Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

mercoledì 26 settembre 2012

Per una politica della composizione*

Collettivo UniNomade - sinistrainrete -

A lungo impresa e lavoro sono apparsi concetti inoperosi dal punto di vista del conflitto di classe. Oltrepassata da una nuova economia del tempo (che abolisce le frontiere tra vita e lavoro) e dello spazio (con la messa in produzione della metropoli e dei territori), l’impresa non è da tempo «luogo» cruciale del conflitto, a sua volta allontanatosi dalle grandezze (orario, salario, organizzazione del lavoro) che davano le coordinate della lotta di classe nel fordismo. Ciò non significa che i conflitti sul lavoro siano scomparsi. Nei paesi emergenti sono spesso conflitti «orario e salario» che retroagiscono a livello globale; non pochi osservatori scommettono oggi su una parziale reindustrializzazione dei paesi occidentali. In Europa prendono forma intorno alla privatizzazione del settore pubblico e all’intensificarsi dello sfruttamento nelle produzioni a forte intensità di scala. Le lotte del lavoro, però, non hanno più assunto carattere generale né imposto l’agenda politica. Nonostante ciò, nella formazione soggettiva (politica) dei protagonisti delle nuove lotte nella crisi, le forme del potere e del comando nei rapporti di produzione non hanno parte marginale. La questione del precariato andrebbe osservata anche sotto questa luce.
A monte dei processi di politicizzazione di parte dei nuovi precari non è solo l’impossibilità di convertire gli investimenti educativi in (buona) occupazione, base discorsiva dei progetti di ristrutturazione del mercato del lavoro, ma anche la banalizzazione delle capacità individuali e sociali, come esito dell’«impresizzazione» del tempo e spazio sociale.
Il capitalismo contemporaneo (le imprese) si nutre delle prerogative biologiche, delle relazioni, dei pensieri dei produttori, al punto che lo stesso tempo di non lavoro è impresizzato, il consumo organizzato secondo criteri industriali, e molte attività sociali, nella rete e sul territorio, sussunte nel ciclo della valorizzazione. È la vita quotidiana, dunque, che tende a organizzarsi in senso imprenditoriale, poiché la lavorizzazione del sociale rende permeabili i confini tra impresa e società. Questo imperialismo della forma impresa sulle vite non può essere descritto come un potere impersonale: a monte della «cattura» del valore sociale esistono infatti catturatori organizzati. È necessario dunque chiedersi che parte abbiano le imprese in questa dinamica(1).
Nel capitalismo industriale l’impresa (il capitalista o il management al suo servizio) «orchestrava» la cooperazione sociale, organizzando direttamente mezzi «freddi» e uomini in rapporto tra loro. Il passaggio al capitalismo finanziario e cognitivo (che non allude in generale solo ad attività knowledge intensive, a fortiori nella provincia italiana) è trainato, viceversa, dal tendenziale divenire autonomo della cooperazione sociale; conoscenze, attitudini, linguaggi, sono mezzi di produzione «caldi» incorporati nel lavoro vivo. È questa capacità umana cooperante la base del processo di accumulazione dopo Ford. Ciò non significa che lo sfruttamento industriale sia scomparso. I creativi della Apple hanno sempre bisogno di una Foxconn, dall’altra o in questa parte del mondo, che produca i supporti materiali dei nuovi media, con i livelli di sfruttamento che tutti conoscono. Molte attività del cosiddetto «terziario superiore» sono oggi organizzate in forme del tutto prescrittive e seriali. Neanche nel capitalismo industriale, peraltro, il lavoro era solo prestazione fisica (i padroni pagavano quella, ma utilizzavano molte altre facoltà dei lavoratori). Tutto ciò non nega però l’evidenza di un salto di paradigma, consumatosi da decenni: piuttosto, ci dice che nel nuovo capitalismo convivono e s’ibridano più forme dell’accumulazione, modalità di comando sulla produzione, più storie del lavoro.
A fronte dell’autonomia del lavoro cognitivo e della sua capacità di autodirezione del processo produttivo sociale, si rischia d’immaginare che le imprese esistano come pura convenzione che sopravvive alla vecchia funzione direttiva. Chiariamo: laddove la produzione diventa comune, l’imprenditore schumpeteriano è morto: il capitale cattura a valle ciò che sempre meno riesce a organizzare a monte della produzione. Non per questo il controllo sul lavoro è divenutomeno importante. Leggiamo anzitutto in questi termini il progetto Monti-Fornero di riforma del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali. Un secondo rischio, indotto dall’immane potenza accumulata dal capitale finanziario, è pensare le imprese come «vittime» della «finanza globale» e delle sue logiche speculative. Questa rappresentazione vede convergere un certo localismo produttivistico «padano» e ampi settori di opinione pubblica progressista, nonché molti sindacalisti e attivisti dei movimenti. In essa scompare il legame osmotico che in realtà salda rendita e profitto; tra finanza e cosiddetta economia reale c’è molta più convergenza di quanto pretendano Confindustria e certi editorialisti vicini alle medie imprese del Made in Italy. Per una parziale ma più esaustiva messa a fuoco del funzionamento dell’impresa nel capitalismo cognitivo occorre volgere lo sguardo alle peculiari forme di governance del lavoro e della cooperazione sociale affermatesi negli ultimi decenni. L’impresa è sempre più, infatti, management di economie di rete e apprendimento, forma organizzata della cattura sulla cooperazione sociale e campo di soggettivazione del lavoro.
Proprio la rilevanza assunta dagli elementi soggettivi del lavoro vivo, presuppone che le capacità umane debbano essere costantemente ri-prodotte e lavorizzate (messe al lavoro). Il problema quotidiano, per i capitalisti, è trasformare capacità umana generica in «lavoro cognitivo», potenza in funzionamenti (valore economico e finanziario). Il lavoratore cognitivo deve essere reso quotidianamente disponibile a socializzare la sua capacità cognitiva, a rendere performanti corpo e mente, a incanalare esperienza, sapere, sentimenti in sequenze di pratiche generanti valore in modo non rituale e adempitivo. Nella formazione di questa disponibilità c’è sempre l’elemento del ricatto: la precarietà, l’indebitamento individuale e collettivo, la minaccia della delocalizzazione, quella dell’espulsione. Il ricatto non spiega tuttavia il consenso raccolto per anni, presso ampi strati di nuova composizione sociale e le generazioni entranti, dall’etica del lavoro «postfordista», «creativo», «della conoscenza»! A lungo tantissime persone hanno ritenuto, tramite il lavoro, di soddisfare bisogni di gratificazione personale, riconoscersi in un progetto, sentirsi utili o creativi. Nella transizione al capitalismo cognitivo e finanziario si era dunque realizzato un patto implicito tra nuova composizione del lavoro e capitale. È anche per questa ragione che possiamo sostenere che l’impresa del capitalismo finanziario e cognitivo è «forma corrotta del comune».
Questa soggettività cooperante e cognitiva è prodotta anzitutto nelle agenzie formative, in senso ristretto (scuole e università) e allargato (media, produzioni culturali ecc.); nessun progetto di cambiamento può saltare una riappropriazione dei processi formativi e delle istituzioni del welfare. Le imprese (o almeno molte di esse) non si limitano però a usare le capacità umane prodotte nelle istituzioni collettive, ma partecipano attivamente alla produzione del lavoratore cognitivo, come testimoniano lo sviluppo dei knowledge management systeme la crescente rilevanza di veri e propri dispositivi soggettivanti come la responsabilità sociale d’impresa, i diversity management, l’impronta etica. Come un parassita l’impresa si nutre delle energie vitali prodotte dalla cooperazione sociale, ma non è mai attore passivo. Dunque fatichiamo a intravedere progetti radicali di cambiamento che non affrontino questo nodo. Queste considerazioni hanno conseguenze politiche. Il dato nuovo su cui scommettere, nella crisi del capitalismo finanziario e cognitivo regolato secondo logiche neoliberali, è la diffusa messa in discussione dei dispositivi di assoggettamento che hanno funzionato per vent’anni. La crisi riconfigura il campo: ci troviamo di fronte a un salto reale, dove le persone hanno o avranno il problema di progettare e riprogettare le vite su nuove basi. Qui si apre lo spazio per immaginare un nuovo rapporto tra vita e lavoro, società e impresa, forza lavoro sociale e lavoro industriale.
Proprio il mancato incontro tra nuovi poveri che lavorano, classe operaia impoverita e frazioni di classi medie che esperiscono un declassamento, è alla radice di alcuni limiti, in termini di potere vulnerante, dei movimenti impostisi sulla scena in questi anni. Non si prefigura qui un’alleanza sociale sotto il segno della rappresentanza politica, ma una politica della composizione. Questa composizione non si dà naturalmente, neanche quando tra le differenti frazioni del lavoro sociale, a ben vedere, vi sarebbero interessi comuni. La riforma del mercato del lavoro, in teoria, apre al possibile incontro, sul terreno del commonfare e di un reddito di base incondizionato e universale, tra precariato e lavoro industriale privato degli ammortizzatori sociali fordisti. Non è così, nella realtà. Affinché composizione si dia, occorre un lavoro militante volto a moltiplicare le nostre fabbriche della soggettività, individuare i campi di sedimentazione di autonomia e i tratti di generalizzazione. La politica della composizione, in secondo luogo, deve sapere schierare intorno a obiettivi comuni una molteplicità di forme del conflitto. È evidente che il rifiuto del lavoro dell’operaio-massa non è riproducibile dentro le trasformazioni produttive degli ultimi decenni. E tuttavia, nel momento in cui l’intera composizione del lavoro vivo è socialmente espropriata, il punto è individuare quali forme di rifiuto siano praticabili, a partire dal rifiuto della socializzazione delle «responsabilità», ovvero dell’«interesse generale» del capitalismo in crisi. Da qui anche la necessità di approfondire la conoscenza dei movimenti atipici, come ad esempio quello dei forconi.
Lotte che deflagrano nella filiera gerarchica che connette produzione agricola, logistica, trasformazione, distribuzione. Sappiamo ancora poco di come lotta il lavoro cognitivo. Lo vediamo nelle lotte universitarie, nei movimenti Occupy, anche nel movimento No Tav. Assai poco nelle imprese. Parliamo di soggetti che non si percepiscono come lavoratori, la cui critica verso le gerarchie aziendali si fonda sul ritenere di «saper fare meglio» dei manager, il cui senso di frustrazione ha alla base la banalizzazione delle competenze. Più interessati, forse, a orientare la produzione (cosa e come produrre), impadronirsene dei fini, che non a bloccarla. E per le stesse ragioni, più propensi ad agire nel territorio per la difesa dei «beni comuni», che non all’interno dei rapporti di produzione classicamente intesi.Queste differenze e difficoltà, che sarebbe irresponsabile non vedere, costituiscono però anche la potenzialità di un programma comune tra forza operaia e forza cognitiva precaria, radicato nell’intera ricchezza della cooperazione sociale.

*Questo intervento recupera e sintetizza una serie di contributi prodotti dal Collettivo Uninomade nell’ambito del seminario Impresa e soggettività, tenutosi il 24 e 25 marzo a Torino, consultabili in http://uninomade.org/impresa-e-soggettivita/. Il Collettivo Uninomade è una rete di ricercatori e attivisti impegnati in un percorso di autoformazione e dibattito pubblico sui concetti, i linguaggi e le categorie che le esperienze teoriche e pratiche dei movimenti hanno espresso negli ultimi anni.
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1. «Marx rilevava che il ruolo fondamentale del capitalista nel processo produttivo, immanente ai meccanismi dello sfruttamento, era quello di predisporre le condizioni della cooperazione (portare gli operai in fabbrica, fornire i mezzi di produzione, organizzare un piano della cooperazione […] il capitalista assicura la cooperazione, Marx lo immagina come un direttore d’orchestra […] Nella produzione biopolitica il capitale non organizza più la produzione o perlomeno non nella stessa misura», M. Hardt, T. Negri, Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli, Milano 2010.

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