Ci sono libri attraverso i quali ciò che è nascosto appare alla vista, come quando il lampo illumina la notte. È il caso di «Territori in resistenza» (Nova Delphi) di Raúl Zibechi, scrittore e giornalista, autore di numerosi libri e articoli sui movimenti sociali. Zibechi racconta le periferie urbane in America latina, nelle quali a suo modo di vedere germogliano «le principali sfide al sistema dominante». Al centro delle attenzioni di questa indagine ci sono «los de abajo», un ampio ed eterogeneo insieme di persone che include tutti coloro che subiscono oppressione ma resistono ai poteri in molti modi, più o meno organizzati, creando spazi di autonomia. A nostro avviso, «Territori in resistenza» riesce a illuminare anche pezzi di città europee, aldilà del contesto differente, a cominciare da Roma. Perché il libro parte da una consapevolezza importante: ovunque, in America latina come in Italia, mancano linguaggi capaci di captare «i flussi invisibili allo sguardo verticale, lineare, della nostra cultura maschile, saccente e razionale». Eppure oggi i cambiamenti sociali profondi si moltiplicano proprio grazie a quei flussi. E allora mettiamoci alla ricerca di coloro che creano spazi orizzontali di autonomia, certo non privi di limiti, ma che trasformano paure e povertà in luce.
Nella sua analisi Zibechi richiama, tra gli altri, Immanuel Wallerstein, secondo il quale nelle periferie confluiscono alcune delle principali fratture che attraversano il capitalismo: etniche, di classe, di genere. Le periferie sarebbero «i territori della spoliazione quasi assoluta», ma anche luoghi «della speranza» perché in grado di accogliere forme e reti di interscambio reciproco. L’autore racconta ad esempio l’importanza dei mercati e del commercio al dettaglio, degli orti condivisi, dei comedores populares, cioè le cucine e gli acquisti collettivi diffusi soprattutto in Perù. È in microspazi di vita quotidiana come questi che «los de abajo» esercitano i loro diritti di cittadinanza, maturano dignità e nuove forme di ribellione, raggiungono spesso risultati sorprendenti. Qualche esempio? Il movimento dei contadini senza terra del Brasile, senza aspettare di prendere il potere statale, ha conquistato in meno di trent’anni 22 milioni di ettari, una superficie superiore a quella di diversi paesi europei. Dal 2001 in Argentina si sono invece formate 205 fabbriche recuperate, cioè abbandonate dai padroni, occupate e poi autogestite dai lavoratori attraverso cooperative. Oggi sono tutte funzionanti. Quelle fabbriche sono importanti perché dimostrano che gli operai sono in grado di modificare in modo autonomo l’organizzazione del lavoro. «In diverse fabbriche sono stati creati laboratori culturali, radio comunitarie e spazi di dibattiti e scambi, riuscendo talora a creare reti di distribuzione ai margini del mercato», aggiunge Zibechi. In queste iniziative il lavoro alienante non è più la forma dominante grazie alla rotazione delle mansioni e alla consapevolezza acquisita dagli operai. E la produzione di beni per il mercato (valore di scambio) è subordinata alla produzione del valore d’uso. Di fatto, quelle fabbriche non vendono al mercato, dato che hanno consolidato relazioni di fiducia con clienti fissi. Il paradigma tradizionale del lavoro viene quindi messo in discussione sotto diversi punti di vista.
I comedores populares, gruppi autogestiti di cucine collettive diffusi a Lima durante la crisi, sono invece nati negli anni ‘80 per sostenere i più impoveriti, sempre meno in grado di provvedere ai propri pasti. Tramite questi gruppi il cibo viene comprato a prezzi ridotti, in quanto acquisti collettivi, cucinato e distribuito. Un’indagine di qualche anno fa, ricorda Zibechi, ne censiva settemila, ognuno mediamente composto da 22 volontari, per lo più donne dello stesso barrio. Ogni comedor fornisce un centinaio di pasti al giorno. Di fatto, le donne dei comedores non producono merce e non operano per il mercato ma per persone conosciute.
Anche gli orti autogestiti hanno costituito una maniera di affrontare la crisi alimentare dei ceti più poveri in diverse città latinoamericane e una parte di essi ha continuato a funzionare malgrado la «ripresa» economica. In alcuni casi sono sorti su terreni di case private e coltivate da nuclei familiari con l’aiuto dei vicini; in altri sono sorti su terreni pubblici occupati dalle famiglie. In ogni caso si sono dimostrati utili al bisogno di cibo e straordinari canali per la ricomposizione dei legami sociali. Zibechi, a tal proposito, cita un racconto di un gruppo di donne di un orto comunitario di Montevideo, pubblicato dalla rivista uruguaiana Multiversidad: «All’inizio avevamo una scheda dove ciascuno annotava le ore lavorate e al momento del raccolto questo veniva diviso in funzione delle ore lavorate. Con sorpresa, nel corso di una riunione, fu proposto di non segnare più le ore. Infatti il gruppo cominciava ad avere una coscienza comunitaria. Così si continua a fare ancora oggi. Al termine delle ore di lavoro ciascuno ritira ciò che serve per la propria famiglia».
La descrizione di questi e altri movimenti in «Territori e resistenze» dimostrano che siamo di fronte a un complesso di attività basate su legami sociali di tipo nuovo. Di sicuro, oggi il grado di anticapitalismo di un movimento, secondo Zibechi, «non deriva più solo dal ruolo occupato (operaio, contadino…), né dal programma che si enuncia, dalle dichiarazioni o dall’intensità delle mobilitazioni, bensì anche… dal carattere dei legami sociali che si creano». Se davvero le cose stanno così allora vale la pena cominciare a valutare sotto questi punti di vista anche la società in movimento a Roma. Le «lenti di ingrandimento» utilizzate da Zibechi permettono di rilevare in tutta la loro importanza e complessità alcune tendenze in corso: basta osservare quelli che si occupano degli orti urbani e dei Gruppi di acquisto solidale, quelli che preparano e sperimentano forme di mobilità in bicicletta, infine, i gruppi che lavorano sulla cultura come bene comune. Vediamoli meglio questi tre pezzi di società in grande movimento, anche se frammentato e disperso.
Buona parte delle cento e più aree che ospitano orti urbani censite da Zappata romana, così come la gran parte dei circa settanta/ottanta Gruppi di acquisto solidale presenti a Roma e in provincia, soltanto quattro o cinque anni fa non esistevano. Sono tutte esperienze autogestite nate in modo spontaneo. In «Seminiamo zucchine, raccogliamo relazioni sociali», Luca D’Eusebio di Zappata romana, oltre a ricordare la vocazione storica di Roma a ospitare orti dentro e fuori le mura, spiega come in questi orti e giardini condivisi c’è chi lavora «insieme a ragazzi con disabilità, chi per reinserire lavoratori in mobilità, chi per la produzione alimentare o l’educazione ambientale, chi per fare un presidio contro la speculazione edilizia, chi per creare una oasi di relax, per decoro o semplicemente per coltivare. Queste esperienze, a differenza di quanto avveniva in passato, quando pure gli orti a Roma non mancavano, coinvolgono ampie fasce di cittadini costituendo una potenzialità per la costruzione di nuove relazioni sociali in contesti periferici: centri anziani, condomini, parrocchie, gruppi scout, associazioni ambientali, culturali, sociali e ambientaliste». Il Gruppi di acquisto solidale sono invece un modo collettivo di fare gli acquisti attraverso il quale si sceglie di sostenere piccoli produttori, di consumare cibo bio e di filiera corta, di favorire nuove relazioni sociali tra i «gasisti» e tra questi e i produttori, ma soprattutto si evitano intermediazioni inutili e costose per il portafogli e per l’ambiente. «Ma il Gas è anche un modo per mettere in discussione il proprio stile di vita – scrive Annarita Sacco in «Roma, acqua e sapone» (guida sociale su Roma, edita da Intra moenia) – Non è soltanto un modo collettivo di fare gli acquisti, ma è “solidale”… Chi l’ha detto che il cibo buono e sano deve essere un privilegio per pochi? Chi l’ha detto che non esistono alternative credibili all’agricoltura intensiva e alla grande distribuzione?».
Per indagare il secondo pezzo di società, partiamo dalla Critical mass, movimento nato negli Stati uniti a inizio degli anni ‘90. «A Roma è arrivata nel 2003 e subito ha incontrato lo spirito del ciclismo romano – spiega Michelangelo Alimenti in «La rivolta senza leader e percorsi» – Già dall’anno successivo i ciclisti romani scelsero di festeggiarne il compleanno con la “Ciemmona”, le lettere iniziali di Critical Mass, romana. Ogni anno l’evento ha visto scendere in strada un numero sempre maggiore di ciclisti, in modo colorato ma allo stesso tempo critico nei confronti di un sistema di trasporto basato sull’auto, sul consumo di territorio, di risorse energetiche, di spazi di socialità, tutti temi cari a chi ha scelto la bicicletta come mezzo di trasporto». A dimostrare che in città su questi temi il cambiamento in corso è importante sono anche le ciclofficine sempre più diffuse e frequentate, la crescita del numero di persone che sceglie di recarsi a lavoro con la bici (anche in risposta al caro benzina e all’aumento del prezzo del biglietto dei mezzi pubblici) e il successo di altre iniziative, come la campagna Salvaiciclisti per la sicurezza in strada, che ha costretto il consiglio comunale ad approvare in fretta (e con finanziamenti dimezzati), il Piano della ciclabilità voluto dai cittadini.
Il terzo laboratorio sociale romano interessante è quello culturale. In questi giorni Roma festeggia il primo compleanno del Teatro Valle occupato e lo fa, tra l’altro, promuovendo la campagna per il sostegno alla Fondazione Valle Bene Comune, quale forma per una gestione partecipata e senza precedenti del teatro. Qualche mese fa, Sabina e Caterina Guzzanti, Elio Germano, Valerio Mastandrea, Andrea Satta e molti altri hanno festeggiato invece un anno di occupazione dell’ex cinema Palazzo a San Lorenzo. Insieme al Teatro Lido di Ostia, all’Angelo Maj e all’Astra, sono gli spazi nei quali si è diffuso un corto circuito culturale e sociale che gode di un consenso e di una partecipazione da parte dei cittadini enorme. Che si è diffuso anche in altre città. Perché in questi spazi affiorano pratiche e contenuti che sono già un nuovo modello di creare cultura e arte per le modalità collettive e partecipate, non dipendenti dalla dittatura del profitto. A Roma più di altre città, forse per la lunga storia dei movimenti di occupazione (di cui oggi Action e la straordinaria esperienza di occupazione interculturale del Metropoliz sono il volto più noto e organizzato per quanto riguarda il diritto all’abitare), questa spinta culturale si è intrecciata con altri due percorsi. Da una parte con l’esigenza di avere spazi e quindi con la legittimità dell’occupazione: molti gruppi di cittadini infatti hanno cominciato a entrare nei cinema e nei teatri abbandonati per riattivarli, per evitare che muoiano oppure che si trasformino in sale da gioco, supermercati, costosi appartamenti, per ritrasformarli invece in spazi pubblici, in beni comuni. Dall’altra parte, questi spazi culturali sono anche diventati i luoghi nei quali lavoratori e lavoratrici della conoscenza autonomi e di diversi ambiti hanno cominciato un percorso di cooperazione e di mutualismo, di difesa dei diritti del lavoro, di ribaltamento della propria precarietà, partendo dall’idea di bene comune: è la rete nazionale del Quinto Stato, il cui pezzo romano è di sicuro il più vivace.
Questi tre pezzi di società (orti urbani e Gas, «cicloamatori», nuovi spazi culturali) sono causa ed effetto a Roma di nuovi percorsi autonomi di trasformazione sociale e, con diverse sfumature, anche in altre città del Nord e del Sud del mondo. In un recente saggio Gustavo Esteva scrive: «Il recupero dei verbi sembra essere il denominatore comune delle iniziative che si stanno prendendo nella base sociale. La gente sostituisce sostantivi come educazione, salute o alloggio, che sarebbero le “necessità” la cui soddisfazione dipende da enti pubblici o privati, con verbi come apprendere, guarire o abitare. Recupera così rappresentanza personale e collettiva e rende possibili percorsi autonomi di trasformazione sociale. Esplorare quello che sta avvenendo nella sfere della vita quotidiana dove questo avviene mostra il carattere dell’insurrezione in corso». Ecco, una dimensione comune a queste trasformazioni sociali è la scelta di partire dalla sfera della vita quotidiana (il cibo, la mobilità, il bisogno di cultura e di spazi sociali). Una seconda dimensione comune è invece l’idea che non occorra resistere per aspettare i tempi del cambiamento e meno ancora delegare a rappresentanti politici: le trasformazioni sociali sono prodotte dai movimenti proprio perché, in essi nascono e crescono forme di legami sociali che, per dirla con Zibechi, sono già «la calce del mondo nuovo». Una terza dimensione comune è vivere il cambiamento come sospensione delle relazioni capitalistiche.
Ma il libro di Zibechi aiuta indirettamente a sostenere la spinta di questi movimenti romani perché smonta anche un altro luogo comune radicato: i movimenti e i cambiamenti sociali si verificano con l’unità e l’organizzazione. In realtà, lo dimostra la storia «los de abajo», le maggiori difficoltà i movimenti le vivono quando crescono, quando aumenta la loro visibilità, quando inseguono l’idea di dover avere per forza un’organizzazione strutturata e un programma chiaro e definito, quando insomma si immagina di metter su una ribellione organizzata (un ossimoro per Zibechi) invece di liberare le energie e la creatività che solo la frammentazione è in grado di assicurare.
Di certo, la lettura di questo libro e l’esplorazione di cosa sta accadendo a Roma sotto traccia favoriscono l’idea che, nonostante tutto, un processo di accumulazione di forze tanto invisibile quanto potente è in corso.
Nella sua analisi Zibechi richiama, tra gli altri, Immanuel Wallerstein, secondo il quale nelle periferie confluiscono alcune delle principali fratture che attraversano il capitalismo: etniche, di classe, di genere. Le periferie sarebbero «i territori della spoliazione quasi assoluta», ma anche luoghi «della speranza» perché in grado di accogliere forme e reti di interscambio reciproco. L’autore racconta ad esempio l’importanza dei mercati e del commercio al dettaglio, degli orti condivisi, dei comedores populares, cioè le cucine e gli acquisti collettivi diffusi soprattutto in Perù. È in microspazi di vita quotidiana come questi che «los de abajo» esercitano i loro diritti di cittadinanza, maturano dignità e nuove forme di ribellione, raggiungono spesso risultati sorprendenti. Qualche esempio? Il movimento dei contadini senza terra del Brasile, senza aspettare di prendere il potere statale, ha conquistato in meno di trent’anni 22 milioni di ettari, una superficie superiore a quella di diversi paesi europei. Dal 2001 in Argentina si sono invece formate 205 fabbriche recuperate, cioè abbandonate dai padroni, occupate e poi autogestite dai lavoratori attraverso cooperative. Oggi sono tutte funzionanti. Quelle fabbriche sono importanti perché dimostrano che gli operai sono in grado di modificare in modo autonomo l’organizzazione del lavoro. «In diverse fabbriche sono stati creati laboratori culturali, radio comunitarie e spazi di dibattiti e scambi, riuscendo talora a creare reti di distribuzione ai margini del mercato», aggiunge Zibechi. In queste iniziative il lavoro alienante non è più la forma dominante grazie alla rotazione delle mansioni e alla consapevolezza acquisita dagli operai. E la produzione di beni per il mercato (valore di scambio) è subordinata alla produzione del valore d’uso. Di fatto, quelle fabbriche non vendono al mercato, dato che hanno consolidato relazioni di fiducia con clienti fissi. Il paradigma tradizionale del lavoro viene quindi messo in discussione sotto diversi punti di vista.
I comedores populares, gruppi autogestiti di cucine collettive diffusi a Lima durante la crisi, sono invece nati negli anni ‘80 per sostenere i più impoveriti, sempre meno in grado di provvedere ai propri pasti. Tramite questi gruppi il cibo viene comprato a prezzi ridotti, in quanto acquisti collettivi, cucinato e distribuito. Un’indagine di qualche anno fa, ricorda Zibechi, ne censiva settemila, ognuno mediamente composto da 22 volontari, per lo più donne dello stesso barrio. Ogni comedor fornisce un centinaio di pasti al giorno. Di fatto, le donne dei comedores non producono merce e non operano per il mercato ma per persone conosciute.
Anche gli orti autogestiti hanno costituito una maniera di affrontare la crisi alimentare dei ceti più poveri in diverse città latinoamericane e una parte di essi ha continuato a funzionare malgrado la «ripresa» economica. In alcuni casi sono sorti su terreni di case private e coltivate da nuclei familiari con l’aiuto dei vicini; in altri sono sorti su terreni pubblici occupati dalle famiglie. In ogni caso si sono dimostrati utili al bisogno di cibo e straordinari canali per la ricomposizione dei legami sociali. Zibechi, a tal proposito, cita un racconto di un gruppo di donne di un orto comunitario di Montevideo, pubblicato dalla rivista uruguaiana Multiversidad: «All’inizio avevamo una scheda dove ciascuno annotava le ore lavorate e al momento del raccolto questo veniva diviso in funzione delle ore lavorate. Con sorpresa, nel corso di una riunione, fu proposto di non segnare più le ore. Infatti il gruppo cominciava ad avere una coscienza comunitaria. Così si continua a fare ancora oggi. Al termine delle ore di lavoro ciascuno ritira ciò che serve per la propria famiglia».
La descrizione di questi e altri movimenti in «Territori e resistenze» dimostrano che siamo di fronte a un complesso di attività basate su legami sociali di tipo nuovo. Di sicuro, oggi il grado di anticapitalismo di un movimento, secondo Zibechi, «non deriva più solo dal ruolo occupato (operaio, contadino…), né dal programma che si enuncia, dalle dichiarazioni o dall’intensità delle mobilitazioni, bensì anche… dal carattere dei legami sociali che si creano». Se davvero le cose stanno così allora vale la pena cominciare a valutare sotto questi punti di vista anche la società in movimento a Roma. Le «lenti di ingrandimento» utilizzate da Zibechi permettono di rilevare in tutta la loro importanza e complessità alcune tendenze in corso: basta osservare quelli che si occupano degli orti urbani e dei Gruppi di acquisto solidale, quelli che preparano e sperimentano forme di mobilità in bicicletta, infine, i gruppi che lavorano sulla cultura come bene comune. Vediamoli meglio questi tre pezzi di società in grande movimento, anche se frammentato e disperso.
Buona parte delle cento e più aree che ospitano orti urbani censite da Zappata romana, così come la gran parte dei circa settanta/ottanta Gruppi di acquisto solidale presenti a Roma e in provincia, soltanto quattro o cinque anni fa non esistevano. Sono tutte esperienze autogestite nate in modo spontaneo. In «Seminiamo zucchine, raccogliamo relazioni sociali», Luca D’Eusebio di Zappata romana, oltre a ricordare la vocazione storica di Roma a ospitare orti dentro e fuori le mura, spiega come in questi orti e giardini condivisi c’è chi lavora «insieme a ragazzi con disabilità, chi per reinserire lavoratori in mobilità, chi per la produzione alimentare o l’educazione ambientale, chi per fare un presidio contro la speculazione edilizia, chi per creare una oasi di relax, per decoro o semplicemente per coltivare. Queste esperienze, a differenza di quanto avveniva in passato, quando pure gli orti a Roma non mancavano, coinvolgono ampie fasce di cittadini costituendo una potenzialità per la costruzione di nuove relazioni sociali in contesti periferici: centri anziani, condomini, parrocchie, gruppi scout, associazioni ambientali, culturali, sociali e ambientaliste». Il Gruppi di acquisto solidale sono invece un modo collettivo di fare gli acquisti attraverso il quale si sceglie di sostenere piccoli produttori, di consumare cibo bio e di filiera corta, di favorire nuove relazioni sociali tra i «gasisti» e tra questi e i produttori, ma soprattutto si evitano intermediazioni inutili e costose per il portafogli e per l’ambiente. «Ma il Gas è anche un modo per mettere in discussione il proprio stile di vita – scrive Annarita Sacco in «Roma, acqua e sapone» (guida sociale su Roma, edita da Intra moenia) – Non è soltanto un modo collettivo di fare gli acquisti, ma è “solidale”… Chi l’ha detto che il cibo buono e sano deve essere un privilegio per pochi? Chi l’ha detto che non esistono alternative credibili all’agricoltura intensiva e alla grande distribuzione?».
Per indagare il secondo pezzo di società, partiamo dalla Critical mass, movimento nato negli Stati uniti a inizio degli anni ‘90. «A Roma è arrivata nel 2003 e subito ha incontrato lo spirito del ciclismo romano – spiega Michelangelo Alimenti in «La rivolta senza leader e percorsi» – Già dall’anno successivo i ciclisti romani scelsero di festeggiarne il compleanno con la “Ciemmona”, le lettere iniziali di Critical Mass, romana. Ogni anno l’evento ha visto scendere in strada un numero sempre maggiore di ciclisti, in modo colorato ma allo stesso tempo critico nei confronti di un sistema di trasporto basato sull’auto, sul consumo di territorio, di risorse energetiche, di spazi di socialità, tutti temi cari a chi ha scelto la bicicletta come mezzo di trasporto». A dimostrare che in città su questi temi il cambiamento in corso è importante sono anche le ciclofficine sempre più diffuse e frequentate, la crescita del numero di persone che sceglie di recarsi a lavoro con la bici (anche in risposta al caro benzina e all’aumento del prezzo del biglietto dei mezzi pubblici) e il successo di altre iniziative, come la campagna Salvaiciclisti per la sicurezza in strada, che ha costretto il consiglio comunale ad approvare in fretta (e con finanziamenti dimezzati), il Piano della ciclabilità voluto dai cittadini.
Il terzo laboratorio sociale romano interessante è quello culturale. In questi giorni Roma festeggia il primo compleanno del Teatro Valle occupato e lo fa, tra l’altro, promuovendo la campagna per il sostegno alla Fondazione Valle Bene Comune, quale forma per una gestione partecipata e senza precedenti del teatro. Qualche mese fa, Sabina e Caterina Guzzanti, Elio Germano, Valerio Mastandrea, Andrea Satta e molti altri hanno festeggiato invece un anno di occupazione dell’ex cinema Palazzo a San Lorenzo. Insieme al Teatro Lido di Ostia, all’Angelo Maj e all’Astra, sono gli spazi nei quali si è diffuso un corto circuito culturale e sociale che gode di un consenso e di una partecipazione da parte dei cittadini enorme. Che si è diffuso anche in altre città. Perché in questi spazi affiorano pratiche e contenuti che sono già un nuovo modello di creare cultura e arte per le modalità collettive e partecipate, non dipendenti dalla dittatura del profitto. A Roma più di altre città, forse per la lunga storia dei movimenti di occupazione (di cui oggi Action e la straordinaria esperienza di occupazione interculturale del Metropoliz sono il volto più noto e organizzato per quanto riguarda il diritto all’abitare), questa spinta culturale si è intrecciata con altri due percorsi. Da una parte con l’esigenza di avere spazi e quindi con la legittimità dell’occupazione: molti gruppi di cittadini infatti hanno cominciato a entrare nei cinema e nei teatri abbandonati per riattivarli, per evitare che muoiano oppure che si trasformino in sale da gioco, supermercati, costosi appartamenti, per ritrasformarli invece in spazi pubblici, in beni comuni. Dall’altra parte, questi spazi culturali sono anche diventati i luoghi nei quali lavoratori e lavoratrici della conoscenza autonomi e di diversi ambiti hanno cominciato un percorso di cooperazione e di mutualismo, di difesa dei diritti del lavoro, di ribaltamento della propria precarietà, partendo dall’idea di bene comune: è la rete nazionale del Quinto Stato, il cui pezzo romano è di sicuro il più vivace.
Questi tre pezzi di società (orti urbani e Gas, «cicloamatori», nuovi spazi culturali) sono causa ed effetto a Roma di nuovi percorsi autonomi di trasformazione sociale e, con diverse sfumature, anche in altre città del Nord e del Sud del mondo. In un recente saggio Gustavo Esteva scrive: «Il recupero dei verbi sembra essere il denominatore comune delle iniziative che si stanno prendendo nella base sociale. La gente sostituisce sostantivi come educazione, salute o alloggio, che sarebbero le “necessità” la cui soddisfazione dipende da enti pubblici o privati, con verbi come apprendere, guarire o abitare. Recupera così rappresentanza personale e collettiva e rende possibili percorsi autonomi di trasformazione sociale. Esplorare quello che sta avvenendo nella sfere della vita quotidiana dove questo avviene mostra il carattere dell’insurrezione in corso». Ecco, una dimensione comune a queste trasformazioni sociali è la scelta di partire dalla sfera della vita quotidiana (il cibo, la mobilità, il bisogno di cultura e di spazi sociali). Una seconda dimensione comune è invece l’idea che non occorra resistere per aspettare i tempi del cambiamento e meno ancora delegare a rappresentanti politici: le trasformazioni sociali sono prodotte dai movimenti proprio perché, in essi nascono e crescono forme di legami sociali che, per dirla con Zibechi, sono già «la calce del mondo nuovo». Una terza dimensione comune è vivere il cambiamento come sospensione delle relazioni capitalistiche.
Ma il libro di Zibechi aiuta indirettamente a sostenere la spinta di questi movimenti romani perché smonta anche un altro luogo comune radicato: i movimenti e i cambiamenti sociali si verificano con l’unità e l’organizzazione. In realtà, lo dimostra la storia «los de abajo», le maggiori difficoltà i movimenti le vivono quando crescono, quando aumenta la loro visibilità, quando inseguono l’idea di dover avere per forza un’organizzazione strutturata e un programma chiaro e definito, quando insomma si immagina di metter su una ribellione organizzata (un ossimoro per Zibechi) invece di liberare le energie e la creatività che solo la frammentazione è in grado di assicurare.
Di certo, la lettura di questo libro e l’esplorazione di cosa sta accadendo a Roma sotto traccia favoriscono l’idea che, nonostante tutto, un processo di accumulazione di forze tanto invisibile quanto potente è in corso.
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