Ο παγκοσμοποιημένος καπιταλισμός βλάπτει σοβαρά την υγεία σας.
Il capitalismo globalizzato nuoce gravemente alla salute....
.... e puo' indurre, nei soggetti piu' deboli, alterazioni della vista e dell'udito, con tendenza all'apatia e la graduale perdita di coscienza ...

(di classe) :-))

Francobolllo

Francobollo.
Sarà un caso, ma adesso che si respira nuovamente aria fetida di destra smoderata e becera la polizia torna a picchiare la gente onesta.


Europa, SVEGLIA !!

Europa, SVEGLIA !!

sabato 5 marzo 2011

Dal Wisconsin al Nordafrica, passando per l'Europa: rivolta globale contro il neoliberismo.


di Valerio Evangelisti. Fonte: carmillaonline

Sono state largamente ignorate, in Italia, le proteste esplose nel Wisconsin e nell’Ohio, dopo la decisione di due governatori reazionari di falcidiare i pubblici impiegati (dagli insegnanti agli infermieri) e di limitare i loro diritti sindacali.
Nel Wisconsin, a fronte di provvedimenti che avrebbero condotto al licenziamento di migliaia di lavoratori, e lasciato il singolo senza uno straccio di contratto collettivo solo e inerme davanti al padrone, una folla ha occupato il Campidoglio di Madison, capitale dello Stato, defenestrando di fatto le autorità elette. Uno dei leader storici della sinistra americana, il reverendo Jesse Jackson, ha infiammato con i suoi discorsi decine di migliaia di persone. In Ohio i sindacati hanno radunato folle equivalenti (per tenersi informati, leggere The Nation o Mother Jones, organi storici della sinistra Usa).
Qui si era distratti da ciò che sta accadendo nell’area mediterranea, con le rivolte ancora inconcluse di Tunisia, Egitto, Libia, Bahrein, Algeria, Yemen, Oman ecc. C’è chi le legge come insurrezioni generazionali, chi le lega a Twitter e a Facebook, chi le vede come pure insorgenze democratiche. Dall’ “altra parte”, quella ostile ai moti, a destra c’è chi le interpreta alla luce dell’islamismo radicale; a “sinistra” chi vi scorge tracce di rivoluzioni “arancioni” manovrate dalla CIA, da Obama, da occulti centri di potere (si citano Castro e Chávez, senza considerare che i loro paesi assediati cercano alleati dovunque possono).

Con rarissime eccezioni, nessuno riesce a formulare un’analisi di classe. L’unica che potrebbe tenere insieme, in un medesimo quadro interpretativo, le rivolte del Missouri e dell’Ohio con quelle dell’Africa del Nord; e inoltre unirvi la protesta di massa greca, la ribellione – studentesca ma non solo – in Francia, Italia, Gran Bretagna. E mille altri episodi. Siamo in presenza di un nuovo 1967-68. Una ribellione mondiale contro le imposizioni capitalistiche. Il rischio è che, questa volta, nessuno ci faccia caso. Si sono estinte, o godono di minore fortuna, le grandi analisi. Si ripiega dunque su quelle sempliciste: dal puro democraticismo liberale (la rivolta è contro regimi oppressivi) ai deliri detti “geopolitici” cari sia alla sinistra perbene di Limes che ai rossobruni (strano mix politico tra fascisti e comunisti ultra ortodossi).
Eppure la verità è sotto gli occhi di tutti.

Libia, la ricerca del casus belli.


di Stefano Rizzo, 04 marzo 2011, Fonte: paneacqua

La parola chiave è "legittimità". L'ha pronunciata ieri Barack Obama nel discorso più duro contro il dittatore libico, abbandonando - dopo che tutti gli americani erano stati messi in salvo - i toni cauti e le condanne diplomatiche dei giorni precedenti: "Gheddafi - ha detto Obama - ha perso ogni legittimità. Deve lasciare il potere e andarsene. Gli atti di violenza compiuti dal regime sono inaccettabili"
Le parole pesano e sono state scelte accuratamente per precostituire i passi futuri da compiere. Un governo che è privo di legittimità non gode di quella parte della sovranità che deriva dal suo riconoscimento internazionale: è come se non esistesse (e infatti qualche giorno fa era stato espulso da un organismo internazionale, il Consiglio per i diritti umani). Gheddafi aveva già di fatto perso un'altra componente essenziale di uno stato - la sovranità domestica - nel momento in cui non controllava più larghe parti del suo territorio passate agli insorti. Senza questi due aspetti - riconoscimento internazionale e controllo del territorio -- la sovranità non esiste e l'autorità di un governo si traduce in pura forza bruta, in violenza illegittima e, di conseguenza, illegale.
L'incriminazione per crimini contro l'umanità e l'emissione di un mandato di cattura internazionale da parte del tribunale penale internazionale nei suoi confronti, per quanto al momento inefficaci, completano il quadro. Muammar Gheddafi non è soltanto un dittatore che perseguita il suo popolo - come lui ce ne sono moltissimi altri in giro per il mondo - è un usurpatore del potere dello stato libico, un bandito.Posta così la questione, un'azione di guerra nei suoi confronti non sarebbe una rottura della legalità internazionale, non violerebbe il principio di non ingerenza sancito dalla carta delle Nazioni Unite poiché non intaccherebbe la sovranità che di fatto ha cessato di esistere. Potrebbe quindi essere legalmente intrapreso per salvaguardare altri beni, quali la vita e la sicurezza della popolazione civile, contro la quale il dittatore ha compiuto e continua a compiere - come ha detto Obama -- "atti di violenza inaccettabili".
Questa la cornice giuridica nella quale si sta muovendo l'amministrazione americana. Cui ha iniziato a dare corpo con l'emanazione delle sanzioni da parte del Consiglio di sicurezza e con il blocco dei beni in qualche modo riconducibili al dittatore e ai suoi sodali. Ma quali altri passi concreti potranno essere compiuti per fare cessare la "violenza inaccettabile", che quindi non è più questione dello stato libico, ma riguarda tutta la comunità internazionale?

venerdì 4 marzo 2011

UN CONFLITTO NELLA FABBRICA GLOBALE. La catena SPEZZATA


di Mario Tronti. Fonte: informarexresistere
Anticipiamo brani del saggio che chiude il libro-inchiesta sul ciclo produttivo negli stabilimenti Fiat di Pomigliano compiuta da un gruppo di giovani ricercatori del Centro per la Riforma dello Stato. Ma sopratutto un’analisi sul valore politico e simbolico dell’insubordinazione operaia in un’impresa multinazionale alla luce del tentativo di introdurre modelli di relazioni industriali che cancellano i diritti sociali e la capacità di resistenza da parte del lavoro vivo

Una caratteristica del nostro sciatto tempo è la separazione degli ambiti: la fabbrica ai sociologi, il mercato agli economisti, le istituzioni ai politologi. Non funziona così. Non funziona nemmeno per i bisogni della conoscenza dei fenomeni: che, separati nella complessità delle loro componenti, diventano oscuri e risultano falsi. Tanto meno funziona per le necessità dell’intervento nei processi: che, spezzati, nel comportamento dei loro soggetti, diventano inagibili e risultano immodificabili. Occorre dotarsi di una visione lucida del Gesamtprozess di sistema, dove tutti gli attori in campo vengono riconosciuti nel loro spazio di movimento, con i loro interessi, e soprattutto con la forza che intendono usare per farli valere.
Ecco un primo punto. Pomigliano, nella fase acuta della vicenda, quella intorno al referendum, ci ha messo davanti agli occhi la sproporzione nel rapporto di forza che si era creata tra padrone e operai. O meglio, la forzatura contenuta nel ricatto del quesito referendario, questo voleva mostrare, e il risultato della consultazione, bisogna dire, che lo ha corretto. Non certo rovesciato, ma corretto senz’altro. Se «Pomigliano non si tocca» aveva imposto un’iniziativa al management Fiat, «Pomigliano non si piega» dava una risposta al contenuto ricattatorio di quella iniziativa. La lotta paga: al contrario di quanto sostengono i sindacati collaborativi, i ministri di sua maestà e i giornali del capitalismo democratico. E paga il rifiuto operaio del lavoro individuale senza contratto collettivo.

Calamandrei sulla scuola.


Fonte: baruda

Parte del discorso pronunciato da Piero Calamandrei al III congresso dell'Associazione a Difesa della Scuola Nazionale a Roma l'11 febbraio 1950.
Come uno dei padri della nostra democrazia spiegava il ruolo della scuola pubblica per i costituenti.
Facciamo l'ipotesi, così astrattamente, che ci sia un partito al potere, un partito dominante, il quale però formalmente vuole rispettare la Costituzione, non la vuole violare in sostanza. Non vuol fare la marcia su Roma e trasformare l'aula in alloggiamento per i manipoli; ma vuol istituire, senza parere, una larvata dittatura.
Allora, che cosa fare per impadronirsi delle scuole e per trasformare le scuole di Stato in scuole di partito?
Si accorge che le scuole di Stato hanno il difetto di essere imparziali. C'è una certa resistenza; in quelle scuole c'è sempre, perfino sotto il fascismo c'è stata. Allora, il partito dominante segue un'altra strada (è tutta un'ipotesi teorica, intendiamoci).
Comincia a trascurare le scuole pubbliche, a screditarle, ad impoverirle. Lascia che si anemizzino e comincia a favorire le scuole private. Non tutte le scuole private. Le scuole del suo partito, di quel partito.
Ed allora tutte le cure cominciano ad andare a queste scuole private. Cure di denaro e di privilegi. Si comincia persino a consigliare i ragazzi ad andare a queste scuole, perché in fondo sono migliori si dice di quelle di Stato. E magari si danno dei premi, come ora vi dirò, o si propone di dare dei premi a quei cittadini che saranno disposti a mandare i loro figlioli invece che alle scuole pubbliche alle scuole private. A "quelle" scuole private.
Gli esami sono più facili, si studia meno e si riesce meglio. Così la scuola privata diventa una scuola privilegiata. Il partito dominante, non potendo trasformare apertamente le scuole di Stato in scuole di partito, manda in malora le scuole di Stato per dare la prevalenza alle sue scuole private.

Angelo Del Boca: «Rivolta in Libia figlia di antichi rancori»

di Luigi Nervo. Fonte: informazionelibera
La rivolta in Libia sembra essere arrivata alle fasi conclusive, con Gheddafi asserragliato nel suo bunker protetto da miliziani e mercenari mentre intorno alla Capitale i rivoltosi conquistano città e si apprestano a sferrare l'attacco finale. Abbiamo parlato della situazione in Libia con uno dei massimi esperti in materia, il professor Angelo Del Boca, ex giornalista e docente universitario che ha pubblicato molti libri sul Paese africano e sugli italiani che si trovavano in quelle terre.

Dopo Tunisia e Egitto la rivolta araba si è spostata in altri paesi. E ora anche in Libia. Era prevedibile che accadesse?

Direi di no, soprattutto per quanto riguarda la Libia. Anche per me, che conosco bene il Paese, è stata un po' una sorpresa perché ha un reddito pro capite di 15-18 mila euro l'anno, che è esattamente il triplo degli altri paesi vicini. Poi in Libia i generi di prima necessità sono tutti contingentati, sono tutti calmierati e a prezzi talmente bassi da essere disponibili per tutti. C'è un reddito medio alto, infatti non abbiamo mai visto un libico chiedere l'elemosina in Europa. Abbiamo visto tunisini, algerini, marocchini, ma libici mai, perché si sta bene. Mi ha molto sorpreso che ci sia stata una contaminazione dai due paesi vicini. E, guarda caso, non è cominciato in Tripolitania, ma in Cirenaica. Che poi venisse dalla Cirenaica era previsto, perché c'è ancora la forte influenza della Senussia, come testimoniano gli striscioni che ho visto nelle foto con scritto "Viva la Senussia". O le bandiere della Senussia, cioè dell'ultimo Re. E poi gli striscioni con scritto "Viva Omar al-Mukhtar", che è il loro personaggio principale. È lo stesso personaggio di cui si vantava anche Gheddafi, infatti quando è arrivato all'aeroporto di Roma aveva la sua fotografia di quando lo portano ad impiccare. Però non me lo aspettavo.

giovedì 3 marzo 2011

Noi amiamo la Scuola Pubblica che non educa al “bunga bunga” e siamo orgogliosi di lavorarci!


Lamezia Terme - Il Comunicato stampa di docenti e studenti per la scuola pubblica
2 / 3 / 2011 Fonte: globalproject
Il Giorno 26 febbraio c'è stato un “richiamo” esplicito del nostro premier riguardo la scuola. Egli sostiene che la Scuola non educa e che gli insegnanti inculcherebbero agli alunni principi contrari agli insegnamenti dei loro genitori. Inoltre il Premier sostiene che la libertà è quella di iscriversi in scuole private.

È paradossale e inaccettabile che un presidente del Consiglio, chiamato a incarnare e tutelare la cosa pubblica, attacchi frontalmente la scuola pubblica e quindi milioni di persone che in questa credono e alla quale quotidianamente dedicano, in condizioni spesso molto difficili, la loro personale fatica.
In effetti parecchie volte ci è capitato di inculcare in queste povere generazioni “improvvidamente” affidateci, valori di rispetto reciproco, dialogo, solidarietà e amore per lo studio e l’impegno quotidiano (oltre allo svolgimento dei programmi didattici regolarmente portati a termine naturalmente). Ci è capitato di dover spiegare che i modelli imposti dai programmi televisivi trash non sono sempre giusti, ma possono essere fuorvianti e poco consoni ad una società che dovrebbe altresì richiamarsi a valori di pace, giustizia e impegno sociale…
Ci sono insegnanti che parlano di legalità, dei danni della mafia, del consumo critico, del consumo dell’acqua. Parlano di diritti umani e della povertà nel mondo. Spiegano cosa significa boicottare alcune marche che operano politiche aziendali scellerate. Presentano loro Gandhi, Martin Luther King e la nonviolenza. E cercano di far capire loro l’importanza di non discriminare nessuno, mettendo al bando il razzismo e gli atteggiamenti omofobi e aggressivi, nel pieno rispetto della dignità umana e della Carta Costituzionale.

Il lavoro cambia. E allora che si fa?


di Sergio Bologna – Fonte: sulatestarivista

Non ricordo esattamente quando mi hanno invitato la prima volta a partecipare ad un dibattito dal titolo “il lavoro che cambia” ma può essere stato non meno di trent’anni fa. Del resto sono i documenti stessi a dirlo: sulla rivista “primo maggio” le analisi del decentramento produttivo, della scomposizione dell’unità aziendale in un sistema a rete, erano cominciate nel 1976/77. Negli stessi anni, i lavori del Dipartimento di Scienze del Territorio del Politecnico di Milano, Facoltà di Architettura, avevano parlato di “fabbrica diffusa”.
Probabilmente si parlava ancora troppo di disarticolazione del complesso aziendale, cioè di “nuovo modo di fare impresa” e troppo poco di “nuovo modo di lavorare”, ma l’idea che la classe operaia venisse frammentata sul territorio per indebolirla era chiara. Le grosse novità sembravano però concentrate ancora nella fabbrica fordista, come il passaggio dalla lavorazione alla catena a quella “a isole”, la robotizzazione ecc.. Negli stessi anni si apriva un dibattito – purtroppo caratterizzato da forzature ideologiche – sulla fine della centralità dell’”operaio massa” e la comparsa sulla scena di una nuova figura egemone, quella dell’”operaio sociale”. Insomma, che nel mondo del lavoro si fosse alla vigilia di qualcosa di grosso, era chiaro a molti dei protagonisti di quelle analisi già dalla metà degli Anni Settanta.
Dopo lo spartiacque rappresentato dalla sconfitta alla Fiat nell’ottobre del 1980, e per alcuni anni ancora, gli ispiratori di quelle analisi avanzate avevano dovuto pensare a ripararsi dall’ondata repressiva, alcuni ci erano finiti dentro, stavano in galera in attesa di processi che si sarebbero tenuti dopo anni di carcere preventivo, altri erano riparati all’estero. I militanti operai, che erano più a diretto contatto con le trasformazioni del lavoro, erano stati dispersi e moltissimi licenziati, alcuni, non pochi, risucchiati dalle retate, erano finiti in galera. I sindacalisti più combattivi erano stati emarginati ed alcuni avevano subito veri e proprio traumi dalla sconfitta.Quando, alla metà degli Anni 80, comincia a riprendere, soprattutto in ambito accademico, la ricerca sulle trasformazioni del sistema produttivo e sul nuovo modo di fare impresa, il segno politico del discorso è completamente rovesciato.

Coalizioni, partiti, elettori.

di Franco Astengo. Fonte: paneacqua
Dibattito a sinistra I partiti oggi poggiano su di un "mix" di tre elementi: la personalizzazione della politica, il prevalere del principio ( e dell'obiettivo) della governabilità, la riduzione del confronto politico ad un profilo di semplificazione direi di tipo "bipolare". Escludendo così la partecipazione di base e il concorso degli iscritti alla costruzione degli organismi dirigenti
Un' analisi di Ilvo Diamanti sul "fattore coalizione" apparsa lunedì 28 Febbraio sulle colonne di "Repubblica" e l'esito delle primarie per il candidato del centrosinistra al comune di Torino che hanno fatto registrare un'alta percentuale di votanti (superiore a quella verificatasi in analoghe circostanze, qualche settimana fa, a Napoli e Milano) possono rappresentare due interessanti elementi di discussione, intorno ai temi della modificazione in corso nella qualità dell'agire politico da parte dei partiti e, nello stesso tempo, sulla percezione che settori di militanti e di elettori ricavano proprio da questo cambiamento.
Si sta consolidando, infatti, in particolare sul versante del centrosinistra un mutamento di fondo nel rapporto tra strutture politiche, opinione pubblica, orientamenti di voto.

mercoledì 2 marzo 2011

Lettere dalla scuola pubblica.


Fonte: Il manifesto.

Il Presidente del Consiglio dice che non voleva attaccare la scuola pubblica, ma solo mettere in guardia la nazione dall'indottrinamento ideologico di alcuni insegnanti che «vogliono inculcare dei principi che sono il contrario di quelli che i genitori vogliono inculcare ai loro figli». In effetti ha ragione e mi dichiaro colpevole.
Io insegno che la pena di morte va superata. Molti dei loro genitori dicono ai loro figli che essa va mantenuta, ma solo in alcuni casi. Parlo del dettato costituzionale che vuole il rispetto della dignità umana della persona e concepisce la pena in funzione della rieducazione del detenuto. Molti dei loro genitori gli dicono invece che in carcere si sta troppo bene perché c'è la tv. Esalto i valori della Resistenza che, con tutti i suoi difetti di cui non bisogna avere paura, ci ha dato la libertà e la Repubblica. Molti dei loro genitori gli rivelano che anche i partigiani sono stati violenti. Racconto che in uno Stato laico tutte le fedi religiose hanno uguale libertà. Molti dei loro genitori gli spiegano che se noi andassimo negli Stati arabi non ci lascerebbero così liberi. Spiego che il diritto alla vita è sacro e che con gli stranieri bisogna affrontare la fatica della legalità e dell'umanità. Molti dei loro genitori gli dicono d'accordo, però prima i nostri. Mi permetto anche il lusso di difendere la dignità degli omosessuali. Molti dei loro genitori li deridono o ne hanno ribrezzo.
Mario Dellacqua

Io non inculco. Io leggo, ripeto, spiego. Io incoraggio, consolo, soffio nasi. Io studio, mi preparo, mi pongo mille domande sui voti. Io insisto, rispiego. Io mi organizzo con le colleghe per poter fare un'uscita con gli alunni. Io gestisco i rapporti con 40 genitori alla volta, con il dirigente, con le colleghe. Io valuto, correggo, compilo documenti per ore. Io mi metto in discussione, chiedendomi se una prova sia troppo facile o troppo difficile. Io mi aggiorno, faccio ore in più senza percepire nulla. Inculcare è un verbo che non fa parte dell'educare, è una forma di violenza che non appartiene al mondo della scuola né al mestiere di insegnante.

martedì 1 marzo 2011

Il diritto ad una vita dignitosa.


di Valeria Piasentà. Fonte: manifestosardo

Dopo l’intervento di Manuela Scroccu sui 60 anni della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, pubblichiamo sul tema un contributo di Valeria Piasentà (Red.)

La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ha compiuto 60 anni: firmata a Parigi il 10 dicembre 1948 è stata variamente commemorata nel 2008. Tuttavia la sua applicazione è largamente disattesa, anche in Italia. Il caso più recente e grave riguarda i fatti del G8 di Genova del 2001, in quei giorni di ‘sospensione della democrazia’ in un colpo solo si sono infranti tre articoli della Dichiarazione: l’articolo 5 che proibisce la tortura; gli articoli 19 e 20 che garantiscono il diritto alla libertà di opinione, di espressione, di riunione.
Ma l’inosservanza di quei principi è più diffusa e sottile. Oggi, governanti e media pongono un accento volutamente fuorviante su episodi di cronaca nera che rientrano nella normale casistica, invece dovrebbero scuotere le coscienze alcuni drammi della povertà. Una pensionata è morta assiderata in provincia di Savona, dove viveva sola e senza riscaldamento. A Pistoia, un 44enne disoccupato si è tolto la vita la notte di Capodanno per problemi economici, anche l’Enel gli aveva interrotto la fornitura. In Abruzzo, una donna invalida e malata di tumore ha chiesto l’eutanasia perché non ha i mezzi non solo per curarsi, ma neppure per vivere (una storia struggente, come quella che ci racconta Sivio D’Arzo in Casa d’altri e che avremmo preferito restasse nei libri di letteratura).
E non si tratta di casi isolati, non sono i primi frutti della crisi economica poiché la povertà e la diseguaglianza si allargano da anni, colpevolmente favorite dalle politiche economiche neoliberiste: con la rincorsa alle privatizzazioni anche dei beni comuni e indispensabili, con l’assenza di controllo su tariffe e prezzi, con la deregolamentazione del lavoro, con la delegittimazione dei sindacati. La persona col suo lavoro, e la ricchezza reale che quel lavoro produce, sono sempre meno sentiti come delle priorità.

Il mondo arabo come laboratorio di sperimentazione politica.


di MICHAEL HARDT e ANTONIO NEGRI. Fonte: uninomade
La sfida per gli osservatori delle insurrezioni in nord Africa e Medio Oriente è leggerle non tanto come ripetizioni del passato ma piuttosto come esperimenti che aprono nuove possibilità politiche per la libertà e la democrazia ben oltre la regione. In effetti, noi speriamo che attraverso questo ciclo di lotte il mondo arabo diventi nei prossimi decenni ciò che l’America Latina è stata nei decenni passati, ovvero un laboratorio di sperimentazione politica tra il potere dei movimenti sociali e i governi progressisti dall’Argentina al Venezuela, dal Brasile alla Bolivia.
Le rivolte hanno immediatamente fatto pulizia dell’ideologia e spazzato via ogni concezione razzista dello scontro di civiltà che assegna la politica araba al passato. Le moltitudini a Tunisi, il Cairo e Bengasi mandano in frantumi lo stereotipo politico secondo cui gli arabi sono costretti a scegliere tra dittature laiche e fanatiche teocrazie, o che i musulmani sono incapaci di libertà e democrazia. Anche il chiamare queste lotte “rivoluzioni” sembra trarre in inganno molti commentatori che assumono la progressione di eventi secondo la logica del 1789, del 1917 o di altre ribellioni del passato contro re e zar.
Le rivolte arabe si sono infiammate sul tema della disoccupazione e hanno avuto al centro le ambizioni frustrate di una gioventù che ha studiato nelle università – una popolazione che ha molto in comune con gli studenti che protestano a Londra e Roma. Sebbene la prima richiesta proliferata nel mondo arabo si è concentrata sulla fine della dittatura e dei governi autoritari, dietro questo grido stanno una serie di domande sociali rispetto al lavoro e alla vita; non solo la fine di dipendenza e povertà, ma anche per il potere e l’autonomia di una popolazione intellettuale e altamente competente. Che Ben Ali e Mubarak o anche Gheddafi lascino il potere è solo il primo passo.

lunedì 28 febbraio 2011

Riflettere sulla DDR.


di simone oggionni. Fonte: reblab
(da Essere Comunisti, n. 22/2011)
Erich Honecker appunti scomodi

Nell’introduzione alla pubblicazione che recensiamo, Alessio Arena si dimostra del tutto avvertito rispetto al rischio nel quale inevitabilmente sarebbe incorso. Pubblicare – per la prima volta in Italia – le riflessioni scritte da Erich Honecker in carcere tra il 1992 e il 1993 e ultimate durante il breve esilio in Cile prima della morte (Appunti dal carcere, Edizioni Nemesis) significa assumersi una responsabilità non lieve.
Significa provare a interloquire con il dibattito storiografico e politico sull’esperienza del socialismo novecentesco rimettendo al centro i dati, i testi, i protagonisti, i fatti. Fronteggiando così, implicitamente ed in esplicito, la vulgata ideologica che vorrebbe consegnare all’oblio l’intera vicenda storica dei comunisti nel secolo scorso, marchiandola con un giudizio negativo ed inappellabile.
La pubblicazione di questi scritti di Honecker – segretario generale del Sed e Presidente del Consiglio di Stato della Rdt nel suo ultimo ventennio – prova a sfidare l’inappellabilità del giudizio, avanzando alcune tesi e facendo parlare i documenti (alcuni, come vedremo, di estremo interesse).
La prima tesi che viene proposta è proprio questa: il giudizio storico sulle vicende dei comunisti nel Novecento e, nella fattispecie, dei tentativi di costruire il socialismo in Unione Sovietica e nelle diverse democrazie popolari del Patto di Varsavia non può essere un giudizio inappellabile, emesso dal tribunale dei vincitori al termine di una guerra combattuta e vinta dal grande capitale. Per un motivo molto semplice: che qualunque indicatore di progresso, sviluppo e civiltà si voglia adoperare (dall’alfabetizzazione al tasso di povertà, dai tassi di crescita economica al grado di democrazia reale) la partita tra l’Occidente capitalistico e il socialismo reale non è una partita dal risultato scontato.

E dopo la Libia... è l'ora di The Kingdom?

Scritto da Debora Billi. Fonte: Petrolio
E' il pensiero che fa tremare i polsi a mezzo mondo. Dopo Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein e Libia... perché non potrebbe succedere anche in Arabia Saudita? In fin dei conti, si tratta di una monarchia assoluta di sapore medioevale, con un re talmente vecchio che al suo confronto Mubarak, Gheddafi e persino Berlusconi sembrano giovani leoni. L'Arabia non brilla per democrazia, diritti umani, libertà religiosa, di stampa e di pensiero; frustano la gente e giustiziano gli apostati coi tribunali coranici, insomma è un Paese da cui si può comprare petrolio senza essere rimproverati ma senza alcuna plausibile ragione. E' una dittatura bella e buona e probabilmente assai peggiore delle altre dittature rovesciate in questi giorni.

Fermiamo la guerra prima che sia troppo tardi.


di simone oggionni. Fonte: reblab
Nelle analisi lette in questi giorni sulla situazione in Libia si sovrappongono due piani di discussione. Enunciarli separatamente può aiutare a dissipare dubbi e a dissolvere ambiguità. Il primo piano riguarda il giudizio sul regime di Gheddafi.
Come ha giustamente messo in evidenza nei giorni scorsi Luciana Castellina, bisogna tra noi essere onesti. La storia del Gheddafi anti-colonialista e anti-imperialista non si cancella e non si riscrive sulla base della cronaca degli ultimi giorni. La fine del regime di re Hidriss e del sistema coloniale e la sua sostituzione con un modello progressivo di partecipazione delle masse è un dato storico difficilmente contestabile.
Quella spinta si è però, e non da ieri, ampiamente esaurita. Gheddafi ha interrotto il processo di socializzazione delle risorse già nel 2003, introducendo elementi di forte liberalizzazione, innanzitutto in campo energetico. A questo si aggiunge la politica estera del regime, costruita nell’ultimo decennio su relazioni spregiudicate con Usa e Unione Europea (nel campo energetico e in quello della politica migratoria) e di retorica vuota e inconcludente sulla questione palestinese. Infine, a ciò si aggiunge una condizione di svilimento della democrazia e dei diritti individuali tragicamente coerente con il perdurare pluridecennale del regime personale del raìs e ben esemplificato dai massacri indiscriminati di queste ore. La nostra avversione al regime libico quindi è fondata e fuori discussione.

domenica 27 febbraio 2011

Libia? ... si è visto come è finita in Iraq.


di Maurizio Matteuzzi, inviato a Tripoli. Fonte: il manifesto
Gheddafi in piazza: «Combatteremo»

Il morto ha parlato e sulla Piazza verde di Tripoli ha detto di nuovo: «Combatteremo e li sconfiggeremo». Il colonnello Gheddafi, dato per morto nel primo pomeriggio di ieri da due emittenti arabe del Dubai, la Arabiya e la Mbc, nel tardo pomeriggio di ieri è resuscitato ed è arrivato inatteso nella storica piazza tripolina per ripetere a una folla di suoi sostenitori (molto entusiasta ma non oceanica per la verità) che da ore l'occupavano gridando slogan e inanellando caroselli a tutto clacson, che lui non mollerà, che aprirà gli arsenali per dare «armi al popolo» e stroncare la rivolta interna e le eventuali tentazioni «dell'Europa e dell'America» verso un intervento armato, per quanto indorato come «umanitario», incredibilmente «non escluso» a priori dal portavoce del presidente Obama.
A meno di colpi di scena improvvisi, sempre possibili in una situazione così magmatica, la crisi libica rischia di avvitarsi in scenari sempre più drammatici.
Su Tripoli ieri soffiava un vento gelido che agita il mare e ritarda la partenza dei boat people verso l'Italia. Forse è questo lo stesso vento del Maghreb che ha già spazzato via il tunisino Ben Ali e l'egiziano Mubarak dopo epiche rivolte popolari (peraltro risolte dall'esercito), e che probabilmente spazzerà via anche Gheddafi dalla Libia.
Perché Muammar Gheddafi oltre ai suoi errori e prima di aver perso la guerra sul campo - che lui dice essere ispirata da «al Qaeda» e diretta a fare della Libia «un nuovo Afghanistan» alle porte dell'Europa -, sembra aver perso la guerra dell'informazione.
Qui i libici, molti libici, ti fermano per la strada per denunciare il ruolo giocato, soprattutto da Al Jazeera e da Al Arabiya (che oltretutto non hanno neanche una redazione qui) nelle guerra dell'informazione. O della disinformazione. Al Jazeera, liquidata come il portavoce di bin Laden dagli occidentali quando lavorava sulla guerra americana in Iraq, «eroe» della rivolta popolare nella piazza Tahir del Cairo, sulla Libia si è prodotta in una serie di scoop a senso unico e spesso inventati. Ma non per questo meno presi per buoni e rilanciati come oro colato dai media scritti e televisivi dell'Occidente (basta vedere i principali giornali italiani...).
Alcuni esempi di questi giorni o di ieri, rivelatori.

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