiore spazio in cui operare e rimuovendo gli ostacoli alla sua espansione. Nessuno, dopotutto – né un direttore di banca centrale, né un Segretario al Tesoro e certamente non un capo di stato – vuole che una bolla gli scoppi davanti agli occhi. La deregolamentazione finanziaria al fine di evitare lo scoppio delle bolle e di dare ossigeno al processo di finanziarizzazione è stata particolarmente evidente nell’amministrazione Clinton, in cui Alan Greenspan, Larry Summers e Timothy Geithner hanno lavorato in pieno accordo. Ma l’idea che questo intero processo sia in qualsiasi modo controllato dallo stato nel suo sorgere o nel suo declinare è un’illusione. Si tratta di un processo fondamentalmente incontrollabile, con i problemi veri che stanno nello sviluppo irrazionale dell’economia capitalista.
Hyman Minsky ha contribuito forse più di ogni altro economista del dopoguerra alla nostra comprensione delle crisi finanziarie, ma ha anche proposto alcune politiche solide e realistiche per gestire la piaga della disoccupazione e della povertà. In che cosa consistono le tue differenze rispetto a Minsky e perché i radicali non dovrebbero abbracciare tali proposte politiche che contribuiranno ad alleviare la miseria e la sofferenza di milioni di disoccupati e di poveri?
Minsky è stato certamente una grande figura post-keynesiana e la sua reputazione è meritatamente cresciuta dopo la crisi più recente. La sua intera opera è stata dedicata alla teorizzazione delle crisi finanziarie. Il fondamento della sua analisi è consistito in un’interpretazione alternativa di Keynes (nel suo libro del 1975 John Maynard Keynes) in cui ha tentato di convertire le principali intuizioni di Keynes in una teoria delle crisi finanziarie di breve termine. Nel procedere, Minsky ha esplicitamente minimizzato il fatto che l’analisi di Keynes in quest’area era legata alla sua preoccupazione per la stagnazione a lungo termine o per il declino dell’efficienza marginale del capitale. Minsky ha mostrato che il capitalismo aveva un “difetto” fatale che lo costringeva a generare periodi di ‘catene di Sant’Antonio’ [‘schema Ponzi’ nell’originale – n.d.t.] di instabilità finanziaria, passando da una posizione finanziariamente stabile a una di instabilità finanziaria in conseguenza della sua logica intrinseca. Ciò nonostante la debolezza principale dell’analisi di Minsky è consistita nel basarsi su una teoria pura del ciclo finanziario, separata dalla comprensione delle tendenze all’interno della produzione. In conseguenza non si trova nella sua opera alcuna reale teoria della finanziarizzazione, intesa come un fenomeno di tendenza piuttosto che ciclico. Il suo modello astratto della crisi finanziaria è stato perciò privo di molti dei problemi storici dell’accumulazione reale che erano stati al centro dell’attenzione di Marx, Keynes e Kalecki. Pur ammirando molto il modello di Minsky, Magdoff e Sweezy lo hanno tuttavia criticato negli anni ’70 per non aver guardato alla relazione dinamica tra produzione e finanza. Naturalmente il fatto che Minsky non abbia ricondotto la crisi finanziaria alle cause di base nella produzione e che non si sia occupato dello sviluppo a lungo termine del capitalismo lo ha reso più accettabile al sistema (nonostante la sua storia e i suoi presupposti di sinistra) quando si è ricercata una spiegazione del crollo finanziario del 2007-08. Quella che ha preso piede è stata l’idea che si era trattato di un “momento Minsky”, suggerendone un carattere ciclico e temporaneo. Inoltre Minsky – valutando piuttosto ingenuamente la sua analisi – aveva suggerito che una gestione della finanza meglio diretta dallo stato avrebbe potuto superare questi problemi.
E’ stato solo tardi nella sua vita, dopo il Crollo del Mercato Azionario del 1987, che Minsky ha cominciato a riflettere criticamente sulla finanziarizzazione, cioè sul problema a lungo termine. E’ stato in un libro del 1989 sulla Capitalist Development and Crisis Theory[Teoria dello sviluppo e della crisi capitalista], a cura di Mark Gottdiener e Nicos Kominos (un libro al quale io ho contribuito con un capitolo). La parte di Minsky era intitolata “Crisi finanziaria ed evoluzione del capitalismo” e sollevava il problema del “capitalismo del mercato monetario”. Robert McChesney e io abbiamo dedicato parte del Capitolo 2 del nostro libro The Endless Crisis[La crisi infinita] a una valutazione della teoria di Minsky in rapporto con questioni più vaste sollevate da Marx, Keynes, Kalecki e Sweezy.
La scuola del capitale monopolistico sembra in conflitto con tali analisi radicali, affermando che la transnazionalizzazione del capitale si è tradotta nella creazione di un’élite globale che attualmente decide la politica virtualmente in tutto il mondo. In tale contesto come risponderesti all’accusa implicita, se non esplicita, che la scuola del capitale monopolistico si concentra su cambiamenti microeconomici nella struttura del capitalismo avanzato ma trae conclusioni macroeconomiche riguardo alla stagnazione?
E’ vero che per noi la tesi – oggi popolare nella sinistra – che ci sia l’ascesa di una classe capitalista transnazionale appare troppo semplice, non cogliendo appieno le contraddizioni. C’è una tendenza a rimuovere il problema delle classi e a minimizzare la rivalità interimperialista. La miglior critica che conosco di tali idee è stata offerta da Samir Amin, nel 2011, nel suo ‘Transnational Capitalism of Collective Imperialism?’ [Capitalismo transnazionale o imperialismo collettivo?]. Amin, in particolare nel suo importante lavoro del 2010 The Laws of Worldwide Value[Le leggi del valore mondiale], parla del “recente capitalismo degli oligopoli generalizzati, finanziarizzati e globalizzati” e vede questa fase come governata dalla Triade con gli Stati Uniti in una posizione egemonica. Questa sembra a me una visione della nostra complessa realtà storica più adeguata che non il basarsi sull’idea di una classe capitalista transnazionale come una specie di deus ex machina. Gli analisti dell’area del modello della classe transnazionale capitalista guardano ai crescenti collegamenti tra le imprese con sede in vari stati centrali. Ma in realtà tali collegamenti tra imprese non sono affatto impressionanti nella Triade nel suo complesso. Il capitale statunitense, ad esempio, continua a operare con notevole indipendenza, così come lo stato USA. Il capitale giapponese è molto distinto.
E’ interessante notare che il concetto collegato di impresa transnazionale è stato promosso dal teorico della gestione d’impresa dell’establishment Peter Drucker, che ha sostenuto che tali società – non più residenti in una nazione particolare ma che operano transnazionalmente – hanno rimosso le imprese multinazionali, che erano state definite inizialmente come imprese che operano in molti paesi ma con sede in uno solo. Alla Monthly Review noi continuiamo a pensare che siano le imprese multinazionali, piuttosto che quelle transnazionali nel senso di Drucker, a restare dominanti.
La tesi della transnazionalizzazione è stata prevalentemente popolare in Europa in conseguenza dell’evoluzione della Comunità Europea. Ma la crisi attuale ha aperto le contraddizioni all’interno della stessa Europa. Nella crisi attuale si può sostenere che il rapporto imperiale divenuto evidente tra, diciamo, Germania e Grecia abbia minato tutti i presupposti semplicistici a proposito dell’integrazione delle classi, delle imprese e degli stati capitalisti.
La seconda parte della tua domanda mi sembra molto distante dalla prima. La distinzione tra microeconomia e macroeconomia è stata introdotta dalla crisi dell’economia marginale associata ala rivoluzione keynesiana. Keynes introdusse quella che chiamiamo prospettiva macroeconomica ma non affrontò il conflitto tra essa e la microeconomia neoclassica. In altre parole non ampliò la sua “teoria generale dell’occupazione” a una teoria dell’economia nella sua totalità. Lasciò pressoché non affrontate le fondamenta della prospettiva neoclassica a livello microeconomico. Ciò preparò il terreno per la successiva resurrezione conservatrice nella forma delle dottrine Neo-classiche e Neo-keynesiane di oggi.
Kalecki, provenendo dalla tradizione marxiana (in cui fu influenzato in particolare dall’opera di Rosa Luxembourg) e tuttavia anticipando tutti gli elementi chiave della teoria generale dell’occupazione di Keynes, sviluppò la sua analisi su una base più adeguata, in cui non c’era divisione tra microeconomia e macroeconomia. Essa prese la forma della sua teoria del capitale monopolistico, sotto quest’aspetto edificando sulle fondamenta della precedente tradizione marxiana. Il nostro approccio alla Monthly Review marxiano (o Marxiano-Kaleckiano), concentrato sull’accumulazione e interpretando l’economia come un tutto organico. Ance se per comodità si può far riferimento alla macroeconomia, come opposta alla microeconomia, nell’ottica marxiana non c’è una vera separazione.
Pare che stiamo assistendo a una svolta storica dei settori di crescita del capitalismo dai paesi capitalisti avanzati alla parte meno sviluppata del mondo. Che cosa causa questa svolta e quali sono le implicazioni di questo sviluppo riguardo alle vecchie contraddizioni tra Nord e Sud?
Ci sono molte iperboli al riguardo La quota di occupazione industriale del Sud Globale è salita dal 51% del 1980 al 73% del 2008, all’epoca della Grande Crisi Finanziaria. Ma gran parte di questa produzione è l’esternalizzazione delle imprese multinazionali con sede nel centro. I tassi di crescita economica di un pugno di economie emergenti sono stati molti più elevati di quelli delle economie mature della Triade. Ma parlare un’ascesa del Sud Globale nel suo complesso è un grave errore. Come abbiamo spiegato nel 2011 Fred Magdoff ed io in What Every Enviromentalist Needs to Know About Capitalism[Quello che tutti gli ambientalisti devono sapere a proposito del capitalismo], da 1970 al 1989 il PIL annuo pro capite dei paesi in via di sviluppo (Cina esclusa) è stato in media solo il 6,1% di quello dei paesi del G7 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia e Canada). Dal 1990 al 2006 (giusto appena prima della Grande Crisi Finanziaria) è sceso al 5,6%. Nel frattempo il PIL pro capite medio annuo dei 48 Paesi Meno Sviluppati (una classificazione dell’ONU) è sceso dall’1,4% di quello dei paesi del G7 a solo lo 0,96% nel 1990-2006. La disuguaglianza sta crescendo rapidamente in nazioni di tutta la periferia globale così come nel centro del sistema. Ogni sorta di trasferimenti economici e di controlli sta contribuendo a perpetuare il potere imperiale al centro del sistema. Inoltre, nel capitale finanziario monopolistico di oggi fattori come le risorse, la tecnologia, le informazioni e il potere militare sono monopolizzati e controllati in misura considerevole al centro del sistema. La politica economica (ne è testimone la diffusione dell’austerità neoliberale) è pure essa dettata dal centro. Sia gli Stati Uniti sia la “NATO Globale” stanno sempre più attuando interventi militari nella periferia. L’imperialismo è una realtà in crescita, anche se si sta manifestando in forme nuove.
Il fatto che il dissenso di massa stia crescendo in Cina e sia letteralmente esploso in Brasile e in Turchia nelle settimane recenti suggerisce che le contraddizioni del sistema si stanno acuendo nelle economie emergenti in modi non interamente colti dalla nozione semplicistica di una svolta storica a favore del Sud globale. E’ vero che ciò presenta nuove sfide al potere nel centro; ne sono testimoni la rivolta dell’America Latina contro il neoliberalismo e le lotte per un socialismo del ventunesimo secolo in paesi come il Venezuela e la Bolivia. Inoltre il potere geopolitico degli Stati Uniti si sta erodendo. Ma ciò cui stiamo assistendo non è un qualche movimento unilineare quanto piuttosto un intensificarsi della lotta circa il futuro dell’imperialismo e l’autodeterminazione delle nazioni.
In The Endless Crisis McChesney ed io abbiamo esplorato il processo dell’”arbitraggio del lavoro globale”, attraverso il quale il capitale è spostato nei paesi industrializzati [? - così nell’originale; ritengo, anche dato il contenuto del link, trattarsi di paesi non industrializzati – n.d.t.] per trarre vantaggio da bassi salari, o più precisamente da costi unitari del lavoro più bassi. L’intero sistema globale è così indirizzato sempre più a quello che nella teoria marxista è chiamato scambio disuguale. Dietro la crescita economica delle economie più povere ed emergenti c’è perciò un’intensificazione delle relazioni capitalistiche e di forme estreme di supersfruttamento. Nel nostro libero abbiamo anche guardato all’esercito globale di riserva, in base a dati del FMI. Abbiamo scoperto che quella che potremmo chiamare la “dimensione massima dell’esercito globale di riserva” nel 2011 era rappresentata da 2,5 miliardi di persone, in confronto con 1,4 miliardi nell’esercito del lavoro attivo. In altre parole le contraddizioni emergenti nel sistema sono immense e il Sud globale si trova a fronteggiare crescenti linee di faglia sociali, economiche ed ecologiche, che attraversano il sistema nella sua totalità.
Il neoliberalismo è in ritirata o la sua egemonia resta intatta?
In The Endless Crisis McChesney ed io sosteniamo che il regime neoliberale è “l’equivalente politico del capitale finanziario monopolistico”, l’attuale fase del capitalismo. “Lungi dall’essere una restaurazione del tradizionale liberalismo economico”, scrivevamo, “il neoliberalismo è … un prodotto del grande capitale, del grande governo e della grande finanza su una crescente scala globale”. Riflette il dominio dell’élite del potere finanziario e della finanziarizzazione come mezzi principali per contrastare la stagnazione economica. E’ una forma di capitalismo più vorace, mirata a un’accresciuta disuguaglianza e austerità. Ciò implica un tentativo di utilizzare lo stato per deviare una quantità sempre maggiore dei flussi della società, comprese le entrate statali, nei forzieri del capitale e, specificamente, nel settore finanziario. L’accumulazione del capitale nella forma tradizionale di investimento in nuova formazione di capitale all’interno della produzione, anche se tuttora cruciale, è sempre più secondaria. Le sale del consiglio delle imprese hanno perso potere rispetto ai mercati finanziari, mentre lo stato sta diventando più plutocratico nella forma, al servizio del capitale finanziario e del capitale in generale.
Il neoliberalismo può essere considerato anche come il fallimento ultimo della democrazia liberale. Il liberalismo classico, o “individualismo possessivo”, come lo ha chiamato C.B.Macpherson, era ferocemente antidemocratico (come si può costatare negli scritti di figure come Hobbes e Locke). La democrazia liberale è stata introdotto in seguito (ispirata da figure quali J.S.Mill) come sistema ibrido in cui l’individualismo possessivo del liberalismo classico era limitato, per consentire alcune iniziative democratiche, particolarmente nel settore elettorale. Oggi la tendenza dominante è la costruzione di uno stato neoliberale, plutocratico, mirato, più sistematicamente che mai in precedenza, alle necessità del capitale, cioè al ritorno al liberalismo classico e all’individualismo possessivo, deprecando la “troppa democrazia”. Ciò si adatta bene al concetto hayekiano di mercato che si autoregola come base della società e persino dello stato. La democrazia, anche nella forma limitata in cui è esistita, è vista come sempre più sacrificabile. Quella che sta scomparendo è ogni relativa autonomia dello stato rispetto al capitale; la sovranità non è più quella del popolo bensì quella del capitale. Lo stato è ristrutturato come non tanto il comitato esecutivo della classe capitalista, bensì come amministratore del patrimonio finanziario.
Guardando le cose in quest’ottica, ciò di cui dovremmo parlare non è tanto l’egemonia del neoliberalismo quanto l’egemonia del capitale finanziario monopolistico con il suo orientamento strategico neoliberale. In Grecia la disoccupazione è dell’ordine del 27%. E in tale contesto la morsa dell’austerità è stretta in continuazione. Perché? La risposta è che la Grecia è sottoposta a una specie di terapia neoliberale di shock al fine di promuovere gli interessi specifici del capitale finanziario monopolistico, cioè l’ordine capitalista finanziarizzato, monopolistico e imperialistico, in cui, nell’ambito dell’Eurozona, esiste una linea di divisione tra il centro imperiale e la periferia (interna).
Non esiste un’alternativa politica percorribile al neoliberalismo del capitalismo odierno, precisamente perché il neoliberalismo è un riflesso della necessità interna dello stesso capitale finanziario monopolistico. L’austerità neoliberale è così un prodotto delle contraddizioni dell’intera fase attuale del capitalismo. La sola risposta delle forze di opposizione è spingersi oltre la logica del sistema al fine di creare un nuovo “sistema metabolico sociale”, un sistema, come lo chiama Istvàn Mészaròs, di “uguaglianza sostanziale”, cioè il socialismo.
Anche se il marxismo resta per molti aspetti lo strumento più potente per capire e analizzare gli sviluppi socioeconomici capitalisti, sul fronte politico le cose sono in declino almeno dagli anni ’70: il lavoro, nelle nazioni capitaliste avanzate, è disorganizzato, i partiti socialisti o comunisti radicali sono piccoli ed emarginati, e, cosa più importante, la classe lavoratrice, per la maggior parte, ha voltato la schiena alla tradizione della politica rivoluzionaria. Consideri il riemergere del marxismo come una forza politica potente nel futuro prossimo?
L’intero sistema del capitale finanziario monopolistico globale è preso in una profonda crisi strutturale che sta generando nuovi processi storici e nuove forme di lotta. In tale contesto il socialismo riemerge inevitabilmente come la sola alternativa concepibile all’ordine distruttivo capitalista. Non sorprende, perciò, che stiamo assistendo a una nuova epoca di rivolte, in America Latina, in Medio Oriente, nell’Africa del nord, nell’Europa meridionale, in parti dell’Asia meridionale, anche, per certi versi, in Cina (il jolly più grosso di tutti). In America Latina i paesi all’avanguardia di questa nuova era rivoluzionaria hanno sollevato la bandiera di un “socialismo per il ventunesimo secolo”. E c’è una chiara logica storia in questo. Non c’è assolutamente alcuna possibilità che le diffuse rivolte popolari cui stiamo oggi assistendo possano avere successo di fronte all’attuale crisi strutturale del capitale se non prendendo una direzione decisamente socialista. Anche negli Stati Uniti il movimento Occupy ha sollevato la questione dell’1%, prendendo un’esplicita posizione radicale nell’attaccare la classe capitalista. Nel contesto dell’attuale crisi strutturale ci sono forti prove di un’emergente rinascita dell’analisi marxista.
Ho due avvertimenti al riguardo. Primo: se il marxismo deve costituire oggi una prospettiva rivoluzionaria vitale, quelle cui assisteremo saranno forme rinnovate e più dinamiche di materialismo storico, riflettenti i movimenti rivoluzionari emergenti principalmente nel Sud, ma sempre più, in questa crisi strutturale, anche nel Nord. Il marxismo assumerà così molte forme che necessariamente si fonderanno con i gerghi rivoluzionari e le condizioni storiche delle società in cui la lotta di classe/sociale sarà più intensa. Non si può definire meno che genio ciò che ha indotto Chàvez a collegare la teoria marxiana al movimento rivoluzionario bolivarista, con il suo linguaggio distintivo, dando nuova vita a entrambi. Mentre in Bolivia stiamo assistendo a una sintesi di idee socialiste e indigene.
Secondo: il socialismo e il marxismo oggi saranno necessariamente trasformati dall’emergenza ecologica planetaria, la maggiore sfida che la civiltà abbia mai affrontato. Come ho sostenuto nel mio libro del 2000 Marx’s Ecology [L’ecologia di Marx], la classica critica socialista di Marx offre la dialettica più unificata del cambiamento e della lotta sociale-ecologica. E’ costruita sulle fondamenta stesse della sua critica del capitalismo. Dobbiamo prendere da ciò. Inoltre oggi ci confrontiamo non tanto con la scelta “socialismo o barbarie” della Luxembourg, quanto con una scelta ancor più grave tra “socialismo e sterminismo”, per adattare un termine impiegato da E.P.Thompson. Proseguendo nell’attuale “normalità” siamo oggi sulla via dell’estinzione della maggior parte delle specie del pianeta, inclusa, con molta probabilità, la nostra. Dobbiamo operare una forte svolta a sinistra. Il socialismo, credo, è la sola salvezza dell’umanità, poiché è solo in un mondo di uguaglianza sostanziale e di sostenibilità ecologica che c’è una vera speranza per il futuro.
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