Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 6 ottobre 2012

Solo Marte ci salverà

Fonte: il manifesto | Autore: Joseph Halevi
      
Le dichiarazioni del primo ministro greco Samaras al quotidiano economico tedesco Handelsblatt che per dicembre prevede il precipitare della Grecia nel baratro che inghiottì la repubblica di Weimar, hanno impressionato i siti dei maggiori giornali italiani.
Ma delle parole del premier greco non c’è da stupirsi. Solo gli zeloti dell’austerità potevano credere che il varo del pacchetto della troika e l’accettazione, da parte del governo Pasok e poi di quello di Samaras, di terrificanti tagli alle pensioni, agli ospedali, alle scuole, agli stipendi avrebbe potuto salvare la il paese. A luglio le stime riguardo ulteriori decurtazioni erano di 11,5 miliardi di euro, ad agosto si parlava di 13,5 miliardi mentre ora i tagli richiesti per usufruire della tranche del pacchetto della Troika sono di 20 miliardi. Non si tratta della scoperta di nuovi deficit bensì della voragine nel bilancio causata dal crollo dei redditi, e quindi del gettito fiscale a seguito dell’austerità attuata fino a oggi. Spagna, Portogallo, Grecia e Italia mostrano che non si esce dal debito (pubblico) imponendo politiche restrittive. Fra breve la Francia cadrà sotto la mannaia di Hollande e confermerà quanto sopra a meno che non ci sia una grande ripresa altrove: è improbabile però che avvenga negli Usa e che la Cina ripeta l’exploit del 2009. Quindi dovrà avvenire su Marte che, sebbene disabitato, domanderà tanti di quei prodotti dalla Terra da riattivare anche l’eurozona la cui crisi globale sta lambendo ormai Germania.
La situazione è talmente grave che è da auspicare qualsiasi spesa, purché sia una spesa effettiva, anche la costruzione di una strada o di un ponte che non verranno mai utilizzati. Sulla fine della repubblica di Weimar circola una leggenda metropolitana alimentata alacremente dai politici tedeschi col consenziente silenzio di quelli del resto dell’Europa. La crisi di Weimar e l’ascesa al potere dei nazisti sarebbe dovuta all’iperinflazione che colpì la Germania dopo la prima guerra mondiale. Ma l’inflazione avvenne nei primi anni venti. Furono la deflazione e la disoccupazione della Grande Depressione del decennio successivo, non l’inflazione, a uccidere la Repubblica di Weimar. Così come oggi l’austerità e la conseguente deflazione stanno travolgendo le popolazioni europee.

«Siamo arrabbiati perché ci stanno rubando il futuro»

Fonte: il manifesto | Autore: Giorgio Salvetti
  
Intervista ad uno studente liceale che ha manifestato
Ludo ha 18 anni. Studia in un liceo di Lambrate, zona Città Studi, a Milano. Ieri era tra gli studenti che hanno manifestato e che sono stati caricati dalla polizia mentre cercavano di portare la loro protesta sotto il grattacielo della Regione Lombardia.

Siamo al solito corteo di inizio dell’anno scolastico con annesse scaramucce con la polizia, o quest’anno c’è qualcosa di diverso? Sono cinque anni che mi muovo nei coordinamenti studenteschi, ma questo è il primo anno che al governo c’è Monti. Questa mattina il mio coordinamento era alla sua prima manifestazione e sono venuti tanti studenti. A Milano ci sono stati tre cortei, uno partito da largo Cairoli, uno, il nostro, da Porta Venezia, e poi uno spezzono che si è staccato dal corteo di Cairoli e ci ha raggiunto per andare in Regione. Protestiamo per la scuola pubblica, certo.
Cioè? Per esempio contro la legge Aprea, una legge regionale che apre i consigli d’amministrazione delle scuole ai privati. Ma anche per la possibilità data ai prèsidi di scegliere i professori fuori dalle graduatorie in base a considerazioni che potrebbero essere personali o addirittura politiche. Ma poi per l’atmosfera pessima che si respira a scuola…
A cosa ti riferisci? Ho sentito che il governo Monti vuole digitalizzare la scuola. Ma di che parlano? Monti non ha fatto altro che tagliare. Da noi ci sono lavagne multimediali, non funzionano e sono chiuse negli sgabuzzini, ma mancano le stanze, una classe deve fare lezione in corridoio. Vivere in questa situazione quando in tv si vedono Fiorito e le sfilate della Minetti fa davvero arrabbiare. Per questo volevamo protestare sotto la Regione con i lavoratori della Nokia e della Jabil. E invece ce l’hanno impedito.
Cosa è successo? Un forte spiegamento di forze dell’ordine ci ha bloccato e ci ha caricato. Per noi è solo il segnale che le istituzioni sanno di avere fallito, hanno paura e si difendono in questo modo.
Davvero queste manifestazioni fanno paura? Non siamo nè in Grecia né in Spagna, non ti sembra di esagerare? Sì, è vero da noi non c’è ancora la mobilitazione che c’è in altri paesi. Ma i motivi sono gli stessi. Noi protestiamo per la scuola, ma soprattutto perché abbiamo paura di quello che ci succederà dopo la scuola. Mi viene il magone se penso a quanta strada mi manca per avere un lavoro e una casa, se li avrò mai, e per trovare i soldi per fare l’università. Questo non ha niente a che fare con il rito iniziatico delle proteste studentesche. Queste sono paure fondate che producono una rabbia autentica inconciliabile con gli scandali della politica o con le politiche messe in campo dal governo Monti. Per questo non sottovaluterei queste manifestazioni. Noi ragazzi siamo arrabbiati, ma anche le famiglie e i professori non riescono più a darci torto.

Il tramonto dei manager.

di Vincenzo Comito - fonte -

Torna il capitalismo familiare (e quello di stato)

            
Col tramonto del liberismo, nei paesi ricchi vacilla il capitalismo dei manager, schiacciati sui profitti di breve periodo. Torna il capitalismo familiare e le imprese di stato nei settori chiave. È il momento di ripensare la forma dell’impresa e i problemi di proprietà, controllo, democrazia
Come funzionano banche e imprese? L’ideologia neoliberista aveva le idee chiare sui comportamenti di chi opera al cuore del capitalismo: massimizzazione dei profitti, riduzione dei costi di transazione, efficienza dei mercati. Ma quelle idee risultano ora sempre più confuse e lontane dalle trasformazioni in corso. Si pensi al tema delle banche. L’intermediazione finanziaria veniva considerata come un fenomeno transitorio, caratteristico dei paesi finanziariamente arretrati, mentre in quelli avanzati si sarebbero sempre più affermate forme di collegamento diretto, sul mercato, tra operatori in deficit e operatori in surplus finanziario (Gurley e Shaw, 1960). Ma la realtà non sembra avere confortato tale visione. Le banche, anche quelle di tipo più classico, tendono a essere presenti in forze su tutti i mercati, sia pure in forme e con un peso differente da paese a paese, come le recenti vicende della crisi hanno anche purtroppo dimostrato.
Un fenomeno analogo di falsa rappresentazione della realtà si è manifestato sul fronte dei meccanismi di proprietà e controllo delle imprese.
Modello di mercato e modello bancario
È noto come la grande impresa moderna nasca tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento in Europa e negli Stati Uniti, in particolare nei settori della chimica organica, dell’elettricità, del motore a scoppio. Un problema di questa nuova struttura era costituito dalla necessità di reperire grandi quantità di capitali per finanziare gli ingenti investimenti richiesti dallo sviluppo di tali business.
Negli Stati Uniti, dal momento che le imprese familiari non sembravano in grado di provvedere alla bisogna, si ricorre al mercato. Si assiste così al frazionamento del capitale delle imprese, che viene ceduto in borsa, arrivando in certi casi ad avere società i cui azionisti si contavano anche in centinaia di migliaia di unità, nessuno dei quali in grado di influenzare in maniera significativa la gestione; parallelamente la gestione delle imprese viene affidata ad un management professionale. E’ il modello dell’impresa manageriale o “public company”.
Sulla base di questa esperienza molti teorizzano che tale soluzione al problema sia inevitabile nel tempo per tutti i paesi.
Si era teorizzato anche, negli anni della guerra fredda, che con il fenomeno della “public company” si realizzava l’avvento del “capitalismo popolare”; più recentemente, poi, G.W. Bush, sulla stessa linea, aveva enunciato lo slogan “tutti proprietari”.
In effetti, mentre nel 1929 il potere di governo nelle 200 imprese più grandi degli Stati Uniti era ancora per il 42% dei casi nelle mani di un gruppo azionario forte e nel 40,5% dei casi nelle mani del management, nel 1974 ormai solo il 16% delle imprese vedeva presente un gruppo azionario forte, mentre nell’82,5% dei casi esse erano nelle mani del management (Comito, Piccari, 2002).
Le ragioni del trionfo di tale modello era da ricercarsi da una parte nel fatto che si riuscivano così a trovare facilmente sul mercato i fondi necessari allo sviluppo, dall’altra alla presenza della responsabilità solo limitata degli azionisti, nonché alla possibilità di lasciare la gestione a dei professionisti, superando i problemi rilevabili nel caso dell’impresa familiare.
Bisogna a questo punto ricordare che, al momento del primo sviluppo della grande impresa moderna, il modello della “public company” non era stato l’unico trovato per risolvere il problema dei capitali necessari alla crescita. Così, in Germania si fece ricorso all’intervento delle banche, che diventano socie a pieno titolo in molte delle grandi società a fianco delle famiglie tradizionali, preservando quindi, almeno in parte, l’impresa a conduzione familiare. Un fenomeno non molto diverso si svilupperà poi in un paese come il Giappone.
Ricordiamo inoltre come in Europa occidentale e in particolare a partire dalla fine della seconda guerra mondiale si sia affermato anche un modello forte di proprietà pubblica dell’economia; sottolineiamo infine che nei paesi conquistati dal comunismo la proprietà pubblica dei mezzi di produzione era la regola.

venerdì 5 ottobre 2012

Dall’Europa al Medio Oriente attualità del «format jugoslavo

Fonte: il manifesto | Autore: Tommaso Di Francesco
  
È più d’una suggestione: è il teatro europeo e mondiale che ogni giorno rappresenta un «format jugoslavo», ripetutamente utilizzato negli ultimi due anni. Con l’ultima guerra «umanitaria» della Nato in Libia, anche se ora, per la crisi in Siria, nonostante chiari venti di nuova guerra, pare difficile quanto esplosivo una pura e semplice copia-incolla del modello; poi, con un ruolo formativo nelle rivolte arabe dell’associazione Otpor, considerata a torto la protagonista della cacciata di Milosevic; e anche con le dichiarazioni di fine 2011 di Hillary Clinton che auspicavano «rivoluzioni arabe» in Cina. Mentre in Europa si rompono gli equilibri e si apre la contrapposizione dei paesi ricchi, «formiche», virtuosi verso i paesi poveri, «cicale», corrotti.
Così come all’interno di ogni paese europeo (Catalogna, il Nord italiano ecc.). Proprio come accadde nella Federazione jugoslava a partire dalla grave crisi economica interna del 1985 che ruppe la solidarietà istituzionale e fu prodromo delle divisioni violente nazionaliste. Mentre la Grecia invece dell’ingresso nell’Ue si vede riconsegnata alla turbolenta e marginale area balcanica d’appartenenza. Si direbbe una nemesi, solo a ricordare che appena dopo la caduta del Muro la prospettiva dell’Ue (allora ancora Cee) era quella di avere subito l’ingresso indolore della Jugoslavia post-titina, «diversa» dal blocco ex sovietico dell’Est.
E verso la quale invece si attivò, nonostante le rassicurazioni dei primi vertici di Maastricht, la «strategia» dei riconoscimenti delle indipendenze proclamate su base etnica. Senza mai dire invece che l’ingresso in Europa sarebbe stato garantito solo a condizione che fosse conservata l’unità della Federazione jugoslava. Ne parliamo con Lucio Caracciolo, direttore della rivista LiMes che, in questi giorni, propone un prezioso quaderno con la riedizione di materiali d’archivio e nuove analisi, dal significativo titolo «La guerra in Europa non è mai finita».
Come mai, ai vent’anni dalle guerra balcaniche, i paesi dell’ex Jugoslavia che si sono scannati per dividersi e per entrare come Stati separati (anche etnicamente) in Europa, risultano ora assai poco «europei», quanto a stabilità politica ed economica, a standard sociali, a rispetto dei diritti umani. E ad esercizio di democrazia (la metà della metà dei cittadini vota, l’astensione è ovunque il primo partito)?
La ragione è semplice: la natura non fa salti, la politica nemmeno. Non si possono annullare secoli di storia per il semplice fatto di aderire all’Ue o alla Nato. I Balcani non hanno una storia di democrazia e di libertà. Questo non vuol dire che non possano costruirla, ma le strutture sociali e politiche non si creano a comando. Richiedono tempo, perseveranza e soprattutto pace. Il primo nemico sono naturalmente le organizzazioni informali, o apertamente criminali, che esercitano importanti quote di potere in molti territori balcanici (e non solo).
Ora però l’Unione europea, invece di diventare un’entità politica sovranazionale appare di fattop più «balcanica», avendo introiettato, dentra la crisi del capitalismo e della finanza globalizzati, il principio della divisione tra stati (e tra classi) su chi deve pagare la crisi?
La costruzione europea è sempre stata basata sull’economia, nell’illusione, paradossalmente marxiana, che la struttura economica determinasse la sovrastruttura politica. La storia ha dato torto al «marxismo» di Monnet. Non avremo uno Stato sovranazionale europeo, se mai l’avremo, se non per decisione politica di alcune élite, poi suffragata dal popolo. Sull’economia ci si divide, non ci si unisce, in assenza di vincoli politici cogenti. In ogni caso il principio di solidarietà non si afferma spontaneamente, ma solo per scelta politica.
E se ora i paesi dei Balcani decidessero di non entrare più nell’Ue, vista la prospettiva concreta delle difficoltà economiche dell’Europa che si è alimentata delle divisioni balcaniche e non ha mai fatto molto per l’integrazione del sud-est europeo?
Può essere, e sarebbe anche logico, viste le aspettative enormi create dall’Europa e sull’Europa negli anni Novanta, poi miseramente naufragate. Sarebbe comunque prioritario, Europa o non Europa, che intanto quei paesi ritrovassero un minimo comune denominatore in alcuni campi, per evitare di ritrovarsi poi a combattersi, magari in una cornice comunitaria…Tanti anni fa LiMes parlava di Euroslavia, l’idea per me è ancora valida.
Vista la crisi dei trattati di pace, Dayton per la Bosnia-Erzegovina e quello di Kumanovo per il Kosovo indipendente unilateralmente, c’è il rischio fondato di un riaccendersi dei conflitti?
Il rischio c’è, anche se non mi pare immediato. Le ragioni e i torti che hanno originato i conflitti degli anni Novanta non sono state sradicate. C’è molta benzina sparsa sul terreno, e molti potenziali incendiari. Credo che la situazione più grave resti quella bosniaca, seguita da quella kosovara e da quella macedone, fra loro legate. Esistono poi mafie e cartelli criminali che potrebbero profittare, in certe circostanze, del riesplodere delle ostilità.
Quanto all’aspetto internazionale, dopo le profferte americane su una «rivolta violenta» in Cina, c’è l’attualità della guerra civile in Siria, dopoquella libica finita con con l’uccisione dell’ambasciatore Usa a Bengasi. Che altro dobbiamo aspettarci quanto a format balcanico?
I Balcani sono un caso a sé, la loro influenza sul mondo è modesta – e viceversa. Ma in assenza di un modello di integrazione spendibile su scala mondiale – e non ci sarà mai, temo – dovremo abituarci al riemergere carsico di conflitti alimentati da fattori tanto esterni quanto esogeni. Dove l’equilibrio del potere si rompe, è sempre possibile che attori ambiziosi o irresponsabili, magari anche animati da ideologie benevole (diritti umani), possano resuscitare lo spettro della guerra.

Studenti in piazza: blitz contro consolato greco e Bnl [foto]



Prima giornata di mobilitazione per gli studenti delle scuole superiori di Bologna. I manifestanti sfilano da piazza XX Settembre a piazza San Francesco, appropriandosi della bandiera del consolato e bruciando quella della banca.
05 ottobre 2012 - 15:22

“Contro crisi e austerità riprendiamoci le città”. E’ dietro questo striscione che almeno 2.000 studenti delle scuole superiori di Bologna hanno dato vita alla prima mobilitazione del nuovo anno scolastico manifestando, stamattina, da piazza XX Settembre a piazza San Francesco ed attraversando anche la zona universitaria e il pieno centro cittadino.
Alle 9, prima ancora che il corteo parta, scatta un primo blocco del traffico all’incrocio tra via Indipendenza e via Irnerio: seduti a terra, gli studenti bloccano numerosi autobus.
Poco piu’ tardi prende il via il corteo selvaggio e, in via Indipendenza, i manifestanti prendono di mira il consolato greco: uno studente si arrampica con una lunga scala e stacca la bandiera della Grecia appesa sulla facciata, lanciandola tra i manifestanti (che la appendono sul furgone in testa al corteo) e lasciando la scritta “Greece antifa” sul muro. Dal corteo, il coro: “I popoli in rivolta scrivono la storia, con la Grecia fino alla vittoria”. Verso il consolato partono anche uova ripiene di vernice e petardi, così come durante il percorso succederà per diverse filiali di banca.
“Manifestiamo anche contro il ddl Aprea che punta a privatizzare tutta la scuola- spiega una studentessa dal sound system- e toglierci i diritti conquistati negli anni, come assemblee e rappresentanti di istituto”. Dal furgone che apre il corteo interviene anche un portavoce del comitato Acqua bene comune, dando appuntamento a lunedi’ per il presidio lanciato in Consiglio comunale contro la fusione Hera-Acegas.
Quando il corteo passa per via Rizzoli, si ripete la scena vista al consolato: uno studente stacca la bandiera che sventola fuori da una sede della Bnl e la “consegna” ai manifestanti, che l’agganciano al furgone e la fanno strisciare per tutta via Ugo Bassi fino in piazza San Francesco. Lì uno studente si arrampica sul tetto del furgone ed incendia la bandiera con la fiamma di un fumogeno: “Questa la fine che faranno le banche”, si urla dal sound system.
Perché Chavez?
121005chavezdi Jean-Luc Mélenchon * e Ignacio Ramonet **
Hugo Chávez è senza dubbio il capo di Stato più calunniato del mondo. Mentre ci avviciniamo alle elezioni presidenziali del 7 ottobre, queste diffamazioni stanno diventando sempre più infami. Sia a Caracas che in Francia e in altri paesi. Testimoniano della disperazione degli avversari della rivoluzione bolivariana di fronte alla prospettiva (che i sondaggi sembrano confermare) di una nuova vittoria elettorale di Chávez.
Un leader politico deve essere giudicato per le sue azioni, non per le voci messe in giro contro di lui. I candidati fanno promesse per essere eletti: pochi sono quelli che, una volta eletti, le mettono in pratica. Fin dall'inizio, la promessa elettorale di Chávez è stata molto chiara: lavorare a favore dei poveri, ossia - da quelle parti - la maggioranza dei venezuelani. E ha mantenuto la parola.
La riconquista della sovranità
Perciò questo è il momento di ricordare che cosa è veramente in gioco in queste elezioni, ora che il popolo venezuelano si prepara a votare. Il Venezuela è un paese molto ricco, grazie ai favolosi tesori del suo sottosuolo, in particolare gli idrocarburi. Ma quasi tutte queste ricchezze erano monopolizzate dalle élite politiche e dalle imprese transnazionali. Fino al 1999, il popolo otteneva solo le briciole. I governi che si alternavano, cristiano-democratici o socialdemocratici, corrotti e sottomessi ai mercati, privatizzavano indiscriminatamente. Più della metà dei venezuelani viveva al di sotto della soglia di povertà (70,8% nel 1996).
Chávez ha fatto sì che la volontà politica prevalesse. Ha addomesticato i mercati, ha fermato l'offensiva neoliberista e poi, attraverso il coinvolgimento popolare, ha fatto sì che lo Stato si riappropriasse dei settori strategici dell'economia. Ha riconquistato la sovranità nazionale. E, con essa, ha proceduto alla redistribuzione della ricchezza a favore dei servizi pubblici e dei dimenticati.
Politiche sociali, investimenti pubblici, nazionalizzazioni, riforma agraria, quasi piena occupazione, salario minimo, imperativi ecologici, accesso alla casa, diritto alla salute, all'istruzione, alla pensione... Chávez ha anche lavorato alla costruzione di uno Stato moderno. Ha lanciato un'ambiziosa politica di riassetto del territorio: strade, ferrovie, porti, dighe, gasdotti, oleodotti.
In politica estera, ha optato per l'integrazione latino americana e ha privilegiato gli assi Sud-Sud, mentre allo stesso tempo imponeva agli Stati Uniti un rapporto basato sul rispetto reciproco...
La spinta del Venezuela ha scatenato una vera ondata di rivoluzioni progressiste in America latina, trasformando questo continente in una esemplare isola di resistenze di sinistra contro le devastazioni del neoliberismo.
Libertà di espressione limitata?
Un tale uragano di cambiamenti ha trasformato le tradizionali strutture del potere e ha portato alla rifondazione di una società che fino ad allora era stata a verticale, elitaria. Questo non poteva che scatenare l'odio delle classi dominanti, convinte di essere i legittimi padroni del paese. Sono queste classi borghesi che, con i loro amici e protettori di Washington, finanziano le grandi campagne diffamatorie contro Chávez. Sono arrivate anche a organizzare - in alleanza con i grandi media di cui sono proprietarie - un colpo di stato l'11 aprile del 2002.
Queste campagne continuano ancora oggi, e certi settori politici e dei media europei si occupano di diffonderle. Dato che - come purtroppo accade - ripetere significa dimostrare, gli spiriti semplici finiscono per credere che Hugo Chávez starebbe incarnando «un regime dittatoriale in cui non c'è libertà di espressione».
Appello di 120 economisti francesi: no al fiscal compact, l’austerità aggrava la crisi
121005appellodi Keynesblog
Più di 120 economisti hanno pubblicato oggi un articolo su Le Monde, ripreso da molti siti di informazione, in cui si pronunciano contro il trattato di bilancio dell’Unione europea. Denunciano un trattato “portatore di una logica recessiva che aggrava gli squilibri esistenti” e chiedono a François Hollande di non perseguire le politiche di austerità dei suoi predecessori. Tra i firmatari vi sono economisti molto conosciuti come Frédéric Boccara, Bousseyrol Marc Laurent Cordonnier, Denis Durand, Guillaume Etievant, Flacher David Bernard Friot, Gadrey Jean Jacques Genereux, Guerrien Bernard, Michel Husson, Sabina Issehnane, Florence Jany-Catrice, Esther Jeffers, Paul Jorion, Pierre Khalfa, Dany Lang, Philippe lege, Frédéric Lordon, Christiane Marty, François Morin, André Orlean, Dominique Plihon Ramaux Christophe, Gilles Raveaud, Rigaudiat Jacques Dominique Taddei Stephanie Treillet.
CAUSE DELLA CRISI – Dal 2008, l’Unione europea (UE) si trova ad affrontare una crisi economica senza precedenti. Contrariamente a quanto sostenuto dagli economisti liberisti, la crisi non è dovuta al debito pubblico. Spagna e Irlanda ora sono sotto attacco dei mercati finanziari benché questi paesi abbiano sempre rispettato i criteri di Maastricht. L’aumento dei deficit è una conseguenza della caduta delle entrate fiscali dovuta in parte ai regali fatti ai redditi più alti, degli aiuti pubblici alle banche commerciali e del ricorso ai mercati finanziari per finanziare questo debito a tassi di interesse elevati.
La crisi è dovuta anche alla totale mancanza di regolamentazione del credito e dei flussi di capitale a scapito dell’occupazione, dei servizi pubblici e delle attività produttive. E’ alimentata dalla Banca Centrale Europea (BCE) che supporta incondizionatamente le banche private, e invece, quando si tratta di rivestire il ruolo di “prestatore di ultima istanza“, richiede “rigorose condizionalità” di austerità agli Stati. Essa impone loro politiche di austerità e non è in grado di combattere la speculazione sul debito sovrano, dato che la sua unica particolare missione riconosciuta dai trattati è quella di mantenere la stabilità dei prezzi. Inoltre, questa crisi è aggravata dal dumping fiscale intra-europeo e dal divieto imposto alla BCE di prestare direttamente agli stati per finanziare le loro spese, a differenza delle altre banche centrali di tutto il mondo, come la Federal Reserve degli Stati Uniti. Infine, la crisi è rafforzata dalla debolezza estrema del bilancio dell’Unione europea e dal suo tetto al tasso irrisorio dell’1,24% del PIL, con un orientamento che rende impossibile qualsiasi coordinata e ambiziosa espansione del business in Europa.
Francois Hollande, dopo essersi impegnato durante la campagna elettorale a rinegoziare il trattato europeo, non gli ha realmente apportato alcun cambiamento, e, come ha riconosciuto anche Elisabeth Guigou, ha scelto di proseguire la politica di austerità iniziata dai suoi predecessori. Si tratta di un tragico errore. L’aggiunta di un pseudo-patto sulla crescita, dall’importo effettivamente misero, è accompagnata dall’accettazione della “regola d’oro” del bilancio difesa da A. Merkel e N. Sarkozy. Essa stabilisce che il disavanzo cosiddetto strutturale (al netto delle variazioni dei cicli economici) non deve superare lo 0,5% del PIL, cosa che condannerà qualsiasi logica di spesa pubblica futura e porterà ad attuare un drastico programma di riduzione del campo di applicazione della amministrazione pubblica.
20 ottobre a Roma per il lavoro
121005scioperodi Loris Campetti - ilmanifesto -
Hanno svalorizzato il lavoro, grazie all'impegno sistematico di più governi che si sono passati il testimone. Hanno svalutato i salari e le pensioni, mentre era in atto una riduzione drastica del welfare. Il futuro di ormai ben più di una generazione di giovani è stato sequestrato. Così la crisi e chi la pilota, oggi, «ha la meglio» persino sui bisogni primari delle persone. Automaticamente le conseguenze del disastro vengono scaricate sui poveracci che non hanno né stock option né suv pagati dalla collettività per sopportare le valanghe di neve della Città Eterna. E sembra a troppi persino normale che in queste condizioni si pretenda da chi ancora un lavoro ce l'ha, magari cassintegrato o precario, di rinunciare ai suoi diritti perché oggi come oggi non ce li possiamo permettere. Il risultato è davanti agli occhi di tutti, persino di De Benedetti che scopre che le promesse di Marchionne erano favole.
Anzi, lui l'ha sempre saputo, ci ha fatto sapere quando l'amministratore delegato Fiat ha tolto la maschera che aveva solo per chi non voleva guardarlo in faccia: peccato che il suo impero editoriale non abbia brillato nello smascheramento della favole e nel sostegno degli operai di Pomigliano e Mirafiori.
Senza investimenti, senza un progetto di politica economica e sociale all'altezza della crisi, il lavoro scompare e l'incertezza domina la vita di decine di milioni di persone. Fiat, Alcoa, Ilva sono solo i titoli del disastro sociale, ambientale e democratico. Dall'isola dei cassintegrati al campanile di San Marco c'è chi tenta di resistere pretendendo un cambiamento delle politiche del governo, non possiamo lasciare soli questi lavoratori.
La manifestazione indetta dalla Cgil e dalla Fiom per il 20 ottobre a Roma dei dipendenti di tutte le aziende in crisi, con la partecipazione di chi non riesce più a vivere con una pensione sterilizzata, è un passo positivo e importante per non lasciare soli i target del montismo, che siano in tuta o in camice, e possiamo aggiungere per non lasciare sola la Fiom che troppo a lungo sola si è trovata, in una lotta durissima contro la filosofia di Marchionne e il marchionnismo dilagante persino tra i candidati alle primarie del Pd e tra troppi sindaci democratici. Piazza San Giovanni è una buona piazza, una piazza che può dare fiducia e rappresentare il primo di una serie di appuntamenti per restituire voce e protagonismo ai lavoratori, ai pensionati, ai precari, ai disoccupati.
L'appuntamento successivo dovrebbe essere lo sciopero generale nazionale, inopportunamente cancellato dall'agenda della Cgil: non si tratta di fare ginnastica, di autoconfermarsi, di agitare bandiere sbiadite ma di togliere il tappo a un paese tramortito e troppo a lungo zittito, ma non ancora piegato alle leggi del dio mercato. Una grande manifestazione in piazza San Giovanni e poi uno sciopero generale per dire che c'è un'altra Italia oltre a quella liberista che ci comanda per interposto governo e oltre a quella dei suv, delle vacanze ai Caraibi, insomma un'altra Italia da quella dei ladroni e dei padroni.
ITALIAN M.P.
Fiamma Nirenstein, sionist, of extreme right Berlusconi party, challenges Naples Mayor for welcoming sailing ship “Estelle” trying to break GAZA blockade
 
 

giovedì 4 ottobre 2012

«Comandano gli oligarchi della finanza, non la politica»
121004dececcodi Marco Berlinguer
Marcello De Cecco, mente caustica e grande esperto di finanza, non è ottimista. E il perché è presto detto: «Il problema numero uno oggi, come negli anni Venti e Trenta, è il predominio della finanza privata. Ma non c’è nessuna volontà politica di affrontarlo». Con un ulteriore avviso: «Ovunque stanno crescendo forze populistiche e nazionalistiche. È anche questa
un’analogia con quegli anni». Cominciamo dal primo punto. Già prima della crisi, Padoa Schioppa e Saccomanni –ovvero due personaggi dell’ufficialità –paragona - rono i mercati finanziari a “bestie selvagge ” che nessuno era più in grado di domare. Poi nel 2007 è arrivata questa crisi gigantesca e se ne sono accorti tutti. Ne è seguito un gran parlare. Persino il Fmi, la casa del liberismo mondiale, aprì un discorso sull’opportunità di un controllo sui movimenti di capitale. Ma sono rimaste tutte chiacchiere. Già, in nome della difesa del libero mercato.
Diciamo del cosiddetto libero mercato. Perché bisogna dire con chiarezza ciò che si sa da moltissimo tempo: che il sistema finanziario internazionale si è concentrato enormemente (anche a livello nazionale). Ci sono venti, trenta grandi banche internazionali e altrettante istituzioni finanziarie non bancarie, che in tutto il mondo controllano tutti i mercati: uno per uno. Talvolta si legge anche di queste cene in cui questi pochi influenti banchieri si accordano sul fatto che i tassi devono scendere o salire. O prenda anche il recente scandalo del Libor: un tasso così importante veniva deciso da quattro gatti al telefono. Sono sempre meno gli operatori che contano. E poi, questi si mettono d’accordo: in 2/3 o 6/7 e con il sistema delle leve - con 10 prendi a prestito 100, con quei 100 chiedi 1000 e così via - mobilitano risorse quasi illimitate. Ma sono davvero così potenti? Non sono forse stati salvati dagli Stati e dalle banche centrali? E anche queste leve, non sono forse possibili solo in virtù di deregulation che sono state introdotte dai governi? È senz’altro vero. Solo le banche centrali, specie la Fed, con le loro risorse potenzialmente illimitate, potevano salvare il sistema finanziario. E le deregolazioni sono decisioni puramente politiche.
Quindi?
Insomma tutto questo mostra che i grandi proprietari di ricchezze economiche e finanziarie influenzano profondamente la classe politica. In questo c’è una forte analogia con il periodo prima del 1914 e specialmente negli anni Venti.
Poi però, è arrivata la crisi del '29. E gli Stati hanno preso il pallino in mano. Questa volta, invece, pur essendo stati decisivi nei salvataggi, non lo hanno fatto.
La differenza è che negli anni Trenta si affermarono forze contrarie ai mercati finanziari. Non solo nei regimi autoritari. Prenda Roosevelt. In un famoso discorso arrivò a dire: abbiamo scoperto che la mafia non è solo nei mercati illegali, è tra noi. E si riferiva alla grande finanza privata. Allora fu un passaggio epocale. Si disse: io ti salvo, però poi comando io. La finanza privata internazionale venne repressa: la speculazione fu ridotta a poco o niente. Il ruolo pubblico crebbe enormemente. E si aprì un lungo periodo di stabilità. Fino agli anni Settanta, quando il mercato internazionale si è riaffermato e la parte pubblica ha cominciato a essere ridimensionata. Oggi, invece, ci si dice cose terribili sui mercati, ma poi qualunque regolazione è edulcorata al 90 per cento. Al massimo, si comminano multe, che gli fanno un baffo. Insomma, dobbiamo tornare a un controllo sui movimenti di capitale? Continuare a parlare di mercato – dire: “ci pensano i mercati”- è sbagliato. Certo, negli anni Trenta, il controllo sui movimenti di capitali si unì a un crollo del commercio internazionale. Uno dice: un disastro.
Oppure ci si domanda: e poi? In ogni caso, il punto è che colpire, vuol dire colpire alcuni, non tutti. Il problema è che sono quei, massimo cento, grandi operatori finanziari internazionali, che però sono anche quelli che pagano lapolitica di tutto il mondo; e in particolare quella americana.
Per cui le cose che si devono fare, non si fanno.
Torniamo ai cosiddetti mercati. Spesso si dice che c'è un interesse della finanza anglosassone a destabilizzare l’euro. Che c’è di vero? Certamente il sorgere di una nuova moneta di riserva, risparmio e scambio internazionale, è stato dal 2000 un motivo di preoccupazione della finanza americana, che ha cercato di demolirla o almeno indebolirla. Ma i problemi interni sono più importanti. Ci sono squilibri strutturali delle bilance dei pagamenti europee, che sono stati sottovalutati a lungo e che affondano le loro radici nella struttura produttiva tedesca, che ha bisogno di un mercato ben più ampio di quello tedesco. Inoltre l’euro stesso è un’istituzione liberale e l’Europa ha consacrato a livello costituzionale i principi del libero mercato. Infine, e soprattutto, i paesi europei sono divisi. Poi certo, tutte queste debolezze sono state anche utilizzate, con un’accorta manovra dei mezzi di comunicazione, da parte di gente, che non aveva mai approvato l’eu - ro. Penso anche alla Csu in Baviera e a un organo di stampa come il Bild- Zeitung, che ha fatto un’azione martellante su tutta l’opinione pubblica tedesca. Per cui, se vogliamo, l’euro, un po’si sta autodistruggendo, un po’ogni tanto gli si dà una bella botta, diciamo di speculazione internazionale, e si aiuta la natura. Insomma, non si può incolpare solo lo straniero.
No. Ci sono problemi strutturali. E politici. I partiti sono sempre più deboli. Si stanno autodemolendo dappertutto. Persino in Germania. Quest’idea di lasciar fare al mercato, sta alimentando dappertutto forze che se la prendono con i mercati. In tutta Europa stanno crescendo forze nazionalistiche e populistiche. E il grande terrore dei partiti tedeschi è che anche da loro esca fuori un partito nazionalista germanico. Sarebbe un finimondo. Siamo davvero alla soglia di grandi cambiamenti.
Pubblico quotidiano - 04.10.12

sindacato di base mondiale contro il saccheggio delle risorse

Continuate pure a parlare di Batman

- byoblu - 

Corte dei Conti Austerity Economia

Mentre tutti si occupano di Fiorito, denunce di livello ben più grave vengono esposte alle Commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato. Quella che potete vedere sopra è la registrazione dell'intervento integrale di Luigi GIampaolino, presidente della Corte dei Conti, oggi in Parlamento di fronte alle Commissioni Bilancio riunite di Camera e Senato. Riassunto: con l'austerity e le tasse di Monti, il paese stra sprofondando in una recessione ben oltre tutte le previsioni. Ma noi continuiamo a parlare solo di Batman...
Per chi volesse, visto che in giro si trovano solo brevi stralci, metto a disposizione sia il testo che la registrazione multimediale dell'audizione in forma integrale. Quello che segue è un piccolo estratto del PDF completo (scaricabile da qui, se non volete guardare il video):
« La somministrazione di dosi crescenti di austerità e rigore al singolo paese, in assenza di una rete protettiva di coordinamento e di solidarietà, e soprattutto se incentrata sull’aumento del prelievo fiscale, si rivela, alla prova dei fatti, una terapia molto costosa e, in parte, inefficace. E che, neppure, offre certezze circa il definitivo allentamento delle tensioni finanziarie. Questa spirale negativa è ben evidenziata dall’esame della situazione italiana. Ma, più in generale, essa appare proprio la conseguenza di una visione distorta e incompleta delle ragioni della crisi che l’Europa sta attraversando. »

Santo Profitto

Autore: Alberto Burgio - controlacrisi
Il capitalismo assistito italiano ha trovato in Monti un «santo» in paradiso e si prepara a mantenersi al potere con il bis. Il fronte progressista, invece, arranca in tutta Europa e a tutti i livelli, a cominciare da quello culturale. La storia sembra finita ma stravincere non è vincere: di fronte a tutti noi c’è l’abisso
Evviva Monti! La sua autocandidatura – una sorpresa soltanto per gli ingenui – fa chiarezza nella palude italiana e mette allo scoperto l’unica seria iniziativa politica di questa fase. La crisi organica del berlusconismo ha costretto i suoi mandanti a inventare un grande centro all’altezza dei tempi. Ed eccolo lì, con tanto di capo carismatico e benedizione vaticana, l’embrione della nuova Dc, ombrello protettivo per finanzieri e industriali assistiti, postfascisti e grandi palazzinari. Sbaglieremo, ma la vera novità che sembra profilarsi è l’implosione dello schema bipolare, camicia di forza imposta a un paese strutturalmente tripartito. Bisogna riconoscerlo, quella che il padronato ha realizzato in questi vent’anni è un’operazione geniale.

Il «centro» del potere
L’ingloriosa fine della prima repubblica, travolta dal malgoverno e dagli scandali, avrebbe potuto (e dovuto) sbloccare il sistema politico e avviare un processo di trasformazione in senso democratico. Al contrario, grazie al maggioritario e al bipolarismo, abbiamo avuto Berlusconi, governi «tecnici» garanti dei poteri forti, e la confluenza di gran parte delle forze postcomuniste in un partito a dominanza moderata. Questo processo giunge ora al suo approdo naturale con la rinascita di un centro riveduto e corretto secondo i dettami del dispotismo finanziario, cioè con un più di tecnocrazia e di chiusura oligarchica. In campo moderato c’è consapevolezza del fine e lungimiranza. Dietro Monti si riorganizzano in tempo reale le energie del capitale, smaniose di incassare i dividendi di una campagna moralizzatrice fondata sulla diffamazione del pubblico (ridotto a sinonimo di spreco e malcostume) e sull’apologia del privato (pretesa garanzia di eccellenza e onestà, di merito, produttività ed efficienza).

La disfatta progressista
E l’avversario? Il fronte progressista? Attraversato da tensioni crescenti, il centrosinistra sembra in bambola, incerto su tutto. Si dirà che i sondaggi ne preannunciano il trionfo, ma c’è il concreto rischio che si lasci sfuggire una vittoria data troppo presto per certa. Come un replay dei primi anni ’90. Naturalmente, le ragioni di tanto disorientamento sono diverse. Una è indubbiamente la scarsa consistenza del progetto «democratico» prodian-veltroniano, l’incoerenza dell’unificazione coatta di forze eterogenee, non di rado contrapposte per radicamento sociale e ispirazione culturale. La storia recente delle lotte sindacali, col sistematico divergere della Cigl da Cisl e Uil, ne è eloquente testimonianza.
C’è anche una seconda ragione della grave difficoltà del centrosinistra, non meno influente, che chiama in causa tutte le forze che in ambito europeo fanno riferimento al campo socialista.
In gran parte dell’Europa – con la sola eccezione, sempre meno salda, della Germania – la condizione di lavoro e di vita delle classi subalterne è grave, per non dire disperata. Con la crisi dilaga la disoccupazione, i salari perdono potere d’acquisto, il welfare è ridotto ai minimi termini. Ci sarebbe materia per un conflitto sociale di proporzioni gigantesche, se vi fosse direzione politica e coscienza diffusa dei termini dello scontro. Se vi fosse, soprattutto, un’idea delle alternative possibili a questo stato di cose, a quest’ordine sociale, a questa gerarchia di poteri e interessi. Qui veniamo al punto.
La paralisi delle forze del lavoro discende anche da una chiusura dell’orizzonte nella ragione pubblica, che le scelte politiche di queste stesse forze negli ultimi vent’anni hanno, a loro volta, determinato. La crisi si dispiega dentro una spirale che è una prigione di per sé. Debito, deflazione, recessione, disoccupazione, povertà, altro debito. Ma da questa prigione non si pensa di potere evadere perché non si prende nemmeno più in considerazione l’ipotesi che i mali del capitalismo possano essere evitati superando il capitalismo.

La «fine» della storia
Uno dei risultati più devastanti della rivoluzione conservatrice neoliberale consiste nella diffamazione, interiorizzata nel senso comune, dell’idea che possa esserci una società diversa da quella in cui viviamo. Così, nonostante l’evidenza dell’insostenibile costo sociale e ambientale del capitalismo, si rimane imprigionati nell’esistente, come fosse per natura, privo di alternative praticabili. L’idea della fine della storia ha tracimato, ha lavorato con uno stillicidio quotidiano, sino a imporsi come il nuovo sfondo prerazionale di riferimento. Il secolo breve è finito. Questo è il mondo. Ma se uno scenario bloccato è di per sé una galera, uno scenario di miseria è un incubo.
Avere abbandonato l’orizzonte della trasformazione è stato uno dei molteplici suicidi della sinistra europea post-bipolare. Mentre cadeva il Muro di Berlino, congedarsi dall’idea dell’alternativa sembrava un sintomo di modernità, il riferimento alla transizione essendo uno dei temi classici del movimento operaio novecentesco. Si è trattato in realtà di un passo fatale sul terreno della subordinazione e della perdita di sé. Un passo che ha provocato la dissipazione di un inestimabile patrimonio materiale e immateriale di organizzazioni e culture, esperienze e volontà.
Abbiamo scritto più volte su questo: il dislocarsi delle forze critiche nell’area di un riformismo esangue è stato conseguenza e causa di una crescente subalternità non soltanto politica e sociale ma anche «intellettuale e morale», con grave pregiudizio dei settori subalterni, a cominciare dal lavoro dipendente. Quel che oggi preme osservare è che l’attacco ai settori sociali più deboli e la devastazione dei diritti del lavoro sono andati al di là di ogni limite e hanno innescato una dinamica regressiva che mette seriamente a repentaglio il precario compromesso tra capitalismo e democrazia.

La «fine» della democrazia
Anche qui hanno pesantemente influito fattori culturali. Una tale regressione non sarebbe stata possibile senza la normalizzazione ideologica dei corpi sociali, senza lo sradicamento del pensiero critico e la sua sostituzione con un «pensiero unico» che naturalizza l’esistente e lo concepisce come pura e semplice necessità. Ma ciò che raramente si coglie è la logica paradossale di questo processo, che fragilizza la coesione sociale, mina le fondamenta strutturali della «governabilità» e minaccia la tenuta di questa stessa forma sociale, rischiando di rovesciare il trionfo del capitalismo in una sua tragica sconfitta. Stravincere non è vincere. Non è detto che avere soppresso l’immagine dell’alternativa sia stato un buon affare. È servito a delegittimare le lotte, ma ha anche depotenziato la creatività e seminato depressione. Non è escluso che, nel radicalizzarsi della crisi, la chiusura dell’orizzonte possa uccidere la speranza stessa di rivitalizzare un sistema malato. Né che la rinuncia a immaginare un ordine diverso induca alla rassegnazione e ad assecondare la corsa nichilistica del capitale, che trionfa divorando se stesso. Che si autodivora perché trionfa.

Ma stravincere non è vincere
Quando Keynes scrisse la Teoria generale e combatté a Bretton Woods, non lo fece certo per sotterrare il capitalismo, ma per salvarlo da se stesso, dal pericolo mortale che discende dalla vocazione del capitale a cannibalizzare i corpi sociali. Quando Polanyi scrisse La grande trasformazione non si era convertito al marxismo. Focalizzò il nesso tra liberismo e regressione autoritaria per mettere in guardia la borghesia europea da quella coazione a ripetere per cui ciclicamente lo scatenamento degli spiriti animali devasta le società e l’anarchia del capitale riattiva pulsioni neofeudali.
Ma Polanyi e Keynes come riuscirono nelle loro imprese? Fu decisivo lo sguardo dal di fuori, proprio quell’orizzonte di alternativa che oggi è disperso, offuscato, precluso. Vi riuscirono perché immaginarono un’altra società, sia pure differente da quella per la quale il movimento operaio combatteva. E vi riuscirono perché presero sul serio, senza assumerlo ma senza demonizzarlo, l’esperimento sovietico. È un po’ quello che Lévi-Strauss scrisse di Rousseau, nominandolo padre dell’antropologia, che Rousseau avrebbe inventato riuscendo a guadagnare distanza da se stesso.
L’uomo, come la società, si comprende – e se ne colgono limiti, bisogni, patologie e potenzialità – soltanto nel guardarlo dall’esterno e immaginandone una diversa configurazione. Chiudere l’orizzonte impedisce la comprensione, mortifica l’intelletto. Non estingue soltanto la volontà: ottunde e indementisce.
Oggi la distanza dall’esistente si è perduta. L’immaginazione, che avrebbe dovuto conquistare il potere, è bandita. La si è con cura neutralizzata, in quanto premessa di estraneità e di critica. Di potenziale pratica sovversiva. Ma in questo modo non si è soltanto soppressa la capacità di orientamento nella lotta degli avversari del capitalismo, si è irretita anche l’intelligenza creativa di chi vorrebbe civilizzarlo per salvarlo. Purtroppo questo non è il tempo dei sovversivi né dei critici. È l’ora dei tecnici, degli «addetti ai lavori», degli esecutori di programmi codificati. E poco importa se di questo passo sprofonderemo presto tutti quanti all’inferno.

mercoledì 3 ottobre 2012

Democrazia se ci sei batti un colpo ...

L'evaporazione della democrazia
121002europadi Gianni Ferrara
Per essere un veterano della critica all'Europa dei Trattati e dei mercati spero che l'intervento di Habermas, Bofinger e Nida-Ruemelin (la Repubblica del 4 agosto) così come la presa di posizione di Balibar (su questo giornale del 20 settembre) assieme alla crisi di rigetto che si estende nella varie nazioni del Continente ridestino la coscienza europea dal sonno delle ragioni della democrazia.
Quelle ragioni che il neoliberismo dei Trattati ha sottratto ai popoli europei istituzionalizzando della democrazia una autentica mistificazione, quella dell'Ue. La cui legittimazione sarebbe derivata dalla democraticità degli stati di appartenenza. Come se la rappresentanza politica dei Parlamenti di questi stati potesse essere trasferita ai rispettivi governi, usati come tramite per una successiva investitura di rappresentatività operata a favore delle istituzioni intergovernative dell'Unione.
L'evaporazione della rappresentanza parlamentare si sarebbe poi estesa oltre le istituzioni intergovernative (Consiglio, Consiglio dei capi di stato e di governo).
Perché tali istituzioni, come del resto lo stesso Parlamento europeo, pur se rappresentativo di tutti i popoli dell'Unione, sono a potestà dimezzata. Possono esercitare le rispettive funzioni soltanto per deliberare su proposte di una diversa istituzione, la Commissione europea, disegnata in modo da farla risultare svincolata dagli stati, dai governi, dai parlamenti nazionali e da quello europeo e finalizzata a «promuovere l'interesse generale dell'Unione» (art. 17, Tue). Interesse che fu identificato nella realizzazione di una «... economia di mercato aperta ed in libera concorrenza» (art. 119 del Tfue). Che la rappresentanza acquisita all'origine dai parlamenti nazionali, una volta ridotto quello europeo ad esecutivo dei trattati, possa librarsi nei cieli d'Europa per poi poggiarsi sulla Commissione di Bruxelles e pervaderla col flusso della legittimazione offertale dalla base sociale dei singoli stati è credenza risibile, affermazione mendace, teorizzazione infondata. Con conseguenze tragiche, quelle della crisi che stiamo vivendo.
Che si tratti del fallimento del neoliberismo con l'autoregolazione dei mercati, suo immediato corollario, non possono esserci dubbi. Tanto più che, via via che l'andamento del sistema costruito su quei principi smentiva una ad una le promesse declamate, si è fatto ricorso a misure che, mirando a conservarlo, lo contrddicono radicalmente trasfigurandolo in neoliberismo coatto. Non potevano che essere altrettanto catastrofiche le conseguenze sul tipo di edificazione scelto per fornire a questa Europa le istituzioni necessarie a farla nascere e ad integrarne la configurazione.

Congo un paese povero ... uno dei piu' ricchi del mondo ...

Il sangue del Congo che sgorga dai nostri cellulari
121001congodi Valentina Severin
Il sangue del Congo nei nostri cellulari. C’è il sangue di almeno cinque milioni e mezzo di persone nei nostri telefoni e computer di ultima generazione. È il sangue delle milioni di vittime degli eserciti della morte che lottano per spartirsi il Congo e le sue risorse.
UN PAESE RICCO. La Repubblica Democratica del Congo è uno dei Paesi più ricchi del mondo e, al tempo stesso, uno dei più poveri e dei più pericolosi. Un luogo in cui una donna non dovrebbe mai nascere, ma che terrorizza anche gli uomini. Questo travagliato Paese africano vale, per le sue risorse naturali, i suoi minerali e metalli, oltre 24 milioni di milioni di dollari americani. Ricchezza che più di ventuno gruppi armati cercano di controllare e che scivola illegalmente via dal Paese, attraverso confini non controllati, per arrivare all’industria elettronica occidentale e, quindi, nei telefoni cellulari, nei computer e nei lettori dvd che usiamo ogni giorno.
L’ARMA DEL TERRORE. Per mettere le mani sui metalli e i minerali richiesti da Europa e Stati Uniti, i gruppi armati tengono le comunità locali strette in una morsa di terrore ricorrendo agli strumenti di guerra più efficaci ed economici che esistano: gli stupri e gli assassini. Le popolazioni, terrorizzate, non oppongono resistenza a questi signori della morte, che hanno gettato il Congo nel caos. I gruppi armati sono formati per lo più da schiavi, costretti ad arruolarsi dopo aver visto ammazzare le proprie madri e violentare le proprie sorelle e mogli. I soldati tolgono loro qualsiasi affetto e alternativa per costringerli ad entrare e restare nelle loro file.
RESPONSABILITÀ Questa guerra, che dal 1998 a oggi ha mietuto almeno cinque milioni e mezzo di persone, è alimentata e silenziosamente approvata dall’industria elettronica occidentale, che trae più o meno indirettamente profitto dagli eserciti della morte, senza prendersi la responsabilità della provenienza dei materiali che usa per le proprie produzioni.
INGUARDABILE. Per denunciare i crimini contro l’umanità che ogni giorno vengono perpetrati nella Repubblica Democratica del Congo, Synergie des Femmes pour les Victimes de Violences Sexuelles ha raccontato in un cortometraggio la storia di Masika, che è la storia di milioni di donne che abitano nei villaggi congolesi. Il film si intitola “Unwatchable”, inguardabile, titolo che non ha bisogno di troppe spiegazioni.
MASIKA. Stuprata da ventidue soldati, dopo aver visto squartare vivo il marito e aver sentito violentare le figlie, Masika resta in coma sei mesi. Al suo risveglio non ricorda più nulla, ma le figlie rimaste incinta dopo gli abusi la riportano all’orrore di quel giorno. Vinta la tentazione di togliersi la vita, Masika decide di aiutare le donne che hanno vissuto il suo stesso incubo. Masika ha tratto in salvo oltre duecento persone e aiutato oltre cinquemila, tra donne e bambini, vittime dell’efferatezza degli eserciti. E continua la sua lotta nonostante le minacce e le altre violenze che ha subito negli anni, proprio a causa delle sue proteste.
PETIZIONE. Synergie des Femmes pour les Victimes de Violences Sexuelles, piattaforma di 35 organizzazioni congolesi locali di cui fa parte anche Masika, si è ispirata alla sua storia e alla sua testimonianza per girare “Unwatchable” e promuovere una campagna per richiamare l’industria occidentale alle proprie responsabilità. La domanda che Synergie des Femmes fa a tutti noi è angosciante: il nostro cellulare è libero dagli stupri?

Privatizzazioni

Il catastrofico day after per gli italiani
121001alcoaVladimiro Giacché
Caso Ilva e caso Alcoa. Due storie molto diverse tra loro, che hanno però anche qualcosa in comune. In entrambi i casi, si tratta di ex imprese pubbliche che sono state privatizzate.
È un buon esempio di quanto pesino tuttora sulla nostra economia gli esiti delle privatizzazioni degli anni Novanta. Già questo sarebbe un ottimo motivo per occuparsene. Ma non è il solo. Oggi si torna a parlare della vendita di proprietà pubbliche per ridurre il debito. Sarebbe una buona idea? Capire cosa è successo venti anni fa può aiutarci a rispondere a questa domanda.
1) Dal 1992 al 2000 la gran parte dell’industria di Stato e delle banche pubbliche è stata posta sul mercato. Si tratta del più ampio processo di privatizzazione mai realizzato in Occidente. La tecnostruttura guidata da Mario Draghi, all’epoca direttore generale del Tesoro (che mantenne la carica sotto 6 diversi ministri), privatizzò imprese statali per un valore di 220.000 miliardi di lire, oltre 110 miliardi di euro.
Questo rispondeva al primo obiettivo delle privatizzazioni: fare cassa per ridurre il debito pubblico ed entrare nel club della moneta unica. Anche se in molti casi sarebbe stato più conveniente per lo Stato mantenere il controllo delle imprese e incassare ogni anno un dividendo.
2) Ma c’era anche un secondo obiettivo: ridurre il ruolo dello Stato nell’economia e aumentare la concorrenza. Come scrisse Dario Scannapieco, membro del team di Draghi al Tesoro e oggi vicepresidente della Bei «si è sfruttata l’occasione offerta dalla necessità ed urgenza di rispettare gli stringenti vincoli esterni, imposti dalla partecipazione all’Unione Monetaria Europea, per avviare iniziative volte alla ridefinizione del ruolo dello Stato ed alla riforma, in senso maggiormente concorrenziale, dei mercati ». La prima cosa fu realizzata, la seconda no. Ma è proprio la presenza di concorrenti che costringe le imprese ad adottare comportamenti efficienti, mentre non esiste alcuna dimostrazione scientifica della maggiore efficienza dell’impresa privata rispetto all’impresa pubblica in quanto tale. Tra le società privatizzate vi erano monopoli naturali, per definizione non soggetti alla concorrenza (si pensi alle autostrade). In altri casi, non furono attuate le necessarie liberalizzazioni prima di privatizzare, e quindi le imprese privatizzate poterono godere di una rendita di monopolio.
Una ricerca condotta anni fa da Giovanni Siciliano sulle banche italiane privatizzate evidenziò dati deludenti sia in termini di produttività, che di redditività; a quest’u l timo riguardo le banche piccole non privatizzate andavano addirittura meglio di quelle privatizzate. Tanto da indurre lo stesso Siciliano a concludere: «È difficile dire se le privatizzazioni bancarie abbiano «funzionato».
3) Infine, il terzo obiettivo delle privatizzazioni: rafforzare con la quotazione in borsa delle imprese ex pubbliche il mercato azionario italiano, introdurre anche in Italia il modello della public company anglosassone (l’impresa quotata con un capitale distribuito tra molti azionisti), inducendo anche molte imprese private a quotarsi e dando vita così alla «democrazia economica dei piccoli investitori». Da questo punto di vista il fallimento delle privatizzazioni è stato pressoché totale. È vero che negli anni delle privatizzazioni i tre quarti della capitalizzazione di borsa furono costituiti da società ex pubbliche. Ed è vero che molti risparmiatori (e anche molti lavoratori delle ex imprese pubbliche privatizzate) parteciparono alle privatizzazioni. Ma già nel 2003 Luigi Spaventa, all’epoca presidente della Consob, osservò che «la maggior parte delle principali società private ad azionariato diffuso sono state oggetto di successive acquisizioni che hanno portato in alcuni casi al loro delisting [cancellazione dalla Borsa] o alla determinazione di un assetto di controllo fortemente concentrato».
Da allora, la concentrazione del controllo delle imprese quotate è ulteriormente cresciuta, pochissime società private si sono quotate e la capitalizzazione complessiva di Borsa a maggio 2012 è oggi inferiore al 20% del prodotto interno lordo (era maggiore nel 1996).
In compenso, molti nomi storici del capitalismo italiano si sono comprati imprese pubbliche in vendita. Rivolgendosi in particolare verso quelle che forniscono servizi di pubblica utilità. Il perché è presto detto: queste società rappresentano una fonte di profitti certa, che spesso può godere di una rendita di monopolio o di oligopolio. Si tratta per di più di una fonte di profitti sottratta non soltanto alle fasi alterne del ciclo (le bollette si pagano sempre), ma anche alla concorrenza internazionale.
A consuntivo, il risultato delle privatizzazioni per il sistema economico italiano è a dir poco deludente. La presenza del settore pubblico nell’economia si è ridotta al lumicino, ponendo la parola fine all’economia mista che aveva caratterizzato il nostro paese per molti decenni e privando lo Stato di strumenti fondamentali di politica industriale e anche di intervento nella congiuntura (si pensi al costo delle tariffe autostradali, o alla restrizione del credito alle imprese a cui stiamo assistendo).
In compenso, le privatizzazioni hanno rappresentato una provvidenziale scialuppa di salvataggio per capitalisti in difficoltà nel settore manifatturiero. Pirelli comprò Telecom nel 2001, quando entrarono in crisi i settori cavi e sistemi di telecomunicazione, Benetton lanciò l’offerta pubblica di acquisto sulle azioni Autostrade nel 2003, dopo aver chiuso il 2002 con un risultato operativo in calo del 15% e una perdita netta di 10 milioni di euro. Come scrisse anni fa Giangiacomo Nardozzi, «la grande stagione delle privatizzazioni ha sì lasciato la gran parte delle attività dismesse in mani italiane, ma a costo di indebolire lo slancio competitivo di importanti pezzi dell’industria, offrendo occasioni di più facili profitti». Se i primi undici anni del nuovo millennio hanno visto la crescita più bassa dal dopoguerra il motivo va ricercato anche in questo. Il consenso quasi unanime che le privatizzazioni hanno ricevuto in sede parlamentare è probabilmente uno dei motivi per i quali non si è mai sviluppato un effettivo dibattito sui loro effetti. «Pubblico» intende contribuire a colmare questa lacuna. E vuole farlo a partire da un punto di vista particolare. Le privatizzazioni sono state anche un processo che ha coinvolto milioni di lavoratori. La loro voce non è stata mai ascoltata.
da Pubblico

THE ITALIAN HIGH COURT CONDEMNS IN STRONG TERMS THE POLICE " MASSACRE"
at the Diaz school at the G.8 in  GENOVA,2008

martedì 2 ottobre 2012

In memoria di Eric Hobsbawm (1917-2012)

Nuova luce sul revival Marx – uninomade -

di BENEDETTO VECCHI
Per molte settimane, How to change the world (Come cambiare il mondo, Rizzoli) è stato in testa alle classifiche dei libri più venduti in Inghilterra. Era il 2011, l’Inghilterra era stata segnata dalla rivolta studentesca nella capitale, la crisi falcidiava posti di lavoro e lo stato correva in soccorso delle banche per salvarle dal fallimento. Per il quotidiano The Guardian, il successo di pubblico del libro era il segnale di un rinnovato interesse verso le tesi di Karl Marx, dato che il libro raccoglie saggi e articoli scritti da Eric Hobsbawm sull’opera marxiana e sulla ricezione inglese del pensiero di Antonio Gramsci. Eppure a leggere quel volume più che la testimonianza di una vitalità del marxismo ne esce fuori un invito da parte dello storico inglese a non chiudere gli occhi sull’incapacità politica da parte della sinistra europea di fare i conti con il capitalismo contemporaneo, le sue crisi e la tendenza a, nonostante tutto, «rivoluzionare continuamente i rapporti sociali» per salvarli dalle sue contraddizioni.
D’altronde Hobsbawm aveva già ampiamente sviluppato una rilettura dell’opera marxiana attraverso una chiave di lettura tanto affascinante, quanto impegnativa. Marx, aveva scritto nell’introduzione di un’edizione per i 150 anni del Manifesto del partito comunista, è stato il primo, grande studioso della globalizzazione, perché il capitale deve diffondere il suo modo di produzione per riprodursi. Ma in questa sua tendenza espansiva deve continuare a trasformarsi incessantemente, perché la crisi è immanente alla produzione capitalista. Bene, annotava lo storico inglese, Marx lo aveva scritto nel 1848: pagine profetiche e pienamente attuali di fronte alla crisi che ha sconvolto il capitalismo contemporaneo. Ma questa attualità non aiuta molto la spiegazione del perché non ci sia nessuno spettro del comunismo che s’aggira nel vecchio continente; o nel mondo, vista la «natura» ormai globale del capitale.
Da qui la necessità di uno studio non accademico, innovativo dell’opera marxiana, ma tuttavia all’insegna della continuità con le la tesi che, dopo averlo interpretato, il mondo va cambiato. Una posizione coerente con quanto Hobsbawm aveva definito come «piano di lavoro» della collettiva Storia del marxismo pubblicata da Einaudi sul finire degli anni Settanta e da lui diretta, laddove parlava dei molti marxismi novecenteschi, segnale di una ricchezza interpretativa che mostrava tuttavia segni di precoce «invecchiamento». Erano i tempi in cui veniva decretata la «crisi del marxismo», espressione che Hobsbawm non ha mai amato, perché considerata poco fondata storicamente e troppo frettolosamente liquidatoria.
A ben leggere invece i saggi contenuti in Come cambiare il mondo e quelli scritti per la Storia del marxismo i temi di una crisi del marxismo ci sono tutti, anche se in una prospettiva molto diversa da quella che, ad esempio, Louis Althusser aveva indicato dichiarando aperta «la crisi del marxismo». A chi sottolineava l’assenza di una teoria della politica in Marx, lo storico inglese ricordava infatti l’uso creativo che il filosofo di Treviri aveva fatto di Rousseau nella critica della democrazia «borghese»; oppure descriveva il modo originale con cui Marx aveva attinto al pensiero giacobino o ai testi del variegato e fortemente contrastato socialismo utopistico. Questo non significava che Marx avesse però una compiuta teoria dello stato. Era compito dei marxisti colmare questa lacuna. Lo stesso metodo, era riservato a chi invece guardava con sospetto alla teoria del valore-lavoro. Hobsbawm scrive che quella di Marx era una critica dell’economia politica e non un testo di economia, per poi però assegnare alla teoria del valore-lavoro un fondamento economico.
Insomma, non bisognava buttare a mare Marx bensì colmare le lacune della sua opera. Da questo punto di vista, la sua vita pubblica è contraddistinta dalla convinzione che non occorre nessun ritorno alle origini, quasi che nei testi di Marx fosse contenuta la soluzione alla, questa sì conclamata, crisi della sinistra comunista in Europa. Semmai, da storico di razza come è stato, era convinto che l’opera marxiana andasse storicizzata, per garantirne il necessario rinnovamento, all’insegna però della continuità con la tradizione marxista.
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Ripubblichiamo la recensione di Benedetto Vecchi a Come cambiare il mondo (Alias, 2 luglio 2011).

Eric Hobsbawm è lo storico che, subito dopo il crollo del Muro di Berlino, mandò alle stampe un libro il cui titolo, Il secolo breve, è divenuto espressione tipica per indicare il Novecento. In quel saggio venivano individuate tre «età» per scandire gli anni che vanno dal 1914 al 1991. La prima, quella della «catastrofe», indicava la prima guerra mondiale e la lunga stagione del fascismo, del nazismo e della seconda guerra. Alla catastrofe seguiva però un periodo chiamato «dell’oro», durante il quale il capitalismo aveva conosciuto una fase di ininterrotto sviluppo economico, la fine del colonialismo e, in Europa, il welfare state. Da quel momento fino al 1991 il mondo era però entrato nell’età «della frana», che ha avuto come apice il crollo del socialismo reale e la prima guerra del Golfo. In tutto il saggio, lo storico inglese metteva sempre in rapporto di causa ed effetto la forza politica del movimento operaio con la tendenza del capitalismo a innovare se stesso per arrestare la diffusione del comunismo nel mondo. Nel «secolo breve», tuttavia, il marxismo è ritenuto da Hobsbawm una delle grandi narrazioni novecentesche, come del resto aveva più volte affermato nei saggi scritti per la Storia del marxismo, ambiziosa opera da lui coordinata per l’editore italiano Einaudi. Tesi smentita dall’ultimo decennio del Novecento, che ha invece visto il suo declino. Il crollo del Muro di Berlino, oltre a seppellire il socialismo reale, condannava quindi a un triste oblio l’opera e la tradizione del marxismo.

Spagna


Spagna

Texto leído en la plaza de Neptuno a las 20h

[English translation below]
El pasado 25S nos convocamos a rodear el Congreso de los diputados para rescatarlo del secuestro de la soberanía popular llevado a cabo por la Troika y los mercados financieros. Una ocupación ejecutada con el consentimiento y la colaboración de la mayoría de los partidos políticos. A pesar de las constantes amenazas, las manipulaciones mediáticas y la intensa campaña para infundir temor en la población, decenas de miles de personas acudimos a la cita y dijimos alto y claro que no tenemos miedo, que estamos juntas en esto y que no vamos a pararnos hasta que dimitan y se inicie un proceso constituyente.
El gobierno nos respondió con golpes, infiltraciones, detenciones, violencia indiscriminada, heridos y un despliegue policial absolutamente inédito. Sin embargo… perdió. Las imágenes de la represión han dado la vuelta al mundo y la visita de Rajoy a la ONU quedó completamente ensombrecida por la capacidad organizativa y comunicativa que hemos demostrado. El debate sobre la legitimidad de la acción del 25 se ha abierto, y hoy toda la sociedad española habla de ello, debate, opina, toma posición. Hemos iniciado una gran conversación y este es el camino que queremos seguir.
Por mucho que gobierno y medios de comunicación traten de convertir nuestras reivindicaciones en un problema de orden público, salir a la calle a reivindicar derechos es hacer política, manifestarse es hacer política, tomar la palabra es hacer política.
Seguimos aprendiendo. Hoy, 29 de septiembre, las calles se han vuelto a llenar con miles de personas que dicen basta y que quieren tirar del freno a una realidad que se está volviendo cada vez más insoportable. Y además, hoy, salimos para acompañar y sentirnos acompañados por nuestros hermanos y hermanas portugueses, griegos e italianos, rodeando su propio parlamento. Los “Cerdos” son ellos, nosotros y nosotras somos el sur de Europa, y sin el sur de Europa, no hay Europa posible.
Seguimos rodeando el Congreso porque queremos dar un salto en la movilización social y poner en el centro la recuperación de la soberanía y del poder ciudadano, es decir, de la democracia. En este año y medio hemos aprendido a integrar, a pensar y actuar colectivamente, entablando alianzas imprevisibles: mareas de todos los colores tomando la ciudad; vecinos y vecinas parando desahucios, funcionarios y funcionarias cortando calles… Ahora sabemos descifrar complejos conceptos económicos y legales, cuidarnos y cuidar a las demás, comunicarnos mejor, gestionar espacios de participación y discusión en las redes, las plazas,y los centros de trabajo; reírnos de la violenta estupidez del poder, ante la que, cada vez más, resistimos en lugar de correr. Hemos logrado ampliar los métodos de las viejas formas de lucha, y hemos llevado a cabo iniciativas que queremos seguir desarrollando desde abajo, sin atajos y paso a paso. Porque creemos que el tiempo de las decisiones tomadas por unos pocos ha terminado; porque, frente a quienes quieren dejarnos sin futuro, tenemos los medios y la inteligencia colectiva para decidir y construir la sociedad que queremos; porque no necesitamos falsos intermediarios, sino recursos y herramientas colectivas que fomenten activamente la participación política de todas las personas en los asuntos comunes.
Seguimos rodeando el Congreso para decirles a quienes dicen mandarnos que no, que desobedeceremos sus imposiciones injustas, como la de pagar su deuda, y que defenderemos los derechos colectivos: la vivienda, la educación, la salud, el empleo, la participación democrática, la renta. Para iniciar un proceso que permita que los responsables de la crisis dejen de ser impunes, para que los pirómanos que han provocado nuestra crisis no sean recompensados y empiecen, en cambio, a ser juzgados.
Ni el gobierno de Zapatero, ni el de Rajoy nos han escuchado. Ambos han traicionado a sus propios votantes llevando adelante medidas que prometieron que nunca pondrían en marcha. No obedecen a los ciudadanos, no tienen la valentía ni interés para hacerlo. El gobierno Rajoy, por lo tanto, no nos sirve y exigimos su dimisión.
Hoy se han presentando los presupuestos generales del Estado para el año que viene. Esos presupuestos son el resultado de una reforma de la Constitución ejecutada a medias entre el PSOE y el PP sin que la ciudadanía pudiera decir nada al respecto. Esos presupuestos dedican mucho más dinero a pagar una deuda ilegítima que a las necesidades sociales que puede articular una salida colectiva de la crisis. Esos presupuestos son una vergüenza para la soberanía nacional, para la democracia. Y por eso tenemos que pararlos.
Queremos hacer un llamamiento a una nueva movilización cuando los presupuestos se discutan en el Parlamento. Queremos estar de nuevo aquí esos días para decirles que no, que se acabó gobernar sin preguntar.
Exigimos también el cese de la criminalización, la libertad de la persona aún detenida y que se retiren todos los cargos imputados a las otras compañeras que asimismo fueron vejadas y maltratadas en virtud de unas diligencias intolerables en un estado de derecho. Que se abra una investigación sobre la actuación policial durante el día 25.
Estos días hemos visto que podemos, si nos organizamos, si nos comunicamos, si usamos nuestras redes e infundimos confianza, calma, inteligencia colectiva. Por eso os proponemos que participéis en la Coordinadora25S, no sólo aquí en Madrid, sino en todas partes, que organicéis vuestros propios nodos de esta red, que hagáis vuestras las convocatorias… Nos están quitando lo poco que quedaba por defender. Nos queda absolutamente todo por construir.
No tenemos miedo.
Los presupuestos de la vergüenza, los vamos a rodear.
Que se vayan.
Sí se puede.

Text read at Neptuno Square (next to the Congress of Spain) on September 29th
Last 25S we called to surround the Congress of the members of parliament to rescue it from the kidnapping of the popular sovereignty carried out by the Troika and the financial markets. An occupation executed with the consent and colaboration of most of the political parties. Besides the constant threats, the manipulation of the media and the intense campaign to inflict fear in the people, thousands of people attended the call and said loud and clear that we have no fear, that we are together in this and that we are not going to stop until they resign and a Constituent process is started.
The answer of the Spanish government was based on hitting the demonstrators, using police infiltrators, arresting and hurting them with an outrageous violence as part of an amazing police deployment rarely seen in the past. The Government lost, however. The whole world has seen the TV images of its repression and harassment against the demonstrators, while the Spanish presidente, Mr. Rajoy´s speech at United Nations was extremely overshadowed due to our effective communication abilities. Right now there is an open debate about the legitimacy of the actions made during September-25, which roots deep inside the regular daily life- common people talk, debate, defend their ground. A great national conversation, involving the whole Spanish society, has begun, and this is the path we are willing to keep walking together.
We keep on learning. Today, September 29th, the streets have again been filled with thousands of people who say “enough” and want to pull the brakes on a reality that is turning more and more unbearable. And moreover, today, we went out to accompany and feel comforted by our portuguese, greeks and italians brothers and sisters who are surrounding their own parliaments. The “PIGS” are them, we are Southern Europe, and without the south there’s no Europe, there is no possible Europe
We continue to surround the Congress because we want to jump on in the social movilization and put that core in the recovery of the sovereignty and the citizen power, i.e., of the Democracy. In this year and a half we’ve learned to integrate, to think and to act collectively, striking up unforeseeable alligiances: tides of all colors taking the city; neighbours stopping evictions, civil servants closing off the streets… Now we know how to decipher complex economical and legal concepts, take care of ourselves and the others, comunicate better, administrate spaces and discussions on the net, on the squares and in our jobs; to laugh at the violent stupidity of the power, in front of which we resist instead of running. We have achieved to make the old struggling methods bigger, and we have carried out initiatives that we want to develop from the bases, without shortcuts, step by step. Because we believe that time for the decisions taken by a few is over, because in front of those who want to take our future away, we have the means and the collective intelligence to decide and build the society we want; because we don’t need false intermediates, but only collective resources and tools that actively fund the political participation of all the people in the common affairs.
We continue to surround the Congress to say “no” to those who decide to tell us what to do, that we are going to disobey their unfair impositions, such as paying their debt, and that we are going to defend the colletive rights: housing, education, health, employment, democratic participation, the rent. To start a process that allows that those responsible of the crisis don’t go unpunished, the pyromaniacs that created our crisis not to be rewarded and take them to court instead.
Neither the government of Zapatero, nor Rajoy’s have listened to us. Both have betrayed their own voters carrying out mesures that they promised they would never carry out. They don’t obey the citizens, they don’t have neither the courage nor the interest to do it. The government of Rajoy, therefore, doesn’t serve us and we demand their resignation.
Today the national budgets for next year had been presented. Those budgets are the result of a constitution reform performed within PSOE and PP without the citizen’s opinion on it. The budgets dedicate more money to pay an odious debt than to the social needs that could help to a collective wayout of the crisis. Those budgets are a shame to the national sovereignty, to the democracy. That is why we have to stop them.
We want to make a call to a new movilization for when the national budget is discussed in the Parliament. We want to be there again these days to say no, that ruling without asking the people first is over.
We demand the criminalization to stop, the freedom of the people still under detention and that all the charges attributed to the other comrades that were as well humillated and treated badly in police proceedures absolutely unbearable in a state based on the rule of law. An investigation about the police action during the 25S must be opened
Those days we saw that we can, if we organize ourselves, if we communicate, if we use our nets and gain confidence, calm and collective intelligence. That is why we make a proposal to you, to participate in the Coordinadora 25S, not only here in Madrid, but everywhere else, organize your own nodes in this network, do your own calls… They are taking away from us the very little that we still have left to defend. We have absolutely everything to build.
We have no fear
We are going to surround the shameful budgets
They have to go
Yes we can.

Claudio Grassi

Nichi, ma quali primarie? Il Big bang lo fa Renzi!

Quando nel 2005 Rifondazione Comunista decise – a maggioranza – di partecipare alle primarie di Prodi in molti nel Prc esprimemmo un parere contrario. La nostra critica era sull’uso dello strumento in sé. Ritenevamo che le primarie fossero sbagliate in quanto tali, perché alimentavano il processo di personalizzazione della politica. Ed eravamo anche critici sulla scelta di avviare un percorso che ci portasse alla partecipazione al Governo senza precisi impegni programmatici. A distanza di sette anni si può ragionare anche criticamente su quelle posizioni che assumemmo (è vero, per esempio, che in alcuni casi le primarie hanno consentito di eleggere sindaci di sinistra che altrimenti non sarebbero mai passati: Pisapia, Zedda, Doria, lo stesso Vendola in Puglia. Ma è altrettanto vero che in molti altri casi hanno fatto emergere elementi di corruzione e di compravendita di voti). In ogni caso quella esperienza ci portò ad una grave sconfitta politica. Il tentativo di condizionare il centro sinistra attraverso la nostra presenza all’interno e la forza dei movimenti dall’esterno, si rivelò fallimentare. Sotto il ricatto di non far cadere il Governo e – quindi – di far tornare la destra fummo costretti a votare provvedimenti che dilapidarono la credibilità che avevamo acquisito negli anni passati. Si ruppe il rapporto con i movimenti e si creò una forte delusione tra i lavoratori. Il risultato fu che – dopo meno di due anni – tutta la Sinistra fu estromessa dal Parlamento. Dentro Rifondazione Comunista si aprì il percorso per una ennesima scissione.

Oggi – come se nulla fosse successo – Nichi Vendola annuncia che parteciperà alle primarie del centrosinistra. Penso sia un grave errore politico. Non solo rimuove le difficoltà che abbiamo vissuto, perché partecipare alle primarie significa poi accettare di votare tutto quello che decide la maggioranza della coalizione, ma non considera che oggi il quadro politico ed economico è molto più arretrato del 2006. La cosa che mi impressiona di Sel – nel fare questa scelta di internità al centro sinistra – è la completa rimozione di quanto accaduto sia nel 1996 che nel 2006. Quali sono oggi gli elementi che potrebbero far pendere il pendolo in senso positivo? Mi sforzo di cercarli, ma non li vedo. Al contrario vedo una situazione ancor più difficile. Il Pd ha votato il Fiscal Compact, la riforma Fornero, abolizione dell’art.18 e mi pare difficile che un partito accetti di sopprimere delle leggi che ha appena votato! Per non parlare delle missioni militari. Sullo sfondo – anche se ne parliamo poco – i venti di guerra (Siria e Iran) non sono sopiti. Capisco anche che per Sel – dopo tutto quello che è stato detto in questi anni – non partecipare alle primarie significherebbe rinunciare ad un obiettivo quasi “costitutivo”. Ma come si fa a non riconoscere che rispetto a due anni fa quello che si pensava di ottenere con le primarie – ammesso che fosse realistico – non si intravede più nemmeno sullo sfondo? Veramente qualcuno pensa di poterle vincere e per questa via – come si diceva – determinare il big bang e costruire una grande sinistra? Tutto capovolto! Oggi il big bang può esserci, ma prodotto da un “rottamatore di destra” che, infatti, ha messo in un angolo la candidatura del Presidente della Puglia e lo scontro è tutto interno al Pd. Certo, le primarie possono ridare visibilità e conosciamo le capacità mediatiche di Nichi Vendola. Ma questo può servire per uscire da un cono d’ombra e anche risalire un po’ nei sondaggi, ma non a risolvere questi gravissimi problemi.
Detto questo non condividiamo, ma non demordiamo. Confidiamo nel fatto che in questo groviglio di incognite che è ancora di fronte a noi ( la legge elettorale, una eventuale ricandidatura di Monti e quindi la costruzione di una nuova lista di centro, la collocazione dell’Idv…) si possa aprire un cantiere unitario tra le forze che oggi si oppongono da sinistra a Monti e alle sue politiche. E non si venga a dire che sarebbe la riedizione dell’Arcobaleno! È vero esattamente il contrario! Nel 2008 fu una operazione che metteva assieme forze che si erano logorate in un Governo che aveva fatto una politica antipopolare, oggi si metterebbero assieme forze che hanno fatto opposizione a questo e al precedente Governo, che hanno visto giusto su Marchionne, che hanno dimostrato di non essere affatto minoritarie con la vittoria dei Referendum su acqua e nucleare e con i sindaci in importantissime città! Perchè non crederci? La crisi economica richiede alternative reali e questo è compreso anche da tanta parte della popolazione. Ma perché ciò si trasformi in consenso e adesione è indispensabile che la nostra proposta sia credibile. E la nostra credibilità passa necessariamente attraverso un processo di unità. Una strada “pulita” per fare tutto questo c’era e c’è. È quella che è in campo in Sicilia, nei referendum e che recentemente ha proposto anche De Magistris. Noi – fiduciosi – continueremo a lavorarci fino all’ultimo minuto utile, come ho detto anche in un recente dibattito a Napoli con De Magistris, Rinaldini, Migliore, Agnoletto (qui il video).

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