Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 29 settembre 2012

HOMAGE TO VITTORIO ARRIGONI (BESANA,MILAN: FEB. 1975 /GAZA: APRIL 2011)
“VITTORIO IS THE WIND IN THE SAILS”
 
 

venerdì 28 settembre 2012

Se la politica diventa sotterranea. Intervista a Mary Kaldor

di Alessandro Bramucci - sbilanciamoci -

Indignados e Occupy Wall street rappresentano l’emergere di una “politica sotterranea” che pone in forme nuove il problema della democrazia a livello nazionale e globale. L’Europa è lontana dall’orizzonte di queste proteste, ma è un terreno chiave per rinnovare la politica e democrazia

Mary Kaldor è professore di Global governance alla London School of Economics ed è tra i curatori dell’annuario “Global Civil Society Yearbook” (Palgrave). L’edizione 2012, appena pubblicata, è dedicata a “Dieci anni di riflessioni critiche” sull’azione della società civile a scala globale. Mary Kaldor è stata negli anni ’80 tra i leader del movimento per la pace in Europa e ha sviluppato il principio di “sicurezza umana” come paradigma alternativo agli interventi militari nei nuovi conflitti (“Human security: reflections on globalization and intervention”, Polity, 2007). Negli ultimi mesi Mary Kaldor ha guidato un gruppo di ricerca internazionale che ha analizzato l’evoluzione dei movimenti di protesta contro la crisi in Europa. Il lavoro che presenta i risultati ha come titolo “The ‘bubbling up’ of subterranean politics in Europe” (Il ‘ribollire’ della politica sotterranea in Europa; i materiali sono disponibili sul sito www.gcsknowledgebase.org.
Di fronte alla crisi economica e politica in Europa, come possiamo interpretare le proteste che hanno caratterizzato le piazze di Madrid, Francoforte e Atene? Quanto sono legate ai contesti nazionali e che cosa hanno in comune?
Siamo di fronte a uno di quei rari momenti in cui quella che noi abbiamo definito “politica sotterranea” – rappresentata ad esempio dagli Indignados in Spagna o dal movimento Occupy a Francoforte – raggiunge la superficie. La sfiducia verso i governi e la classe politica in generale è ampiamente condivisa in tutta Europa. Si è aperto un divario tra politica e cittadini e le dimostrazioni di piazza, le proteste e le occupazioni riscuotono sempre più appoggio in tutta la società. I movimenti della “politica sotterranea” non sono solo espressione del malcontento per la crisi economica o per le politiche di austerità imposte dai poteri europei, ma l’espressione di un rinnovato bisogno di espressione politica che va al di là delle normali forme di partecipazione democratica. La piazza assume un ruolo centrale nella pratica delle nuove forme democratiche, come ad Atene o Madrid. In Italia la campagna per il referendum dello scorso anno rappresenta un esempio di quelle pratiche democratiche dal basso che sono state sviluppate dalle iniiziative della “politica sotterranea”. Internet rappresenta inoltre uno strumento di organizzazione comune e molti attivisti sono preoccupati per la libertà della rete e per le norme anti-pirateria. Il rifiuto della politica tradizionale e la richiesta di democrazia è quello che hanno in comune le diverse proteste, poi i temi e i modi delle azioni sono legate ai contesti nazionali. L’idea di una “politica sotterranea” che sta emergendo mi sembra molto più efficace per capire gli sviluppi attuali della contrapposizione tra politica e “anti-politica”.
Qual è la percezione che questi movimenti hanno delle istituzioni europee?
L’Europa non ha alcun ruolo nel dibattito interno delle iniziative e organizzazioni che abbiamo analizzato. L’Unione europea è percepita come un’istituzione neoliberista che impone le sue regole dall’alto, senza alcun rapporto con i cittadini, e di cui molto spesso non si conosce il funzionamento. Anche se molti degli intervistati si sono definiti “europei”, soltanto una ristretta cerchia di critici ed esperti sembra interessata ad agire a livello europeo. Molte delle lotte condivise mantengono un orizzonte europeo, come la Tobin Tax, le politiche per la tutela dell’ambiente e la libertà della rete, ma non c’è interesse a sfidare le istituzioni europee in quanto tali. Inoltre, come per le istituzioni democratiche nazionali, c’è sfiducia anche nella democrazia europea. Quello che interessa ai movimenti è la possibilità di esperienze immediate di democrazia, e il livello che prevale è quello locale.
La “politica sotterranea” è una reazione temporanea o può evolversi in un nuovo modello di azione politica?
Finora hanno prevalso le reazioni immediate, ma c’è bisogno di raccogliere e incanalare queste nuove forze verso una nuova politica. Questo vale per il bisogno di una politica che restituisca ai cittadini forme di controllo sulle decisioni che si prendono a livello nazionale e sull’esigenza di ridimensionare il potere della finanza – un tema posto da Occupy a New York e alla City di Londra. E vale anche per l’Europa; nonostante la percezione negativa delle istituzioni europee, questi movimenti rappresentano l’opportunità di costruire una vera democrazia trans-europea sottraendo energie a quei populismi che premono per l’opposto. Il primo passo in questa direzione è riconoscere il ruolo della “politica sotterranea” nel dibattito pubblico, darle lo spazio perché si possa sviluppare. Non sarà possibile risolvere la crisi economica senza prima risolvere la crisi della democrazia; entrambe si presentano innanzi tutto con una dimensione europea. L’Europa deve diventare il nuovo spazio per re-immaginare la democrazia, e la “politica sotterranea” rappresenta un punto di partenza.

Addio vecchio dollaro. L’Iran accetta yuan

Fonte: il manifesto | Autore: Tommaso De Berlanga            
Mosca e Tehran rompono il monopolio Usa negli scambi sulle materie prime
La «guerra delle monete», denunciata dal ministro delle finanze brasiliano, Diego Mantega, una settimana fa, dopo i quantitative easing decisi quasi in contemporanea dalle principali banche centrali del pianeta (Europa, Usa, Giappone, Inghilterra) si arricchisce di una battaglia potenzialmente decisiva. La Cina ha reso noto che dal 6 settembre sta pagando in yuan il petrolio che compra da Iran e Russia.
Che c’è di male? Nulla. Solo che la moneta regina degli scambi nel mercato delle materie prime è da oltre 60 anni il dollaro. Non basta. La materia prima più scambiata a mondo è ovviamente il petrolio. Conseguenza logica (storica, politica, geostrategica): del dollaro si può fare a meno, se c’è un’alternativa. Che non è l’euro, ed anche questo ha la sua sporca importanza.
I dirigenti del Pcc cinese sono proverbiali per la loro prudenza. Non solo perché non è loro intenzione irritare oltre misura gli Stati uniti, notoriamente fumantini quando si mette in discussione con i fatti il loro dominio globale. C’è la ragione molto più prosaica che la Cina è anche il primo creditore degli Usa, e non le conviene affatto far «deprezzare» violentemente la moneta di cui detiene quantità immense nei propri forzieri. Eppure, hanno messo in essere il primo gesto esplicito che conduce dritto al taglio di una delle gambe su cui si fonda il potere globale Usa: il dollaro. L’altra è la potenza militare, con tanto di supremazia tecnologica. La prudenza, perciò, è un obbligo.
Cos’ha di particolare il dollaro? È l’unica moneta al mondo che può essere stampata in quantità arbitrarie senza intaccare più di tanto il suo valore. È così dall’estate del 1971, quando Richard Nixon «il bugiardo» revocò la convertibilità tra dollaro e oro su cui si reggevano gli accordi di Bretton Woods, del ’44. Da allora l’America scarica sul resto del mondo tutti i propri problemi: stampa dollari e gli altri paesi se li prendono come se fossero una «moneta rifugio». Un surrogato dell’oro, ma «creabile» in tipografia, senza i fastidiosi limiti della natura fisica.
Sull’isola di Kish, nel Golfo Persico, a pochi chilometri dalla costa iraniana, gli ayatollah hanno creato oltre un anno fa la prima borsa petrolifera con le quotazioni non espresse in dollari, Chi ha sottovalutato la portata del gesto ha fatto male i conti. Che il mercato delle materie prime diventi un luogo in cui «più monete gareggiano» – ci scusi Mao Zedong per la parafrasi – è qualcosa di più di un gesto simbolico. È la creazione di una circolazione alternativa, di una «via di fuga» per monete nazionali – o continentali – che rischiano sempre di essere strozzate dalle oscillazioni «politiche» del dollaro.
Non è difficile immaginare che molto presto – questione di settimane, non di mesi – per altre materie prime minerali, estratte da altri paesi in altri continenti, si potrà fare una scelta simile. Vale per l’America Latina che da tempo ha scelto di «autonomizzarsi» dall’invadente e invasore vicino del Nord. Vale per l’Africa, che da altrettanto tempo si vede attraversare da guerre per delega, in territori ricchi nel sottosuolo, senza mai vedersi restituire alcunché in termini di infrastrutture stabili. Quelle infrastrutture che i cinesi costruiscono oggi quasi come un omaggio, che diventerà un vincolo nel prossimo futuro.
Qualcosa si sta rompendo nell’ordine globale. E non era previsto, quando la globalizzazione era ancora saldamente nelle mani dell’Occidente.

Dilma Rousseff alle Nazioni Unite parla di donne, pace, consiglio di sicurezza, Palestina, Cuba, multilateralismo

di ,  - gennarocarotenuto -


Riportiamo la trascrizione, il più letterale possibile, del discorso, alto, di Dilma Rousseff, presidente del Brasile, che ha inaugurato il dibattito nell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Dilma ha parlato tra l’altro dei diritti delle donne, ha criticato le politiche fiscali ortodosse, ha chiesto la riforma urgente del consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ha chiesto il pieno riconoscimento della Palestina come Stato, la fine dell’embargo contro Cuba e ha fatto un appello contro l’islamofobia occidentale, per la lotta al cambio climatico e per il multilateralismo (gc).
Signor presidente, per molti noi donne siamo l’altra metà del cielo. Noi vogliamo essere anche la metà della terra. L’uguaglianza di diritti e di opportunità, libere da discriminazione e violenza può contribuire alla piena emancipazione di tutti. Purtroppo costato la permanenza di tutti i problemi che sollevavo già un anno fa e che oggi sono ancora più urgenti.
La grave crisi economica iniziata nel 2008, si è aggravata a causa delle politiche fiscali oltrodosse. Il mondo sviluppato non è capace di aiutare la crescita. La politica monetarista non può essere l’unica risposta ai problemi del mondo e alla disoccupazione. I paesi emergenti perdono mercato a causa della svalutazione artificiale delle monete sviluppate. Pertanto dobbiamo difenderci: quello che chiamano protezionismo è legittima difesa dalle politiche fraudolente del primo mondo che causano una vera guerra cambiaria.
Il Brasile sta facendo la sua parte, con una politica economica prudente, accumulando riserve, riducendo il debito con politiche sociali innovatrici che hanno aiutato 40 milioni di brasiliani a uscire dalla povertà. Nonostante la crisi stiamo mantenendo i livelli di impiego e stiamo continuando a migliorare le condizioni dei lavoratori. Stiamo dimostrando che quello tra crescita e contenimento della spesa è un falso problema. Il contenimento della spesa è altrettanto necessario come le politiche espansive. L’austerità non accompagnata da politiche di crescita è negativa. Noi abbiamo aumentato le spese in infrastrutture ed educazione per produrre scienza, tecnologia e innovazioni.
L’Oriente Medio e il Nord Africa hanno visto importanti movimenti sociali rovesciare regimi dispotici per iniziare processi di transizioni. In tutti questi movimenti vi era la rivolta contro povertà, disoccupazione e assenza di libertà civili. Si trovano in questi anche le conseguenze delle rivendizioni storiche contro politiche coloniali e neo-coloniali imposte da nazioni che si suppongono civilizzatrici e gli interessi economici delle quali invece sono chiari. Il Brasile condanna la violenza in questi paesi.
In Siria c’è un dramma umanitario. Sul governo di Damasco ricade la maggior parte delle responsabilità, ma vanno riconosciute anche le responsabilità dell’opposizione armata, soprattutto di quella che conta sull’appoggio logistico dall’esterno. Come presidente di un paese con milioni di discendenti di siriani faccio un appello per una mediazione: non c’è soluzione militare al conflitto siriano, quella diplomatica è l’unica opzione.
Signor Presidente, denuncio con forza l’aumento incontrollato di pregiudizi islamofobici nei paesi occidentali. Il Brasile è protagonista dell’alleanza tra civiltà iniziata dal governo turco. Denuncio che in Medio oriente c’è il principale pericolo alla pace internazionale. Denuncio che nel 2011 è stato disprezzato da parte israeliana l’aiuto offerto dal governo brasiliano per una soluzione diplomatica del conflitto israelo-palestinese con il riconoscimento dello Stato palestinese come sovrano nelle nazioni unite. Solo una Palestina sovrana potrà riconoscere ad Israele il suo legittimo diritto alla pace e alla sicurezza con i suoi vicini.

Omologazione comunicativa!!


La dittatura sui popoli europei

La dittatura sui popoli europei: Trattato di Lisbona, Eurogendfor e Fiscal Compact
No pasaran, No pasarán, Ils ne passeront pas, They shall not pass.Non passeranno.
L’Europa dei popoli è vittima di un’aggressione finanziaria senza eguali nella storia della modernità, il cui scopo dichiarato è la conquista a qualunque prezzo umano. Il popolo spagnolo, prima di chiunque altro (compreso il dormiente italiano) – come nel 1936 – ha ben compreso il destino fatale che ci attende se non ci sarà una reazione risolutiva. E’ in gioco la democrazia, la qualità della vita ed il futuro di milioni di esseri umani. E ieri c’è stata guerriglia. Duri scontri il 25 settembre a Madrid tra i manifestanti del movimento degli indignati e la polizia, che ha fatto diverse cariche e utilizzato proiettili di gomma per disperdere i giovani nei pressi del Congresso dei deputati. Migliaia di persone si sono riunite ieri davanti al Parlamento al grido di “dimissioni”, per denunciare una democrazia “sequestrata” e “schiava dei mercati finanziari”. Anche la Grecia si sta svegliando dal letargo.
Ovviamente non basta una protesta spontanea: il sistema di dominio è ben organizzato. Gli oligarchi del terzo millennio prima di usare le maniere forti hanno annichilito le garanzie legali nel vecchio continente. Come? Adottando il 13 dicembre 2007 il Trattato di Lisbona che ha sospeso le Costituzioni dei Paesi aderenti all’Unione europea. E precedentemente, due mesi prima (18 ottobre 2007) aderendo al Trattato di Velsen che ha dato carta bianca, ossia licenza di uccidere (“legalmente”) chiunque ostacoli questo processo di dominio – la polizia militare che va sotto il nome di Eurogendfor, controllata dalla Nato. Infine il Fiscal Compact: addio alla sovranità economica. Così, grazie alla compiacenza di interi parlamenti nazionali e dei soliti padrini l’indipendenza è stata azzerata.
La storia sembra non insegnarci nulla. Un secolo fa furono concepiti i piani disumani di sottomissione dell’Europa da parte del sistema industriale. Due guerre mondiali avviate per spietati interessi economici hanno mietuto circa 100 milioni di vittime nel tentativo di dominare il nostro continente.
E’ finita la guerra fredda ed è cominciata la terza guerra mondiale. Purtroppo, nostro malgrado, siamo in guerra, sotto il tallone militare nordamericano, vale a dire il braccio armato che esegue gli ordini del complesso industriale Usa, spronato dall’insaziabile cupidigia dell’industria chimica, farmaceutica e nucleare.
Su la testa: non facciamoci raggirare e soffocare anche da guru ammaestrati e profeti urlanti. Non possiamo essere indifferenti mentre cercano di sottometterci definitivamente. Il loro scopo platealmente dichiarato è la subordinazione commerciale e politica di intere nazioni. Si potrebbe partire con una paralisi dei consumi e proseguire con uno sciopero ad oltranza, senza interruzioni per obbligare i parlamenti nazionali a dimettersi in blocco.
L’Europa è un baluardo da abbattere e soggiogare per controllare l’intero mondo. Non ci sarà mai più un’ Europa che annichilisce la sua gente per generazioni, rendendola schiava degli interessi e finanziari delle multinazionali. Mai più. Ma spetta a noi combattere, ora. La libertà va ri-conquistata.
Giuseppe Dossetti, un padre italiano della Patria ha scolpito parole dal vivo della sua esperienza: «Quando i poteri pubblici violano le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è un diritto e un dovere del cittadino».
E Mohandas K. Gandhi ha dimostrato con la non violenza: «Sono le azioni che contano. I nostri pensieri per quanto buoni possano essere sono perle false fintanto che non vengono trasformati in azioni. Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo».

LET'S GO OUT AND DEMONSTRATE !
A LITTLE STEP FOR A MAN; A BIG STEP FOR HUMANITY
 
 

giovedì 27 settembre 2012

Il successo della conferenza sulla decrescita
"Cosa può aver spinto 700 persone di 47 paesi diversi ad andare a Venezia pagandosi viaggio, alloggio e centodieci euro di quota di iscrizione per assistere ad una conferenza di cinque giorni sulla decrescita?". Il commento di Paolo Cacciari, tra gli organizzatori della manifestazione.
- altreconomia -
Innanzitutto l’età decisamente giovane: il 38% ha meno di trent’anni e solo il 24% è sopra i cinquanta. Poi il genere, con una lieve superiorità femminile. Forse anche il fascino di una città che per l’occasione ha saputo trasformarsi in una festival diffuso (“Altro Futuro”) di buone pratiche di sostenibilità. Probabilmente la formula ibrida scelta per la terza edizione della Conferenza Internazionale che ha messo assieme attorno a settanta tavoli di studio il mondo della ricerca e dell’università con quello degli attivisti dei movimenti e delle associazioni. Ma tutto ciò non sarebbe potuto accadere se non esistesse alla base delle nostre società una gran voglia di trovare vie di uscita innovative alla crisi cui ci ha portato l’economica della crescita. Le ricette riformiste tradizionali, infatti, non possono più funzionare di fronte ad una crisi strutturale e multifattoriale come questa.
Evidentemente l’idea della decrescita, come fuoriuscita netta dall’imperativo sempre più ossessivo e minaccioso dell’incremento della produttività, della competitività e del profittevole (“crescita o morte”), è compresa con favore da molte persone e da gruppi impegnati nella ricerca di modi di vita, di lavoro e di consumo improntati da relazioni umane di qualità. Non a caso il prologo della Conferenza è stato un convegno di due giorni organizzato dal Tavolo italiano dei Gruppi di Acquisto e dei Distretti dell’Economia Solidale, coordinato da Francesca Forno e Davide Biolghini. Una rete di attività economiche ed imprenditoriali che ha scelto di funzionare il più possibile fuori dalle regole del “mercato” (cioè dell’indebitamento e della finanza) seguendo i principi del “ciclo corto”, del rapporto diretto tra produttori e consumatori, di una effettiva responsabilità d’impresa. Si può dire, quindi, che l’idea della decrescita si incarna nell’economia solidale o della convivenza e – più in generale ancora – nella gestione dei beni comuni. Spingendosi ancora più in là, come hanno argomentato nel corso della Conferenza studiosi del calibro di Gilbert Rist, Mary Mallor, Arturo Escobar, Joan Martinez Alier e Majid Rahnema, si tratta di riconcettualizzare la nozione stessa di economia tradizionale (con i corollari: “sviluppo”, “progresso”, “felicità”) per abbracciare quella del “provisioning”, di una attività, cioè, che si fa carico di rifornire ciò di cui la società ha bisogno senza esclusioni e senza intaccare le fonti primarie. Insomma, passare da una economia della scarsità indotta dal consumismo e provocata dalla necessità di incrementare infinitamente il volume del valore monetario delle merci, ad una della sufficienza e del bastevole, cioè della “semplicità volontaria”, per usare le parole di Gandhi o dell’“abbondanza frugale”, come la chiama Serge Latouche.
Ma quale è quella “autorità” che può legittimamente imporre limiti alla natura umana che si ritiene – da Hobbes in poi – dominata dall’individualismo proprietario e dalle sue pulsioni egoistiche e predatorie? Quale rapporto vi è tra decrescita e democrazia? A questo tema sensibile è stata dedicata una intera giornata della Conferenza con relazioni di Marco Deriu, Barbara Muraca, Alberto Lucarelli, Marco Revelli, Ignacio Ramonet ed anche un numero monografico della prestigiosa rivista Future. Sappiamo che vi è un nesso strettissimo tra forme istituzionali e modelli economici. Quelle parlamentari liberali hanno fondato il loro consenso sulla possibilità di redistribuire risorse economiche crescenti. O, quantomeno, di prometterlo. La crisi dei rendimenti e la necessità di ricorrere ad indebitamenti insostenibili per mascherare e procrastinare la crisi economica (Mauro Bonaiuti), mettono in ginocchio anche la fiducia nella vecchia macchina istituzionale democratica. Serve quindi reinventare non solo l’economia, ma anche la politica. Le citatissime nuove Costituzioni dell’Ecuador e della Bolivia (Gustavo Soto) indicano una strada: l’uscita dall’utilitarismo antropocentrico e il riconoscimento di diritti non disponibili e non negoziabili della natura assieme al riconoscimento della sua natura comune (la “natura della Natura”, direbbe Edgar Morin, ricordato da Alfredo Pena-Vega), cioè l’assunzione da parte della politica di una responsabilità planetaria.
NERONA
 
 

mercoledì 26 settembre 2012

Madrid 25 settembre

They said we were going to take part in a coup. They said that behind us there was the far right, they lied in the media again and again, they threatened us, in all possible ways, saying that we would end up in prison, they brought 1400 policemen, and they identified and reported for criminal offence people who just gathered in a public park discussing the action. They tried to create fear as they had never done before… And the result was that tens of thousands of people took the streets disobeying the state of emergency imposed by the government. Today, media all over the world are talking about what happened in Madrid on 25S. And we know that this is just the beginning. Mariano Rajoy’s government is weaker than ever. It’s facing a threefold crisis which is getting deeper and deeper. First of all, a hard crisis of legitimacy in relation to citizenship, and not only among the tens of thousands who mobilized on 25S, but also among his own constituency. The government has absolutely no plans beyond insisting on the policy of cuts, always accompanied by a more intense and pointless repressive dynamic. We can easily see the symptoms of this growing lack of legitimacy, in the disproportionate response to the protests yesterday, the clandestine departure of the “honourable members of parliament” or the pathetic statements of most of our politicians. Let’s be clear, a government which is only sustained by the monopoly of violence is a weak government, dying, doomed. Secondly, there lies a serious crisis of the regional model of State. Trapped between prostration to the troika (EU, ECB, IMF), which turns financial dictates into political impositions, and the dismemberment of the covenants between elites who held the sharing of power that embody the Autonomous Communities, the central government is just a mere scarecrow. It can hardly keep a certain unity of action with regional elites, as now it’s been shown with the “threat” of independence by CIU, who are able to mobilize (in a blatantly neoliberal and oligarchic project) much of the Catalan society. In this case, the weakness is not just that of the government, but that of the institutional arrangement as a whole, which we inherited from the Transition in the seventies, while this is showing us the need to build a new model of political and economic democracy. Finally, the government has been unable to cope with the Troika and defend, in a much needed alliance with other countries of the periphery, the interests of its own people. In other words, the government has never stopped obeying the orders of the financial powers that constantly require a deepening in the social crisis. Within this framework, the only horizon lies in the imposition of recession and impoverishment on the majority of the population. Here we must remain vigilant, for surely on Friday or Saturday, at the very latest, we will know the cuts and privatizations required by the Troika as counterparts to the new bailout: reduction in unemployment benefits, increase the retirement age, public and common asset sales and new cuts in the rights of public workers. Today the risk premium has soared far above levels these days, in what may well be a reminder of the Troika by suspending the program of bond buying, that the policies imposed by finance are above any “concession” to the demands of the citizenship. What we have experienced today in the streets of Madrid has been a first proof of the power of collective organization. We are at the beginning of a likely new cycle of demonstrations, which public employees or pensioners are yet to join massively. We must admit that the protest on 25S had a clear generational bias: a younger generation that has no housing, income, employment, hasn’t voted for the current 1978 Constitution, nor concedes any legitimate power to the agreements that have given shape to this model of State.

Atene 26 settembre

Madrid chiama, Atene risponde.
(Roma? ... con comodo, ora siamo in fase di "impegno riflessivo" ...)

Una guida al debito pubblico

 
Tutti (a parole) contrastano il debito. Pochissimi ne conoscono la natura. Nessuno cerca di spiegarlo a chi più ne patisce gli effetti. Per invertire la rotta, il Centro nuovo modello di sviluppo (Cnms, www.cnms.it) ha messo in rete una dispensa informativa da far circolare il più possibile.

Tutti (a parole) contrastano il debito. Pochissimi ne conoscono la natura. Nessuno cerca di spiegarlo a chi più ne patisce gli effetti. Per invertire la rotta, il Centro nuovo modello di sviluppo (Cnms, www.cnms.it) ha lanciato la campagna “Debito pubblico: se non capisco non pago”, mettendo in rete una dispensa informativa da far circolare il più possibile.
Il tutto concentrato in 34 slide illustrative: dai 2mila miliardi di euro del debito italiano in “cos’è e a quanto ammonta” al ruolo degli interessi del “come si forma”, dalla genesi del debito nostrano negli anni bui tra il 1980 e il 1996 al volto dei creditori -perlopiù attori del mercato finanziario-, dal peso degli speculatori (Barclays e BlackRock amministrano ciascuno quasi 4mila miliardi di dollari) alla progressiva perdita di sovranità monetaria dovuta alla moneta comune (“l’incubo d’Europa”), dai 2,3 miliardi di euro versati dai governi dell’eurozona alle banche tra il 2008 e il 2011 al pavloviano concetto di “crescita”.
Per info: coord@cnms.it

Per una politica della composizione*

Collettivo UniNomade - sinistrainrete -

A lungo impresa e lavoro sono apparsi concetti inoperosi dal punto di vista del conflitto di classe. Oltrepassata da una nuova economia del tempo (che abolisce le frontiere tra vita e lavoro) e dello spazio (con la messa in produzione della metropoli e dei territori), l’impresa non è da tempo «luogo» cruciale del conflitto, a sua volta allontanatosi dalle grandezze (orario, salario, organizzazione del lavoro) che davano le coordinate della lotta di classe nel fordismo. Ciò non significa che i conflitti sul lavoro siano scomparsi. Nei paesi emergenti sono spesso conflitti «orario e salario» che retroagiscono a livello globale; non pochi osservatori scommettono oggi su una parziale reindustrializzazione dei paesi occidentali. In Europa prendono forma intorno alla privatizzazione del settore pubblico e all’intensificarsi dello sfruttamento nelle produzioni a forte intensità di scala. Le lotte del lavoro, però, non hanno più assunto carattere generale né imposto l’agenda politica. Nonostante ciò, nella formazione soggettiva (politica) dei protagonisti delle nuove lotte nella crisi, le forme del potere e del comando nei rapporti di produzione non hanno parte marginale. La questione del precariato andrebbe osservata anche sotto questa luce.
A monte dei processi di politicizzazione di parte dei nuovi precari non è solo l’impossibilità di convertire gli investimenti educativi in (buona) occupazione, base discorsiva dei progetti di ristrutturazione del mercato del lavoro, ma anche la banalizzazione delle capacità individuali e sociali, come esito dell’«impresizzazione» del tempo e spazio sociale.
Il capitalismo contemporaneo (le imprese) si nutre delle prerogative biologiche, delle relazioni, dei pensieri dei produttori, al punto che lo stesso tempo di non lavoro è impresizzato, il consumo organizzato secondo criteri industriali, e molte attività sociali, nella rete e sul territorio, sussunte nel ciclo della valorizzazione. È la vita quotidiana, dunque, che tende a organizzarsi in senso imprenditoriale, poiché la lavorizzazione del sociale rende permeabili i confini tra impresa e società. Questo imperialismo della forma impresa sulle vite non può essere descritto come un potere impersonale: a monte della «cattura» del valore sociale esistono infatti catturatori organizzati. È necessario dunque chiedersi che parte abbiano le imprese in questa dinamica(1).
Nel capitalismo industriale l’impresa (il capitalista o il management al suo servizio) «orchestrava» la cooperazione sociale, organizzando direttamente mezzi «freddi» e uomini in rapporto tra loro. Il passaggio al capitalismo finanziario e cognitivo (che non allude in generale solo ad attività knowledge intensive, a fortiori nella provincia italiana) è trainato, viceversa, dal tendenziale divenire autonomo della cooperazione sociale; conoscenze, attitudini, linguaggi, sono mezzi di produzione «caldi» incorporati nel lavoro vivo. È questa capacità umana cooperante la base del processo di accumulazione dopo Ford. Ciò non significa che lo sfruttamento industriale sia scomparso. I creativi della Apple hanno sempre bisogno di una Foxconn, dall’altra o in questa parte del mondo, che produca i supporti materiali dei nuovi media, con i livelli di sfruttamento che tutti conoscono. Molte attività del cosiddetto «terziario superiore» sono oggi organizzate in forme del tutto prescrittive e seriali. Neanche nel capitalismo industriale, peraltro, il lavoro era solo prestazione fisica (i padroni pagavano quella, ma utilizzavano molte altre facoltà dei lavoratori). Tutto ciò non nega però l’evidenza di un salto di paradigma, consumatosi da decenni: piuttosto, ci dice che nel nuovo capitalismo convivono e s’ibridano più forme dell’accumulazione, modalità di comando sulla produzione, più storie del lavoro.

La Germania contro tutti

di Giorgio Gattei
- sinistrainrete -

1. Se la Grande Germania ritorna.

Quando i giornali raccontano la speculazione finanziaria in atto come un attacco dei “mercati” contro l’Europa, non la dicono giusta. Innanzi tutto, cosa sono mai questi “mercati”? «Hanno fisionomia giuridica, un portavoce, un responsabile, un legale rappresentante, qualche nome e cognome al quale, all’occorrenza, presentare reclamo? Qualcuno ha mai votato per loro? Se sbagliano, si dimettono? Quando e dove è stato deciso che il loro giudizio (il famoso “giudizio dei mercati”) conta di più dell’intera classe politica mondiale?» (M. Serra, “La Repubblica”, 19.6.2012). E poi, siamo proprio sicuri che essi si muovano contro l’Europa od il suo omologo monetario, l’euro, e non piuttosto contro qualcosa di ben più specifico e nazionale come la Germania? Per capirlo, bisogna partire da lontano.

Si è ormai costituito da tempo a livello planetario un vero e proprio partito della finanza che comprende tutti coloro che guadagnano dai movimenti dl capitale speculativo. Stimabile attorno ai 90 milioni di persone, questo vero e proprio “blocco sociale” opera sui mercati di Borsa «come un partito informale ma solidissimo, in grado di determinare l’andamento dell’economia e di condizionare in modo determinante la politica» (A. Giannuli, Uscire dalla crisi è possibile, Milano 2012, p. 43).
È questo “partito della finanza” che agita i “mercati”, i quali però vanno declinati al plurale perché non hanno un comportamento univoco secondo a come si muovono nei confronti delle due valute monetarie che si contendono gli scambi internazionali: il dollaro e l’euro. Conseguentemente due sono i suoi poli geografici di riferimento: da un lato gli Stati Uniti e dall’altro la Germania, che è la vera custode della solidità di quella moneta unica europea decisa a fare concorrenza al dollaro.
È questa una contrapposizione recente. Gli accordi di Bretton Woods del 1944 avevano consegnato agli Stati Uniti il monopolio della emissione della moneta mondiale e nemmeno la fine della convertibilità del dollaro in oro nel 1971 era riuscita a scalfirne la supremazia valutaria. È solo con la ricomposizione delle due Germanie nel 1990 che le cose sono cambiate. La divisione della Germania in due unità separate e contrapposte era stata la conseguenza/punizione per i due disastrosi “assalti al potere mondiale” che aveva tentato manu militari nel 1914-1918 e nel 1939-1945. Per evitarne un terzo gli alleati vincitori l’avevano smilitarizzata e tagliata in due come una sogliola. Ma con la riunificazione successiva alla implosione dell’URSS, il problema geopolitico si è ripresentato: quale collocazione internazionale, adeguata alla sua potenza non più militare bensì economica, dare alla rinata Grande Germania?

2. Due visioni geopolitiche.


Secondo la dottrina geopolitica anglosassone, come è stata elaborata da Halford Mackinder e Nicholas Spykman, ci sarebbe nel mondo un luogo privilegiato, detto il “Cuore della terra” (Heartland), il cui controllo politico assicurerebbe il governo del pianeta. Questo centro strategico della storia è posizionato nelle grande steppe euroasiatiche, così che soltanto la Russia può impadronirsene. Con una limitazione, però: che per esercitare nei fatti la supremazia geopolitica, essa deve traboccare su qualcuna delle “Terre di contorno” (Rimlands) che la circondano e che si affacciano sui mari caldi degli oceani Atlantico, Indiano e Pacifico. Da qui l’obiettivo permanente della Russia (zarista, sovietica o quant’altro) di muoversi verso l’Europa, il Medio Oriente, l’Afghanistan o la Corea, ma con la Gran Bretagna prima e gli Stati Uniti poi a contrapporle una accorta ed efficace (finora) azione di “contenimento-respingimento”.

Però la Germania ha dato alla geopolitica un proprio ed originale contributo per opera di Karl Haushofer (1869-1946). Secondo questa diversa “visione” del mondo non è più questione di “Cuore della terra” e “Terre di contorno” ad esso concentriche, bensì di Pan-Regioni che si estendono nel senso dei meridiani, da polo a polo, avendo ciascuna uno stato-guida dominante. Esse sono quattro, e quindi Pan-America con a capo gli Stati Uniti, Pan-Asia guidata dal Giappone (ma oggi si dovrebbe dire meglio la Cina), Pan-Eurasia dominata dalla Russia e Pan-Europa a direzione tedesca. E siccome ogni Pan-Regione dovrebbe godere del proprio “spazio vitale geopolitico” in reciproco rispetto con quello di ogni altra, alla Germania, in rapporti di buon vicinato con la Russia (il capolavoro di Haushofer è stato il patto Ribbentrop-Molotov del 1939), il Giappone e pure gli Stati Uniti, avrebbe dovuto spettare la guida delle penisole mediterranee che allora era facilitata dalla somiglianza di regime fascista presente in Portogallo (Salazar), Italia (Mussolini), Grecia (Metaxas) e Spagna (Franco): quattro paesi che nell’insieme già facevano in sigla PIGS = “maiali”.
Restavano estranee a questo Nuovo Ordine Europeo con mire espansionistiche sul Medio Oriente ed il continente africano soltanto le democrazie di Francia e Gran Bretagna, che comunque sarebbero state ridotte all’obbedienza con la forza. Si sa però che, se con la Francia la sottomissione riuscì, non altrettanto avvenne con la più ostica Gran Bretagna, nonostante il volo conciliatore tentato nel 1941 da Rudolph Hess (il vice di Hitler che era anche il migliore allievo di Haushofer) per trovare un accomodamento spartitorio col governo britannico. Ma proprio in quello stesso anno Hitler, smentendo le buone regole della geopolitica tedesca, dichiarava guerra all’Unione Sovietica ed agli Stati Uniti (fu solo allora che la guerra “europea” divenne “mondiale”), votandosi a quella clamorosa sconfitta da cui dovevano nascere le due Germanie separate da una “cortina di ferro”, poi materializzatasi fisicamente nel Muro di Berlino, che doveva sancire la fine di una Pan-Europa autonoma dalle altre Pan-Regioni.

Alba

La nostra lista arancione
120925albaAlba - Comitato esecutivo nazionale
Non una lista della sola Alba, nessuna riedizione dell'Arcobaleno. Una nuova rappresentanza di lavoro e beni comuni. Primo impegno le firme per i referendum
È arrivato anche per noi il momento di prepararci a saltare (Hic Rhodus, hic salta...). Di prepararci cioè a decidere sul che fare in vista delle elezioni politiche, con una discussione all'altezza dei propositi del nostro manifesto, che non ne tradisca né il merito né il metodo. Da Parma in poi abbiamo detto che non stiamo con il Pd che sostiene Monti, né nelle sue primarie prive di un orizzonte decente di contenuti; che vogliamo costruire un'alternativa a questo governo, al neoliberismo e alle politiche di austerità europee.
Diciamo subito che questa discussione non parte da zero. Che alcuni punti fermi già ci sono:
1. La questione dell'urgenza. Abbiamo detto che ci muovevamo perché avvertivamo che non c'era più tempo. Che la crisi dei partiti tradizionali aveva raggiunto un punto tale da minacciare di contagiare le istituzioni e la stessa democrazia.
2. Il rifiuto di un nuovo partitino. Un "soggetto politico nuovo", non un "nuovo partito politico" per dire che si voleva avviare un processo di cambiamento radicale e totale nel modo di costruire e concepire la rappresentanza, non dare vita a una nuova micro-formazione tra le altre.
3. Il metodo è il contenuto. Abbiamo ripetuto fino alla noia che la nostra identità consisteva nella volontà di uno stile diverso di fare politica, altri valori, certo, ma anche altri metodi.
Ora, questi tre punti, ci dicono che cosa non possiamo fare.
1. Non possiamo far finta di niente. Non possiamo "saltare un giro". La crisi della politica è talmente profonda che apre uno spazio immenso: c'è oggi una massa di elettrici ed elettori "liquida", in uscita massiccia dai contenitori tradizionali. Questa "liquidità" politica è insieme una risorsa e una minaccia. Saltare l'agenda elettorale dei prossimi mesi comporta il rischio di non esistere nel momento forse più importante della nostra storia repubblicana.
2. Non possiamo coltivare il "peccato" dell'autosufficienza. Non possiamo cioè pensare a una "lista Alba", né possiamo veicolarci nei e con i partiti esistenti. La situazione non offre spazi a una soluzione identitaria e non siamo nati per questo.
3. Non vogliamo un'altra "sinistra arcobaleno". Un assemblaggio di sigle e partitini messi insieme con riunioni di vertice, accordi di segreteria e manuale Cencelli.
4. Non vogliamo affrontare la questione elettorale partendo dal tema delle alleanze e delle variabili delle leggi elettorali, ma partendo dai contenuti, dal progetto e dalle forme radicalmente nuove di pratica politica.
5. Non possiamo utilizzare i vecchi schemi. Siamo tra coloro che elaborano un'altra idea di come uscire dalla crisi economica, contenuti alternativi al pensiero neoliberista dominante. Abbiamo anche chiaro che la crisi non è solo di "economia" ma di cultura e di democrazia, in questa fase costituente del neoliberismo, che mira a liberarsi insieme della mediazione con il lavoro e della democrazia
Dentro queste coordinate ogni soluzione è aperta, affidata alla discussione che condurremo collettivamente. Tutto è affidato alla nostra capacità di dar vita a una discussione e a un'elaborazione davvero collettiva, nelle prossime settimane.
La proposta su cui intendiamo confrontarci e lavorare è la presentazione alle elezioni di una lista di democrazia radicale, una lista "arancione", per un'altra Europa, antiliberista, per il lavoro e per i beni comuni, per la giustizia ambientale e sociale. Una lista che dia voce a quell'Italia vasta, tutt'altro che minoritaria, che tra il 2010 e il 2011 ha mosso il paese e prodotto la rottura culturale vera con il berlusconismo.
Non pensiamo a una lista della sola "Alba", sappiamo che tante e tanti altri stanno elaborando idee, praticando relazioni politiche e conflitti sociali. Pensiamo alle battaglie della Fiom e dei No-Tav, a quelle del Teatro Valle o del Macao per l'autogestione degli spazi comuni, alla proposta di De Magistris, alle riflessioni di Micromega, agli appelli che stanno uscendo da più realtà.
Proponiamo di ripartire dal lavoro, dalla difesa dei suoi diritti e della sua dignità. Dal lavoro inteso come relazione politica complessiva, appartenenza a una comunità, cioè capace di riconsiderare i tempi della produzione e della riproduzione, la cura del lavoro e il lavoro di cura, i ruoli e le relazioni fra i generi.
Questa non è tanto o solo un'alternativa "di sinistra", è qualche cosa che può parlare a un mondo molto più vasto. L'opposto del minoritarismo, costruzione di nuova egemonia. Dobbiamo puntare altissimo, non esiste una via di mezzo.
Per questa proposta è di fondamentale importanza la campagna referendaria che sta aprendosi. Un'azione diffusa di presa di coscienza popolare, che riempia della realtà della democrazia i mesi che precedono la campagna elettorale.
Alla fine di questo percorso dovremo valutare insieme le risposte che avremo, il grado di coinvolgimento realizzato.
Possiamo e dobbiamo verificare l'esito di questo percorso con gli strumenti democratici che sono già elementi fondanti della nostra bozza di statuto, ovvero con una consultazione vincolante referendaria.
Soltanto dopo questo indispensabile percorso aperto di verifica affronteremo la questione delle alleanze, anche in base alla legge elettorale che ci sarà.
Un'ultima considerazione: è vero che una lista non è un soggetto politico. Essa può costituire tuttavia un passo avanti nel processo di costruzione della nuova soggettività politica. Proprio per questo si richiedono regole nuove e radicalmente democratiche per selezionare candidature, incarichi, funzioni. Mettiamoci in cammino.

Fallimento morale e antropologico

- rifondazione -
120925polverinidi Alberto Burgio
La governatrice del Lazio ha rassegnato le dimissioni. Tanto doverose quanto insufficienti per sanare una democrazia ferita. Al punto che l'idea stessa di rappresentanza suona ironica. Oggi la casta è sinonimo di separatezza, oltre che di corruzione. Nei suoi comportamenti si manifesta la malattia terminale di un sistema politico in sfacelo. Fallimentare sul piano dei risultati materiali e impresentabile sul terreno morale e «antropologico».
È un fenomeno talmente grave, che il discorso morale non basta più. Talmente organico che ricondurlo al solo profilo (im)morale dei protagonisti sarebbe riduttivo. Assodata l'esigenza di punire il malaffare, restano aperte altre questioni. Se l'impressione che in Italia la corruzione politico-amministrativa abbia passato il segno ha fondamento, occorre riflettere su due fattori: la qualità della «classe politica» e le occasioni che le vengono offerte di abbandonarsi a comportamenti indecenti. Si tratta di aspetti connessi perché nessuna tentazione potrebbe fare breccia in un incorruttibile e perché gran parte di quelle tentazioni sono generate in piena autonomia da quanti ad esse cedono. Come dire che qui Sant'Antonio è il diavolo stesso.
Le tentazioni sono troppe. Per cui «fare politica» è ormai, per molti, una carriera: il mezzo per conquistare uno status e fare bella vita, tra case di lusso e vacanze pagate, vitalizi e tesoretti in banca. Quanto alla classe politica, la sua scadente qualità ha cause oggettive. La politica - l'insieme delle istituzioni rappresentative in primis - non attrae più la parte migliore del paese, la più colta, la più capace, la più sana. Non vi riesce più perché è sempre meno il luogo della sovranità. La quale è migrata verso le tecnocrazie e le burocrazie (sempre meno nazionali, sempre più europee e «globali») e verso i mercati (il Senato virtuale dei detentori di capitali finanziari e i signori delle imprese transnazionali).
In sintesi, l'élite va dove si comanda. La politica, marginale, è lasciata a figuranti, e trovarli è facile, considerate le tentazioni di cui stiamo dicendo. Le quali svolgono un ruolo sistemico. Qui un primo cerchio si chiude. La corruzione è il costo dell'emarginazione delle funzioni rappresentative. La classe politica ha accettato la propria riduzione a mansioni subordinate in cambio di vantaggi materiali.
Che in tale situazione la politica attragga tanti mediocri e qualche mascalzone non è motivo di sorpresa.
Ma in questo discorso la subordinazione delle istituzioni rappresentative non è solo un dato di partenza, è anche un obiettivo. E la corruzione di politici e amministratori pubblici non è solo conseguenza della subordinazione delle assemblee elettive, è anche uno strumento per perfezionarla. Qui si apre un secondo cerchio, il più importante.
Rispetto alla Prima repubblica, lo svuotamento di sovranità delle assemblee elettive è già enorme. Le leggi le fanno i governi, a loro volta vincolati dalle direttive comunitarie. L'agenda politica è in buona misura stabilita in sedi sottratte al controllo democratico. I nostri rappresentanti non ci rappresentano nel processo di formazione delle decisioni perché ne sono esclusi o vi svolgono ruoli subordinati, di ratifica formale. Ma questo processo non è ancora concluso.
Le funzioni di ratifica non sono eseguite sempre in modo efficiente. La classe politica spesso alza il prezzo, talora tenta di interferire nelle direttive superiori. Per non dire che potrebbe ribellarsi e rivendicare autonomia. Insomma, il processo dev'essere portato a compimento, magari attraverso una drastica selezione censitaria (a questo servirebbe abolire il finanziamento pubblico dei partiti).
Qui entra in gioco l'opinione pubblica e la corruzione assume così un ruolo decisivo. Fino a Tangentopoli, era una faccenda perlopiù segreta. Di tanto in tanto scoppiavano scandali. Ci lasciò le penne persino un presidente della Repubblica (Leone, per l'affare Lockheed). Ma è all'inizio degli anni novanta che la corruzione diventa una componente strutturale del discorso pubblico. La concomitanza di questo fenomeno con l'implosione della Prima repubblica (la fine della centralità del parlamento e dei partiti di massa) e la nascita della Seconda (bipolarismo coatto e spostamento del baricentro sul governo) non è casuale. Da questo momento, della corruzione politica si parla con insistenza sui giornali. La si serve quotidianamente al banchetto delle passioni pubbliche. Dei risentimenti e della rabbia di una società sempre più spaventata. Conquista l'immaginario collettivo proprio mentre si comincia a trasformare il sistema politico in senso oligarchico-tecnocratico. Se si considera questa concomitanza, si comprende la funzione della corruzione e del discorso pubblico sulla corruzione come vettori di un cruciale processo di trasformazione.
Pensiamo all'irresistibile successo del best-seller di Sergio Rizzo e Gianantonio Stella. Quel libro sta dentro un triangolo del quale è un vertice: c'è la politica corrotta (la «casta»), c'è l'opinione pubblica, e c'è la stampa, a cominciare dagli autori della denuncia, cavalieri senza macchia e senza paura. Il tutto dà vento alle vele della transizione post-democratica. Il partito degli antipartito miete consensi travolgenti. Il parlamento appare luogo di mercimonio, culla di una «partitocrazia» parassitaria e proterva, come non si stanca di lamentare un partito che su questa campagna lucra fortune identiche a quelle di ogni altro. Vista così, la corruzione non è più tanto una malattia. È essa stessa un soggetto politico, un protagonista della transizione. Non ci fosse, bisognerebbe inventarla.
Proviamo a trarre qualche conclusione. La prima è che i corrotti fanno parte a buon diritto di quanti fustigano la casta, reclamano la gogna, si appellano all'élite per un repulisti meritocratico. E, finalmente, invocano il passaggio organico alla sovranità dell'esecutivo nel nome della «tecnica». Rizzo, Stella, Grillo, Scalfari e Monti - tra loro assai più prossimi di quanto non confessino o sospettino - dovrebbero concedere ai vari Lusi e Fiorito la tessera onoraria del Partito dei rottamatori della Repubblica costituzionale. Il loro contributo alla transizione nel nome del merito, dell'austerità e della governabilità (a ciascuno il suo feticcio) è d'inestimabile valore.
La seconda osservazione riguarda i gruppi dirigenti. Se quanto abbiamo detto ha un senso, la politica non è stata avvelenata più di quanto non si sia distrutta con le proprie mani. Su chi gravano le principali responsabilità, se non sui capi dei partiti, a cominciare dai maggiori, che prima hanno modificato le regole della rappresentanza in modo da ridurre il parlamento a un bivacco di obbedienti manipoli, poi hanno intasato le Camere di lacchè, ai quali non pare vero di essere ricoperti di soldi in cambio di un'impune obbedienza?
La terza e ultima osservazione riguarda noi, spettatori nauseati e incolleriti di tanto schifo. Ci avviciniamo a elezioni pericolosissime. Può succedere letteralmente di tutto. E in questo scenario il combinato antipolitica-tecnocrazia gioca da protagonista: l'una denuncia le vergogne dell'ignobile casta politica, l'altra trae dalla pubblica indignazione legittimità per la macelleria sociale e per la protezione delle nobili caste sociali, di cui nessuno parla. Noi, in mezzo, dovremmo capire che da questo gioco abbiamo tutto da perdere. Perdiamo dalla mortificazione del parlamento, che non offre resistenza alla distruzione di quanto resta dei diritti sociali e del lavoro. E perdiamo dalla strumentale crociata anticorruzione, che porta acqua al mulino delle forze che una classe politica asservita favorisce.
C'è forse un terzo che possa sottrarci a un gioco in pura perdita? Diciamo che ci sarebbe, se esistesse davvero una sinistra - unico virtuale presidio della Costituzione - e non un accrocchio di forze litigiose e impotenti, per ciò stesso oggettivamente colluse con la regressione in atto. Come dire che nemmeno la sinistra, nemmeno noi che non riusciamo a imporre un'inversione di tendenza, possiamo dirci estranei al gioco al massacro sulla pelle della democrazia italiana.
JAWS 3
 

martedì 25 settembre 2012

MADRID

Madrid: assedio al Parlamento.

Madrid: assedio al Parlamento.
       
Madrid: assedio al Parlamento. La diretta
Segui la diretta. Madrid invasa dai manifestanti. Vogliono le dimissioni del governo, lo scioglimento del Parlamento e la creazione di un'assemblea costituente con una legge elettorale proporzionale. Media e classe politica li accusano di golpismo. Città blindata.

22.05:
Secondo fonti ufficiali ci sarebbero finora 22 manifestanti arrestati e 13 feriti. I manifestanti cercano di tornare in Plaza de Neptuno o di raggiungere Sol, gridano 'se fossi poliziotto mi vergognerei'.

21.50:
cariche della Polizia contro i manifestanti anche a Puerta del Sol. Il centro di Madrid è in pieno caos, alcuni manifestanti cercano di difendersi dalle cariche lanciando contro gli agenti le transenne strappate ai cordoni, sassi, razzi.

21.35:
i manifestanti vengono spinti a forza - e a bastonate - fuori da Plaza de Neptuno. La gente si sta concentrando nelle vie e nelle piazze continue per cercare in qualche modo di non abbandonare la manifestazione. La Polizia ha ricevuto ordine di sgomberare completamente le vie adiacenti il Parlamento per poter così permettere l'uscita dal palazzo dei deputati riuniti fino ad ora in sessione plenaria. Gli organizzatori della manifestazione 'En Pie' e '15 M' stanno dando indicazioni di concentrarsi di nuovo a Puerta del Sol.

21.30:
incredibilmente il Ministero degli Interni e le autorità di Madrid parlavano intorno alle 19 di circa 6000 manifestanti in piazza. Basta vedere foto e video postati su siti web e social network - o la diretta degli avvenimenti della televisione di stato spagnola - per rendersi conto che si tratta di alcune decine di migliaia di manifestanti arrabbiati e determinati.

21.20:
ci sono decine di feriti tra i manifestanti, la gente cerca di sfuggire alle cariche rifugiandosi nei palazzi contigui al Parlamento nella zona di Neptuno. Gli arrestati sarebbero già una ventina. Oltre alle pallottole di gomma contro la folla la polizia spara colpi di fucile 'a salve' (questa la definizione del Ministero degli Interni). Camionette e agenti contro la gente, uso massiccio dei manganelli.

21.10:
altre cinque persone, tra di loro due anziani, sono stati arrestati poco fa durante le dure cariche contro i manifestanti in Plaza de Neptuno. Anche i giornalisti subisono i colpi degli agenti sempre più nervosi e incontrollabili e in molti hanno dovuto abbandonare la zona antistante il Parlamento. I manifestanti gridano slogan contro la polizia, in particolare 'traditori' e 'i criminali stanno dall'altra parte'.
21:00: visto che i manifestanti non solo non liberano le strade intorno al Parlamento ma diventano sempre più numerosi con l'arrivo di altre persone, alcune centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa e con il passamontagna in testa stanno realizzando continue e violente cariche contro i manifestanti inermi. Molti gli anziani, le famiglie con bambini. Poco fa gli agenti hanno cominciato a sparare decine di pallottole di gomma ad altezza d'uomo. Nonostante tutto i manifestanti arretrano e cercano di proteggersi come possono ma non abbandonano l'assedio al Parlamento.

20.25:
Fonti del ministero degli Interni affermano che finora ci sono almeno 15 manifestanti arrestati e una decina di feriti, alcuni dei quali sono stati condotti negli ospedali.

20.10:
nuove violentissime cariche sul lato del Parlamento che dà verso Plaza de Neptuno contro i manifestanti che però stanno resistendo - è la prima volta che accade negli ultimi anni - e stanno cercando di bloccare gli agenti. Secondo i giornalisti presenti ci sarebbero stati altri quattro detenuti. Intanto Anonymous ha poco fa attaccato il sito della Policia Nacional spagnola mettendolo fuori uso.

20.05:
alcuni giornalisti presenti sul posto riferiscono che i comandanti dei vari plotoni di Guardia Civil e Policia Nacional stanno dando ordine ai propri uomini di prepararsi a sgomberare le strade intorno al Congresso, dove sono ammassate parecchie migliaia di persone molte delle quali stanno spingendo sulle barriere di filo spinato e transenne mentre altri manifestanti si sono seduti a terra decisi a non farsi cacciare. Gli agenti stanno indossando i passamontagna...

19.50:
A Granada, in Andalusia, circa 400 persone hanno realizzato un blocco stradale interrompendo il traffico sulla Gran Vía. A Barcellona circa 600 manifestanti si sono riuniti davanti al parlamento regionale gridando slogan contro i tagli e la mancanza di democrazia.

19.35:
Tensione molto alta attorno al Parlamento, alcuni poliziotti hanno imbracciato i fucili. Ma decine di migliaia di persone continuano a spingere e a gridare slogan. Alcuni hanno lanciato dei fresbee su ognuno dei quali c'era scritto uno slogan.

19.20:
Secondo l'agenzia di stampa spagnola EFE almeno due persone sarebbero riuscite a superare la prima linea di barriere di sicurezza piazzate attorno al Congresso. Decine di migliaia di persone gridano 'Siete circondati, arrendetevi' rivolti verso il Palazzo del Parlamento. Continuano intanto gli scontri tra il Prado e San Jeronimo e ci sarebbero già cinque manifestanti arrestati. Un video delle cariche

19.05:
I manifestanti sono venuti a contatti con i cordoni di Polizia nella zona di Plaza de Neptuno, tra il Paseo del Prado e la Carrera de San Jerónimo. La Polizia ha cominciato a caricare duramente i manifestanti, si contano già alcuni contusi anche tra i giornalisti.

18.45:
A Siviglia, nel sud della Spagna, alcune migliaia di manifestante convocati dal Sindacato Andaluso dei Lavoratori e da alcune forze della sinistra radicale hanno tentato, senza successo, di occupare il Parlamento regionale per consegnare ai deputati una petizione che chiedeva l'istituzione di un salario sociale. Intorno alle 17.45 il portavoce del SAT, Diego Cañamero, ha annunciato che se il presidente del Consiglio Regionale, Manuel Gracia (PSOE), non fosse uscito dal consiglio dal palazzo i manifestanti sarebbero entrati al grido di 'occupazione, occupazione'. Ma il tentativo di irruzione è stato impedito dall'ingente schieramento di Polizia in assetto antisommossa.

18.35: la testa del corteo partito da Plaza de España ha fatto il suo ingresso a Puerta del Sol, già strapiena di gente.

18.30: le strade e le piazze del centro di Madrid sono completamente invase dai manifestanti. In piazza del Neptuno si ascoltano slogan come "Governo dimissioni" e "PP PSOE, la stessa merda". I manifestanti sono guardati a vista da centinaia di agenti in tenuta antisommossa, supportati da unità cinofile e a cavallo e da decine di camionette blindate. In prossimità del Congresso gli agenti hanno improvvisamente chiuso un tratto di strada intrappolando tra i due cordoni circa 200 persone che ora chiedono di poter uscire.

18:00:
i corrispondenti raccontano che i manifestanti sono molte decine di migliaia e sembrano molto arrabbiati e determinati ad arrivare il più possibile vicini al Congresso. Gridano 'dimissioni, dimissioni' e altri slogan contro il governo e le banche. Nervosismo tra le forze dell'ordine.

17.40:
Sono partiti due enormi cortei da Plaza de España e da Atocha mentre ci sono già migliaia di persone che circondano il Congresso tenute a distanza da poliziotti e transenne. Gli slogan più gettonati: "El pueblo unido jamás será vencido", "Que no, que no, que no tenemos miedo" (non abbiamo paura), "Menos Policía, más educación" (Meno polizia, più istruzione). Lo striscione che apre il corteo partito da Plaza de Espana recita: "Que se vayan todos" (Se ne vadano tutti).

17:00
: Prosegue l'assemblea in Piazza del Nettuno. Megafono alla mano un attivista ha gridato: "abbiamo molta più paura del mondo che ci aspetta che della strategia della Polizia".

16.40: In tutte le piazze del centro di Madrid sono in svolgimento assemblee popolari con la partecipazione di migliaia di persone. Molto grande quella in atto in Plaza de España de Madrid, un'altra è in corso nel paseo del Prado.

16.35: Riferisce il quotidiano Publico che la Polizia sta identificando vari manifestanti nella stazione di Atocha. Un gruppo di attivisti del movimento ’15 M’ di Malaga sono stati fermati e identificati addirittura due volte, la prima volta sono stati fatti scendere da un autobus e la seconda volta bloccati in piazza.

16.30: Durante un suo intervento all’interno del Parlamento, la portavoce del Partito Socialista (“l’opposizione”) Soraya Rodríguez ha detto: "Non ci piace vedere il Congresso come sta oggi. Capiamo il malessere di molti cittadini (...). Sono molte le ragioni che li animano. Ma il Congresso è il luogo dove lavorano i rappresentanti del popolo legittimamente eletti”.

16.20
: Otto attivisti che partecipavano a un'assemblea di preparazione della mobilitazione, sono stati fermati venerdì scorsi e denunciati per un reato ''contro alti organismi della nazione'', punibile fino a un anno di carcere. La delegata del governo (il prefetto) di Madrid, l'esponente del Partito Popolare Cristina Cifuentes, ha avvertito che non sarà consentito in nessun modo ai manifestanti di circondare il Parlamento, perchè ''sarebbe un reato'', anche se ha 'generosamente' autorizzato vari concentramenti e marce, oltre a un'assemblea generale, distante della Camera Bassa.

16.15 - Il delegato del governo a Madrid, Cristina Cifuentes, ha affermato ieri che tra i manifestanti ci sono gruppi neonazisti. Una sua collega di partito, la segretaria del PP María Dolores de Cospedal, è tornata a paragonare la protesta odierna con il tentativo di colpo di stato militare del 23 Febbraio del 1981, quando i militari fecero irruzione in Parlamento per imporre una svolta a destra delle nuove istituzioni spagnole uscite dalla dittatura franchista (e ci riuscirono...).
16.10: Mentre i manifestanti affluiscono a Madrid contro i nuovi tagli previsti da Rajoy – 40 miliardi di euro – l’agenzia di rating Standard & Poor's ha aumentato di otto decimi di punto le previsioni di recessione per la Spagna per il prossimo anno. Ciò significa che è previsto che nel 2013 il Pil cadrà dell’1,4% invece che dello 0,6% finora pronosticato.

Per molti oggi, in Spagna, è il 25S ( che sta semplicemente per 25 settembre), una giornata campale.
Avevano denominato la manifestazione di oggi a Madrid ‘Occupa il Congresso’. Poi media e destra spagnola avevano accusato gli organizzatori di minacciare le istituzioni democratiche e di avere nientemeno che intenti golpisti. E quindi, dopo giorni di dibattito anche aspro all’interno del vasto coordinamento che ha lanciato l’iniziativa di oggi pomeriggio nella capitale spagnola, lo slogan è diventato “Circonda il Parlamento”.

Mentre migliaia di cittadini sono già scesi in strada in diversi punti della città ed altrettanti stanno arrivando a Madrid dagli altri territori dello Stato Spagnolo, il governo di Rajoy ha promesso che forse aumenterà un po’ le pensioni ma intanto ha mobilitato almeno 1350 poliziotti per circondare e difendere il Congresso, la Camera Bassa del Parlamento, ‘protetta’ da chilometri di transenne e di reti metalliche che impediscano ai manifestanti di avvicinarsi.

Ma i manifestanti sono determinati.
Alcuni gruppi politici e sociali hanno accettato malvolentieri il cambiamento di parola d’ordine e caldeggiano ancora un’occupazione, per quanto temporanea e simbolica, di un’istituzione considerata non l’organo che rappresenta la volontà popolare ma che esegue gli ordini delle banche e dei poteri forti spagnoli e dell’Unione Europea, scaricando i costi della crisi sulla povera gente, sulle masse popolari. Altri hanno intenti meno bellicosi e puntano ad una grande mobilitazione di massa pacifica e simbolica.

I manifestanti, chiamati in piazza dal movimento ’15M’ (i cosiddetti ‘indignados’), dalla piattaforma ‘En Pie!’ (in piedi) e da altri coordinamenti creati ad hoc, puntano il dito contro "un sistema condizionato e costretto dai mercati, chiaramente insostenibile" e chiedono al Governo di dimettersi, al Parlamento di sciogliersi e l’avvio di un processo Costituente con una legge elettorale proporzionale. Parole d’ordine radicali al di là di quali saranno i comportamenti concreti dei manifestanti, che hanno messo in serio allarme l’establishment e la stampa, che continuano ad accusare gli organizzatori di ‘golpismo’.
Tre cortei prenderanno il via da diversi punti della città nel pomeriggio e si dirigeranno verso il Parlamento mentre è in corso una seduta plenaria sull’approvazione del bilancio statale preventivo per l’anno 2013. Essendo la Spagna paese altamente democratico, la legge vieta esplicitamente di manifestare vicino alla sede del Congresso quando vi sono riuniti i deputati. E così l’atteggiamento della Polizia mobilitata in forze è stato da subito assai duro: strade chiuse al traffico, blocchi improvvisi di autobus pieni di manifestanti con perquisizioni e sequestri di materiali (soprattutto telecamere e fotocamere), qualche fermo preventivo.
Ma la gente – giovani, lavoratori, immigrati, sindacalisti e attivisti di alcuni partiti della sinistra radicale – continua ad affluire nelle stazioni di Atocha e di Plaza de Espana, con l’intenzione di formare almeno una lunga e fitta catena umana intorno al Congresso a partire dalle 18. A quell'ora i tre cortei cominceranno a muoversi da Puerta del Sol e dalle Piazze Neptuno e Cibeles.
Le forze di sicurezza hanno stabilito vari filtri - a volte veri e propri check point - per evitare l'infiltrazione dei manifestanti in una enorme zona rossa attorno al palazzo del parlamento.

È il mondo di tutti, dicono le donne, cambiamolo

 

Comune-info per lo più pubblica articoli brevi, preferendo segnalare eventuali libri e link con i quali approfondire alcuni temi. Quella che segue è un’eccezione. Se non avete qualche minuto di tranquillità in più del solito rinviate questa interessante lettura, ne vale davvero la pena.
Tra gli interventi più apprezzati e discussi alla Conferenza internazionale sulla decrescita di Venezia, quello di Veronika Bennholdt-Thomsen, etnologa e sociologa femminista, ha intrecciato i temi della decrescita con una prospettiva di genere. Veronika Bennholdt-Thomsen dirige l’Institute of the Theory and praxis of subsistence a Bielefeld, in Germania ed è docente alla università di Vienna. Ha condotto molte ricerche su questioni di genere, sull’economie regionali e di antropologia sociale in Messico e in Germania. È autrice di numerosi libri sulle alternative di sussistenza in Europa e nel Sud del mondo. Questo scritto è la traduzione dell’intervento tenuto al congresso Prospettive della politica matriarcale, St. Gallen, in Svizzera, nel maggio 2011, da poco pubblicato su il sito dell’università Ca’Foscari di Venezia (unive.it). In modo profondo e brillante l’autrice analizza i nessi tra critica allo sviluppo (per capirci, quella di Ivan Illich, Jean Robert, Majid Rahnema, Vandana Shiva, André Gorz e Serge Latouche), questioni di genere (Geneviève Vaughan e altre studiose, attente ai valori delle società matriarcali) e cambiamento dal basso (John Holloway soprattutto ma anche Raúl Zibechi, Rebecca Solnit, Chris Carlsson, John Scott, Arundhati Roy, Miguel Benasayag, John Berger, Gustavo Esteva, Immanuel Wallerstein, Howard Zinn, Cornelius Castoriadis).

Introduzione. La politica della prospettiva di sussistenza: di cosa si tratta?
Viviamo in un periodo di trasformazioni radicali. Coloro che vedono in esse una crisi della civiltà sono sempre più numerosi. Con ciò si intende che tutte le varie «crisi»: la crisi climatica e quella ambientale, ovvero le cosiddette catastrofi naturali, la crisi finanziaria e quella economica, la crisi alimentare – che in realtà è una «crisi» dei prezzi dei prodotti alimentari – e infine la catastrofe atomica – eufemisticamente definita come crisi dell’energia atomica – confluiscono in un’unica crisi, vale a dire la crisi dei valori e della cultura, ormai diffusa in tutto il mondo, basata sulla fede nella crescita economica che va perseguita mettendo a repentaglio i singoli, le nazioni e infine l’intera umanità. Il consumo di massa è divenuto il pilastro della crescita del profitto, l’aspirazione alla crescita del profitto a sua volta alimenta il consumismo e insieme sfociano nella distruzione dell’umanità e nel saccheggio della natura. Ciò che legittima il nesso tra la crescita del profitto e la propensione ai consumi è il «vantaggio individuale», o come sin dai tempi di Adam Smith è stata eufemisticamente definita l’avidità, «l’interesse». La sua ben nota tesi centrale è assurta a principio fondamentale dell’economia. Perseguendo il proprio vantaggio ciascuno può contribuire più efficacemente al benessere della nazione che non dedicandosi espressamente al benessere collettivo. La politica dello sviluppo ha diffuso questa fede in tutto il mondo, come fosse una religione. Nella seconda metà del ventesimo secolo l’eresia era il «sottosviluppo».
Nel ventunesimo questa ortodossia si è definitivamente imposta e si è completata la Conquista. La globalizzazione dei mercati in un unico mercato mondiale ha trionfato. In nome del libero mercato mondiale milioni di contadine e di contadini vengono derubati della propria terra, vale a dire della base di sostentamento, altri sono privati delle proprie sementi e migliaia sono spinti al suicidio a causa dell’indebitamento per le sementi chimiche.
I profughi vengono respinti verso altri paesi, economicamente più fortunati. A migliaia muoiono durante la fuga. Le grandi imprese nel campo dell’energia non temono di impiegare la tecnologia atomica che minaccia ogni forma di vita, mentre i governi si rendono loro complici per raggiungere la presunta crescita economica. L’economia stessa è diventata guerra, il denaro arma. Il confine con la violenza bellica sanguinaria è fluido. Noi, che apparteniamo alla società globalizzata della massimizzazione, ci troviamo al bivio. Accettiamo che questa civiltà distrugga il mondo oppure no? Si tratta di una questione di vita o di morte, di qualcosa di concreto, fisico e nel contempo di attinente ai valori, alla fede e all’etica sottesi a questa dinamica. È necessario riconoscere che la visione del mondo della «società della crescita» segue l’ordine simbolico della morte. Non abbiamo bisogno soltanto di un nuovo ordinamento economico bensì, fondamentalmente, di un nuovo contratto sociale basato su nuovi valori.
È essenziale un nuovo contratto sociale
Abbiamo bisogno di un nuovo contratto sociale che si fondi sulla valorizzazione delle relazioni tra i viventi e non sulla distruzione dell’umanità e sul saccheggio della natura finalizzato alla massimizzazione del profitto e alla crescita dei consumi. Abbiamo bisogno di un contratto sociale fondato su un sistema di valori che riconosca la fertilità naturale e vivente, in base alla quale i bambini hanno origine dalle donne, e non dalla provetta di laboratorio, e il cibo dalla terra, e non dalla macchina. Noi abbiamo bisogno di un contratto sociale che superi il produttivismo, teso all’incremento delle merci e del profitto, e sia sostituito dalla cooperazione con le forze naturali viventi. Abbiamo bisogno di un contratto sociale che si ispiri ai valori della cura materna, affinché le generazioni future crescano rettamente e i malati e gli anziani possano vivere e morire con dignità.
Tutti questi aspetti di un nuovo orientamento rappresentano anche i valori centrali nelle società matriarcali. Nella nostra società patriarcale, al contrario, incontrano un’accanita opposizione, e quando vengono identificati come valori materni e matriarcali, sono spesso oggetto di contestazione anche da parte delle donne. Noi femministe conosciamo la critica difensiva che ci viene rivolta con lo scopo di sminuire, che è di biologismo e di essenzialismo. Ma ogni essere umano, uomo o donna, può essere premuroso in modo materno.

La calce del nuovo mondo

 

Ci sono libri attraverso i quali ciò che è nascosto appare alla vista, come quando il lampo illumina la notte. È il caso di «Territori in resistenza» (Nova Delphi) di Raúl Zibechi, scrittore e giornalista, autore di numerosi libri e articoli sui movimenti sociali. Zibechi racconta le periferie urbane in America latina, nelle quali a suo modo di vedere germogliano «le principali sfide al sistema dominante». Al centro delle attenzioni di questa indagine ci sono «los de abajo», un ampio ed eterogeneo insieme di persone che include tutti coloro che subiscono oppressione ma resistono ai poteri in molti modi, più o meno organizzati, creando spazi di autonomia. A nostro avviso, «Territori in resistenza» riesce a illuminare anche pezzi di città europee, aldilà del contesto differente, a cominciare da Roma. Perché il libro parte da una consapevolezza importante: ovunque, in America latina come in Italia, mancano linguaggi capaci di captare «i flussi invisibili allo sguardo verticale, lineare, della nostra cultura maschile, saccente e razionale». Eppure oggi i cambiamenti sociali profondi si moltiplicano proprio grazie a quei flussi. E allora mettiamoci alla ricerca di coloro che creano spazi orizzontali di autonomia, certo non privi di limiti, ma che trasformano paure e povertà in luce.
Nella sua analisi Zibechi richiama, tra gli altri, Immanuel Wallerstein, secondo il quale nelle periferie confluiscono alcune delle principali fratture che attraversano il capitalismo: etniche, di classe, di genere. Le periferie sarebbero «i territori della spoliazione quasi assoluta», ma anche luoghi «della speranza» perché in grado di accogliere forme e reti di interscambio reciproco. L’autore racconta ad esempio l’importanza dei mercati e del commercio al dettaglio, degli orti condivisi, dei comedores populares, cioè le cucine e gli acquisti collettivi diffusi soprattutto in Perù. È in microspazi di vita quotidiana come questi che «los de abajo» esercitano i loro diritti di cittadinanza, maturano dignità e nuove forme di ribellione, raggiungono spesso risultati sorprendenti. Qualche esempio? Il movimento dei contadini senza terra del Brasile, senza aspettare di prendere il potere statale, ha conquistato in meno di trent’anni 22 milioni di ettari, una superficie superiore a quella di diversi paesi europei. Dal 2001 in Argentina si sono invece formate 205 fabbriche recuperate, cioè abbandonate dai padroni, occupate e poi autogestite dai lavoratori attraverso cooperative. Oggi sono tutte funzionanti. Quelle fabbriche sono importanti perché dimostrano che gli operai sono in grado di modificare in modo autonomo l’organizzazione del lavoro. «In diverse fabbriche sono stati creati laboratori culturali, radio comunitarie e spazi di dibattiti e scambi, riuscendo talora a creare reti di distribuzione ai margini del mercato», aggiunge Zibechi. In queste iniziative il lavoro alienante non è più la forma dominante grazie alla rotazione delle mansioni e alla consapevolezza acquisita dagli operai. E la produzione di beni per il mercato (valore di scambio) è subordinata alla produzione del valore d’uso. Di fatto, quelle fabbriche non vendono al mercato, dato che hanno consolidato relazioni di fiducia con clienti fissi. Il paradigma tradizionale del lavoro viene quindi messo in discussione sotto diversi punti di vista.
I comedores populares, gruppi autogestiti di cucine collettive diffusi a Lima durante la crisi, sono invece nati negli anni ‘80 per sostenere i più impoveriti, sempre meno in grado di provvedere ai propri pasti. Tramite questi gruppi il cibo viene comprato a prezzi ridotti, in quanto acquisti collettivi, cucinato e distribuito. Un’indagine di qualche anno fa, ricorda Zibechi, ne censiva settemila, ognuno mediamente composto da 22 volontari, per lo più donne dello stesso barrio. Ogni comedor fornisce un centinaio di pasti al giorno. Di fatto, le donne dei comedores non producono merce e non operano per il mercato ma per persone conosciute.
Anche gli orti autogestiti hanno costituito una maniera di affrontare la crisi alimentare dei ceti più poveri in diverse città latinoamericane e una parte di essi ha continuato a funzionare malgrado la «ripresa» economica. In alcuni casi sono sorti su terreni di case private e coltivate da nuclei familiari con l’aiuto dei vicini; in altri sono sorti su terreni pubblici occupati dalle famiglie. In ogni caso si sono dimostrati utili al bisogno di cibo e straordinari canali per la ricomposizione dei legami sociali. Zibechi, a tal proposito, cita un racconto di un gruppo di donne di un orto comunitario di Montevideo, pubblicato dalla rivista uruguaiana Multiversidad: «All’inizio avevamo una scheda dove ciascuno annotava le ore lavorate e al momento del raccolto questo veniva diviso in funzione delle ore lavorate. Con sorpresa, nel corso di una riunione, fu proposto di non segnare più le ore. Infatti il gruppo cominciava ad avere una coscienza comunitaria. Così si continua a fare ancora oggi. Al termine delle ore di lavoro ciascuno ritira ciò che serve per la propria famiglia».

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