di Andrea Ricci *
Le maggiori perplessità suscitate dalla prospettiva di una fine dell’euro sono principalmente dovute all’incertezza su ciò che avverrà dopo, al timore storicamente fondato del ritorno di un’Europa divisa e conflittuale al suo interno.Infatti, che l’euro sia stato un brutto affare per l’Italia e per gli altri Paesi mediterranei sono ormai in molti a pensarlo. Brutto affare perché, in assenza di una politica fiscale e di bilancio comune, la moneta unica rende socialmente drammatico il problema dei divari strutturali di competitività tra i Paesi membri.
Meno diffusa è invece l’opinione che l’euro sia stato un brutto affare anche per l’Europa. E invece così è stato. Il fallimento dell’euro e l’ostinazione con cui le classi dirigenti continuano a negarlo hanno messo in profonda crisi l’idea stessa d’integrazione, rinfocolando odi e pregiudizi che in un recente passato furono la culla dei peggiori sciovinismi reazionari. Oggi a dividere i popoli europei, a far riemergere atavici sentimenti di rivalità nazionale è paradossalmente proprio l’unica cosa che essi hanno in comune sul piano politico ed economico, ovvero la moneta unica.
L’idea che la fine dell’euro porti con sé la fine dell’Europa come entità politica e culturale è forse il principale ostacolo che s’incontra, soprattutto a sinistra, nell’affrontare con lucidità e realismo la più grande crisi economica e sociale dal secondo dopoguerra. L’incapacità di formulare una piattaforma europeista di superamento dell’euro è oggi il più grande limite teorico e politico della sinistra europea. Tutto ciò lascia un vuoto enorme nello spazio politico, che rischia di essere occupato da movimenti populistici di varia natura che rivendicano il puro e semplice ritorno all’antica sovranità nazionale non solo in campo monetario, ma in ogni sfera della vita civile. Ancor peggio di questo, l’afasia della sinistra lascia alle classi dirigenti europee completa autonomia di decisione su quando e come l’euro, nella sua attuale e insostenibile configurazione, dovrà essere abbandonato.
Paradigmatica di questa incapacità, frutto di un’inconsapevole subalternità culturale al pensiero dominante, è la posizione espressa da alcune forze della sinistra europea, tra cui in Italia da Rifondazione Comunista. La proposta di una dichiarata violazione, da parte del Governo e del Parlamento, dei Trattati e dei Patti europei in materia di bilancio pubblico senza abbandonare la moneta unica è tanto strampalata quanto assurda. Come ha dovuto drammaticamente costatare la Grecia, tale iniziativa conduce in un vicolo cieco e probabilmente alla resa senza condizioni ai poteri europei.
È noto che il programma di acquisto di titoli pubblici da parte della Banca Centrale Europea è espressamente condizionato al pieno e integrale rispetto delle politiche di abbattimento del deficit e del debito pubblico, monitorate dalla Troika (FMI, Commissione europea e la stessa BCE). Qualora ciò non si verificasse, Draghi ha ufficialmente dichiarato che non soltanto verrebbe sospeso ogni ulteriore acquisto di titoli del Paese ribelle, ma verrebbe messo in vendita anche lo stock precedentemente acquistato sul mercato secondario dalla BCE (che, secondo l’ultimo bilancio, al 31 dicembre 2012 ammontava a 103 miliardi di euro di titoli italiani), come forma di pressione estrema e come misura prudenziale per salvaguardare la posizione patrimoniale dell’istituzione.
In tale contesto, i tassi di interesse sui titoli italiani schizzerebbero alle stelle perché difficilmente troverebbero compratori, nazionali o stranieri. Lo Stato non riuscirebbe più a finanziarsi sui mercati e, mancando di una propria moneta sovrana, non potrebbe nemmeno monetizzare il proprio deficit. Il primo atto necessario, prima della bancarotta, sarebbe inevitabilmente la sospensione immediata e sine die di tutti i pagamenti pubblici, a cominciare dai salari e dagli stipendi dei dipendenti della pubblica amministrazione.
Arrivati a quel punto, e i tempi sarebbero rapidissimi, torneremmo al dilemma di oggi: o subire i diktat europei o uscire dall’euro. Soltanto che il ritorno alla situazione di partenza avverrebbe in condizioni disperate, con una forza contrattuale ridotta pressoché a zero, senza alcuna preparazione per affrontare l’ignoto e presumibilmente con un’opinione pubblica interna disorientata e spaventata.
È evidente quindi che la proposta di RC non si pone l’obiettivo di indicare una strada possibile di cambiamento ma, ancora una volta, rappresenta una scorciatoia propagandistica per eludere i problemi sul tappeto. Di questo è morta la sinistra italiana.
Ma allora quali possono essere i connotati dell’abbandono dell’euro in una prospettiva di rilancio del processo d’integrazione europea? La prima cosa da dire a questo proposito, a evitare equivoci e timidezze, è che questo problema si porrebbe soltanto in seguito ad una decisione unilaterale dell’Italia o di altri Paesi di fuoriuscita dall’area monetaria europea. È questo il primo passo necessario e ineludibile, l’hic Rhodus hic salta, della situazione attuale.
Non esiste oggi nessuna possibilità concreta di arrivare a una decisione condivisa, che per le attuali regole comunitarie deve essere addirittura unanime, dei 17 Paesi dell’UEM sul superamento dell’euro. Soltanto uno shock, derivante da atti unilaterali, porrebbe tutti i Paesi nella necessità di ricontrattare le coordinate monetarie dell’Europa.
Tutti ne avrebbero interesse. Anzi, ad averne il più grande interesse sarebbe proprio la Germania, insieme ai Paesi della sua area d’influenza economica, onde evitare una secca perdita di competitività dell’industria tedesca derivante da una iper-rivalutazione della propria valuta. L’atto unilaterale iniziale è certo traumatico e comporta nei primi tempi misure eccezionali, come rigidi controlli sui movimenti di capitale o persino una temporanea inconvertibilità della nuova moneta e misure amministrative di congelamento dei prezzi e dei salari interni. Ma tutto ciò, in presenza di una direzione politica forte e determinata, durerebbe poco e le trattative per un nuovo assetto monetario europeo (e forse mondiale) si aprirebbero in fretta.
D’altra parte la pratica degli atti unilaterali, fondativi di un nuovo ordine monetario internazionale, rappresenta una costante della storia. L’esempio più recente e clamoroso è quello del crollo del sistema di Bretton Woods. Il giorno di Ferragosto del 1971 il Presidente Nixon dichiarò unilateralmente al mondo intero che il dollaro non era più convertibile in oro e assunse drastici provvedimenti di emergenza economica per far fronte alle conseguenze immediate dell’annuncio, come la svalutazione dell’8% della moneta americana, l’imposizione di un blocco di 90 giorni a prezzi e salari, la sospensione di alcune tipologie di transazioni finanziarie internazionali e l’introduzione di un dazio del 10% su tutte le importazioni degli Stati Uniti. I mercati valutari mondiali rimasero chiusi per diversi giorni, dopodiché iniziarono subito i contatti e le trattative per ripristinare in maniera condivisa un minimo di ordine economico internazionale. La stessa cosa accadrebbe in Europa all’indomani dell’abbandono unilaterale dell’euro da parte di un grande Paese come l’Italia.
E dopo? Quali possibili proposte si potrebbero mettere in campo per evitare una guerra monetaria ed economica europea? Le proposte formulate da politici ed economisti sono tante e varie. Quella che a me sembra più interessante e realistica è l’idea lanciata da Oskar Lafontaine, ex ministro tedesco dell’Economia, di ricostituire una nuova versione del Sistema Monetario Europeo. Purtroppo, anche nel suo partito, l’alleanza della sinistra tedesca (Linke), questa proposta è stata rifiutata perché l’idea stessa della fine dell’euro appare ancora come un tabù invalicabile.
Una possibile specificazione più dettagliata dello spunto ancora generico lanciato da Lafontaine su un New European Monetary System (NEMS) potrebbe presentare le caratteristiche seguenti:
a) Reintroduzione delle monete nazionali, o costituzione di due o più monete tra raggruppamenti economicamente omogenei di Paesi, denominate euromonete (es. eurolira o eurosud).
b) Mantenimento dell’euro come unità di conto e mezzo di pagamento per le transazioni ufficiali tra i Paesi membri dell’Unione Europea, in modo da ridurre la necessità di riserve valutarie internazionali. In tale nuovo contesto si dovrebbe favorire l’emissione di titoli nazionali e comunitari denominati in euro sui mercati finanziari internazionali (eurobond), anche come strumento di finanziamento del bilancio dell’Unione Europea, da rendere più consistente rispetto alle sue attuali dimensioni. L’emissione degli eurobond consentirebbe inoltre l’utilizzo dell’euro come strumento di riserva valutaria internazionale alternativo al dollaro da parte di Paesi terzi in quantità forse ancora maggiori di quelle attuali.
c) Fissazione di un’ampia banda di oscillazione delle euromonete (ad esempio più o meno 15% dal valore centrale di parità rappresentato dalla quotazione dell’euro stabilita pari ad 1), in modo da garantire margini di flessibilità sufficienti all’aggiustamento degli squilibri interni senza scatenare guerre valutarie. Qualora la quotazione di un’eurovaluta entri stabilmente nella fascia estrema della banda di oscillazione (ad esempio quando superi il valore di più o meno 12,5% dalla parità centrale) il Paese in questione è tenuto a manovre macroeconomiche correttive, di tipo espansivo in caso di eccessiva rivalutazione o di tipo restrittivo in caso di eccessiva svalutazione. In tal modo si garantirebbe una simmetria, che oggi manca del tutto, nell’aggiustamento degli squilibri tra Paesi in deficit e Paesi in surplus nei conti esteri. Tale obbligo dovrebbe rappresentare l’unico vincolo imposto alle politiche di bilancio nazionali per l’appartenenza al nuovo SME.
d) Introduzione di misure fiscali (Tobin Tax) e amministrative per ostacolare i movimenti speculativi di capitale. I proventi della Tobin Tax potrebbero, in tutto o in parte, confluire in un Fondo Europeo di Stabilità Monetaria (FESM) per l’erogazione di prestiti a breve termine ai Paesi membri in difficoltà nel mantenimento della parità valutaria.
e) Trasformazione del ruolo della BCE in organo di coordinamento delle politiche monetarie europee, di conduzione della politica del tasso di cambio dell’euro nei confronti del dollaro e delle altre valute internazionali, di vigilanza e regolamentazione unitaria dei mercati bancari e finanziari, di gestione del sistema dei pagamenti intraeuropeo (Target2), di controllo dei movimenti di capitale, di riscossione della Tobin Tax e di gestione del FESM.
f) Rafforzamento del coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio tra i Paesi membri, anche attraverso la predisposizione di un Documento europeo di Programmazione Economica e Finanziaria approvato dal Parlamento europeo, in modo da garantire la necessaria convergenza delle politiche macroeconomiche per il mantenimento delle parità valutarie e per la crescita economica. Eventuali modifiche delle parità all’interno del nuovo SME dovrebbero essere approvate e ratificate in sede comunitaria.
Quanto sopra riportato non ha alcuna pretesa di essere una proposta compiuta e integrale per un nuovo ordine monetario europeo, ma rappresenta soltanto un’indicazione, ancora imperfetta e generale, per la costruzione di un’alternativa europeista alla fine dell’euro. Essa ha solo lo scopo di mostrare, all’opinione pubblica e principalmente alle forze della sinistra, come la prospettiva di un crollo dell’euro determinata da atti unilaterali di singoli Paesi, possa essere accompagnata da una piattaforma di rilancio della costruzione europea, liberata dai dogmi neoliberisti e monetaristi che oggi stanno strangolando le economie europee e con esse l’idea stessa di Europa come spazio politico, sociale e culturale comune. Se acquista coraggio, autonomia e determinazione la sinistra europea, e quella italiana in particolare, potrebbe diventare, di fronte al fallimento delle attuali classi dirigenti, la protagonista di una nuova fase di sviluppo dell’unità europea e di emancipazione delle sue classi popolari.
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