Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 13 ottobre 2012

Quello che abbiamo e quello che ci manca

∫connessioni precarie

Di fronte alle imponenti manifestazioni che hanno luogo a Madrid, Lisbona e Atene, e alla costante presenza di un’opposizione sociale all’austerity nei paesi che più stanno subendo le politiche di tagli voluti dal patto salva-euro, è frequente la domanda: cosa accade invece in Italia? Oppure: perché in Italia le molte lotte quotidiane contro gli attacchi tecnicamente sferrati dal governo non si saldano, come accade in altri luoghi dell’area mediterranea?
Reclamare un reddito di base incondizionato, di fronte alla precarietà e alla povertà dilagante, è cosa giusta. Difendere il lavoro dipendente, salvaguardando articolo 18 e ammortizzatori sociali, è cosa giusta. Evocare l’assedio del Parlamento, perché così accade in Spagna, Grecia e Portogallo, è un’idea suggestiva. Qualcosa però dovrebbe suggerire che continuare su questa strada non servirà. Nessuna di queste giuste e suggestive prospettive sembra porsi il problema dell’accumulazione di forza che è necessaria per vincere, o anche soltanto a dare all’esasperazione diffusa una forma che sia diversa dalla mera rabbia o indignazione, che rischiano sempre di limitarsi a momenti di sfogo tanto straordinari quanto fugaci.
Sarebbe bene smetterla di ricamare sulla carta ciò che andrebbe fatto, e iniziare a misurarsi con la condizione reale che la precarietà ha prodotto ben prima dei provvedimenti sul lavoro del governo Monti, e che la crisi continua a riprodurre con l’ostinazione di un movimento reale.
I rapporti sociali così prodotti mostrano di tenere. Vediamo come sia difficile trovare scorciatoie capaci di trasformare tanto singole vertenze industriali, pur grandi, quanto singole esperienze locali, pur capaci di generare inedite alleanze e mobilitazioni costanti, nelle leve per una mobilitazione generale.
Per noi, il motivo risiede nei rapporti sociali prodotti e riprodotti dal lavoro della precarietà e dall’ipoteca del razzismo istituzionale. Quest’ultimo non è la disgrazia particolare che colpisce alcuni, ma l’evidenza di una divisione che chiarisce agli occhi di tutti in quale parte della società bisogna stare. La sanatoria di queste settimane, sia detto per inciso, mostra da sola l’incapacità dei movimenti di mettere in discussione questa ipoteca e la solitudine dei migranti. Su di loro si sta scaricando una stretta amministrativa che, facendo leva sul reddito, arriva perfino a negare il “diritto alla precarietà” e alla disoccupazione. Eppure sono stati proprio i migranti, in questi anni, a produrre i momenti più alti d’insubordinazione dentro questi rapporti reali, rigettando quel ricatto del salario che pare oggi un ostacolo insormontabile da Taranto a Torino.
Non dovremmo pensare che sia sufficiente costruirsi spazi di autonomia dai quali dirigere l’attacco contro la ristrutturazione globale del capitale, ma essere capaci di entrare e fare i conti con quei rapporti che lasciano la gran massa dei precari, dei lavoratori, dei disoccupati, in Italia come altrove, invischiati nella tela della produzione e riproduzione sociale.
Non vediamo avanguardie di un futuro prossimo. Il presente della crisi è fatto da quella massa di lavoratori dipendenti, precari, pubblici e privati, ai quali i movimenti non hanno saputo parlare. Se si rinuncerà ancora a parlare dentro a questo orizzonte, il ruolo dei movimenti sarà, come spesso è stato negli ultimi anni, soltanto quello di testimoniare una diversa ecologia dei comportamenti politici. In questi mesi molti hanno condiviso, nei fatti e anche in presenza di contrapposizioni di schieramento, un approccio di fondo, che ha finito per riprodurre specularmente la struttura categoriale dei sindacati: che gli operai, gli studenti, i precari, i disoccupati, i migranti fossero segmenti divisi da compartimenti stagni, ognuno dei quali patrimonio di specialisti; che il movimento si desse come un cartello di strutture; che la supposta radicalità delle rivendicazioni si desse nelle pratiche di piazza; che, derubricata la centralità materiale del lavoro, lo scontro avvenisse ormai sul piano simbolico. Molti si sono poi stupiti di fronte all’esplodere del protagonismo operaio e del fatto che questo non si sia manifestato immediatamente contro il lavoro.
Noi crediamo sia giunto il momento di uscire da questo equivoco politico. Gli operai, gli studenti, i precari, i disoccupati, i migranti, non sono segmenti divisi da compartimenti stagni. Il problema dell’accumulazione di forza e di potere nella precarietà non si risolve con una sommatoria di pezzi che, ripuliti delle differenze, possano ritrovarsi senza nemmeno comunicare sotto l’ombrello retorico della democrazia, della moltitudine o del comune. La fascinazione di piazza Syntagma, l’empatico rilancio nei social network delle adunate di Sol e Neptuno non possono nascondere il fatto che, senza una mobilitazione espansiva e non meramente autorappresentativa, senza la produzione di momenti di comunicazione e insubordinazione contro la forza dell’abitudine, per difendere parlamento e ministeri sarà sempre sufficiente un adeguato numero di poliziotti. Il carattere universale della precarietà e dello sfruttamento non è di per sé la condizione sufficiente per connettere la rabbia generalizzata e le singole lotte. Ciò che ci manca è proprio la capacità di fare questo passaggio, che non è né dato né implicito. Costruire un’organizzazione generale delle lotte non significa stabilire una gerarchia che le diriga, né tanto meno al loro interno. Significa però distinguere collettivamente ciò che è generalizzabile e cosa non lo è. Significa guardare nella composizione materiale di classe, magari facendo un passo indietro rispetto alle proprie convinzioni teoriche. Significa non considerare lo stato presente dei movimenti come se fosse sufficiente a se stesso, ma riconoscere la necessità di operare contro di esso per tutti i limiti che ci impone.
Da questo punto di vista anche ciò che accade nell’area euro-mediterranea non è la soluzione, ma la forma in cui emerge il problema. Le enormi mobilitazioni, la violenta contrapposizione nelle piazze, i tentativi di riarticolare discorsi sulla democrazia e la costituzione sembrano essere destinati all’eccezionalità persino nella loro costante ripetizione. E la ripetizione non comporta necessariamente un qualche accumulo. Le pur diffuse esperienze di autorganizzazione sociale dentro e contro la crisi rischiano di rimanere solo forme di autodifesa, ormai indispensabili per sopravvivere alla costante svalutazione della vita. L’Europa e il mercato globale stabiliscono il quadro mobile, mutevole e violento dentro il quale i nostri movimenti reali sono obbligati a muoversi, quando cercano di sovvertire. Come non è pensabile rimediare in piccolo agli effetti del mercato mondiale, così non è credibile chi pensa di salvarsi dalla crisi facendo a meno dell’Europa politica. I movimenti reali di rivolta che attraversano l’area euro-mediterranea devono essere collocati dentro e contro questo spazio programmatico. Altrimenti si rischia di produrre un confinamento che non è all’altezza né della dimensione globale di questa fase di accumulazione, che in Europa si chiama crisi e altrove sviluppo, né delle lotte che a essa si oppongono – dal Pakistan alla Cina, dall’India alle Americhe, passando per l’Europa – e nemmeno dei movimenti degli uomini e delle donne che si sottraggono ogni giorno alla sua presa.
Non è per un internazionalismo di maniera che diciamo che anche la lotta nell’Europa politica produce organizzazione solo se si colloca all’interno del quadro più ampio che la determina. Abbiamo sostenuto l’intuizione dello sciopero precario, del quale abbiamo intravisto la possibilità nelle lotte dei migranti, e che abbiamo visto praticato nell’imprevista esperienza del general strike di Oakland, ma anche nelle lotte degli operai indiani. Esso ha dato un nome alla scommessa di intervenire in questo movimento reale globale. Una scommessa che andrebbe colta e giocata, onde evitare che, nella ferrea catena che collega tutte le istituzioni del capitale, la nostra incapacità di produrre organizzazione sia l’unico anello debole.

Europa: menzogne sul debito pubblico

La costruzione di un nuovo modello di stato

di Giovanna Cracco - sinistrainrete -

In merito alle cause e alle soluzioni della crisi economica che sta cambiando il volto delle architetture sociali dei Paesi europei, la propaganda del potere economico-politico ha raggiunto livelli orwelliani.

Una banda di plutocrati siede al Ministero della Verità e una nutrita schiera di giornalisti servili fa da megafono alle menzogne. La materia ben si presta, più di altre, alla manipolazione della realtà: l’economia e la finanza sono ambiti specialistici che le persone comuni poco conoscono. Diventa dunque facile creare una ‘verità’: si formula un postulato – un’affermazione che, pur non essendo né evidente né dimostrata, viene considerata vera e posta come fondamento di una teoria deduttiva che altrimenti risulterebbe incoerente – e tramite l’informazione di palazzo (in Italia tutta la grande informazione) lo si diffonde. Una volta che ha sedimentato nel cervello dei cittadini, la strada per delineare il quadro teorico è tutta discesa.

Un Paese con un elevato rapporto debito pubblico/Pil rischia il fallimento, questo è il postulato. Segue il quadro teorico: i tassi di interesse sui titoli pubblici crescono, perché per investire denaro in un Paese a rischio default il mercato pretende di essere ricompensato con profitti maggiori; dunque, l’unica soluzione per uscire dalla crisi è ridurre il debito pubblico e così riconquistare la fiducia dei mercati.

I dati reali sono, per qualsiasi propaganda, il colpo di vento che fa crollare il castello di carte. Partiamo dunque da questi.


Come ben sa ogni politico ed economista, non esiste una sola teoria economica, nemmeno quella classica tuttora alla base del capitalismo – il libero mercato e la ‘mano invisibile’ di Adam Smith – che abbia mai fissato il confine del rapporto debito pubblico/Pil oltre il quale un Paese fallisce. Il postulato dell’Unione europea non ha dunque alcun fondamento teorico, ed è facilmente smentibile anche dal punto di vista empirico.

Ne è semplice dimostrazione il Giappone: terza potenza mondiale dopo Stati Uniti e Cina, decima per popolazione, con 127 milioni di abitanti, terza per aspettativa di vita (ottant’anni per gli uomini e ottantasette per le donne), in dieci anni non ha mai visto un avanzo di bilancio e ha più che raddoppiato il rapporto debito/Pil, portandolo a superare ampiamente il 200% (per il 2012 il Fondo monetario internazionale lo stima al 235%); il Pil cresce modestamente, eppure la disoccupazione si mantiene bassa; l’inflazione viaggia intorno allo zero, così come il tasso di interesse bancario di riferimento e i tassi sui titoli pubblici a dieci anni (0,772% all’asta di agosto), con richieste che superano il quantitativo offerto (vedi tabella 1). Ciliegina sulla torta, il famigerato rating sul debito sovrano vede l’ambita lettera ‘A’: AA3 per Moody’s, AA- per Standard&Poor’s, A+ per Fitch.

È altresì vero che il sistema finanziario giapponese poggia su due fondamenti non riscontrabili nei Paesi dell’Unione europea.

Innanzitutto, il Giappone ha una banca centrale che emette moneta e che partecipa all’asta dei titoli pubblici, acquistandoli direttamente; una caratteristica comune a tutti gli Stati sovrani, tranne a quelli aderenti all’euro, le cui banche centrali sono state esautorate della politica monetaria dalla Bce, che per statuto non può acquistare i titoli del debito pubblico dei Paesi membri.

In secondo luogo, il Paese asiatico ha chiuso le porte in faccia ai capitali stranieri: il 90% dei titoli di Stato è in mano ai giapponesi. Questo azzera ogni possibilità di speculazione finanziaria, dato che nessun possessore di obbligazioni – banche, fondi privati di investimento, singoli cittadini – ha interesse a guadagnare affossando l’economia all’interno della quale agisce.

Non si intende qui dare un giudizio positivo sul sistema economico giapponese – la qualità della vita di una persona non è certo misurabile in base ai parametri sopra esposti – ma semplicemente evidenziare come, tenendo a riferimento gli stessi dati che il postulato indica come misura della valutazione positiva o negativa di un ‘sistema Stato’, non è l’entità del debito pubblico a causare o meno il fallimento di un Paese, ma la sua politica monetaria.

Un premio per l’Unione che dimentica l’ex-Jugoslavia

Vladimiro Giacchè

Qualcuno, leggendo le notizie di agenzia sull’assegnazione del Premio Nobel per la Pace, deve aver pensato a un pesce d’aprile fuori stagione. Ma la notizia era vera: quest’anno il Premio Nobel per la Pace è stato assegnato all’Unione Europea.
Con questa motivazione: il ruolo giocato per oltre 6 decenni per la pace e la riconciliazione in Europa tra paesi che avevano combattuto le più sanguinose guerre tra loro. I più critici lo interpreteranno come un premio alla memoria, visto lo stato di progressiva disgregazione dell’Unione, a cominciare dall’Eurozona.
Più probabilmente, si tratta di un premio d’incoraggiamento, viste le tensioni crescenti tra paesi europei. Come dire: cercatevi di comportarvi bene anche in futuro. Certo che parlare oggi di “fraternità tra le nazioni” a proposito dell’Unione Europea suona un po’ ironico.
Inteso come premio d’incoraggiamento, quello di quest’anno si porrebbe in continuità con il Nobel per la Pace attribuito anni fa – nella sorpresa generale – a Barack Obama. In quel caso, però, non funzionò molto bene: infatti il presidente degli Stati Uniti pochi mesi dopo l’assegnazione del premio pensò bene di raddoppiare gli effettivi dell’esercito statunitense in Afghanistan.
Ma al di là delle intenzioni c’è qualcos’altro, in questo premio, che lascia perplessi. Qualcosa che ha a che fare sia con la storia che con la geografia. In effetti, è difficile dimenticare le guerre sanguinose che hanno devastato negli anni Novanta la ex-Jugoslavia, paese – salvo errore – a tutti gli effetti europeo. E il fatto che l’Unione Europea giocò un ruolo tutt’altro che positivo in quella vicenda. Prima, col riconoscimento tedesco dell’autonomia della Croazia, che diede un contributo decisivo alla disgregazione della Jugoslavia e all’esplosione della polveriera balcanica. Poi, con le ripetute divisioni tra paesi europei nel corso delle trattative di pace (vedi Rambouillet). Infine, con i bombardamenti NATO (perdipiù in assenza di autorizzazione Onu), effettuati soprattutto su obiettivi civili, a Belgrado e in altre città.
Di tutto questo, nelle motivazioni del premio, ovviamente non c’è traccia.
Si salutano invece come aspetti positivi la prossima ammissione della Croazia nell’Unione, l’apertura di negoziati col Montenegro, e la concessione dello status di candidata all’ammissione per la Serbia, ritenendo che tutto ciò “rafforzi il processo di riconciliazione nei Balcani”. Processo che a dire il vero, sinora, in Kosovo e altrove, ben difficilmente può essere considerato un caso di successo. Ma a Oslo, evidentemente, la pensano in modo diverso.

NO ITALIAN PLANES TO ISRAEL !



venerdì 12 ottobre 2012

Nobel per la Pace a chi fa la guerra?

Fonte: controlacrisi.org
         Ferrero (Prc): Ridicoli, un'offesa a chi si batte realmente per la pace. La Cgil esprime soddisfazione.
Il premio Nobel per la pace 2012 è stato assegnato all'Unione Europea. Motivo: per "i progressi nella pace e nella riconciliazione" e per aver garantito "la democrazia e i diritti umani" nel Vecchio continente. Una bella e buona mistificazione della realtà che svuota il premio di ogni significato nel momento in cui viene assegnato a persone o istituzioni che con la pace hanno poco o nulla a che fare.

Paolo Ferrero, segretario nazionale di Rifondazione comunista-FdS, non accetta di 'subire' la notizia come fanno in tanti in politica. Ma attacca duramente: "La decisione di assegnare il Nobel per la Pace all’Unione Europea è ridicola. Dopo l’assegnazione “preventiva” a Obama, che invece non ha smesso di bombardare e fare “guerre umanitarie”, ora il comitato di Oslo sceglie di premiare l’Ue. Purtroppo l’Unione Europea non si è distinta in questi anni per aver praticato e perseguito la pace: ha preso parte a decine di conflitti, continuato a sfruttare le risorse del Sud del mondo, alzato i muri contro i migranti e fatto nulla per affermare i diritti umani nel mondo e all’interno dei confini dell’Unione. Questo premio non solo è non meritato ma è un’offesa a chi nel mondo si batte realmente, ogni giorno, per la pace e i diritti umani".

Incomprensibile la posizione della Cgil, che attraverso un comunicato di Fausto Durante, Responsabile del Segretariato Europa della CGIL, esprime "soddisfazione per l'assegnazione del premio Nobel per la Pace 2012 all'Unione europea. E' un riconoscimento del processo di pace nell'area dell'Unione europea e per aver garantito la democrazia e i diritti umani nel vecchio Continente".

Benvenuti nel capitalismo reale


Autore:  - eddyburg -


Quando l’Austerity dei padroni della finanza diventa una superstizione, allora dalla gabbia del capitalismo non si esce piùIl manifesto11 ottobre 2012


Mannaggia alla bomba atomica! Senza questo piccolo particolare, la recessione mondiale sarebbe già alle nostre spalle. Infatti le altre crisi gravi sono state sanate solo quando è scoppiata una bella guerra: l'esempio più indiscutibile è la Grande Depressione degli anni '30 superata solo grazie alla Seconda guerra mondiale.

La ragione è semplice: di solito della guerra percepiamo solo la messe umana che miete, ma dal punto di vista economico i milioni di morti sono marginali; quel che conta è che la guerra distrugge un'immane quantità di edifici, prodotti, macchinari, in definitiva di capitale; e quindi crea la necessità di una nuova accumulazione, grazie alla ricostruzione materiale. Tanto che, dopo la guerra, a vivere i miracoli economici più rigogliosi di solito sono proprio i paesi più rasi al suolo, perché i nuovi impianti sono più moderni mentre gli stati più risparmiati si tengono anche le fabbriche più desuete e vengono scavalcati. Joseph Schumpeter aveva in mente proprio la guerra quando parlava della «distruzione creatrice» come caratteristica essenziale del capitalismo.

Però non tutte le guerre vanno bene. Quella in Iraq è sì costata agli Usa migliaia di miliardi di dollari senza apportare alcun beneficio all'economia statunitense, proprio perché non ha richiesto un massiccio aumento della produzione, non ha mobilitato la popolazione, non ha messo in campo quel connubio di spesa illimitata (per armi e materiale bellico) da un lato e razionamento (dei consumi privati) dall'altro che costituisce tutto l'appeal dell'economia di guerra. La guerra consente infatti ai governi di mandare a quel paese i diktat dei "mercati", rende non solo lecito, ma necessario spendere ed espandere il debito pubblico in nome di una causa superiore. Nessuno criticherà un governo se sfora per difendere la patria.Le guerre locali e a questo scopo non servono, ci vogliono vere e proprie guerre mondiali. E' col capitalismo che nasce la nozione di "guerra mondiale": la prima fu quella dei Sette anni (1756-1763) che decise il destino coloniale di interi continenti, dal Canada all'India; mondiali furono le guerre napoleoniche (anche Bonaparte, come Rommel, pensò di andare a fiaccare la potenza inglese in Egitto, e come Von Paulus finì impantanato in Russia); mondiali furono le due grandi guerre del secolo scorso.
Sono proprio queste guerre mondiali - conflitti totali tra grandi potenze - che l'arma atomica ha reso impossibili. Il capitalismo si trova così prigioniero dell'impossibilità di ricorrere alla soluzione bellica. Una prigionia tanto più asfissiante quanto più è totalitaria la dittatura dei mercati e quanto più risulta incrollabile la fede superstiziosa negli effetti salvifici dell'austerità. Durante la guerra fredda i propagandisti occidentali coniarono un'immagine assai efficace per descrivere la dittatura materiale e ideologica cui erano sottoposti i paesi del Patto di Varsavia: "socialismo reale" fu chiamata. Termine di straordinaria comunicativa perché diceva tutto senza dire: di fronte alle promesse di un "radioso sol dell'avvenire", nella sua realtà attuale e quotidiana il socialismo era solo sorveglianza del Kgb o della Stasi, penuria materiale, censura, file davanti ai negozi di generi di prima necessità, oppressione totale (o totalitaria) sotto un tallone nello stesso tempo poliziesco e ideologico (un pensiero unico sovietico diremmo oggi). Quel che caratterizzava il socialismo reale era che non potevi sfuggire, non potevi andartene, non potevi né cambiarlo, né ricusarlo. Ci pensavano i carri armati dei "paesi fratelli" a ricordarlo.

L’altra Europa arriva a Firenze

di Mario Pianta

“Firenze 10+10. Unire le forze per un’altra Europa” è l’appuntamento che porterà migliaia di persone – cittadini, movimenti, esperti, sindacati, associazioni di tutta Europa – a discutere delle alternative all’Europa della finanza e dell’austerità, dall’8 all’11 novembre a Firenze
Sono passati dieci anni dal primo forum sociale europeo di Firenze e, nel fondo della crisi, serve guardare ai prossimi dieci anni. Sono passati cinque anni dall’inizio della crisi e i movimenti nati come risposta alla crisi non si sono ancora incontrati. Firenze è il luogo da cui ripartire, per condividere a livello europeo le analisi su quanto è successo, le esperienze costruite dal basso, le proposte su come far cambiare rotta all’Europa. Democrazia, austerità, debito, beni comuni, lavoro e diritti sociali, pace e conflitti, mobilitazioni sono i temi al centro delle discussioni. A promuovere l’incontro è una vasta rete di società civile e movimenti di tutti i paesi europei, che coinvolge le proteste contro l’austerità e gli indignados, la Confederazione dei sindacati europei e gli studenti, con un attivo coordinamento fiorentino.
Sbilanciamoci! e “Un’altra strada per l’Europa” – il forum al Parlamento europeo del 28 giugno scorso che aveva messo a confronto movimenti e politici europei su economia e democrazia – organizzano una sessione dell’incontro di Firenze dedicata alle alternative economiche. Insieme agli Economistes atterrés francesi, alla rete europea di Euromemorandum, e a numerosi centri di ricerca, viene organizzato un Meeting of Economists' Networks on Another Economic Policy for Europe, che si terrà dalle 9 alle 13 di venerdi 9 novembre 2012, alla Fortezza da Basso di Firenze, con traduzioni simultanee, spazio per costruire proposte comuni e un coordinamento stabile tra le attività in corso. Ci saranno le associazioni di Sbilanciamoci! e moltissimi autori di Sbilanciamoci.info. Siete tutti invitati.
Per informazioni:
redazione@sbilanciamoci.info
info@firenze1010.eu
www.firenze1010.eu
twitter: Firenze1010

Luciano Gallino

«I tecnici non sono tutti uguali. Servirebbe un altro New Deal»
121010gallinodi Francesca Fornario
Luciano Gallino è la roccia millenaria che resta attaccata alla montagna dopo la frana. Franano i socialisti europei convertiti ai dogmi del (sempre più) libero mercato finanziario; si sgretola l’anima socialdemocratica del Pd perché - dice Gallino - «il centrosinistra è ormai una variante del partito neoliberale, il partito del “Ce lo chiede l’Europa e non abbiamo alternative ”». Lui, il sociologo che negli anni Cinquanta all’Olivetti indagava le trasformazioni del mercato del lavoro, resta immobile. E assiste, incredulo, allo smottamento: «Che fine ha fatto la prospettiva della piena occupazione? ».
Davanti alla platea di reduci di troppe sinistre chiamati a raccolta da Alba, alla folta platea di teste bianche e calve accorse a Torino per una due giorni sul lavoro, scruta il vuoto in cerca di conferme, comeuno sopravvissuto al terremoto che torna al paese: «Lì c’era la scuola pubblica, e lì la sanità pubblica...». Non potevamo più permettercele, dicono. Lo dicono perché la gestione del welfare è un bottino che fa gola ai privati. Le imprese, con la complicità dei governi europei, puntano a mercificare lo stato sociale e la spesa pubblica. Per loro parliamo di 3.800 miliardi l’anno di merci da comprare e da vendere, non più servizi da erogare. La privatizzazione del welfare
- la sanità, gli asili, i trasporti, le pensioni - è una grave lesione della democrazia, perché non puoi mica discutere alla pari con chi ti vende una merce.
Ma non potevamo più permetterci di mandare in pensione i lavoratori a 60 anni, dicono. Chi dice che le pensioni ci costano 70 miliardi l’anno, o è uno sprovveduto o è in malafede, e usa questo argomento solo per favorire la privatizzazione del sistema pensionistico. La
cassa dei lavoratori dipendenti è in attivo di otto, dieci miliardi l’anno. L’Inps è in attivo, va ccc
«ll centrosinistra è ormai
una variante del partito
neoliberale »
sotto solo perché deve far fronte a spese–sa - crosante - che non le dovrebbero competere, come l’invalidità e la gestione degli interventi assistenziali speciali.
Bisogna tagliare i servizi per inseguire il pareggio di bilancio e ridurre il debito pubblico, dicono.
Sanno benissimo che il problema non è il debito. Tagliare 50 miliardi l’anno, come vorrebbero, significa solo smantellare lo stato sociale e affidarlo ai privati, aumentando i costi per i cittadini.
Ma lo dicono i tecnici.
No: lo dicono questi tecnici. Ma i tecnici non sono solo quelli che insegnano alla Bocconi. Esistono tecnici molto autorevoli che dicono cose di segno opposto. E poi non esistono governi tecnici. Al massimo esistono governi dove i tecnici prendono decisioni politiche. Si può ragionevolmente definire “tecnico ” un ministro con competenze specifiche, come un medico che diventa ministro della Sanità, però poi le decisioni che si prendono sono sempre squisitamente politiche. Aumentare o diminuire le tasse universitarie, privilegiare le linee ferroviarie ad alta velocità a scapito dei treni regionali dei pendolari: cos’è se non politica? Professore, allora ci dica lei che è un tecnico, cosa farebbe?

Taglio dell’IRPEF e aumento dell’IVA.

 Ci guadagnano i più abbienti
Gli effetti della riduzione delle imposte dirette sui redditi delle famiglie più povere viene più che compensato dall’aumento delle imposte indirette.

di Paolo Manasse da paolomanasse.blogspot.it
Il disegno legge “di Stabilità” approvato dal Consiglio dei Ministri mira a migliorare il saldo di bilancio per circa 11,6 miliardi, e si compone di un’insieme complesso di misure. Vi sono tagli di spesa (sanità, regioni, ministeri, pubblico impiego), accanto a qualche nuove spesa per trasporto locale, infrastrutture, università. Vi sono aumenti di imposte, come l’ IVA che da luglio prossimo aumenterà di un punto (le aliquote del 10 e 21% aumenteranno all” 11 ed al 22% rispettivamente), c’è la tassa sulle transazioni finanziarie (0,1% su titoli e azioni, 0,01% su derivati), la riduzione di agevolazioni fiscali; ma anche riduzioni di imposte: la proroga della detassazione degli aumenti salariali legati alla produttività, e infine la riduzione delle aliquote IRPEF per i redditi più bassi (l’aliquota dello scaglione iniziale fino a 15mila euro passa dal 23 al 22% , quella per lo scaglione di reddito tra i 15 ed i 28mila passa da 27 a 26%).
L’obiettivo di evitare l’aumento dell’IVA di due punti avrebbe richiesto tagli di spesa particolarmente impopolari, e dunque il governo ha optato per ripartire gli oneri tra aumenti di imposte e tagli di spesa. Verosimilmente il governo, avvicinandosi le elezioni, ha voluto anche dimostrare che “la disciplina di bilancio paga”. Così si spiega la riduzione delle aliquote IRPEF, esclusa fino alla vigilia, sui primi scaglioni. Il problema è che gli effetti della riduzione delle imposte dirette sui redditi delle famiglie più povere potrebbe essere (più che compensato) dall’aumento delle imposte indirette. Ed è proprio quello che avviene.
Redistribuzione
La questione è complicata perchè le famiglie più povere beneficiano da un lato dalla riduzione delle aliquote IRPEF che accresce il loro reddito disponibile, ma sono allo stesso tempo le più danneggiate dall’aumento dell’ IVA , perchè spendono una frazione maggiore del proprio reddito disponibile in consumi, ed in particolare in beni alimentari (la cui aliquota subisce l’aumento percentuale maggiore passando dal 10 al 11%). Per valutare l’impatto con precisione sarebbe necessario un modello micro-econometrico, ma con pochi calcoli “back-of-the-envelope” possiamo renderci conto dell’ordine delle grandezze in gioco.
Nella tabella qui sotto (clicca per ingrandire) ho ricostruito cosa accade a famiglie con reddito annuo pari a 10, 20, 30mila euro, quando si riducono le imposte sul reddito e si aumenta l’IVA come nella manovra. La famiglia più povera paga inizialmente 2300 euro di IRPEF, ha un reddito disponibile pari a 7700 euro, che spende interamente (propensione al consumo c=1), con metà della spesa in beni alimentari (ca=0,5), su cui grava un’aliquota al 10%, e metà in altri beni, con IVA al 21%. La spesa di questa famiglia è inizialmente pari a poco meno di 6682 euro. Quando riduciamo l’aliquota IRPEF a questa famiglia, v. riquadro più in basso, il suo reddito disponibile aumenta di 100 euro, ma l’aumento dell’IVA sui beni alimentari ne riduce i consumi di quasi altrettanto. Infatti gran parte del reddito è speso in beni alimentari la cui aliquota IVA, in percentuale di quella iniziale, aumenta di più. Per la fascia di reddito di 30mila euro annui, il taglio dell’IRPEF provoca un aumento del reddito disponibile di circa 300 euro, che compensa l’aumento dell’IVA e permette un aumento della capacità di spesa di circa 68 euro. Per la famiglia a reddito intermedio in complesso la capacità di spesa aumenta meno, di 52 euro.Dunque il mix fiscale in realtà premia di più le fasce più abbienti e lascia inalterata la situazione di quelle meno abbienti Questi effetti si potrebbero evitare concentrando l’aumento IVA sulle aliquote più alte, o, molto meglio, tagliando le agevolazioni non giustificate

I calcoli dettagliati sono disponibili qui

Consigliere della Merkel ammette:

 stiamo salvando la Spagna (e la Grecia) per salvare le banche tedesche
121011germaniaForex News
Jürgen Donges, membro del rinomato Consiglio dei 5 esperti economici della Germania, ha detto chiaramente che quando la Germania acconsente al salvataggio di Grecia o Spagna, pensa a salvare le banche tedesche esposte in questi paesi.
Le sue parole hanno fatto scalpore nella Twittersfera e nei giornali spagnoli, contribuendo a peggiorare le relazioni già tese tra Berlino e Madrid, e ad alzare i toni del dibattito in merito alla richiesta di salvataggio della Spagna.
Donges, 72 anni, è nato a Siviglia, in Spagna, ed è da tanto tempo membro del Consiglio, a volte soprannominato in Germania come il “Saggio”. Ha rilasciato queste crude dichiarazioni a Jordi Evole, il regista dello shaw “Salvados” sul canale spagnolo LaSexta. Qui un più ampio resoconto dal sito spagnolo El Economista.
Come in tutti i paesi, i banchieri hanno molto potere e influenza. Quando la Germania reclama la necessaria austerità e le riforme economiche, questo serve a mascherare la motivazione reale per i salvataggi?
Il sito di Eurointelligence riporta alcuni momenti clou del colloquio:
“Donges punta al debito delle famiglie come a un indicatore chiave che ‘la Spagna ha vissuto al di sopra dei propri mezzi’, ad esempio, acquistando auto tedesche di fascia alta. Questo porta ad una discussione sulla responsabilità reciproca dei mutuatari spagnoli e degli istituti di credito tedeschi, che Donges risolve facendo notare che un acquirente di auto si informa molto di più sulla vettura piuttosto che sul prendere un prestito. Al contrario, sulla responsabilità delle banche finanziatrici Donges dice che non avrebbe mai sostenuto i salvataggi di altri paesi “se il problema non fosse di salvare le nostre banche, dovremmo dare i soldi alle nostre banche”, il salvataggio non è fatto per motivi politici. E conclude “è vero che, quando si parla di ‘salvare la Grecia o la Spagna’, e noi economisti diciamo così, in realtà stiamo salvando le nostre banche esposte verso questi paesi. Questo per noi è chiaro.”
Molti, tra cui questo stesso sito, hanno osservato la natura circolare dei salvataggi, che era chiarissima nel caso dell’Irlanda, e che è molto simile in Spagna.
Il governo non aveva un debito insostenibilmente elevato, fino a quando non ha “adottato” le banche. Allora, l’Irlanda è stata “salvata”. I fondi della UE, FMI e dei contribuenti irlandesi sono andati alle banche irlandesi, che a loro volta li hanno girati alle banche tedesche, francesi e britanniche.
L’Islanda ha preso una strada diversa: ha lasciato fallire le banche in difficoltà. La Spagna deve scegliere tra mettersi nei panni dell’Irlanda o nei panni dell’Islanda. Sembra aver scelto la via irlandese, ma può non essere troppo tardi.
Dopo una simile irritante dichiarazione, la Spagna può semplicemente lasciar fallire le sue banche – questa è una carta da giocare molto forte, una carta che la Grecia non ha, e che può cambiare gli equilibri di potere.
Senza un piano di salvataggio spagnolo, non ci sono soldi BCE e crescono i timori di una “convertibilità” – una rottura dell’euro. La sola paura potrebbe indebolire l’euro.

mercoledì 10 ottobre 2012

Siria

la Nato mira al gasdotto
121009gasdotto siriadi Manlio Dinucci
La dichiarazione di guerra oggi non si usa più. Per farla bisogna però ancora trovare un casus belli. Come il proiettile di mortaio che, partito dalla Siria, ha provocato 5 vittime in Turchia. Ankara ha risposto a cannonate, mentre il parlamento ha autorizzato il governo Erdogan a effettuare operazioni militari in Siria. Una cambiale in bianco per la guerra, che la Nato è pronta a riscuotere. Il Consiglio atlantico ha denunciato «gli atti aggressivi del regime siriano al confine sudorientale della Nato», pronto a far scattare l'articolo 5 che impegna ad assistere con la forza armata il paese membro attaccato.
Ma è già in atto il «non-articolo 5» - introdotto durante la guerra alla Jugolavia e applicato contro l'Afghanistan e la Libia - che autorizza operazioni non previste dall'articolo 5, al di fuori del territorio dell'Alleanza. Eloquenti sono le immagini degli edifici di Damasco e Aleppo devastati con potentissimi esplosivi: opera non di semplici ribelli, ma di professionisti della guerra infiltrati.
Circa 200 specialisti delle forze d'élite britanniche Sas e Sbs - riporta il «Daily Star» - operano da mesi in Siria, insieme a unità statunitensi e francesi. La forza d'urto è costituita da una raccogliticcia armata di gruppi islamici (fino a ieri bollati da Washington come terroristi) provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri paesi. Nel gruppo di Abu Omar al-Chechen - riferisce l'inviato del «Guardian» ad Aleppo - gli ordini vengono dati in arabo, ma devono essere tradotti in ceceno, tagico, turco, dialetto saudita, urdu, francese e altre lingue.

intervista ad Alexis Tsipras di Syriza

Rovesciare il potere, costruire l’alternativa, liberare l’Europa
121009alexis tsipras syrizadi Lorenzo Zamponi
Negli ultimi mesi SYRIZA è diventata un esempio in Europa per la sua capacità di contribuire all’opposizione alle misure di austerity imposte dalla Troika e di trasformare questa opposizione in una proposta di governo in grado di conquistare alle ultime elezioni un consenso senza precedenti nel popolo greco. Quali sono stati, secondo te, I fattori più rilevanti per questo successo?
Il catastrofico programma di politiche del memorandum che è stato imposto alla Grecia negli ultimi due anni e mezzo ha causato profondi cambiamenti sociali. La povertà, la disoccupazione e la miseria si sono diffuse rapidamente, la recessione è diventata incontrollabile, la vita e la dignità delle persone sono state calpestate.
I cittadini, che prima della crisi hanno votato per 40 anni all’80% o all’85% per i due maggiori partiti, si sono sentiti imbrogliati e offesi.
SYRIZA si è schierata dalla parte della società fin dal primo momento. Abbiamo partecipato con tutta la nostra forza ai movimenti di resistenza sociale, abbiamo condotto una battaglia politica rivelando l’inefficacia e la brutalità delle misure di austerity, abbiamo rivolto appelli all’unità a tutte le forze progressiste della sinistra e costruito insieme un’alternativa. Alle ultime elezioni abbiamo detto che era l’ora di un governo della sinistra, che avrebbe aperto una strada alternativa.
Questo slogan ha avuto un impatto senza precedenti sulla società, anche sulle persone che non votavano per noi. A seguito di un’incredibile campagna di terrore e intimidazione, non siamo stati, di poco, il primo partito. Ora, da una posizione di maggiore forza, continueremo fino alla vittoria.
La sinistra greca ha in comune con quella italiana una storia di scissioni, divisioni e rivalità. Come siete riusciti a costruire un fronte unito in un momento così difficile? Credi che sia possibile, in futuro, costruire una più ampia coalizione della sinistra greca, guidata da SYRIZA, in grado di vincere le elezioni e governare il paese?
Il bisogno di andare avanti puntando su ciò che ci unisce piuttosto che su ciò che ci divide è un’eredità del Social Forum. SYRIZA è composta da dodici differenti gruppi politici. La necessità di allargare quest’unità è diventata ancora più intensa ora che la società sta cercando di difendersi dalla crisi. La bancarotta politica e ideologica della socialdemocrazia ha liberato forze che ora collaborano con noi. L’unità non è solo un fatto di leadership, buone intenzioni e accordi politici. È imposta dalle circostanze. La società la impone in modo da cambiare le cose. Perciò siamo fiduciosi che nei prossimi tempi il fronte che costruiremo intorno alla necessità di una via alternativa si allargherà ancora, rafforzando ulteriormente le potenzialità per un governo della sinistra.
La Grecia ha visto, dal 2008 a oggi, un livello altissimo di conflitto sociale, e la vostra scelta di partecipare alle mobilitazioni contro l’austerity è considerata uno dei maggiori fattori della vostra forza. Il recente ciclo di mobilitazioni, in Europa, Africa e America, ha criticato fortemente la democrazia rappresentativa, proponendo la sperimentazioni di nuovi e più avanzati modelli. Quali sono, ora, le sfide più importanti che state affrontando, stando nello stesso tempo in piazza e in Parlamento? È possibile costruire nuove forme di partecipazione politica, in grado di tenere insieme la rappresentanza e il conflitto?
È ovvio che il dominio del capitale e dei mercati sulle società sta portando il mondo al disastro. Dobbiamo costruire un mondo in cui le persone valgano più dei profitti. Per farlo è ovviamente necessario inventare nuovi modelli di sviluppo, nuove forme di partecipazione, nuovi modi di prendere le decisioni in politica. Queste idee non nasceranno da menti illuminate o in ristrette avanguardie rivoluzionarie, ma attraverso la pratica e l’esperienza del conflito sociale. Il nostro obiettivo è rovesciare i rapporti di forza. Questo richiede una lotta in tutti i campi: le istituzioni, il Parlamento, la piazza, le idee. Dobbiamo rimuovere il potere e l’autorità dei nostri avversari, che sono i banchieri gli speculatori dei mercati finanziari, i canali televisivi e i giornali che loro controllano e i politici che li servono. Per fare questo dobbiamo superare le nostre paure, la paura della rottura e la paura di essere integrati nel sistema. La grande sfida per noi è convincere la società che può prendere in mano il proprio destino.
La crisi finanziaria dell’UE non può essere risolta da un paese solo, specialmente se è condizionato da memorandum e accordi, e l’urgenza di trovare un’alternativa all’austerity richiede una nuova governance democratica europea. Ciononostante, i partiti politici, le competizioni elettorali e il dibattito pubblico sono ancora basati sul livello nazionale. Cosa può fare un governo nazionale per cambiare la rotta della crisi? Cosa può essere fatto a livello europeo? E che ruolo possono giocare le prossime elezioni europee del 2014 in questo processo? Potrebbero essere una nuova occasione per un fronte europeo antiausterity?
Noi non crediamo che un cambiamento dei rapporti di forza nel Parlamento europeo possa di per sé cambiare la politica in Europa. Però potrebbe mandare un messaggio. I popoli ricevono i messaggi e li trasformano in battaglie. Questo è quello che è successo anche in Grecia. Quello che ha spaventato maggiormente il sistema di potere nel caso delle elezioni greche e della crescita di SYRIZA è stata la possibilità che il movimento della disobbedienza si diffondesse con un effetto domino ad altri paesi. È vero che i conflitti restano a livello nazionale, mentre le decisioni sono prese a livello europeo. Ognuno di noi può iniziare dal proprio Paese, per poi incontrarci in un movimento di massa per il rovesciare il potere, che si potrebbe diffondere in tutta Europa e in tutto il mondo. Prima della crisi questa sarebbe sembrata una prospettiva distante. Ora le cose stanno evolvendo rapidamente.
Come vedi, ora, il futuro della Grecia, che potrebbe fare da esempio a paesi come Portogallo, Spagna e Italia? L’uscita dall’euro è un’ipotesi reale? Si tratta dell’unico modo per sfuggire alla trappola dell’austerity? Quali sono le alternative che state considerando?
Non è certo che il ritorno a una valuta nazionale svalutata rafforzerebbe le forze del lavoro. Al contrario, i potenti sarebbero in una posizione ancora più forte. I lavoratori greci sarebbero in competizione con gli italiani, gli spagnoli e i portoghesi, sulla disponibilità a produrre merci più economiche con salari più bassi. Noi vogliamo alleati. Noi vogliamo rovesciare il dominio del capitale, e questo è fattibile più facilmente a livello europeo, piuttosto che in ogni singolo paese. L’uscita dalla moneta comune non è un obiettivo. L’obiettivo è avere banche pubbliche, solidarietà sociale, redistribuzione della ricchezza, sviluppo per i bisogni delle persone piuttosto che delle imprese. E questo è un obiettivo comuni per le persone e la comunità del Nord e del Sud.
10 anni fa, a Firenze, il Forum Sociale Europeo ha riunito un vasto schieramento di attori sociali e politici, anticipando per molti aspetti il dibattito di oggi sulla crisi, il sistema finanziario e la carenza di democrazia a livello europeo. 10 anni dopo, la necessità di una coalizione europea di movimenti, organizzazioni sociali e partiti politici contro l’austerity e per un nuovo modello democratico e sociale europeo è più urgente che mai. Perché non è ancora successo, da dove possiamo cominciare per costruirla?
Il Forum Sociale Europeo ci ha insegnato che la nostra grande potenza è la diversità di mezzi, obiettivi e dei movimenti stessi. Ha sottolineato i problemi e le contraddizioni del capitalismo neoliberista, ma non è riuscito a sviluppare una strategia alternativa. Ora, la via alternativa non è solo una possibilità tra le altre, ma è il nostro dovere di salvare il mondo dalla distruzione. Noi siamo ottimisti. Queste condizioni richiedono formule nuove e ci mostrano cosa dobbiamo fare. Se c’è un movimento di resistenza di massa capace di vincere della battaglie e di imporre le proprie condizioni, il fronte unito si formerà dal basso del modo più naturale, e in maniera molto rapida. Quello che le forze organizzate dovrebbero fare sarebbe partecipare nelle lotte sociali e identificare chiaramente gli avversari. L’ora in cui le società si uniranno intorno a un piano alternativo è molto vicina.

Debito pubblico

Come ci siamo arrivati e chi ci ha spennati
121009debitodi Francesco Gesualdi
La fortuna del potere è costruita sull'incuria e l'incompetenza, non la propria, ma quella dei sudditi. Sicuro che nessuno verifica la veridicità dei fatti, ma che tutti ripetono a pappagallo le notizie ben confezionate, ne fabbrica di proprie, false e tendenziose, per affidarle ai ripetitori acefali affinché le trasformino in luoghi comuni. In idee, cioè, che nessuno mette in discussione perché assorbite come verità incrollabili. E' successo quando hanno voluto imporci una globalizzazione a misura di multinazionali, quando hanno voluto rifilarci un'Europa al servizio di banche e speculatori, quando hanno voluto scipparci l'acqua e gli altri beni comuni a vantaggio delle imprese private. E oggi sta succedendo col debito pubblico.
La vulgata, tanto cara ai tedeschi, è che ci siamo indebitati perché siamo un popolo sprecone.
Una comunità che ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità usando i soldi degli altri per garantirci il diritto alla salute, all'istruzione, alla previdenza sociale. Quest'idea è talmente radicata, che nessuno (o quasi) osa contestare le politiche lacrime e sangue che oggi ci impongono. Anzi le salutiamo come la giusta punizione per i peccati commessi. Peccato, però, che il peccato non esista e lo dimostra una ricostruzione effettuata dal "Centro Nuovo Modello di Sviluppo" sulla finanza pubblica degli ultimi 30 anni.
Nel 1980, il debito pubblico italiano ammontava a 114 miliardi di euro pari al 56% del Pil. Quindici anni dopo lo troviamo cresciuto di 10 volte, più esattamente a 1150 miliardi di euro. Effetto dei nostri sprechi? In parte sì perché questo è un periodo in cui le spese per servizi e investimenti pubblici sono state superiori alle entrate fiscali. Ma solo per 140 miliardi. Se il nostro eccesso di spese fosse stata la causa di tutti i mali, il debito pubblico avrebbe dovuto raddoppiare, non decuplicare. E allora cosa ha contributo alla crescita incontrollata del debito? Risposta: gli interessi che in quel periodo oscillavano fra il 12 e il 20%. Bisognò attendere il 1996 per vederli scendere al di sotto del 9%. In parte l'Italia pagava per le scelte di Reagan che aveva bisogno di soldi per finanziare lo scudo spaziale. Non volendo alzare le tasse, si finanziava richiamando capitali dal resto del mondo con alti tassi di interesse. Gli altri paesi assetati di prestiti non avevano altra scelta che offrire di più.
La politica di spese per servizi superiori alle entrate durò fino al 1992 e in ogni caso procurò un disavanzo complessivo inferiore 6% Poi, con l'eccezione del 2009-2010, la spesa per servizi è rimasta sempre al di sotto delle entrate, permettendo un risparmio complessivo di 633 miliardi di euro. Una cifra sufficiente ad assorbire non solo i disavanzi precedenti, ma anche il debito di partenza e continuare ad avere un avanzo di 370 miliardi. Ma nonostante la politica da formichine, il nostro debito è cresciuto all'astronomica cifra di 2000 miliardi. Solo per colpa degli interessi che nel trentennio ci hanno procurato un esborso pari a 2141 miliardi di euro.
Dal che risulta che non siamo un popolo di spreconi, ma un popolo di risparmiatori spennati. Polli finiti in una macchina infernale messa a punto dall'oligarchia finanziaria per derubarci dei nostri soldi, con la complicità della politica. E poiché la politica è eletta da noi , ci troviamo nella situazione assurda in cui scegliamo i nostri estorsori e li autorizziamo a sottoporci a ogni forma di angheria per servire meglio gli interessi degli strozzini. Una follia possibile solo perché viviamo nell'inganno dell'ignoranza. Per questo come Centro Nuovo Modello di Sviluppo abbiano messo a punto un kit formativo e abbiamo lanciato la campagna «Debito pubblico, se non capisco non pago» con lo scopo di promuovere una corretta informazione e la nascita di gruppi locali che si dedichino alla formazione.
Il Manifesto - 09.10.12

AUTUMN
MILAN FOOTBALL CLUB,SEX,POLITICS...
LEAVES FALL  (in italian LEAVES= FOGLIE   DESIRES= VOGLIE)  =
 

martedì 9 ottobre 2012

"The Iron Frau" in Greece.



 






Taranto!!

Questo video formato da scatti ogni 20 sec per 12 ore dalle 20:07 alle ore 7:30 del mattino, in una giornata qualsiasi , mostra come mille discorsi o mille referti medici, quel che succede ogni notte , tutte le notti da cinquant'anni a Taranto ( vista quartiere Tamburi)

Sulla visita di Angela Merkel ad Atene.

Lettera di un eroe della resistenza greca
121008greciaIn vista della visita del Cancelliere Tedesco in Grecia, crediamo sia nostro obbligo ricordare a Lei e al primo ministro greco che:
La grande e potente Germania ha potuto nel passato auto-escludersi dai suoi obblighi (n.d.t. i risarcimenti della seconda guerra mondiale), negando alla Grecia quello che le spettava secondo il diritto internazionale, mentre la Grecia non è autorizzata a rinunciare ai suoi diritti.
Le violazioni del Diritto Internazionale e dei valori umani dell’onore e dell’etica presentano il pericolo della ripetizione di fenomeni che hanno insaguinato l’Europa.
Il riconoscimento dei crimini nazisti costituisce una garanzia fondamentale che non saranno ripetuti in futuro crimini del genere.
Il nostro popolo non ha dimenticato e non deve dimenticare. Oggi non cerca di ottenere vendetta, ma giustificazione. Speriamo che anche i tedeschi non abbiano dimenticato.
Perchè i popoli che rifiutano la loro memoria storica, sono condannati a ricadere negli stessi errori. Sembra che Angela Merkel voglia portare il suo popolo proprio su questa strada scivolosa, specie la parte più sensibile del suo popolo, la gioventù, a cui ribadisce in ogni suo discorso che “l’aiuto verso la Grecia deve concordarsi con i suoi obblighi”. E gli obblighi della Germania?
Ci aspetteremmo dalla Cancelliera un comportamento simile a quello degli Alleati nel 1953, quando contribuirono con i debiti e gli aiuti economici alla ricostruzione della Germania. Da questo sforzo non si astenne neanche la Grecia distrutta.
Noi non intendiamo invitare a pranzo la Cancelliera. La invitiamo però a visitare il Poligono di tiro di Kessarianì (Atene), per vedere che ancora oggi, 67 anni dopo la fine della guerra, l’erba non cresce là dove è stato versato tanto sangue. La terra non dimentica. Quindi neanche gli uomini devono dimenticare.
È giunto il momento di unire la nostra voce a quella del presidente del partito tedesco della sinistra (Die Linke), B. Rixingker. Lui ha sollecitato Angela Merkel ad ascoltare, durante il suo viaggio in Grecia, la voce della resistenza ai tagli che minacciano di intensificare l’estremizzazione delle posizioni politiche nel paese e ha avvertito che la Grecia rischia di finire in un disastro umanitario.
L’estremizzazione delpaese la paghiamo già con l’apparizione del partito di Alba Dorata. Rimarremo con le mani incrociate aspettando di vedere le conseguenze del disastro umanitario? Allora sarà già molto tardi, non solo per la Grecia ma per l’Europa intera.
Manòlis Glèzos, 07/10/2012

Le banche tedesche?

Una bomba a orologeria
121008merkeldi Vladimiro Giacchè
Mentre le istituzioni europee e i governi nazionali sembrano ipnotizzati dal problema del debito pubblico, è probabile che la prossima crisi in Europa sarà una crisi bancaria.
La cosa, visti i soldi già spesi dai governi per salvare le banche in Europa (all’incirca 4.000 miliardi di euro), può sembrare parecchio strana. Ma la cosa più strana è un’altra: probabilmente questa crisi avrà il suo epicentro non nei cosiddetti “paesi periferici ” ma nel centro dell’Europa. Ossia in Francia e – soprattutto – in Germania. In Francia, a dire il vero, una crisi bancaria è già in corso: una banca specializzata (guarda un po’) in mutui immobiliari, il Crédit Immobilier de France, è prossima al fallimento.
Quasi certamente non riuscirà a ripagare un’obbligazione da 1,75 miliardi di euro in scadenza questo mese, e dovrà provvedere lo Stato francese.
Ma si stima che complessivamente le garanzie pubbliche che dovranno essere messe in campo a sostegno di questa banca saranno dell ’ordine di 20 miliardi di euro. Come dire, due terzi della manovra di Hollande. Non c’è male.
Ma il fronte più caldo, almeno potenzialmente, è un altro, e riguarda la banche più grandi del paese: il valore delle attività di trading di BNP, Société Générale, Crédit Agricole e Natixis ammonta attualmente a qualcosa come 2.050 miliardi di euro, una cifra non molto inferiore all’intero prodotto interno lordo della Francia. Le attività di trading in azioni, obbligazioni e derivati sono cresciute del 21% in un anno e per quanto riguarda BNP e Société Générale superano ormai il 30% del totale delle attività di queste banche. Ma se prendiamo il trading in derivati la crescita è ancora maggiore: +48% per BNP, +38% per Société Générale. Queste cifre significano due cose: che i rischi di mercato assunti da queste banche crescono, e – viste le cifre in gioco – che si può parlare di rischio sistemico. Ma in confronto a quello che accade in Germania i problemi delle maggiori banche francesi impallidiscono. La Germania ha tuttora uno dei sistemi bancari meno concentrati e meno efficienti dell’intera Europa (circa 1200 banche). Basti pensare alle numerose Sparkassen (tradizionalmente vicine alla CDU), alle Landesbanken (fu una di esse la prima banca a fallire nel 2007, e molte sono tuttora in cattive acque) e alle Volksbanken. Ma il governo tedesco, che mesi fa poneva come condizione per ulteriori interventi europei a sostegno delle banche spagnole la realizzazione di un’unione bancaria europea, non appena questa unione bancaria ha assunto la forma di una concreta proposta di accentrare la sorveglianza bancaria in Europa presso la Bce, ha cominciato a frenare: con il ministro delle finanze tedesco Schäuble che è subito intervenuto chiedendo che questa sorveglianza valesse soltanto per pochissime grandi banche. È stato fin troppo facile rispondergli che non sono soltanto le grandi banche a esprimere rischi sistemici: basti pensare a quello che è successo dopo il fallimento (con salvataggio governativo in extremis) di Northern Rock nel Regno Unito. E del resto è la stessa situazione spagnola a mostrarci che effetti possono avere i fallimenti di tante banche piccole e medie.
È corretto però affermare che oggi i maggiori rischi del sistema bancario tedesco non vengono dalle banche piccole e medie, ma da quella più grande: la Deutsche Bank. Con un bilancio pari all’80% circa dell ’intero prodotto interno lordo della Germania, Deutsche Bank è una delle maggiori banche mondiali.

Fu un golpe.

LA PROVA DEL GOLPE - E' stata la troika

La prova del Golpe troika

Nelle parole del senatore Massimo Garavaglia, intervenuto in un convegno a S.Ambrogio il 21 settembre 2012, la descrizione del ricatto finanziario cui fu sottoposto lo Stato italiano. La troika (Bce e Ue; il Fmi faceva il palo) estorse le dimissioni del Governo in carica e il sostegno forzoso al Governo Monti, minacciando di non comprare per due mesi titoli di stato italiani.
Fu un golpe, dunque, ad ascoltare Garavaglia. Un golpe economico-finanziario, come l'abbiamo sempre chiamato. Questo non cambierà la visione delle cose per quanti ritengono che siamo stati "cattivi" e che dovremmo consegnarci mani e piedi ai "buoni". Per costoro, che evidentemente non hanno la benché minima consapevolezza di cosa significa essere stati "acquistati" in blocco, non cambierà niente.

Per tutti gli altri, il racconto di Garavaglia lascia finalmente filatrare un raggio di luce sui loro incubi peggiori: quelli che urlavano al vento. Sotto il peso del ricatto, o forse complici, i media hanno ricevuto l'ordine di fare "propaganda", una tecnica nata nei circoli viennesi di inizio secolo scorso e che ha visto le sue prime applicazioni di successo sui giovani militari analfabeti al fronte, durante la prima guerra mondiale. Al grido di "Fate presto" hanno costruito un'opinione pubblica favorevole, ottenuta con la paura, e hanno taciuto, e ancora continuno a farlo, la gravità di quanto accaduto, nascondendo la polvere sotto a concetti di economia che sarebbero sbugiardati da qualsiasi economista fuori dal club dei collaborazionisti, se solo avessero accesso all'informazione.

Mario Monti disse che in Italia la troika non aveva avuto bisogno di intervenire, disse - felicitandosene - che eravamo dunque stati fortunati. Io dissi che la troika non era intervenuta formalmente, ma solo perché non ce n'era stato bisogno: la troika era lui stesso. Questa testimonianza finalmente lo mette in evidenza. Poi iniziò la stagione dei tagli, del Mes, dello smantellamento del welfare e delle tutele dei lavoratori. Si cominciò a vendere. E siamo solo all'inizio.

Unica domanda: Garavaglia è stato ospite all'Ultima Parola, il 15 settembre scorso: perché queste cose non le ha dette? Perché le dice in un convegno, davanti a poche persone, e tace in televisione, di fronte all'Italia intera?

... ma quale Costituzione?

Quello che facciamo è incostituzionale. 

Ecco come i mercati si sono comprati l'Italia

Antonio Polito, ieri sera a L'Ultima Parola, diceva sostanzialmente: si può battere moneta, va bene la sovranità, ma poi non ti danno i soldi... Ed è esattamente quello che è successo, come testimoniano le parole del senatore Garavaglia, che ieri sera sono riuscito a far ritrasmettere dalla Rai. Il tema è cioè quello del ricatto economico-finanziario, ma sembra ormai sfuggire a tutti cos'è che tiene unito un popolo, ovvero qual è l'essenza di uno Stato.
Uno Stato è un ordinamento giuridico. Ovvero: si compone di norme superiori che ne legittimano altre, che danno forza di legge ad altre ancora e così via. L'insieme di norme di più alto livello è la Costituzione italiana. E' quella, essenzialmente, che rende tutti noi, insieme, uno Stato: lo Stato italiano. Se non si capisce questo - e togliendo l'educazione civica dalle scuole mi rendo conto sia diventato difficile da capire - allora diventa possibile legittimare qualsiasi cosa.

La Costituzione prevede le condizioni in base alle quali sciogliere un Governo, poi prevede un eventuale giro di consultazioni del Presidente della Repubblica per verificare la fattibilità di un nuovo esecutivo, poi prevede l'incarico, la scelta dei ministri, poi il giuramento, poi la fiducia dei due rami del Parlamento e così via. Se non si segue questa procedura, è un colpo di Stato. E' alto tradimento. Non sono paroloni: violare la Costituzione, in qualsiasi modo o forma, oltreche essere ovviamente "incostituzionale", in caso di particolare gravità rappresenta un vero e proprio attentato allo Stato, che come abbiamo visto è tutto e solo ciò che ha valore nel nostro ordinamento.

La Costituzione dice anche che il popolo è sovrano, non i mercati. Oggi abbiamo tuttavia sdoganato ogni forma di paradosso. Bersani, su richiesta di una giornalista che lo interrogava circa la candidatura del PD alle prossime elezioni, qualche mese fa rispose che era tranquillo, perché i mercati conoscevano bene il suo partito: avevano già governato in passato. Non rispose "sono tranquillo perché gli elettori ci conoscono", ma "perché ci conoscono i mercati", che sono composti perlopiù da soggetti privati stranieri. Forse sarebbe dunque il caso allora di cambiare la Costituzione, modificando l'articolo 1 in maniera da stabilire che "la sovranità appartiene ai mercati". Anche perché sta diventando ormai una sorta di costituzione materiale.

E' comprensibile che uno Stato indebitato, senza sovranità monetaria e che dipende dunque dai "mercati" per garantire servizi e welfare ai propri cittadini, non possa eludere completamente la questione, ma la domanda che bisognerebbe farsi é: fino a che punto è lecito spingere in avanti la linea del ricatto? Esiste un punto preciso, una sorta di Linea del Piave, che non si può superare senza cadere nel ridicolo e arrendersi ad una invasione in piena regola?

Per capire di cosa sto parlando, ieri sera ho mostrato uno spezzone del senatore Garavaglia, che spiega cosa successe negli ultimi giorni del Governo Berlusconi. Rappresentanti della BCE e della Commissione Europea comunicarono a senatori e deputati che era già stato deciso un Governo Monti, e che se non l'avessero sostenuto avrebbero fatto in modo che nessuno più acquistasse le nuove emissioni dei titoli di Stato per i successivi due mesi, causando così il fallimento del nostro Stato.

Non solo un ricatto, e della peggior specie, ma anche la prova che la Costituzione era stata violata, perché prima ancora della decisione delle Camere di sciogliere il Governo, prima ancora del giro di consultazioni del Presidente della Repubblica, prima ancora dell'attribuzione di un mandato, della scelta dei ministri e dell'incarico, qualcuno (loro, che non sono italiani) aveva già deciso che ci sarebbe stato un Governo Monti. Non solo: avevano anche esautorato il Parlamento, togliendogli l'unica strumento residuo di controllo, ovvero l'esercizio del voto di fiducia, mediante il ricatto. L'esautorazione del Parlamento equivale all'esautorazione del popolo dalla sua funzione di sovranità. Equivale, cioè, alla distruzione delle fondamenta dello Stato.

Per chi conosce la storia, queste sono ingerenze e imposizioni che i vinti subiscono dai vincitori. Chi dice che la Costituzione è stata rispettata, commette volontariamente un atto di falsificazione storica e di manipolazione mediatica.

Anche tutte queste cessioni di sovranità sono eminentemente incostituzionali, perché è vero che la Costituzione - che è del 1948 ed è quindi antecedente ad ogni forma di organizzazione europea, che risale solo al 1951 - "consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni" [Arti.11], ma la condizione fondamentale è "in condizioni di parità con gli altri Stati". Altrimenti si chiama svendita. Quale parità può esserci tra gli sforzi necessari ad un paese come il nostro, con un rapporto debito/Pil del 120%, per raggiungere un rapporto del 60% (come vuole il Fiscal Compact), e gli sforzi della Germania, per esempio, che ha un rapporto debito/Pil dell'80%, o l'Olanda, che è già al 66%, o addirittura la Finlandia, che è abbondantemente sotto al 50% e quindi non deve fare niente? Che parità è quella che costringe un paese a pesanti inflizioni economiche, a tagli, alla disoccupazione, e un altro paese a godersene i frutti (ricordatevi che abbiamo appena speso 10 miliardi che andranno probabilmente a finanziare proprio Finlandia, Olanda e Germania)?

Ma soprattutto, di quale parità stiamo parlando se ratifichiamo un trattato come il MES, che ci impone da subito 125 miliardi di esborsi e poi consente all'infinito di infliggerci nuovi debiti, al di fuori del controllo parlamentare, mentre lo stesso trattato, ratificato dalla Germania, non consente indebitamenti illimitati ma obbliga il Parlamento alla discussione e all'approvazione esplicita di ogni futuro esborso?

Se non c'è parità, allora una cessione di sovranità è incostituzionale. Ma sembra che a noi, di questa benedetta Costituzione, ormai non importi più nulla.

DEDICATED TO MERCENARY JOURNALISTS IN ITALY AND ABROAD
 
 

lunedì 8 ottobre 2012

Test! Scopri il tuo indice di Grecità Economica

di Antigone Lyberaki, Platon Tinios
"Non siamo come la Grecia". Ma sarà vero? Due economisti di Atene hanno preparato un test, con tabelle e punteggi, per capire quanta Grecia c'è in noi. Scopri il tuo profilo personale e quello nazionale. La Grecia spauracchio d'Europa, è vicina o lontana?

 
"Naturalmente la Grecia è del tutto diversa, un caso unico". Ecco una dichiarazione piuttosto diffusa nei corridoi del potere. Capi di governo, legislatori, sindacalisti, giornalisti e opinionisti lo ripetono ormai da un anno.
"Siamo tutti Greci” è la risposta, quasi altrettanto diffusa, proveniente dagli esponenti della sinistra moderata, schierati gomito a gomito per arginare la comune minaccia neo-liberista.
Ma il vostro paese è veramente diverso dalla Grecia? Quanto vi separa da quegli ellenici infelici, a parte le poche centinaia di miglia nautiche del Mare Adriatico?
Con il semplice Test di Grecità Economica che trovate qui sotto potete mettervi l’anima in pace, scordandovi le terribili notti insonni trascorse in preda ai dubbi.
Di seguito troverete elencate 20 semplici affermazioni che colgono alcuni tipici modi di pensare che politici, sindacalisti o opinionisti esibivano in giorni non sospetti, prima che la Grecia fosse costretta a ricorrere agli aiuti internazionali. In un certo senso rappresentano “perle di saggezza politica”, indicazioni su come un attore politicamente intelligente dovrebbe orientarsi nelle decisioni quotidiane che il governo di una nazione costringe di tanto in tanto ad affrontare. Alcune di queste affermazioni potrebbero essere attinenti anche al vostro paese, altre no; altre ancora forse le avrete udite da qualcuno, poi fischiato e tacciato di totale mancanza di responsabilità. Magari alcune potrebbero sembrarvi pure una buona idea, sempre che si riesca a farla franca. Prese nel loro insieme, queste affermazioni vi aiuteranno a quantificare quanto Grecia c’è o potrebbe esserci in voi e nel vostro paese.
Il test è composto di 20 affermazioni. Dopo aver letto ciascuna di esse, pensate alla vostra esperienza. Potete dare una risposta in base alla vostra storia personale e una per tutti gli altri. Mettete la mano destra sul cuore e scegliete una risposta tra le seguenti quattro:
1: Sì, sempre.
2: Spesso; l’ho sentito dire, ma non è la regola generale
3: Quasi mai; l’ho sentito dire solo in alcuni casi isolati
4: Mai!!!
Le 20 domande del TEST DI GRECITÀ ECONOMICA™
Affermazioni in materia di governance/ politica economica per valutare il livello di analogia/differenza rispetto alla Grecia. Potete affermare lo stesso nel vostro caso?
Quanto siete d’accordo?
PER VOI
PER TUTTI GLI ALTRI
“Quando arriva il momento di prendere una decisione difficile, la rinviamo a dopo le prossime elezioni."
"Se il mio sindacato desidera un aumento ma la nostra politica dei redditi prevede un tetto alle retribuzioni mensili, credo sia una buona idea attenersi a quella politica, offrendo invece il pagamento di un’altra mensilità. Non c’è nulla di male se in un periodo di 12 mesi (chiamato convenzionalmente un “anno”) sono previste 14, 15 o persino 18 mensilità."
"Quando l’austerity diventa inevitabile, ma prima di una elezione viene minacciato uno sciopero, credo sia utile pagare le retribuzioni attingendo ai fondi destinati agli investimenti. In questo modo, avremo l’austerità e niente scioperi."
"Non ci vedo nulla di male se un laureando denuncia che la pensione di un dipendente della società statale di distribuzione elettrica gode di un sussidio pubblico quattro volte superiore alla pensione di una colf."
"Credo che permettere alle donne di andare in pensione a 50 anni sia una buona idea, perché corregge lo squilibrio di genere (e riduce la concorrenza per le promozioni a dirigente)."
"Le pensioni dovrebbero essere più alte perché le nonne danno la paghetta ai nipoti disoccupati."
"Quando i professori di economia analizzano i dati sulla distribuzione del reddito e affermano che la disuguaglianza di reddito è in aumento, mi assicuro che questi dati non vengano più diffusi al pubblico. In questo modo, evito molte domande imbarazzanti."*
"Piuttosto che avere gente che si lamenta perché i dipendenti pubblici sono troppi, mi assicuro che tutti quelli nuovi vengano assunti con contratti differenti e pagati fuori bilancio. In questo modo, nessuno conosce il monte retribuzioni del settore pubblico e posso dormire sonni tranquilli."*
"Non ha alcun senso offrire servizi sociali agli immigrati, perché non possono votare."*
"Dare il sussidio di invalidità destinato ai non vedenti ad un tassista che lavora duramente e ha una famiglia da mantenere è solo il riconoscimento che il suo è un caso meritorio. Non è colpa del tassista se il sistema di protezione sociale non prevede un sussidio specifico per il suo caso. Nel frattempo, dovremmo fare tutto il possibile per essere socialmente equi ed eventualmente apportare correttivi in un secondo momento."
"Chi antepone bilanci e numeri alla sofferenza della gente è senza cuore e dovrebbe tornare a Chicago, da dove è venuto."
"Nel Consiglio Europeo si approva serenamente una direzione politica, ma poi a livello nazionale si persegue una politica differente. Non vi è nulla di male nel dire cose diverse a persone diverse, sempre che queste non si parlino tra loro."*
"Il vostro sindacato vi sta facendo pressioni per un aumento salariale chiaramente inflazionistico. Voi pensate che non sia compito vostro occuparvi di macroeconomia; altri sono pagati per farlo."
"Il vostro sindacato (funzione pubblica) spinge per avere condizioni lavorative che il settore privato non può permettersi. Voi pensate di far loro un favore offrendo loro un obiettivo al quale mirare."
"In fondo, la competitività è solo un trucco per tenere sotto scacco i sindacati."
“Un indicatore statistico mostra qualcosa che non vi piace. Voi cambiate quell’indicatore.”
"L’equilibrio di genere va bene quando l'economia è in crescita. Nei momenti di crisi occorre però preoccuparsi prima dei capo-famiglia che hanno tutte quelle bocche da sfamare."
"Il contributo offerto da un paese alla civiltà europea dovrebbe conferirgli il diritto ad un trattamento speciale, ad esempio a maggiori deficit. (Vedi la frase "Quando noi costruivamo il Partenone, gli altri vivevano nelle tende")."
“Fate di tutto per combattere l’evasione fiscale. Tuttavia, non è molto educato chiedersi ad alta voce dove il vostro amico abbia trovato i soldi per comprare lo yacht che voi usate per i fine settimana.”
“Il vostro paese è una vittima innocente di un progetto sbagliato della moneta unica. È colpa dei tedeschi, fin dal principio.”
PUNTEGGIO TOTALE TGE
* Riservata agli esponenti politici e aspiranti tali.
Qual è il vostro punteggio TGE? Qual è il punteggio TGE di tutti gli altri?
Il punteggio TGE supera 70?
Non avete nulla da temere. Un abisso vi separa dalla Grecia e dal comportamento economico greco. Potete andare in giro facendo la predica agli altri senza remora alcuna.
Il punteggio TGE è meno di 30?
Verificate con vostra madre se avete qualche antenato greco. Quei verbi in greco antico che avete imparato a scuola devono aver avuto ripercussioni peggiori di quel che temevate. Correte il prima possibile all’ambasciata tedesca.
Il punteggio TGE è compreso tra 50 e 70?
Fondamentalmente non siete messi malaccio, ma quando andate in vacanza in Grecia portatevi comunque i testi di Milton Friedman e Hayek.
Il punteggio TGE è compreso tra 30 e 50?
Prima del 2009 anche i greci pensavano di comportarsi come gli altri europei, ma in modo più marcato. Per questo motivo si sentono così traditi dal mondo. Forse anche voi avete la stessa sensazione.
Ora che avete stabilito il vostro grado di grecità economica, è giunto il momento di confrontare il vostro livello con quello di tutti coloro che vi circondano. Facendo appello a qualche nozione di algebra, sottraete il punteggio TGE di tutti gli altri dal vostro.
Risultato ampiamente positivo: Siete riformisti nati. Potete consolarvi con l’idea che anche Mosè era molto solo finché Dio non dimostrò che aveva ragione. Comunque, avete la storia dalla vostra parte.
Risultato ampiamente negativo: Siete un greco tra i barbari. Godetevela finché potete.
Risultato moderatamente positivo: Le persone si girano dall’altra parte quando entrate in un bar?
Risultato moderatamente negativo: Siete molto popolare in quasi tutti gli ambienti, salvo che tra le banche centrali.
Terminato il test, potreste volere riflettere su alcuni insegnamenti.
  • Il disastro greco non è stato provocato da una calamità naturale. La causa è dovuta a fattori strutturali e istituzionali, che potremmo chiamare Micro-fondamenta del Disastro. Essi potrebbero non essere caratteristica esclusiva della Grecia, o non necessariamente.
  • È sempre possibile ridisegnare la mappa del mondo, e la Grecia può essere relegata ad avamposto africano, oppure a prolungamento del Medio Oriente. Tuttavia, almeno alcune delle opinioni che hanno spinto la Grecia verso l’orlo dell’abisso esistono altrove. Alcune potrebbero persino essere considerate politicamente molto astute nel vostro paese. La Grecia può certo lasciare l’Euro; più difficile è riuscire a liberarsi della grecità.
  • Imparare a riconoscere i segnali di grecità incombente è una procedura di immunizzazione fondamentale.
  • Corriamo il rischio che la grecità economica possa (dopo qualche dolorosa correzione) cessare di essere caratteristica esclusiva della Grecia, per spostarsi verso Nord e verso Ovest.

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