I piemontesi hanno commesso un errore enorme fin dall’inizio, contrapponendo agli austriaci soltanto un esercito regolare e volendo condurre una guerra ordinaria, borghese, onesta. Un popolo che vuole conquistarsi l’indipendenza non deve limitarsi ai mezzi di guerra ordinari. L’insurrezione in massa, la guerra rivoluzionaria, la guerriglia dappertutto, sono gli unici mezzi con i quali un piccolo popolo può vincerne uno più grande, con i quali un esercito più debole può far fronte ad un esercito più forte e meglio organizzato. (K. Marx, F. Engels, Sui metodi di condotta della guerra popolare d’indipendenza)
Gli scenari che si sono delineati giorno dopo giorno in Medio Oriente sono una puntuale conferma di come, dentro la crisi sistemica del modo di produzione capitalista, la tendenza alla guerra diventi l’elemento cardine intorno al quale ruota per intero l’attuale fase imperialista. Nel mirino delle consorterie imperialiste sono entrate soprattutto quelle entità statuali che, a lungo, hanno mantenuto una posizione poco prona agli interessi del capitalismo internazionale e delle sue principali articolazioni. Buona parte di tali realtà statuali, nel corso della Guerra fredda, avevano optato per una alleanza, pur con gradi e modalità tra loro differenti, con il Blocco sovietico o la Cina dell’epopea maoista e, dopo l’89, pur all’interno di uno scenario radicalmente modificato, avevano manovrato per mantenere la propria autonomia politica e militare concedendo, almeno sul piano politico, il meno possibile agli imperativi degli organismi imperialistici internazionali, FMI e non solo. In altre parole hanno manovrato dentro i nuovi scenari internazionali cercando di scambiare una certa arrendevolezza sul piano economico in cambio di una non negoziazione della propria autonomia e sovranità politica e militare. Un fenomeno che, con gradi e modalità diverse, ha caratterizzato gran parte di quei governi che al termine delle lotte anticoloniali hanno dato vita a regimi nazionali democratico – borghesi più o meno progressisti.
Un “gioco” che non ha potuto reggere più di tanto poiché, nella fase immediatamente apertasi dopo l’89, tutti gli equilibri che la Guerra fredda aveva messo a regime non potevano che entrare in rotta di collisione con gli ordinamenti che la nuova fase imperialista necessitava. La crisi, inoltre, ha accelerato la disintegrazione di tali assetti poiché, per le consorterie imperialiste, è diventato sempre più urgente conquistare postazioni di forza, politiche, economiche e militari al fine di giocare da una postazione vantaggiosa la mortale partita della competizione globale. L’attacco e la rimozione della Libia gheddafiana prima e l’operazione anti - Siria attuale rientrano esattamente in tale prospettiva. Dentro questo scenario, in veste di attore protagonista, vi è un grande assente: il movimento operaio e comunista.
Molto sinteticamente di fronte alle operazioni belliche condotte contro la Libia e ora prospettate verso la Siria a sinistra si sono delineate quattro posizioni:
A) la prima, decisamente più corposa, ha salutato la guerra come un evento forse deprecabile ma in fondo utile per rimuovere regimi antidemocratici e dittatoriali.
B) la seconda, quantitativamente non proprio irrilevante, è la posizione di coloro che si sono opposti e si oppongono tuttora all’uso della forza, senza se e senza ma, per motivi etico - morali.
C) la terza, non eccessivamente numerosa ma neppure poco consistente, identifica tutte le forze in gioco come borghesi e imperialiste e, pertanto, estranee agli interessi di classe delle masse proletarie, ponendo al centro del proprio ragionamento la piena autonomia della classe proletaria in aperta contrapposizione a tutte le frazioni borghesi in gioco.
D) infine, una quarta parte, si è schierata contro la guerra imperialista finendo, in sostanza, con il porsi a difesa dei governi attaccati.
B) la seconda, quantitativamente non proprio irrilevante, è la posizione di coloro che si sono opposti e si oppongono tuttora all’uso della forza, senza se e senza ma, per motivi etico - morali.
C) la terza, non eccessivamente numerosa ma neppure poco consistente, identifica tutte le forze in gioco come borghesi e imperialiste e, pertanto, estranee agli interessi di classe delle masse proletarie, ponendo al centro del proprio ragionamento la piena autonomia della classe proletaria in aperta contrapposizione a tutte le frazioni borghesi in gioco.
D) infine, una quarta parte, si è schierata contro la guerra imperialista finendo, in sostanza, con il porsi a difesa dei governi attaccati.
Queste posizioni vanno analizzate e discusse con chiarezza e, nel caso, senza timore di ricorrere anche alla polemica più aspra.
Quanto sinteticamente riportato al punto A rappresenta un luogo comune classico delle forze opportuniste e tipicamente socialdemocratiche. Nel caso della Libia ciò si è concretizzato sia attraverso il pieno appoggio alle operazioni aereo – navali finalizzate a immobilizzare l’aviazione libica, sia, in un secondo momento, con la piena approvazione dell’intervento militare NATO al fianco degli “insorti”. In contemporanea, queste sedicenti aree di sinistra, si sono mostrate particolarmente attive organizzando manifestazioni antilibiche nelle principali città, marciando unite ai peggiori rottami reazionari libici e al fascismo islamico, oltre a svolgere una costante campagna informativa, a dir poco distorta, finalizzata a denunciare i crimini del regime gheddafiano. Crimini che, il più delle volte, sono stati ampiamente smentiti da ricostruzioni degli eventi non partigiane ma semplicemente obiettive. Nei confronti della Siria si sta ripetendo uno scenario in gran parte simile. La necessità di abbattere il governo siriano troverebbe origine dal delinearsi di un’emergenza umanitaria della quale, il regime siriano, sarebbe il principale responsabile. Anche in questo caso, le schiere di questa “sinistra dal volto umano”, marciano senza imbarazzi di sorta al fianco dei diversi predoni imperialisti e delle ben organizzate e armate truppe fondamentaliste. Lo stesso scenario che, con successo, l’insieme delle forze imperialiste e fasciste hanno abbondantemente sperimentato in Afghanistan. A dimostrazione di come il legame tra imperialismo occidentale e fascismo islamico sia meno conflittuale di quanto le diverse amministrazioni statunitensi e le varie Cancellerie europee amino dichiarare, oggi, queste forze, convivono in Libia e se ne spartiscono le membra; oggi, queste forze, collaborano alla rimozione del governo siriano e alla distruzione dell’integrità territoriale della Siria medesima.
In ogni circostanza, tali posizioni, non fanno altro che allinearsi alle esigenze delle borghesie imperialiste e non diversamente da queste si schierano con la guerra in nome della democrazia, dell’umanità, delle popolazioni oppresse e via dicendo. Un motivo che, sin dai tempi della giustificazione della colonizzazione come fattore di oggettiva civilizzazione e conseguente progresso sociale, ha caratterizzato simili formazioni. Pur con tutte le tare del caso, costoro, non fanno altro che reiterare motivi tipici dei partiti socialisti maggioritari dentro la Seconda internazionale. Nei loro confronti non può che essere ripreso con forza il giudizio storico formulato da Lenin: “agenti borghesi dentro il campo operaio e proletario”. Così come, storicamente, la socialdemocrazia ha appoggiato il colonialismo classico prima e le guerre imperialiste poi, oggi, benché in uno scenario storico radicalmente modificato, essa diventa, mascherandosi spesso dietro a un linguaggio di sinistra particolarmente prono al massimalismo, il principale puntello delle politiche imperialiste e neocolonialiste del proprio blocco imperialista. Il dichiarato appoggio all’aggressione del popolo libico prima e l’insistenza per un intervento in Siria oggi ne sono un’esemplificazione che non ha bisogno di grandi commenti. Queste forze vanno combattute, denunciate e ostacolate con la massima fermezza ed espunte, senza mediazioni di sorta e con ogni mezzo necessario, dal campo operaio, proletario e comunista.
Coloro che si allineano tra le schiere del punto B rappresentano la variegata panoramica del mondo pacifista. Una non secondaria parte di questi approda al pacifismo incondizionato a partire da uno sfondo etico – religioso. Movimento sostanzialmente impolitico il pacifismo, nel momento in cui il politico (insieme a tutto ciò che questo comporta) porta alle estreme conseguenze le linee di demarcazione tra l’amicizia e l’inimicizia, tende a evaporarsi limitandosi a un semplice ruolo di testimonianza oppure, non di rado, a farsi catturare dalle retoriche umanitarie di cui le forze imperialiste sogliono ammantarsi. In questo caso si assiste al repentino allineamento di parti di queste forze dentro il campo imperialista. Tuttavia, dentro tale area, in virtù del suo tratto fortemente etico, non sono pochi gli individui capaci di reale indignazione. Un sentimento che non va sottovalutato né, tantomeno, snobbato. Se, come gruppo sociale, il movimento pacifista ha una natura piccolo e medio borghese fortemente intellettualizzata e obiettivamente distante dalle realtà dei movimenti di classe è altrettanto vero che, proprio in virtù dei tratti etici e morali che fanno loro da sfondo, non sono pochi coloro i quali possono trasmigrare dal loro ceto per posizionarsi sul fronte di classe. Per questo, nei loro confronti, a differenza dell’intransigenza cha va manifestata verso l’opportunismo socialdemocratico è sensato attivare una costante e meticolosa opera di propaganda e di confronto.
Quanti si raggruppano nel punto C rappresentano una tendenza classica del movimento operaio e comunista. Una tendenza che racchiude in sé tutte le varie sfaccettature dell’estremismo, non ultima quella tipicamente anarchica. In apparenza le loro posizioni appaiono indiscutibili perché, sotto il profilo dottrinale, non sembrano fare una piega. Ma è proprio il loro tratto dottrinario a costituire il nocciolo del problema. Per questi compagni la dimensione “concreta” della politica è del tutto assente mentre a prevalere è una dimensione puramente libresca. Una lettura, superficiale e infantile al contempo del marxismo, li porta a considerare il modello sociale astratto costruito da Marx ne Il capitale come la reale condizione empirica nella quale si trovano, in qualunque contesto storico, a operare le forze politiche. Paladini della purezza operaia e proletaria non comprendono che, il modello prefigurato da Marx, è un modello che si incentra sulle classi storiche, ossia borghesia e proletariato, ma che è ben distante dal considerare ininfluente il peso che, sul piano del conflitto politico, rivestono l’insieme delle classi per così dire spurie o prive di prospettiva storica. Anche se solo di passaggio è il caso di ricordare che, su scala mondiale, solo di recente gli abitanti delle città hanno superato quelli delle campagne il che, tradotto in lessico politico e sociale, significa che solo oggi inizia a ripiegare leggermente la “questione contadina” con tutti gli annessi e connessi del caso. Questo salto, però, è ben lungi dal rappresentare la messa in forma di un modello sociale polarizzato, sotto il profilo quantitativo, intorno alla borghesia e al proletariato. Il ridimensionamento della “questione contadina” la quale, in ogni caso, rimane pur sempre di una non secondaria corposità non semplifica lo scenario sociale semmai lo complica poiché, l’emigrazione dalla campagna, così come aumenta in maniera esponenziale le file del proletariato, per altro verso finisce con il dilatare anche le schiere delle classi spurie. Per chiunque osservi, anche solo empiricamente, i tratti socio economici delle metropoli non è difficile constare come queste siano abitate da una pluralità di figure socio – economiche che ben difficilmente possono essere ascritte al proletariato o alla borghesia tout court. In poche parole ogni forza e formazione politica non può che agire e navigare dentro un fiume la cui formazione è il risultato di una molteplicità di affluenti ben poco omogenei tra loro. Ciò che comunemente viene indicato come “popolo” o “classi subalterne” non è il semplice escamotage per definire, in altro modo il proletariato e la classe operaia, bensì il sostantivo in grado di raffigurare l’insieme delle classi sociali che, pur distanti dalla borghesia imperialista non sono immediatamente assimilabili alle masse operaie e proletarie. Il proletariato, e il suo partito, non può realisticamente ignorarne l’esistenza se, la sua azione, si pone concretamente dentro la battaglia per la conquista del potere politico.
Il logico corollario di tutto ciò non può che essere la messa in forma di una tattica politica finalizzata a esercitare l’egemonia del proletariato, in quanto classe storica, su gran parte delle classi sociali parziali che formano il popolo. Da ciò ne consegue che, simile obiettivo, non può essere risolto ed efficacemente affrontato attraverso il dottrinarismo di maniera. Certo, su scala planetaria, il numero dei salariati è aumentato a dismisura ma, nonostante ciò, rimane una “minoranza” rispetto all’insieme delle classi sociali diversamente presenti dentro la complessa articolazione del modo di produzione capitalista. Scambiare la centralità della classe operaia e il suo ruolo direttivo dentro il processo rivoluzionario con il suo essere quantitativamente maggioritaria dentro il corpo sociale è un abbaglio di non poco conto. Ma se la classe operaia è, obiettivamente, una minoranza del tessuto sociale alcune ricadute non secondarie ne conseguono.
Ciò che questi compagni “puristi” bellamente ignorano è il concetto stesso di alleanza, un tratto che, al contrario, è proprio del leninismo. Non per caso, tra queste aree, a primeggiare sono tutti quei filoni di teoria e prassi politica che, volta per volta, sono entrati in rotta di collisione con Lenin e il bolscevismo. Nei confronti di quanto accaduto in Libia e di quanto si sta profilando in Siria la loro posizione è molto semplice e chiara: si tratta di un conflitto tra due gruppi borghesi e, pertanto, il proletariato non ha alcun interesse a entrare dentro la partita. Per questi compagni, a ben vedere, il proletariato si riduce a un’astrazione alla quale, i vari cenacoli ultrarivoluzionari, si appellano per trovare una qualche motivazione alla loro stessa esistenza. Sfugge loro la dimensione di una politica di classe in grado di misurarsi con gli scenari che i dati obiettivi della storia impongono e le conseguenti articolazioni “concrete” che questa comporta. Inoltre, fatto non proprio secondario, questi raggruppamenti ignorano volutamente lo scenario geopolitico entro il quale, tutti quanti, siamo oggettivamente obbligati a muoverci. Il che non deve stupire. Sul piano della politica internazionale e dei conflitti interstatuali di cui la politica internazionale è gravida, questi compagni, non fanno altro che riprodurre, amplificandolo, il modello utilizzato per delineare i campi dell’amicizia e dell’inimicizia dentro lo scenario del conflitto di classe. Così come il loro dottrinarismo li porta a porre sullo stesso piano un piccolo proprietario e una multinazionale, essi applicano la stessa logica nel momento in cui dalle classi sociali si passa alle entità statuali. In questo caso, allora, un governo e uno stato nazional – borghese non è dissimile da una consorteria di stati imperialisti poiché, alla fine della fiera, sempre di borghesia si tratta e, per il proletariato, tutto questo risulta indifferente.
Ciò che questi compagni ignorano, o fingono di ignorare, è il fatto che non esiste un contesto borghese e uno proletario e operaio, quasi che i conflitti interni al campo della borghesia non avessero ricadute, e per di più pesanti, anche per le masse subalterne. La condizione delle masse libiche oggi, dopo il processo di balcanizzazione a cui la Libia è stata sottoposta, non può essere certo paragonato alla condizione in cui le stesse masse vivevano sotto il regime nazional – borghese gheddafiano. Ma non solo. La rimozione del governo nazional – borghese di Gheddafi non ha certo fatto compiere un qualche passo avanti alla prospettiva rivoluzionaria ma, al contrario, ha posto le masse libiche in una condizione di pieno arretramento sotto il dominio diretto delle consorterie imperialiste occidentali e il terrore esercitato dagli agenti fondamentalisti delle petromonarchie. Una condizione che, se possibile, ha reso ancora più drammatica la vita per tutte quelle popolazioni migranti, e soprattutto quelle di pelle nera, nei confronti delle quali, da parte di tutte le forze occupanti, è praticata una politica apertamente schiavista, razzista e fascista. In poche parole, la rimozione del governo nazional – borghese del clan Gheddafi non ha comportato alcun progresso per le masse subalterne ma le ha fatte precipitare in una condizione persino peggiore da quella patita e sperimentata nel corso della colonizzazione per così dire classica. Infine, ma non per ultimo, l’occupazione militare della Libia ha fornito un’eccellente base logistica per le forze imperialiste in un’area del mondo entro la quale, la contesa globale, si delinea sempre più una contesa anche militare. Un insieme di elementi che non possono essere considerati ininfluenti per le sorti delle masse proletarie quasi che, queste, non vivessero dentro questo contesto ma in una sorta di dimensione parallela e per di più impermeabile agli scenari prodotti dall’azione delle varie consorterie imperialiste. Quanto si sta delineando nei confronti della Siria, se possibile, aggrava ancor più lo scenario sinteticamente descritto poiché, una volta rimosso l’ostacolo Siria, nulla sembrerebbe più impedire il pieno assoggettamento di tutta un’area geopolitica strategica a quell’insieme di forze, democrazie occidentali e petromonarchie fondamentaliste, in piena corsa per una nuova ridefinizione delle gerarchie internazionali. La caduta della Siria, con ogni probabilità, comporterà l’avvicinarsi della guerra contro l’Iran, una nuova colonizzazione del Libano e lo strangolamento definitivo della causa palestinese la quale si troverà continuamente in balia della mannaia occidentale – sionista e del cappio fondamentalista. L’intera lotta e storia del popolo palestinese finirà, così, con l’essere definitivamente rimossa. Ma non solo. La balcanizzazione della Siria consentirà all’imperialismo a matrice fondamentalista, e all’insieme dei suoi noti sponsor, di indirizzare le loro mire verso la Russia. In poche parole, la posta in palio che si gioca sulla Siria è enorme.
Parlare di autonomia di classe, di partito di classe ignorando l’insieme dei fattori brevemente esposti significa essere tutto tranne che forze politiche degne di questo nome. Ignorare le condizioni reali all’interno delle quali le masse conducono le loro esistenze significa avere del proletariato una concezione tollerabile, forse, tra gli studenti liceali ma inammissibile per chiunque si ammanta del titolo di militante politico. L’estremismo e l’anarchismo, in molti casi, sono la risposta sbagliata all’egemonia delle forze opportuniste e riformiste, sono la risposta errata alla dominanza del social democraticismo e, come tali, vanno combattute sul piano politico e teorico al fine di recuperare il maggior numero di militanti che, sinceramente e in piena onestà, si muovono in tale direzione convinti di servire la causa dell’internazionalismo proletario. Il confronto, pur fermo e serrato, con queste aree è non solo utile ma indispensabile poiché, come l’esperienza storica è lì a ricordarci, tra queste sono presenti non pochi proletari ampiamente recuperabili alla linea di condotta leninista.
Veniamo infine all’ultimo raggruppamento il quale, per molti versi, è esattamente speculare a quello appena tratteggiato. Per questi compagni, la difesa della Libia e ora della Siria rappresenta un punto fermo del loro agire e a questo segue una sostanziale difesa dei regimi che governano questi paesi. Ciò che caratterizza questi compagni è la reiterazione di uno scenario da Guerra fredda come se, in fondo, l’89 non avesse scompaginato più di tanto gli assetti internazionali e, per di più, senza cogliere le contraddizioni e gli elementi di criticità che hanno caratterizzato, sino a farlo implodere, il ”blocco sovietico”. Con la stessa logica meccanica e non dialettica delle frazioni ultrasinistre questi compagni, pur in nome di un sacrosanto e giusto antimperialismo, finiscono con l’accodarsi ai regimi sotto scacco. In questo modo, però, rinunciano a esercitare il ruolo proprio dell’organizzazione politica comunista ma non solo. Andando al dunque queste posizioni non sono in grado di andare oltre la semplice testimonianza, anche perché mobilitarsi contro l’intervento dell’imperialismo avendo dalla propria la forza politica e militare del blocco sovietico era una cosa, farlo con Putin saldamente in sella al Cremlino è decisamente un’altra. Nel primo caso, la mobilitazione di piazza, di agitazione, propaganda e controinformazione dentro le metropoli imperialiste, aveva realmente un senso rafforzativo di un’opzione politica che aveva il suo reale e operativo rapporto di forza dentro un blocco statuale in grado di esercitare sino in fondo la decisione e, in virtù di ciò, di “dissuadere” l’imperialismo dal precipitarsi in situazioni dentro le quali, il rischio di impantanarsi, era molto più che una semplice ipotesi di scuola. Nel contesto attuale, per ovvi motivi, il reiterare simile “linea di condotta” non sembra essere in grado di sortire effetti di una qualche efficacia tanto è vero che, sul piano concreto, le politiche imperialiste non sembrano soffrirne in alcun modo. Nella pratica è un po’ come fare il tifo per una squadra che non c’è più. Da tredicesimo uomo in campo, il tifoso, diventa, nella migliore delle ipotesi, il patetico remake di come eravamo.
Ora, tralasciando la posizione tipica del pacifismo piccolo borghese e sostanzialmente estranea alla tradizione del movimento operaio e comunista e quanto esposto nella posizione descritta al punto A, la quale non è altro che la reiterazione tipica della socialdemocrazia che, da sempre, si ritrova alleata delle “proprie” forze imperialiste e che, storicamente, ha sempre appoggiato le pratiche della colonizzazione, il nocciolo della questione si riduce alle posizione esposte negli ultimi due punti. Queste due posizioni vanno discusse con attenzione e senza isterismi di sorta. Dentro queste posizioni si raccolgono le aree più oneste e generose del movimento comunista e, se come proveremo ad argomentare, entrambe non sono esenti da critiche è altrettanto vero che solo dentro tali aree è possibile condurre un dibattito sincero sull’internazionalismo proletario e i suoi compiti attuali mentre, come si è detto, tra le file del pacifismo è possibile svolgere unicamente un lavoro mirante a staccare da questi gli individui maggiormente accorti e sensibili.
Per venirne a capo occorre chiarire il tipo di regimi e governi che oggi vengono rimossi o posti sotto assedio dalle forze imperialiste.
Sia per quanto riguarda la Libia di Gheddafi che la Siria di Assad abbiamo, in sostanza, a che fare con il fallimento dei processi di decolonizzazione determinatisi tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Quei governi che, obiettivamente, non potevano essere altro che il frutto di un’alleanza tra borghesia nazionale non asservita agli interessi delle borghesie imperialiste, piccola borghesia urbana, contadini poveri, contadini medi, proletariato rurale e classe operaia, ovvero tutte quelle classi sociali che avevano trovato una coesistenza politica e militare dentro i vari fronti di liberazione nazionale, nel loro divenire hanno via via accentuato il loro carattere borghese e sconfitto le forze politiche rivoluzionarie e progressiste. Il risultato è stato il delinearsi di un potere politico dove, non di rado, si è venuto a delineare il dominio di un ceto burocratico - militare a dominanza familistica. Non stupisce pertanto che, all’interno di simili realtà, si alimentino una serie di conflitti e in particolare quelli tra le frazioni della borghesia dominante e le varie consorterie borghesi sconfitte. Così come non è per nulla strano e incomprensibile che, le frazioni borghesi che tentano di rovesciare i rapporti di forza facendo leva sulle forze imperialiste internazionali, mobilitino dietro a loro anche cospicue masse proletarie o semi proletarie. Nella loro lunga dominazione, questi regimi, non hanno certo fatto molto per accattivarsi le simpatie delle masse subalterne e, in particolare dopo l’89, i vari cedimenti ai diktat economici degli organismi del capitalismo internazionale non hanno fatto altro che accentuare le contraddizioni proprie della loro gestione del potere. Ma, una volta riconosciuto il carattere sicuramente borghese di questi regimi, è possibile, assumendo un tratto tanto dottrinario quanto inconcludente, sostenere la sostanziale eguaglianza tra questi regimi borghesi nazionali e i governi delle multinazionali che si apprestano a sostituirli in collaborazione con le forze più reazionarie, retrive e fasciste dei mondi islamici? Le forze comuniste devono, in virtù della loro presunta purezza, mantenere una rigida equidistanza tra questi regimi e le forze imperialiste? Una domanda che, in realtà, non è poi così nuova poiché, pur sotto altra veste, si è più volte presentata tra le file del movimento operaio e comunista. Esempio tipico di ciò è stata la questione, postasi in un altro contesto storico, della democrazia borghese e della sua difesa di fronte all’assalto fascista. Per le correnti estremiste e ultrasinistre tale difesa è stata considerata un assurdo che non doveva neppure essere preso in considerazione mentre, per le frazioni riformiste e opportuniste, tale difesa doveva essere praticata ma dentro il rigido quadro della legalità borghese e in piena subalternità alle forze politiche della borghesia non fascista. Di tali impostazioni l’Italia, proprio a ridosso dell’era fascista, è stata maestra pagandole con il ventennio mussoliniano. A caratterizzare entrambe le impostazioni è la comune visione a-dialettica della realtà. Per gli ultra sinistri la difesa della democrazia borghese non poteva che essere una lotta della borghesia medesima assumendo, in questo modo, seppur con segno rovesciato la stessa ipotesi coltivata dai riformisti. Ciò che a entrambi sfugge sono le trasformazioni che, dentro il movimento delle classi, si producono nella realtà politica e sociale. Se, di fronte all’attacco delle forze fasciste, le organizzazioni proletarie e comuniste prendono in mano la battaglia per la difesa delle libertà democratiche diventano loro, in piena autonomia politica e organizzativa, i dirigenti di tutte le classi sociali che si muovono in tale direzione. Il risultato finale, allora, non sarà la semplice restaurazione dello scenario precedente ma il delinearsi di una forma politica dentro la quale, le forze di classe, saranno in grado di esercitare per intero il loro peso. Certo, come in tutte le partite storiche, non diversamente da quelle di calcio, il risultato deve essere conquistato sul campo. Così come il pallone è rotondo, la storia non scivola via su binari rigidamente predefiniti. L’indirizzo storico, pur dovendo obiettivamente misurarsi con un contesto concreto storicamente determinato, segue il tracciato che forze politiche soggettive gli impongono. Solo una visione meccanicistica o evoluzionista può pensare il divenire storico estraneo all’agire della soggettività. Non si tratta di difendere il presente bensì, dentro questa difesa, conquistare le postazioni di forza in grado di essere parte determinante degli scenari futuri. In questo senso, allora, si pone per intero la questione dell’autonomia politica delle forze comuniste e di classe che, a partire da tale autonomia, devono rapportarsi con le forze dei regimi nazional – borghesi sotto attacco.
Le due opzioni che abbiamo descritto hanno, pur sotto angolature diverse, i medesimi vizi: affrontano in maniera statica e non dialettica la realtà; mostrano la medesima sfiducia nelle masse: per gli uni non vi è altra possibilità che l’appoggio e la subordinazione ai regimi borghesi, per gli altri l’idea che non si possa andare oltre a una serie di enunciazioni di principio le quali, in un futuro non ben precisato, potranno diventare il collante del’organizzazione di classe. Il fatto che, nel frattempo, intere aree del mondo finiscano direttamente tra le mani delle consorterie imperialiste occidentali o tra le grinfie dei gruppi imperialisti di ispirazione fondamentalista appaiono problemi di nessun conto. Allo stesso modo la difesa, di principio, dei regimi sotto scacco non può ridursi ad altro che a una semplice operazione di testimonianza. Da soli, questi regimi, non sono in grado di salvarsi e, per altro verso, la loro natura di governi borghesi con velleità di potenza politica regionale gli impedisce di coagulare intorno a sé la solidarietà di altrettanti regimi borghesi. Ed è proprio a partire da tale constatazione che l’esergo posto a incipit del testo diventa passaggio esplicativo del nostro discorso. Marx ed Engels, attenti studiosi e osservatori di ciò che ancora non ha assunto il nome di geopolitica, colgono nitidamente la relazione indissolubile e il nesso dialettico che lega le politiche statuali, i loro conflitti le ricadute che questi hanno per le masse subalterne insieme alle possibilità che, proprio dentro le contraddizioni che tali conflitti necessariamente generano, per queste si paventano. Dentro la guerra, insomma, per le masse si aprono oggettivamente degli spazi di reale autonomia, di reale possibilità di essere parte attiva del divenire storico poiché, dentro la guerra, la capacità di tenuta degli stati non può che vacillare. Da ciò ne consegue che, gli esiti di un conflitto, non solo dipendono dagli “umori” delle masse ma che la risultante politica stessa del conflitto può essere piegata a favore delle masse se, queste, sono in grado di intervenirvi portandovi dentro il loro “punto di vista” e la loro “linea di condotta”. In altre parole, secondo Marx ed Engels, nessun conflitto interstatuale e interborghese può essere ignorato dalla politica comunista. Proprio dentro tali conflitti all’idra della Rivoluzione si pongono ghiotte occasioni.
A partire da ciò passiamo a ipotizzare la “linea di condotta” che, sulla scia della teoria politica leniniana, occorre praticare. Per farlo occorre rovesciare interamente il modo in cui viene solitamente posta la questione. Il problema non è l’appoggio subordinato ai regimi borghesi sotto attacco ma entrare, pur in alleanza con questi, come forza autonoma dentro il conflitto. Al proposito abbiamo un esempio illustre che, pur con tutte le tare del caso, ben si presta a essere assunto come possibile modello. Il riferimento è alla Guerra di Spagna. In quel contesto il movimento comunista internazionale, il movimento operaio e le forze democratiche e progressiste si mobilitarono in difesa di un governo borghese il quale, però, in quel determinato contesto rappresentava il punto più alto di opposizione alle forze fasciste e imperialiste. Sotto tale aspetto, allora, l’esperienza delle Brigate internazionali va ripreso tra le mani e rivisitato in tutta la sua complessità. Le Brigate internazionali, infatti, non furono un semplice apporto politico e militare al governo legittimo spagnolo. Non furono la semplice difesa di un regime democratico - borghese ma, attraverso la loro presenza, furono l’elemento politico autonomo il cui obiettivo era di spingere la rivoluzione spagnola verso le posizioni ben più democratiche e progressiste. L’arma fondamentale delle Brigate Internazionali più che nei suoi reparti, plotoni e reggimenti stava nell’esercizio della dialettica come strumento concreto dell’azione politica. Le Brigate Internazionali, con la sola loro presenza, obbligavano la Rivoluzione spagnola a misurarsi con la partecipazione attiva e non semplicemente parlamentaristica delle masse subalterne alla gestione del potere politico.
Venendo al presente dobbiamo quindi chiederci se, di fronte all’attacco alla Siria, il compito delle forze comuniste non sia quello di una mobilitazione fattiva al fianco della Siria. Dobbiamo chiederci, senza troppi rigiri di parole, se il conflitto in Siria oggi possa svolgere la stessa funzione avuta dalla Guerra di Spagna. Se così è, allora occorre agire di conseguenza, diventando una componente politica organizzata capace a tutti gli effetti di inserirsi dentro quel contesto. Una componente che, pur muovendosi in difesa dell’autonomia del governo siriano e della sovranità del paese, non si appiattisca e non si subordini al regime ma agisca, in maniera dialettica, dentro questa contraddizione.
Ovviamente l’esempio delle Brigate Internazionali costituisce uno spunto di riflessione metodologico ma con ciò non si intendono cancellare e tacere le profonde differenze del contesto storico della Guerra civile spagnola rispetto al contesto geopolitico entro cui si inserisce l’attuale conflitto siriano. Nel 1936 la rivoluzione comunista si consolidava in U.R.S.S. e anche se le possibilità di una sua immediata espansione mondiale si erano nettamente ridimensionate, il movimento comunista internazionale aveva al suo fianco, come punto di riferimento e appoggio concreto, la base rossa, di non proprio trascurabile portata, che era l’U.R.S.S. Aveva come suo organo decisionale e direttivo la Terza Internazionale, un organismo capace di saldare la teoria e la prassi dei partiti comunisti su scala mondiale, nonché di coordinare e sostenere concretamente le loro azioni e loro campagne in modo da non disperderne le forze. Di tutto ciò, attualmente, non esiste più traccia. Le forze comuniste a livello mondiale risultano disperse, indebolite, spesso in contrasto tra loro su questioni legate ad un mondo che non esiste più, incapaci di ritrovare un’unità e una sintesi che rendano la loro opzione politica capace di incidere sulla realtà. Da questo punto di vista, il richiamo alle Brigate internazionali potrebbe risultare velleitario e del tutto anacronistico. Eppure come riecheggia già da qualche tempo: la storia spesso ha bisogno di una spinta!
Quel richiamo ad un’esperienza storica concreta del movimento comunista internazionale, allora, come già detto, rappresenta uno spunto metodologico. Ovviamente sarebbe folle pensare di riuscire a mettere insieme, così su due piedi, una forza politica e militare in grado di andare a combattere in difesa dell’autonomia del governo siriano ma esercitando un reale rapporto di forza, riuscendo alla lunga a smuoverne gli equilibri politici dall’interno. Certamente, l’organizzazione delle forze comuniste su scala internazionale è ben lontana dal potersi porre un simile obiettivo. Un simile obiettivo per poter essere perseguito sensatamente, e soprattutto concretamente, ha bisogno di essere coltivato a partire da ben altre postazioni di forza. Il lavoro politico che occorre, necessita , dunque, di passaggi ben più lunghi e faticosi: ciò che sembrerebbe sensato è che le forze comuniste cominciassero a lavorare alla formazione di un fronte antimperialista e antifascista unito su posizioni socialiste, con alcuni referenti politici in grado di assicurare una sponda politica e logistica concreta. Molte forze e soggettività comuniste attualmente e contemporaneamente, anche se in maniera frammentata e divisa, inconsapevoli le une del lavoro delle altre, stanno ragionando ed elaborando posizioni di questo tipo. Allora ciò che appare non solo utile ma urgente è cominciare a mettere in opera uno sforzo di centralizzazione di queste elaborazioni. Se la base logistica e politica a cui sembra più sensato guardare per poter portare avanti un lavoro di questo tipo, è rappresentata dai paesi progressisti dell’America Latina, quei paesi che hanno intrapreso un percorso verso nuove forme di socialismo e sono uniti dalla stessa lotta antimperialista, allora è a partire da questo referente che le forze comuniste potrebbero provare a ricostituire un fronte antimperialista e antifascista unitario. E’ necessario trovare un punto da cui intraprendere il lavoro politico, per quanto la matassa sembri quasi disperatamente ingarbugliata: il passaggio che come forze comuniste potremmo e dovremmo tentare sarebbe quello di mettere insieme un fronte, da prima nazionale, poi europeo e mediterraneo, costituito da realtà politiche unite dalle prospettive finora enunciate, il quale dovrebbe poi tentare di instaurare rapporti politici organici con il maggior numero possibile di forze su scala internazionale così da arrivare in tempi non biblici al compimento di alcuni passaggi organizzativi elementari in grado di rendere fattibile ed efficace un lavoro autonomo di propaganda, organizzazione e prassi antimperialista e socialista su scala internazionale.
Detto ciò, tuttavia, l’urgenza della “questione Siria” resta e non sembra possibile affrontarla attraverso la politica dei due tempi. Ossia non è immaginabile pensare prima alla costituzione di un organismo antimperialista internazionale e poi, forti del mandato che questo potrebbe vantare, intervenire dentro il conflitto siriano. I due passaggi non possono che essere posti in piena reciprocità. Solo dentro la prassi il marxismo può ipotizzare di riacquistare, specialmente tra le masse subalterne extraoccidentali, quell’autorevolezza e quel ruolo di faro e di guida che lo ha caratterizzato per un’intera arcata storica. Una politica dei due tempi, in questo caso, non farebbe altro che apparire niente di più e niente di meno del classico gatto che si morde la coda per questo, nell’agenda politica delle avanguardie comuniste internazionali, il dibattito su Siria e dintorni non può che essere assunto come snodo strategico di un internazionalismo proletario all’altezza dei tempi.
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