∫connessioni precarie
Di fronte alle imponenti manifestazioni che hanno luogo a Madrid, Lisbona e Atene, e alla costante presenza di un’opposizione sociale all’austerity nei paesi che più stanno subendo le politiche di tagli voluti dal patto salva-euro, è frequente la domanda: cosa accade invece in Italia? Oppure: perché in Italia le molte lotte quotidiane contro gli attacchi tecnicamente sferrati dal governo non si saldano, come accade in altri luoghi dell’area mediterranea?
Reclamare un reddito di base incondizionato, di fronte alla precarietà e alla povertà dilagante, è cosa giusta. Difendere il lavoro dipendente, salvaguardando articolo 18 e ammortizzatori sociali, è cosa giusta. Evocare l’assedio del Parlamento, perché così accade in Spagna, Grecia e Portogallo, è un’idea suggestiva. Qualcosa però dovrebbe suggerire che continuare su questa strada non servirà. Nessuna di queste giuste e suggestive prospettive sembra porsi il problema dell’accumulazione di forza che è necessaria per vincere, o anche soltanto a dare all’esasperazione diffusa una forma che sia diversa dalla mera rabbia o indignazione, che rischiano sempre di limitarsi a momenti di sfogo tanto straordinari quanto fugaci.
Sarebbe bene smetterla di ricamare sulla carta ciò che andrebbe fatto, e iniziare a misurarsi con la condizione reale che la precarietà ha prodotto ben prima dei provvedimenti sul lavoro del governo Monti, e che la crisi continua a riprodurre con l’ostinazione di un movimento reale.
I rapporti sociali così prodotti mostrano di tenere. Vediamo come sia difficile trovare scorciatoie capaci di trasformare tanto singole vertenze industriali, pur grandi, quanto singole esperienze locali, pur capaci di generare inedite alleanze e mobilitazioni costanti, nelle leve per una mobilitazione generale.
Per noi, il motivo risiede nei rapporti sociali prodotti e riprodotti dal lavoro della precarietà e dall’ipoteca del razzismo istituzionale. Quest’ultimo non è la disgrazia particolare che colpisce alcuni, ma l’evidenza di una divisione che chiarisce agli occhi di tutti in quale parte della società bisogna stare. La sanatoria di queste settimane, sia detto per inciso, mostra da sola l’incapacità dei movimenti di mettere in discussione questa ipoteca e la solitudine dei migranti. Su di loro si sta scaricando una stretta amministrativa che, facendo leva sul reddito, arriva perfino a negare il “diritto alla precarietà” e alla disoccupazione. Eppure sono stati proprio i migranti, in questi anni, a produrre i momenti più alti d’insubordinazione dentro questi rapporti reali, rigettando quel ricatto del salario che pare oggi un ostacolo insormontabile da Taranto a Torino.
Non dovremmo pensare che sia sufficiente costruirsi spazi di autonomia dai quali dirigere l’attacco contro la ristrutturazione globale del capitale, ma essere capaci di entrare e fare i conti con quei rapporti che lasciano la gran massa dei precari, dei lavoratori, dei disoccupati, in Italia come altrove, invischiati nella tela della produzione e riproduzione sociale.
Non vediamo avanguardie di un futuro prossimo. Il presente della crisi è fatto da quella massa di lavoratori dipendenti, precari, pubblici e privati, ai quali i movimenti non hanno saputo parlare. Se si rinuncerà ancora a parlare dentro a questo orizzonte, il ruolo dei movimenti sarà, come spesso è stato negli ultimi anni, soltanto quello di testimoniare una diversa ecologia dei comportamenti politici. In questi mesi molti hanno condiviso, nei fatti e anche in presenza di contrapposizioni di schieramento, un approccio di fondo, che ha finito per riprodurre specularmente la struttura categoriale dei sindacati: che gli operai, gli studenti, i precari, i disoccupati, i migranti fossero segmenti divisi da compartimenti stagni, ognuno dei quali patrimonio di specialisti; che il movimento si desse come un cartello di strutture; che la supposta radicalità delle rivendicazioni si desse nelle pratiche di piazza; che, derubricata la centralità materiale del lavoro, lo scontro avvenisse ormai sul piano simbolico. Molti si sono poi stupiti di fronte all’esplodere del protagonismo operaio e del fatto che questo non si sia manifestato immediatamente contro il lavoro.
Noi crediamo sia giunto il momento di uscire da questo equivoco politico. Gli operai, gli studenti, i precari, i disoccupati, i migranti, non sono segmenti divisi da compartimenti stagni. Il problema dell’accumulazione di forza e di potere nella precarietà non si risolve con una sommatoria di pezzi che, ripuliti delle differenze, possano ritrovarsi senza nemmeno comunicare sotto l’ombrello retorico della democrazia, della moltitudine o del comune. La fascinazione di piazza Syntagma, l’empatico rilancio nei social network delle adunate di Sol e Neptuno non possono nascondere il fatto che, senza una mobilitazione espansiva e non meramente autorappresentativa, senza la produzione di momenti di comunicazione e insubordinazione contro la forza dell’abitudine, per difendere parlamento e ministeri sarà sempre sufficiente un adeguato numero di poliziotti. Il carattere universale della precarietà e dello sfruttamento non è di per sé la condizione sufficiente per connettere la rabbia generalizzata e le singole lotte. Ciò che ci manca è proprio la capacità di fare questo passaggio, che non è né dato né implicito. Costruire un’organizzazione generale delle lotte non significa stabilire una gerarchia che le diriga, né tanto meno al loro interno. Significa però distinguere collettivamente ciò che è generalizzabile e cosa non lo è. Significa guardare nella composizione materiale di classe, magari facendo un passo indietro rispetto alle proprie convinzioni teoriche. Significa non considerare lo stato presente dei movimenti come se fosse sufficiente a se stesso, ma riconoscere la necessità di operare contro di esso per tutti i limiti che ci impone.
Da questo punto di vista anche ciò che accade nell’area euro-mediterranea non è la soluzione, ma la forma in cui emerge il problema. Le enormi mobilitazioni, la violenta contrapposizione nelle piazze, i tentativi di riarticolare discorsi sulla democrazia e la costituzione sembrano essere destinati all’eccezionalità persino nella loro costante ripetizione. E la ripetizione non comporta necessariamente un qualche accumulo. Le pur diffuse esperienze di autorganizzazione sociale dentro e contro la crisi rischiano di rimanere solo forme di autodifesa, ormai indispensabili per sopravvivere alla costante svalutazione della vita. L’Europa e il mercato globale stabiliscono il quadro mobile, mutevole e violento dentro il quale i nostri movimenti reali sono obbligati a muoversi, quando cercano di sovvertire. Come non è pensabile rimediare in piccolo agli effetti del mercato mondiale, così non è credibile chi pensa di salvarsi dalla crisi facendo a meno dell’Europa politica. I movimenti reali di rivolta che attraversano l’area euro-mediterranea devono essere collocati dentro e contro questo spazio programmatico. Altrimenti si rischia di produrre un confinamento che non è all’altezza né della dimensione globale di questa fase di accumulazione, che in Europa si chiama crisi e altrove sviluppo, né delle lotte che a essa si oppongono – dal Pakistan alla Cina, dall’India alle Americhe, passando per l’Europa – e nemmeno dei movimenti degli uomini e delle donne che si sottraggono ogni giorno alla sua presa.
Non è per un internazionalismo di maniera che diciamo che anche la lotta nell’Europa politica produce organizzazione solo se si colloca all’interno del quadro più ampio che la determina. Abbiamo sostenuto l’intuizione dello sciopero precario, del quale abbiamo intravisto la possibilità nelle lotte dei migranti, e che abbiamo visto praticato nell’imprevista esperienza del general strike di Oakland, ma anche nelle lotte degli operai indiani. Esso ha dato un nome alla scommessa di intervenire in questo movimento reale globale. Una scommessa che andrebbe colta e giocata, onde evitare che, nella ferrea catena che collega tutte le istituzioni del capitale, la nostra incapacità di produrre organizzazione sia l’unico anello debole.
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