Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 21 settembre 2013

La condanna europea all’austerity

Fonte: Il Manifesto | Autore: Andrea Fumagalli
                 
Tra pochi giorni le elezioni tedesche segneranno lo spartiacque per un probabile cambio della politica economica europea. Pur se la governance politica dell’Unione Europea rimarrà non molto dissimile, la governance economica potrebbe significativamente modificarsi con l’allentamento delle politiche di austerity . Dopo sei anni di crisi, alla cui persistenza le stesse politiche di austerity hanno sicuramente contribuito, è necessario voltar pagina. Il motivo è semplice. Le politiche di austerity hanno raggiunto in buona parte i loro scopi e il loro perdurare rischia di colpire anche chi ne ha fatto una bandiera. Nonostante quel che ci viene raccontato, non siamo in presenza di una ripresa economica. Al limite, dopo sei trimestri consecutivi di segni negativi (un vero e proprio record) è lecito attendersi un rallentamento, quasi fisiologico, del calo, verso una situazione più di stagnazione che di crescita. Il mercato del lavoro, nel frattempo, ristagna, anzi peggiora. I paesi dell’Europa meridionale segnano livelli record di disoccupazione, soprattutto, di quella giovanile (il massacro di una generazione), ben oltre i valori ufficiali dichiarati, se si contano tra gli inoccupati, anche i cosiddetti «scoraggiati» e «mini jobs» (in Germania) e i «zero hours contracts» (in Gran Bretagna). L’attuale situazione del lavoro in Europa è uno dei risultati vincenti delle politiche di austerity. La destrutturazione del mercato del lavoro è infatti uno degli obiettivi della politica economica recessiva che è stata pervicacemente perseguita dalla Germania e dalle autorità europee: la precarizzazione del lavoro e della vita tramite processi di mercificazione biopolitica dell’esistenza, la frammentazione del lavoro vivo e l’impossibilità di sviluppare capacità conflittuali, se non di mera resistenza. Potere oligarchico Tale risultato è stato possibile anche perché il pesante calo dei redditi, la precarizzazione crescente sotto il ricatto della disoccupazione e del bisogno hanno depotenziato la capacità conflittuale (invece di aumentarla). La crisi ha aumentato infatti l’eterogeneità sociale e dei movimenti degli stati membri dell’Unione Europea. L’inesistenza di istituzioni rappresentative europee a tutti i livelli in grado di contrapporsi a tale deriva ma piuttosto inclini ad aumentare la divergenza e a definire gerarchie nazionaliste non ha che peggiorato la situazione. Si noti che tale processo sociale disgregativo (che ha alimentato anche forme di revanscismo localista, xenofobo e razzista in quasi tutti gli stati europei) è avvenuto nel mentre l’oligarchia economico-finanziaria, sotto l’egida tedesca, era in grado di promuovere un’omogeneità dell’azione politica e fiscale senza precedenti. Paradossalmente, ma non troppo, si è contemporaneamente affermato un modello (regressivo, reazionario e neo liberista) di politica fiscale comune europea, con l’obiettivo di ribadire il primato della proprietà privata (contro il comune ), della diseguaglianza (contro una più equa distribuzione del reddito ), del lavoro precario (contro un reddito di base incondizionato ), del saccheggio dello spazio e dell’ambiente e della mercificazione della vita (contro la possibilità di esercitare un potere decisionale autonomo per sé e per il proprio territorio). Ma le politiche d’ austerity e fiscali ora rischiano, se ulteriormente perpetrate con le stesse modalità recessive che le hanno definite fino a ora, di rilevarsi un boomerang, se non vengono mitigate dalla necessità di favorire comunque una ripresa economica. Il mantra della crescita – almeno a parole – è diventato la nuova emergenza economica. Se prima era il debito a definire la situazione emergenziale da cui tutto doveva dipendere, ora è l’aumento del Pil a essere la nuova ossessione emergenziale. Non è un caso che alla minor valorizzazione del capitale multinazionale europeo si accompagna anche la perdita di importanza dell’Europa nello scacchiere internazionale. Vi è cioè anche una crisi di governamentalità politica che richiede un cambio di passo. L’Europa, oggi, al sesto anno di crisi, non solo ha perso la centralità economica ereditata dal fordismo, ma anche la centralità politica fondata sull’asse con gli Usa. te monetario e nel controllo dei debiti pubblici e esteri definiva i pilastri della propria governance tendono a essere irreversibili e irrimediabili per la stessa valorizzazione capitalistica. La generalizzazione della condizione precaria nel lavoro da un lato, la privatizzazione del modello europeo di welfare state, accelerati dalla crisi, dall’altro, non consentono infatti di poter sfruttare al meglio quelle economie dinamiche di rete e di apprendimento che oggi sono la base per la crescita della produttività e per l’innovazione tecnologica. L’esperienza del Sud America e la parabola economica di Cina e India (che vive, comunque, una situazione attualmente di impasse ) mostrano che altri modelli economici sono possibili, pur con tutta l’ambiguità del caso. Il modello europeo in salsa neoliberista ha oramai fatto il suo tempo: l’essere riusciti a impedire lo sviluppo di conflittualità (a differenza di altre regioni del globo) ha avuto un costo talmente alto da mettere in crisi lo stesso establishment europeo.

I “precari” avranno mai una coscienza di classe?

Il ruolo della scuola pubblica

Christian Raimo - sinistrainrete -


Che vuol dire quindi cultura del lavoro?
Mio nonno – operaio – non credo abbia mai letto molto Hegel o Marx in vita sua ma mi ha trasmesso quel paio di cose fondamentali: 1) che il lavoro nobilita nel senso hegeliano, in quanto dà all’essere umano la consapevolezza di poter trasformare la natura; 2) che una coscienza di classe è sentita prima ancora che teorizzata. La condizione sociale di mio padre è, a miei occhi, il frutto migliore di una comunità fondata sul lavoro, come Costituzione aveva voluto all’articolo 1. La sua etica lavorista e aziendalista, il suo rapporto con gli altri dipendenti e con i sindacati, sono stati la forma di un mondo per cui per dirla – contro la Thatcher – non gli individui ma la società esiste, ed è fatta in primis dalle persone che lavorano insieme. Nessuno della mia famiglia ha fatto politica attivamente: questa cultura (ossia questa consapevolezza) era immediata. Passava, sono convinto, attraverso grandi e piccole narrazioni. Ho presente che nelle storie che mi raccontavano da bambino mio nonno e mio padre c’erano i racconti della guerra ma c’erano anche un sacco di racconti di fabbrica: scioperi, vertenze, aneddoti della vita interna tra la mensa e i laboratori.
E oggi? Mi viene in mente quello che dice Stanley Aronowitz in Post-work: non esiste una coscienza di classe se non c’è un racconto di classe, non esiste una rivendicazione di diritti sul lavoro se prima non c’è un racconto comune su cosa vuol dire lavoro. Ossia, per farla breve, esiste il movimento operaio, la cultura operaia, se ci pensate con i suoi canti, i suoi riti, le sue feste, le sue date fondamentali, i suoi eroi, ed è una meravigliosa e secolare storia; non esiste un movimento precario, una cultura precaria. Nonostante, per fare un esempio sempre dal mondo anglofono, Guy Standing abbia provato un paio di anni fa a realizzare nel suo libro The precariat. The new dangerous class, un’operazione di sintesi storica e geografica dei nuovi lavoratori globali. Ma è una forzatura, a mio avviso, una sintesi in vitro. È difficile e forse impossibile definire il “precariato” una classe. Per semplici, preliminari ragioni, linguistiche prima ancora che storiche.

Precario dice in sé una condizione di debolezza, oggettiva e non soggettiva. Precario è una condizione deficitaria, semanticamente definisce per difetto rispetto a stabile. Precario è una parola onni-significante, in sociolinguistica si definirebbe un plastismo, ossia una parola talmente adattabile a tanti significati diversi da non essere più utile a dirci qualcosa. In questo senso la cultura del lavoro è oggi una questione più che una risorsa.
È difficile: A) riconoscere una condizione e B) pensare che questa condizione ci definisca e che anzi la rivendichiamo come parte fondamentale della nostra identità se questa condizione è essenzialmente dolorosa, deficitaria, mancante, spersonalizzante…
La cultura del lavoro oggi è un processo complicato perché il capitalismo avanzato è veramente molto avanzato, e mette a lavoro tutto, comprese non solo le nostra facoltà cognitive, ma anche – se ci pensiamo – le nostre psicosi. Per fare un esempio, io non sono soltanto un consumatore migliore se sono portato a fare shopping compulsivo, ma sono in un certo senso un lavoratore migliore se per esempio sono ansioso. Sono un lavoratore più produttivo se sono un manager che sviluppa una control-freakness, se sono un ufficio stampa con manie narcisistiche, se sono uno che fa più lavori e ha un bipolarismo accentuato. Già riconoscere questa condizione come una condizione patologica determinata anche dalle forme del lavoro contemporaneo non è facile. Il rischio successivo è di fare di questa condizione patologica la condizione di rispecchiamento. Un orgoglio patologico, se ci si pensa. Una coscienza di far parte di una comunità di traumatizzati vissuta come coscienza di classe.
Quale cultura del lavoro si può sviluppare da tutto questo? Come abbiamo provato a considerare, il capitalismo avanzato mette tutto a profitto. Sia il trauma che produce, sia il racconto del trauma. Non è vero che non si parli di precariato, di lavoro, etc… Ma se ne parla quasi sempre come un elemento oggettivo. In questo senso si è sviluppato negli ultimi anni un consumo culturale legato al precariato. Film, libri, canzoni, format televisivi, spot televisivi hanno raccontato moltissimo questa nuova scena sociale, questo mondo vissuto dai precari. In due modi: oggettivandolo ossia spesso neutralizzandolo (eliminandole la prospettiva soggettiva, quindi eliminandone la potenzialità di conflitto), e – passaggio ancora più importante – rendendolo merce. Mister Precarietto con i suoi 700 euro al mese, sempre a casa di mamma e papà, senza futuro chissà che farà, è diventato uno dei personaggi più diffusi delle narrazioni contemporanee. Il racconto della sfiga, della lamentazione, del paradosso di adulti che non riescono a essere adulti è diventato un genere letterario.
Ora, la domanda ovviamente è cosa si può fare per uscire dall’impasse. Io penso che una data cardinale come punto di svolta nella politica italiana degli ultimi due anni sia stata il 14 dicembre 2010. Era il giorno in cui Berlusconi riusciva ad avere la fiducia dopo lo strappo di Fini raccattandosi gli scherani di Scilipoti. Per strada a Roma c’era una manifestazione degli studenti dell’Onda che veniva attaccata dalla polizia in piazza del Popolo. Quello che mi fu chiaro lì era che la rabbia che la generazione post-Genova aveva maturato era una rabbia non ingenua, ma una specie di rabbia disincantata.

venerdì 20 settembre 2013

"In Grecia un delitto dei nazisti ampiamente annunciato".

Fonte: http://www.lucianomuhlbauer.it | Autore: luciano muhlbauer        


Si chiamava Pavlos Fyssas, aveva 34 anni, faceva il cantante hip hop con il nome Killah P, era un antifascista e militava nell’organizzazione di sinistra Antarsya. Stanotte, in un quartiere periferico di Atene, è stato assassinato a coltellate dai neonazisti di Alba Dorata.
Un delitto infame, ma anche un delitto ampiamente annunciato, perché al di là di luogo, circostanza e identità della vittima era purtroppo soltanto questione di tempo perché l’escalation di violenze da parte del partito neonazista greco, Alba Dorata, sfociasse nell’omicidio. Aggressioni a migranti, gay e militanti della sinistra sono ormai all’ordine del giorno e soltanto una settimana fa è stata sfiorata la tragedia, allorché un gruppo di militanti del KKE (partito comunista greco) è stato aggredito a freddo e a suon di sprangate.
D’altronde, i neonazisti sono galvanizzati dal consenso che riescono a canalizzare in una Grecia devastata dalle politiche d’austerità della Troika (siedono in Parlamento e i sondaggi li danno al 13% delle intenzioni di voto) e dalle ampie complicità di cui godono all’interno della polizia greca. Insomma, sono un fenomeno in preoccupante crescita, come ci ricorda anche l’ottima inchiesta di Leonardo Bianchi, Nazisti sull’orlo del potere. Il caso Alba Dorata, pubblicata pochi giorni fa su MicroMega.
Alba Dorata è sicuramente un caso estremo, ma non certamente unico. In tutta Europa i movimenti neofascisti, neonazisti e razzisti trovano oggi nuovi spazi e a volte, appunto, riescono a riempirli, come ad esempio in Ungheria. Ed è per questo, anzitutto, che ci deve preoccupare quello che accade in Grecia e altrove, perché anche qui ci sono la crisi e le politiche d’austerità e anche qui ci sono spazi che si aprono per ideologie e gruppi nazifascisti. E il fatto che qui i gruppi militanti neofascisti e neonazisti siano allo stato tutto sommato piccoli e marginali non cambia di una virgola il problema, poiché anche Alba Dorata era fino a pochi anni fa soltanto un gruppuscolo insignificante, dalla consistenza organizzativa ed elettorale non dissimile da Forza Nuova.
Ed eccoci a noi, cioè al nostro problema. Già, perché anche il più distratto degli osservatori si è ormai accorto che vi è una certa inflazione di iniziative, manifestazioni e raduni di ispirazione nazifascista in Lombardia e nell’area metropolitana milanese. Loro vedono e sentono i nuovi spazi che si aprono e quindi si comportano di conseguenza. Ma quello che forse non stupisce, ma sicuramente preoccupa molto, è che a sinistra e, in generale, nell’opinione pubblica democratica sembrano essere venuti meno gli anticorpi, a tutto beneficio della banalizzazione e della sottovalutazione.
Non intendo certo aprire qui una riflessione sulle ragioni di questo stato di cose, che sono molteplici e peraltro stranote, dal tempo che passa al vuoto culturale a sinistra, ma voglio piuttosto insistere sulla ormai inderogabile necessità di ricostruire gli anticorpi, cioè l’antifascismo.
Ebbene sì, perché ultimamente succedono delle cose preoccupanti dalle nostre parti e alle consuete sottovalutazioni (“ma cosa vuoi che sia?”, “ma ignoriamoli”, “il fascismo è cosa di altri tempi” ecc. ecc.) si sono aggiunte nuove e più insidiose varianti, come i nazi sono “un partito come un altro” e quindi, in nome della libertà e della democrazia, si concedono spazi pubblici a iniziative nazifasciste, come è avvenuto di recente a Cantù. Cioè, intendiamoci, un conto è che lo facciano esponenti istituzionali provenienti da esperienze neofasciste, ma ben altra cosa è che lo facciano anche amministratori pubblici di formazione democratica, come il Sindaco di Cantù. E non importa un fico secco che il raduno di Forza Nuova a Cantù sia stato un mezzo fiasco o che il Sindaco, al di là delle tante chiacchiere, fosse soltanto interessato a un po’ di pubblicità personale (purché se ne parli, diceva qualcuno che se ne intendeva). No, importa che un altro argine sta cedendo, proprio quando ci sarebbe bisogno di ricostruire gli argini!
A proposito, siccome l’antifascismo non sembra più andare di moda, qualcuno ha pensato bene di osare il colpo grosso, come ha denunciato l’Osservatorio democratico sulle nuove destre: un concerto nazirock in pieno centro Milano, al Teatro Manzoni, il 16 dicembre prossimo. L’iniziativa è sempre del giro Lealtà Azione, cioè l’organizzazione di copertura milanese dei neonazisti Hammerskin, e i buoni uffici sono dei consiglieri provinciali dei Fratelli d’Italia, Turci e Capotosti. Insomma, come volevasi dimostrare, quando cedono gli argini…
Oggi ad Atene c’è dolore e rabbia tra gli antifascisti, nella sinistra, tra i democratici. Noi siamo vicini a loro. Ma non basta, dobbiamo fare la nostra parte qui. E questo significa anzitutto indicare e comprendere il problema, porre fine ai cedimenti culturali e politici, prima che sia troppo tardi, perché i nazisti e i fascisti non sono un “partito come un altro”.

giovedì 19 settembre 2013

GRECIA: I PROFESSORI IN SCIOPERO SCRIVONO AGLI STUDENTI

Fonte: Atene Calling                
Cara nostra studentessa, caro nostro studente,
è passato ormai molto tempo da quando questi giorni di settembre erano per tutti noi un dolce ritorno a scuola, con lo scambio delle esperienze estive, con la progettazione e le decisioni sul nuovo anno scolastico, con il rinnovo della promessa che faremo tutto il possibile per vivere bene. È passato ormai molto tempo da quando i governi dei Memoranda, e tutti coloro che li servono, hanno deciso di distruggere la Scuola Pubblica, di trasformarla in un’azienda grigia e severa, che avrà spazio solo per i figli di pochi.
Qualcuno cerca di convincerci che si tratta di una cosa normale e logica. Aspettano di farci “abituare” alla distruzione. Ma tutti sappiamo che questo sarà difficile che succeda. Perché non possiamo vivere così. Ma anche perché vorrà dire che dobbiamo rinunciare, sia noi che tu, a essere delle persone. Ad un mondo migliore. Alla forza del tuo impeto giovanile e creativo, al desiderio forte di cambiare le cose intorno a te contro le abitudini ed il compiacimento dei grandi.
Dopo questo settembre, quindi, niente sarà lo stesso. Noi, i tuoi professori, abbiamo deciso di ribellarci con uno sciopero per la difesa della Scuola Pubblica, della nostra e della tua vita. Di fronte a noi abbiamo i dirigenti dei ministeri, i manager ben pagati, i telegiornali, che non hanno smesso di ripetere che la nostra lotta nuocerà alla scuola… non la loro politica barbara! Queste persone, vivendo da anni nei salotti del potere, non sono in grado di rendersi contro dei tuoi bisogni, delle tue ansie, dei tuoi sogni. Queste persone del sistema, sanno solo fare i conti e in questi conti hanno trovato che la Scuola Pubblica è di troppo.
Durante l’estate, hanno portato avanti l’opera distruttiva della fusione/abolizione di scuole. Hanno chiuso all’improvviso, in una notte, molte scuole e hanno abolito alcune specializzazioni dell’educazione tecnologica, spingendoti tra le “braccia” delle scuole private. Nel contempo, il governo cerca di completare la trasformazione della scuola in un campo di esami forzati, un centro di allenamento per gli esami, visto che invece di elaborare un programma che mirerà alla conoscenza sostanziale e versatile e che ridurrà la pressione insopportabile che stai vivendo, crea un meccanismo disumano di setaccio di persone, basato sugli esami continui, dalla Scuola Media fino al tuo ultimo giorno nel Liceo.
Vogliono spaccare la tua gioventù. Vogliono farti abituare al controllo, così domani sarai un impiegato obbediente. Vogliono cacciarti via dalla scuola, così diventerai un lavoratore non specializzato “conveniente”, se riuscirai a trovare un lavoro. Progettano una vita scolastica sgraziata e spiacevole, con più ragazzi nelle classi e nei laboratori, con meno professori che correranno trafelati, ognuno di loro in molte scuole, per assolvere il loro compito. Con lo stesso disprezzo per qualsiasi cosa viva e bella, le stesse persone secche ci impongono di essere “valutati”, cioè di trasformare quello che amiamo di più (i nostri studi e la nostra educazione, i programmi ed i lavori che facciamo insieme a te, tutte quelle ore di gite, di spettacoli teatrali, di discussioni, di prove e di concerti) in “carte” che riempiranno la nostra cartella, per salvarci dal licenziamento. Insieme a questo, hanno creato un asfissiante codice disciplinare che ci vuole persone docili, che pensino a “insegnare” e a niente altro.
Cominciamo questo anno scolastico in meno: con delle scuole chiuse nell’educazione tecnica e generale, con oltre 10.000 colleghi ai quali hanno tagliato la strada verso la scuola. È una situazione che tu conosci in prima persona: perché sono anche i tuoi genitori che subiscono lo stesso violento attacco con i tagli ai salari, i licenziamenti, la chiusura dei negozi e il disperato mostro della disoccupazione. Perché sei anche tu che tutti i giorni devi contare i pochi spicci di fronte alla mensa, avvelenare il tuo successo agli esami di ammissione con lo stress per le possibilità economiche, che ci chiedi se ha più senso studiare quello che volevi o se c’è qualche altra facoltà che ti porta ad un “salario più sicuro” per sfuggire, magari, dalla miseria. Perché sono anche i tuoi fratelli e i tuoi amici, cioè i nostri studenti di ieri, che ci dicono che qui non ce la fanno più e che cercano fortuna all’estero, sulla strada dell’emigrazione, che in passato avevano percorso i loro nonni e speravamo che non dovessimo rivivere per forza.
I nostri problemi sono comuni. Non solo per noi e per te che viviamo, creiamo, lottiamo e sogniamo nello stesso spazio, ma per l’intera società. Una società che può permettersi di subire inerte gli attacchi che si susseguono uno dopo l’altro. Ed è per questo che noi, i tuoi professori e le tue professoresse, abbiamo deciso di ribellarci in questa lotta decisiva, che romperà la putrefazione del “niente può succedere”. In questa lotta vogliamo al nostro fianco tutti i lavoratori. Vogliamo i tuoi genitori, ma abbiamo bisogno anche di te. Non per evitare gli obblighi che sono nostri. Il costo della lotta lo subiremo noi, completamente, nonostante le zozzerie che trasmettono alcuni media. Ti vogliamo al nostro fianco, come anche dentro l’aula, perché è la tua partecipazione che dà senso alla nostra lotta. Solo insieme possiamo rompere il dominio del fatalismo e della miseria, solo insieme possiamo rimanere in piedi e dimostrare che non siamo solamente “un altro mattone nel loro muro”, un altro ingranaggio nella loro macchina.
Dopo questo settembre quindi, niente sarà più uguale. Questa lotta o sarà vinta dalle politiche della Troika e del governo che la serve, che ci impongono la devastazione e la miseria, o sarà vinta da noi, aprendo la strada per la scuola del futuro, per una vita creativa e libera, per tutti. Noi, i tuoi professori e le tue professoresse, ti chiediamo di stare al nostro fianco, di aggiungere la tua determinazione alla nostra e di diventare parte dell’enorme fiume popolare che riempirà le strade del paese e vincerà!
Con affetto, i tuoi professori e le tue professoresse in lotta!
La Federazione dei Professori di Insegnamento Secondario scrive agli studenti

Stiglitz: la disuguaglianza rende malata la nostra politica

Fonte: Z Net – Lo spirito della resistenza è vivo
                 
l seguente è un estratto da una trascrizione delle osservazioni di Joseph Stiglitz al congresso dell’AFL-CIO a Los Angeles, l’8 settembre.
Sono un economista. Studio come le economie funzionano e non funzionano. Da molto tempo mi è chiaro che la nostra economia è malata. Uno dei motivi per cui è malata è la disuguaglianza e ho deciso di scrivere un articolo e un libro al riguardo.
Due anni fa ho scritto un articolo per Vanity Fair intitolato “Dell’1%, a opera dell’1%, a favore dell’1%” che in effetti centrava il problema. Troppo a lungo chi lavora duro e rispetta le regole ha visto la propria paga avvizzire o restare la stessa, mentre chi infrange la legge ha accumulato profitti e ricchezze enormi. Ciò ha reso malata la nostra economia, e anche la nostra politica.
Voi tutti conoscete i fatti: mentre la produttività dei lavoratori statunitensi è esplosa, i salari sono rimasti stagnanti. Avete lavorato duro, dal 1979 la vostra produzione oraria è aumentata del 40%, ma le paghe sono a malapena aumentate. Contemporaneamente l’1% al vertice ha portato a casa più del 20% del reddito nazionale.
La Grande Recessione ha peggiorato le cose. Alcuni dicono che la recessione è finita nel 2009. Ma per la maggior parte degli statunitensi ciò semplicemente non è vero: il 95% dei profitti dal 2009 al 2012 è andato all’1% superiore. Il resto – il 99% – non ha mai realmente recuperato.
Più di venti milioni di statunitensi che vorrebbero un lavoro a tempo pieno ancora non possono averne uno, i redditi sono ancora inferiori a quelli che erano un decennio e mezzo fa, la ricchezza nella fascia media è tornata al livello di due decenni fa. I giovani statunitensi affrontano una montagna di debiti per gli studi e prospettive tetre di occupazione.
Siamo diventati il paese avanzato con il più elevato livello di disuguaglianza, con la più grande divisione tra ricchi e poveri. Siamo soliti vantarci: eravamo il paese in cui tutti appartenevano alla classe media. Oggi quella classe media sta arretrando e soffre.
Il messaggio centrale del mio libro ‘The Price of Inequality’ [Il prezzo della disuguaglianza] è che tutti noi, ricchi e poveri, paghiamo il prezzo di questo divario che si allarga. E che questa disuguaglianza non è inevitabile. Non è, come ha detto Rich ieri, come il tempo metereologico, qualcosa che semplicemente subiamo. Non è il risultato di leggi della natura o di leggi dell’economia. E’, piuttosto, qualcosa che creiamo noi, con le nostre politiche, con quello che facciamo.
Abbiamo creato questa disuguaglianza – l’abbiamo scelta, in realtà – con leggi che hanno indebolito i sindacati, che hanno eroso le paghe minime portandole al livello più basso, in termini reali, dagli anni ’50 a questa parte, con leggi che hanno consentito ai direttori generali di prendersi una fetta più grossa della torta dell’industria. Abbiamo reso quasi impossibile che l’indebitamento studentesco sia cancellato. Abbiamo sottoinvestito nell’istruzione. Abbiamo tassato i giocatori d’azzardo del mercato azionario con aliquote più basse di quelle dei lavoratori e incoraggiato investimenti all’estero piuttosto che in patria.
Diciamolo chiaramente: la nostra economia non funziona nel modo in cui dovrebbe funzionare un’economia che funzioni bene. Abbiamo vasti bisogni insoddisfatti, e tuttavia lavoratori e macchine inoperanti. Abbiamo studenti che hanno bisogno di un’istruzione del ventunesimo secolo ma stiamo licenziando gli insegnanti. Abbiamo case vuote e persone senzatetto. Abbiamo banche ricche che non finanziano le nostre piccole aziende ma invece usano la loro ricchezza e il loro ingegno per manipolare i mercati e sfruttare i lavoratori con prestiti predatori.
E’ evidente che la sola prosperità vera e sostenibile è una prosperità condivisa. Se potessimo garantire che chiunque voglia un lavoro e sia disponibile a lavorare duro potesse ottenerne uno, potremmo avere un’economia e una società che sia tanto egualitaria quanto più prospera.
Per ottenere ciò dobbiamo far crescere la nostra economia. Ma non possiamo farlo quando le paghe non crescono e mentre cresce l’insicurezza, con tagli incombenti all’assistenza sanitaria e all’assistenza sociale.
Se abbiamo regolatori o un capo della banca centrale che proteggono i posti di lavoro e i bonus dei banchieri piuttosto che i posti di lavoro e i diritti di tutti gli statunitensi, non realizzeremo ciò.
Non lo realizzeremo mediante irrazionali tagli alla spesa pubblica, che si tratti delle scuole, degli ospedali o dei vigili del fuoco. Questi sono modi per far restare malata la nostra economia. E un’economia in cui il 95% della crescita val all’1% al vertice può essere definita solo così: malata.
Ciò di cui abbiamo bisogno davvero e di investire nel nostro futuro: nell’istruzione, nella tecnologia e nelle infrastrutture.
E i nostri problemi sono più profondi di una crescita debole. Stiamo perdendo la capacità di definirci la terra delle opportunità. Eravamo così quando ciò che uno statunitense poteva ottenere nella vita era il risultato di quanto duramente lavorava. Oggi, dipende molto di più dalla famiglia in cui si nasce, dal suo reddito e dalle sue conquiste nell’istruzione. Ed è peggio negli Stati Uniti che quasi in ogni altro paese avanzato. Stiamo perdendo il ‘sogno americano’.
Se ridiventassimo la terra delle opportunità, potremmo trovare un modo per essere più uguali, più dinamici, più prosperi, e più equi.
Ma per ottenere questo abbiamo bisogno di mercati che funzionino come dovrebbero. Non possiamo permettere che monopolisti e l’1% utilizzino il loro potere per risucchiare ancor più del reddito del paese, di portarlo via agli statunitensi comuni.
La nostra democrazia è in pericolo. Alla disuguaglianza economica si accompagna la disuguaglianza politica. Abbiamo una Corte Suprema che dichiara che le imprese sono persone e dovrebbero avere il diritto incontrollato di spendere denaro per influenzare la politica. I nostri sindacati sono frenati. Piuttosto che un governo del popolo, stiamo diventando un governo dell’1%.
Sulla carta possiamo ancora sostenere l’uguaglianza e il principio ‘una persona – un voto’. Nella realtà alcune voci si sentono più forti – molto più forti – di altre. In conseguenza abbiamo sentito di gran lunga troppo da Wall Street, non abbastanza dalla gente comune e dai lavoratori statunitensi.
Piuttosto che la giustizia per tutti, ci stiamo dirigendo a un sistema di giustizia per quelli che possono permettersela. Abbiamo banche che sono non solo troppo grandi per fallire, ma troppo grandi per essere chiamate a rispondere delle loro responsabilità.
Centosessantacinque anni fa Lincoln disse: “Una casa divisa contro sé stessa non può stare in piedi”. Siamo diventati una casa divisa contro sé stessa, divisa tra il 99% e l’1%, tra i lavoratori, quelli e quelli che li sfruttano. Dobbiamo riunificare la casa, ma non è qualcosa che succederà da sé.
Succederà solo se i lavoratori si uniranno. Se si organizzeranno. Se si uniranno per combattere per ciò che sanno essere giusto, in ciascun luogo di lavoro e in tutti, in ciascuna comunità e in tutte, e in ogni capitale di stato e a Washington. Dobbiamo ripristinare non solo la democrazia a Washington, ma sul luogo di lavoro.
Accadrà solo quando i lavoratori si renderanno conto di essere proprietari di gran parte del capitale del nostro paese, attraverso i fondi pensione, ma che abbiamo permesso che questo capitale sia gestito in modi che sfruttano i lavoratori e i consumatori.
Noi accademici possiamo descrivere con le statistiche quello che sta succedendo, ma siete voi che sapete quello che sta succedendo attraverso quello che vedete e sperimentate ogni giorno.
La sfida che avete davanti è stata raramente più grande. Siete ancora una piccola frazione degli Stati Uniti. Ma siete in gruppo più vasto di rappresentanti della grande maggioranza degli statunitensi che lavorano duro e rispettano le regole.
Dovete far sì che altri si uniscano a voi, che collaborino con voi, che si organizzino con voi, che si battano con voi. Siete solo voi che potete far sentire la voce degli statunitensi comuni ed esigere ciò per cui avete lavorato così duramente. Insieme possiamo far crescere la nostra economia, rafforzare le nostre comunità, ripristinare il sogno americano e ripristinare la nostra democrazia: un governo non dell’1%, a favore dell’1% e ad opera dell’1%, bensì un governo di tutti gli statunitensi, per tutti gli statunitensi e ad opera di tutti gli statunitensi.
Joseph Stiglitz, Premio Nobel, è professore di economia alla Columbia University.


Fonte: http://www.zcommunications.org/stiglitz-inequality-is-making-our-politics-sick-by-joseph-stiglitz.html

Originale: Alternet
Traduzione di Giuseppe Volpe
Traduzione © 2013 ZNET Italy – Licenza Creative Commons CC BY-NC-SA 3.0

martedì 17 settembre 2013

La Bce chiede credito per economia reale, ma presta miliardi alle banche all'1% per la speculazione

Fonte: controlacrisi.org
                    La Bce torna a parlare della situazione economica dell'Eurozona, che pare essere migliorata. Ma guai ad abbassare la guardia. Secondo l'istituto guidato da Draghi è necessario stare attenti a competitività, credito bancario, crescita e occupazione. Questo va fatto a livello politico, perché da parte sua la Bce manterrà un atteggiamento accomodante: "Alla luce delle stime moderate per l'inflazione nel medio termine, il consiglio direttivo della Bce prevede che i tassi di interesse resteranno agli attuali bassi livelli, o a livelli più bassi, per un periodo esteso di tempo". Draghi, intervenuto oggi a Berlino durante un convegno, parla di una migliore situazione dei mercati finanziari nell'eurozona, che però "non si è ancora tradotta in una ripresa economica generalizzata". "L'economia resta fragile. La disoccupazione è ancora troppo elevata", dice ancora Draghi. Tra le varie cose dette, spicca una che riguarda il tema del credito: "nelle attuali circostanze la priorità fondamentale è riavviare il credito all'economia reale". Ma come, non è la stessa Bce che ha prestato (meglio dire regalato) centinaia di miliardi di euro alle banche private senza vincolare questi soldi al sostegno dell'economia reale? Infatti, a chi ha memoria non sfugge la contraddizione della banca centrale. Da una parte 'regala' soldi alle banche, che a loro volta li utilizzano per speculare sui mercati finanziari, e dall'altra si lamenta che all'economia reale, imprese e famiglie per capirci, non arriva niente. E' come parlare di povertà e fame mentre ci si abbuffa come maiali.

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