Torna il capitalismo familiare (e quello di stato)
Col tramonto del liberismo, nei paesi ricchi vacilla il capitalismo dei manager, schiacciati sui profitti di breve periodo. Torna il capitalismo familiare e le imprese di stato nei settori chiave. È il momento di ripensare la forma dell’impresa e i problemi di proprietà, controllo, democrazia
Come funzionano banche e imprese? L’ideologia neoliberista aveva le idee chiare sui comportamenti di chi opera al cuore del capitalismo: massimizzazione dei profitti, riduzione dei costi di transazione, efficienza dei mercati. Ma quelle idee risultano ora sempre più confuse e lontane dalle trasformazioni in corso. Si pensi al tema delle banche. L’intermediazione finanziaria veniva considerata come un fenomeno transitorio, caratteristico dei paesi finanziariamente arretrati, mentre in quelli avanzati si sarebbero sempre più affermate forme di collegamento diretto, sul mercato, tra operatori in deficit e operatori in surplus finanziario (Gurley e Shaw, 1960). Ma la realtà non sembra avere confortato tale visione. Le banche, anche quelle di tipo più classico, tendono a essere presenti in forze su tutti i mercati, sia pure in forme e con un peso differente da paese a paese, come le recenti vicende della crisi hanno anche purtroppo dimostrato.
Un fenomeno analogo di falsa rappresentazione della realtà si è manifestato sul fronte dei meccanismi di proprietà e controllo delle imprese.
Modello di mercato e modello bancario
È noto come la grande impresa moderna nasca tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento in Europa e negli Stati Uniti, in particolare nei settori della chimica organica, dell’elettricità, del motore a scoppio. Un problema di questa nuova struttura era costituito dalla necessità di reperire grandi quantità di capitali per finanziare gli ingenti investimenti richiesti dallo sviluppo di tali business.
Negli Stati Uniti, dal momento che le imprese familiari non sembravano in grado di provvedere alla bisogna, si ricorre al mercato. Si assiste così al frazionamento del capitale delle imprese, che viene ceduto in borsa, arrivando in certi casi ad avere società i cui azionisti si contavano anche in centinaia di migliaia di unità, nessuno dei quali in grado di influenzare in maniera significativa la gestione; parallelamente la gestione delle imprese viene affidata ad un management professionale. E’ il modello dell’impresa manageriale o “public company”.
Sulla base di questa esperienza molti teorizzano che tale soluzione al problema sia inevitabile nel tempo per tutti i paesi.
Si era teorizzato anche, negli anni della guerra fredda, che con il fenomeno della “public company” si realizzava l’avvento del “capitalismo popolare”; più recentemente, poi, G.W. Bush, sulla stessa linea, aveva enunciato lo slogan “tutti proprietari”.
In effetti, mentre nel 1929 il potere di governo nelle 200 imprese più grandi degli Stati Uniti era ancora per il 42% dei casi nelle mani di un gruppo azionario forte e nel 40,5% dei casi nelle mani del management, nel 1974 ormai solo il 16% delle imprese vedeva presente un gruppo azionario forte, mentre nell’82,5% dei casi esse erano nelle mani del management (Comito, Piccari, 2002).
Le ragioni del trionfo di tale modello era da ricercarsi da una parte nel fatto che si riuscivano così a trovare facilmente sul mercato i fondi necessari allo sviluppo, dall’altra alla presenza della responsabilità solo limitata degli azionisti, nonché alla possibilità di lasciare la gestione a dei professionisti, superando i problemi rilevabili nel caso dell’impresa familiare.
Bisogna a questo punto ricordare che, al momento del primo sviluppo della grande impresa moderna, il modello della “public company” non era stato l’unico trovato per risolvere il problema dei capitali necessari alla crescita. Così, in Germania si fece ricorso all’intervento delle banche, che diventano socie a pieno titolo in molte delle grandi società a fianco delle famiglie tradizionali, preservando quindi, almeno in parte, l’impresa a conduzione familiare. Un fenomeno non molto diverso si svilupperà poi in un paese come il Giappone.
Ricordiamo inoltre come in Europa occidentale e in particolare a partire dalla fine della seconda guerra mondiale si sia affermato anche un modello forte di proprietà pubblica dell’economia; sottolineiamo infine che nei paesi conquistati dal comunismo la proprietà pubblica dei mezzi di produzione era la regola.
Le difficoltà del capitalismo manageriale
Se, a questo punto, guardiamo alla situazione come si presenta oggi, il quadro appare molto diverso da quanto immaginato dai teorici del mercato. Negli stessi Stati Uniti si è assistito negli ultimi decenni ad una ritirata almeno parziale delle forme del capitalismo manageriale.
Da una parte si è verificato l’ingresso in forze nel capitale delle imprese degli investitori istituzionali, poi si è registrato il fenomeno delle scalate ostili, con la presa di controllo del capitale delle imprese da parte di finanzieri d’assalto, fenomeni che hanno portato alla presenza nel capitale di molte aziende di azionisti forti. Parallelamente, l’innovazione finanziaria ha portato alla ribalta nuove strutture di supporto finanziario alle imprese, quali il venture capital e i fondi di private equity; infine, anche i forti margini di redditività possibili nei settori delle nuove tecnologie, hanno molto contribuito a cambiare gli equilibri.
Così molte delle nuove imprese di successo, da Microsoft, a Intel, a Cisco, ad Apple, a Google, ad Amazon, riescono ad andare avanti con un controllo di tipo familiare, anche se qualcuna ad un certo punto accetta la quotazione in borsa. Questo non significa ovviamente che i gruppi manageriali scompaiano di scena; soltanto che ora essi devono fare i conti con degli azionisti forti, mentre prima avevano campo del tutto libero. Per altro verso, l’arrivo degli investitori istituzionali, accompagnati dalla coorte di società di venture capital, di private equity e così via, segna anche l’avanzare in occidente dei processi di finanziarizzazione dell’economia.
Il disamore per l’impresa a capitale diffuso deriva anche da una serie di inconvenienti che essa comporta. Il primo ha a che fare con il conflitto di interesse tra proprietari e manager. La gestione lasciata in mano ai dirigenti, senza alcun contropotere, porta alla conseguenza che essi tendono a massimizzare i loro interessi e non quelli degli azionisti. Essi nascondono i dati al mercato o forniscono dati di comodo, si circondano di privilegi di ogni genere, diventano inamovibili anche in presenza di risultati non proprio esaltanti, sono i veri padroni dell’impresa.
Un secondo problema deriva dal fatto che i gestori di impresa sono sempre più disturbati dalla necessità di fornire e a frequenze ravvicinate molte informazioni ai mercati; il fenomeno è diventato molto più incisivo di prima dopo lo scandalo Enron, evento che ha spinto il legislatore statunitense a varare delle norme molto strette in proposito e ad inasprire le pene a chi dichiara il falso in tema di bilanci.
Un terzo inconveniente, accentuatosi nell’ultimo periodo, riguarda lo sguardo sempre più a corto termine che l’impresa a capitale diffuso porta agli affari.
Così il numero delle grandi “public company” è diminuito fortemente negli ultimi anni. Esso si è ridotto del 38% dal 1997 al 2011 negli Stati Uniti e del 48% in Gran Bretagna. Il numero delle imprese introdotte in borsa nel primo paese è passato da una media di 311 all’anno nel periodo 1980-2000 a soltanto 99 nel periodo 2001-2011 (The Economist, 2012).
Capitalismo familiare e capitalismo pubblico
Ricordiamo che nell’ Europa continentale, al di là del caso tedesco, il modello dell’impresa a capitale familiare non ha mai cessato di mantenere una sua forza rilevante, in particolare in paesi come la Francia, la Spagna o, ancora di più, l’Italia.
Ma negli ultimi decenni, l’avvento alla ribalta, dopo il Giappone e la Corea, di paesi come la Cina, l’India, il Vietnam, il Brasile, la Russia, la Turchia, l’Indonesia, tende ad accentuare e a rendere più evidente questo fenomeno. Oggi assistiamo semmai dunque al trionfo del capitalismo familiare, forma che del resto è stata quella predominante in gran parte della storia, sin dalla notte dei tempi.
D’altro canto, dopo che nell’ultimo decennio del secolo scorso e nei primi anni del nuovo abbiamo assistito, sotto la spinta di una forte ondata ideologica neoliberista, alla ritirata del capitalismo pubblico in diversi paesi dell’Europa Occidentale, nei paesi emergenti tale forma è sempre fortemente in auge.
Il caso più clamoroso è forse costituito dal fatto che le 13 più grandi imprese petrolifere del mondo, tutte collocate nei paesi emergenti, sono tutte a capitale pubblico. Le imprese a controllo statale pesano per l’80% del valore totale di borsa in Cina, per il 62% in Russia, per il 38% in Brasile. Le imprese a controllo familiare, a loro volta, rappresentano i due terzi delle imprese quotate in India e circa la metà nell’Asia del Pacifico (The Economist, 2012).
Il capitalismo familiare appare rivolto più all’avvenire di lungo termine dell’impresa rispetto a quello manageriale, più attento quest’ultimo invece ai risultati a breve. Esso controlla meglio il problema relativo al conflitto strutturale tra proprietà e management. Uno dei suoi più rilevanti problemi è quello della successione. Un imprenditore che riesce a lanciare e a sviluppare un’impresa si trova, raggiunta l’età avanzata, di fronte al problema di a chi affidare l’azienda.
Le imprese a proprietà statale, poi, sono più facilmente indirizzabili verso gli interessi del paese, mentre i legami organici con i politici facilitano i loro compiti; ma esse sono anche spesso spinte ad un legame perverso con la stessa politica e, di frequente, possono apparire poco efficienti e meno inclini ad ottenere risultati economici adeguati, anche se questo non sembra inevitabile.
Conclusioni
Il quadro delle forme di proprietà-controllo delle grandi imprese appare in forte movimento, in particolare in occidente e sembra comunque allontanarsi in misura rilevante dall’impianto teorico che veniva portato avanti dai neoliberisti.
In ogni caso, resta poi aperto il problema della democrazia nell’impresa, tema di cui si continua a parlare molto poco e che invece anche la crisi in atto dovrebbe contribuire a porre in primo piano. Le esperienze delle aziende cooperative, quelle della cogestione tedesca, i progetti di democrazia azionaria come in Svezia con il piano Meidner di alcuni decenni fa ed altre esperienze passate potrebbero comunque costituire delle basi importanti, anche se da sole insoddisfacenti, da cui far ripartire la riflessione su di un tema che sembra cruciale. Porta un contributo rilevante alla riflessione in proposito un volume appena uscito in Francia (Ferreras, 2012).
Testi citati nell’articolo
Comito V., Piccari P.L., Idee e capitali, Utet libreria, Torino, 2002
Ferreras I., Gouverner le capitalisme?, PUF, Parigi, 201
Gurley I. G., Shaw E. S., Money in a theory of finance, Brookings Institute, New York, 1960
The Economist, The big engine that couldn’t, 19 maggio 2012
Un fenomeno analogo di falsa rappresentazione della realtà si è manifestato sul fronte dei meccanismi di proprietà e controllo delle imprese.
Modello di mercato e modello bancario
È noto come la grande impresa moderna nasca tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento in Europa e negli Stati Uniti, in particolare nei settori della chimica organica, dell’elettricità, del motore a scoppio. Un problema di questa nuova struttura era costituito dalla necessità di reperire grandi quantità di capitali per finanziare gli ingenti investimenti richiesti dallo sviluppo di tali business.
Negli Stati Uniti, dal momento che le imprese familiari non sembravano in grado di provvedere alla bisogna, si ricorre al mercato. Si assiste così al frazionamento del capitale delle imprese, che viene ceduto in borsa, arrivando in certi casi ad avere società i cui azionisti si contavano anche in centinaia di migliaia di unità, nessuno dei quali in grado di influenzare in maniera significativa la gestione; parallelamente la gestione delle imprese viene affidata ad un management professionale. E’ il modello dell’impresa manageriale o “public company”.
Sulla base di questa esperienza molti teorizzano che tale soluzione al problema sia inevitabile nel tempo per tutti i paesi.
Si era teorizzato anche, negli anni della guerra fredda, che con il fenomeno della “public company” si realizzava l’avvento del “capitalismo popolare”; più recentemente, poi, G.W. Bush, sulla stessa linea, aveva enunciato lo slogan “tutti proprietari”.
In effetti, mentre nel 1929 il potere di governo nelle 200 imprese più grandi degli Stati Uniti era ancora per il 42% dei casi nelle mani di un gruppo azionario forte e nel 40,5% dei casi nelle mani del management, nel 1974 ormai solo il 16% delle imprese vedeva presente un gruppo azionario forte, mentre nell’82,5% dei casi esse erano nelle mani del management (Comito, Piccari, 2002).
Le ragioni del trionfo di tale modello era da ricercarsi da una parte nel fatto che si riuscivano così a trovare facilmente sul mercato i fondi necessari allo sviluppo, dall’altra alla presenza della responsabilità solo limitata degli azionisti, nonché alla possibilità di lasciare la gestione a dei professionisti, superando i problemi rilevabili nel caso dell’impresa familiare.
Bisogna a questo punto ricordare che, al momento del primo sviluppo della grande impresa moderna, il modello della “public company” non era stato l’unico trovato per risolvere il problema dei capitali necessari alla crescita. Così, in Germania si fece ricorso all’intervento delle banche, che diventano socie a pieno titolo in molte delle grandi società a fianco delle famiglie tradizionali, preservando quindi, almeno in parte, l’impresa a conduzione familiare. Un fenomeno non molto diverso si svilupperà poi in un paese come il Giappone.
Ricordiamo inoltre come in Europa occidentale e in particolare a partire dalla fine della seconda guerra mondiale si sia affermato anche un modello forte di proprietà pubblica dell’economia; sottolineiamo infine che nei paesi conquistati dal comunismo la proprietà pubblica dei mezzi di produzione era la regola.
Le difficoltà del capitalismo manageriale
Se, a questo punto, guardiamo alla situazione come si presenta oggi, il quadro appare molto diverso da quanto immaginato dai teorici del mercato. Negli stessi Stati Uniti si è assistito negli ultimi decenni ad una ritirata almeno parziale delle forme del capitalismo manageriale.
Da una parte si è verificato l’ingresso in forze nel capitale delle imprese degli investitori istituzionali, poi si è registrato il fenomeno delle scalate ostili, con la presa di controllo del capitale delle imprese da parte di finanzieri d’assalto, fenomeni che hanno portato alla presenza nel capitale di molte aziende di azionisti forti. Parallelamente, l’innovazione finanziaria ha portato alla ribalta nuove strutture di supporto finanziario alle imprese, quali il venture capital e i fondi di private equity; infine, anche i forti margini di redditività possibili nei settori delle nuove tecnologie, hanno molto contribuito a cambiare gli equilibri.
Così molte delle nuove imprese di successo, da Microsoft, a Intel, a Cisco, ad Apple, a Google, ad Amazon, riescono ad andare avanti con un controllo di tipo familiare, anche se qualcuna ad un certo punto accetta la quotazione in borsa. Questo non significa ovviamente che i gruppi manageriali scompaiano di scena; soltanto che ora essi devono fare i conti con degli azionisti forti, mentre prima avevano campo del tutto libero. Per altro verso, l’arrivo degli investitori istituzionali, accompagnati dalla coorte di società di venture capital, di private equity e così via, segna anche l’avanzare in occidente dei processi di finanziarizzazione dell’economia.
Il disamore per l’impresa a capitale diffuso deriva anche da una serie di inconvenienti che essa comporta. Il primo ha a che fare con il conflitto di interesse tra proprietari e manager. La gestione lasciata in mano ai dirigenti, senza alcun contropotere, porta alla conseguenza che essi tendono a massimizzare i loro interessi e non quelli degli azionisti. Essi nascondono i dati al mercato o forniscono dati di comodo, si circondano di privilegi di ogni genere, diventano inamovibili anche in presenza di risultati non proprio esaltanti, sono i veri padroni dell’impresa.
Un secondo problema deriva dal fatto che i gestori di impresa sono sempre più disturbati dalla necessità di fornire e a frequenze ravvicinate molte informazioni ai mercati; il fenomeno è diventato molto più incisivo di prima dopo lo scandalo Enron, evento che ha spinto il legislatore statunitense a varare delle norme molto strette in proposito e ad inasprire le pene a chi dichiara il falso in tema di bilanci.
Un terzo inconveniente, accentuatosi nell’ultimo periodo, riguarda lo sguardo sempre più a corto termine che l’impresa a capitale diffuso porta agli affari.
Così il numero delle grandi “public company” è diminuito fortemente negli ultimi anni. Esso si è ridotto del 38% dal 1997 al 2011 negli Stati Uniti e del 48% in Gran Bretagna. Il numero delle imprese introdotte in borsa nel primo paese è passato da una media di 311 all’anno nel periodo 1980-2000 a soltanto 99 nel periodo 2001-2011 (The Economist, 2012).
Capitalismo familiare e capitalismo pubblico
Ricordiamo che nell’ Europa continentale, al di là del caso tedesco, il modello dell’impresa a capitale familiare non ha mai cessato di mantenere una sua forza rilevante, in particolare in paesi come la Francia, la Spagna o, ancora di più, l’Italia.
Ma negli ultimi decenni, l’avvento alla ribalta, dopo il Giappone e la Corea, di paesi come la Cina, l’India, il Vietnam, il Brasile, la Russia, la Turchia, l’Indonesia, tende ad accentuare e a rendere più evidente questo fenomeno. Oggi assistiamo semmai dunque al trionfo del capitalismo familiare, forma che del resto è stata quella predominante in gran parte della storia, sin dalla notte dei tempi.
D’altro canto, dopo che nell’ultimo decennio del secolo scorso e nei primi anni del nuovo abbiamo assistito, sotto la spinta di una forte ondata ideologica neoliberista, alla ritirata del capitalismo pubblico in diversi paesi dell’Europa Occidentale, nei paesi emergenti tale forma è sempre fortemente in auge.
Il caso più clamoroso è forse costituito dal fatto che le 13 più grandi imprese petrolifere del mondo, tutte collocate nei paesi emergenti, sono tutte a capitale pubblico. Le imprese a controllo statale pesano per l’80% del valore totale di borsa in Cina, per il 62% in Russia, per il 38% in Brasile. Le imprese a controllo familiare, a loro volta, rappresentano i due terzi delle imprese quotate in India e circa la metà nell’Asia del Pacifico (The Economist, 2012).
Il capitalismo familiare appare rivolto più all’avvenire di lungo termine dell’impresa rispetto a quello manageriale, più attento quest’ultimo invece ai risultati a breve. Esso controlla meglio il problema relativo al conflitto strutturale tra proprietà e management. Uno dei suoi più rilevanti problemi è quello della successione. Un imprenditore che riesce a lanciare e a sviluppare un’impresa si trova, raggiunta l’età avanzata, di fronte al problema di a chi affidare l’azienda.
Le imprese a proprietà statale, poi, sono più facilmente indirizzabili verso gli interessi del paese, mentre i legami organici con i politici facilitano i loro compiti; ma esse sono anche spesso spinte ad un legame perverso con la stessa politica e, di frequente, possono apparire poco efficienti e meno inclini ad ottenere risultati economici adeguati, anche se questo non sembra inevitabile.
Conclusioni
Il quadro delle forme di proprietà-controllo delle grandi imprese appare in forte movimento, in particolare in occidente e sembra comunque allontanarsi in misura rilevante dall’impianto teorico che veniva portato avanti dai neoliberisti.
In ogni caso, resta poi aperto il problema della democrazia nell’impresa, tema di cui si continua a parlare molto poco e che invece anche la crisi in atto dovrebbe contribuire a porre in primo piano. Le esperienze delle aziende cooperative, quelle della cogestione tedesca, i progetti di democrazia azionaria come in Svezia con il piano Meidner di alcuni decenni fa ed altre esperienze passate potrebbero comunque costituire delle basi importanti, anche se da sole insoddisfacenti, da cui far ripartire la riflessione su di un tema che sembra cruciale. Porta un contributo rilevante alla riflessione in proposito un volume appena uscito in Francia (Ferreras, 2012).
Testi citati nell’articolo
Comito V., Piccari P.L., Idee e capitali, Utet libreria, Torino, 2002
Ferreras I., Gouverner le capitalisme?, PUF, Parigi, 201
Gurley I. G., Shaw E. S., Money in a theory of finance, Brookings Institute, New York, 1960
The Economist, The big engine that couldn’t, 19 maggio 2012
Nessun commento:
Posta un commento