di Mario Tronti. Fonte: informarexresistere
Anticipiamo brani del saggio che chiude il libro-inchiesta sul ciclo produttivo negli stabilimenti Fiat di Pomigliano compiuta da un gruppo di giovani ricercatori del Centro per la Riforma dello Stato. Ma sopratutto un’analisi sul valore politico e simbolico dell’insubordinazione operaia in un’impresa multinazionale alla luce del tentativo di introdurre modelli di relazioni industriali che cancellano i diritti sociali e la capacità di resistenza da parte del lavoro vivo
Una caratteristica del nostro sciatto tempo è la separazione degli ambiti: la fabbrica ai sociologi, il mercato agli economisti, le istituzioni ai politologi. Non funziona così. Non funziona nemmeno per i bisogni della conoscenza dei fenomeni: che, separati nella complessità delle loro componenti, diventano oscuri e risultano falsi. Tanto meno funziona per le necessità dell’intervento nei processi: che, spezzati, nel comportamento dei loro soggetti, diventano inagibili e risultano immodificabili. Occorre dotarsi di una visione lucida del Gesamtprozess di sistema, dove tutti gli attori in campo vengono riconosciuti nel loro spazio di movimento, con i loro interessi, e soprattutto con la forza che intendono usare per farli valere.
Ecco un primo punto. Pomigliano, nella fase acuta della vicenda, quella intorno al referendum, ci ha messo davanti agli occhi la sproporzione nel rapporto di forza che si era creata tra padrone e operai. O meglio, la forzatura contenuta nel ricatto del quesito referendario, questo voleva mostrare, e il risultato della consultazione, bisogna dire, che lo ha corretto. Non certo rovesciato, ma corretto senz’altro. Se «Pomigliano non si tocca» aveva imposto un’iniziativa al management Fiat, «Pomigliano non si piega» dava una risposta al contenuto ricattatorio di quella iniziativa. La lotta paga: al contrario di quanto sostengono i sindacati collaborativi, i ministri di sua maestà e i giornali del capitalismo democratico. E paga il rifiuto operaio del lavoro individuale senza contratto collettivo.
L’uomo con il maglione
È veramente paradossale e sarebbe comico se non fosse drammatico: si dice Fabbrica Italia e si esce dal contratto nazionale. E allora. Quando la lotta si fa dura, i duri entrano in campo. La resistenza operaia ha trovato il suo sindacato. Questo è un fatto essenziale. Pomigliano non ha dovuto salire sui tetti. È sceso in piazza. Gli invisibili a quel punto si sono materializzati. È tornata in campo aperto la questione operaia. Il 16 ottobre della Fiom ha messo il suggello a un passaggio di fase. L’industria manifatturiera non solo esiste ancora, ma fa la differenza tra un paese forte e uno fragile, tra un’economia solida e una liquida. Germania insegna. E noi siamo, nei fondamentali, molto più Germania di quanto dia a vedere il nostro capitalismo molecolare. Solo il lavoro operaio può ridare un centro al pluriverso del lavoro contemporaneo. E di qui può così ricollocarsi al centro della questione sociale. Pomigliano, dal canto suo, ha fatto vedere che l’Italia della fabbrica è un’altra. Non è quella di Marchionne.
Marchionne, appunto. Il personaggio è interessante da studiare. È uno dei principali protagonisti politici della nostra attuale vicenda nazionale. Anche se questa idea separata della politica, oggi dominante, ci mette davanti sempre esclusivamente figure istituzionali. È un politico fuori del Palazzo. Non viene però percepito come un esponente della società civile. A meno di sorprese, o di svolte clamorose, non si sente parlare di una sua discesa in campo. Non è un Montezemolo che dal predellino della sua rossa Ferrari o dal suo passato di presidente della Confindustria si affaccia su teatrino della politica. Non è nemmeno il solito Governatore di Bankitalia, pronto a correre a salvare i conti pubblici. Marchionne è piuttosto il rappresentante di un’antipolitica, diciamo così, nobile, comunque non plebea, sicuramente non populista. È lui il vero uomo del fare. Il suo maglioncino d’ordinanza è più che un vezzo: blu, come le tute dei suoi operai.(…)
Oggi la proprietà è più opaca, e anonima, meno immediatamente visibile, ed ecco che la funzione di gestione emerge come decisiva e decisoria. E tuttavia il punto non è questo, bensì quell’altro. La stessa figura del capitalista collettivo si è globalizzata. La nuova figura, e la persona fisica, del manager sta molto meno a corso Marconi che sugli aerei che lo portano in giro per il mondo. Marchionne, che viene dalla finanza, ha imparato lì il mestiere. Sa che il mercato si è internazionalizzato prima della produzione, il denaro prima della merce. Così lui è il manager globale. Questo fa la differenza, rispetto ai precedenti gestori della proprietà. Questi ultimi la legittimazione politica la dovevano avere dai governi democristiani. Adesso quello che conta, e che serve, è il «grazie Sergio» di Obama. Il gestore della Fiat che affonda diventa il salvatore della Chrysler. Qual è il punto di drammatica rivelazione del mutato, anzi del rovesciato, rapporto di forza tra capitale e lavoro? È che fino a gran parte del Novecento esisteva un movimento operaio internazionale e dei capitalismi nazionali. Oggi è l’inverso: c’è un capitale-mondo e lavoratori sul cosiddetto territorio.(…)
È in questa sproporzione di potenza che monta la forma nuova del sovversivismo delle classi dominanti. «Vogliamo tutto e subito», adesso lo dicono loro. E infatti guardate. Trattative, accordi: non se ne parla, cose del passato. Questo è il progetto: prendere o lasciare. Sindacati: solo se collaborativi. Una rappresentanza di conflitto: fuori del luogo di lavoro. Contratto nazionale: roba da vecchio Novecento. Anche qui: produzione globalizzata, contrattazione localizzata. Impresa-mondo e tante newco. Dietro, l’eterno sogno padronale: ridurre il rapporto di lavoro della grande fabbrica al rapporto di collaborazione dell’impresa minifamiliare. Non c’è più differenza tra lavoratore e imprenditore: siamo tutti nella stessa barca, per remare insieme al buon fine della casa-azienda. Più profitto, più lavoro. Allora il manager globale è disposto a trattare: ma con l’operaio singolo. Se si impegna a immolare la propria anima nella religione della produttività, se non sta a guardare se i turni strapazzano il suo corpo fisico e sconvolgono la sua vita famigliare, se promette solennemente di non ammalarsi, mai, se dal motto socialista ottocentesco «chi non lavora non mangia» passa al motto post-industriale e post-moderno «chi lavora mangia dopo», se soprattutto rinuncia a quella cattiva abitudine invalsa prima di Cristo di lottare per i propri diritti, ecco, se fa tutte queste cose buone e giuste, forse, chissà, avrà anche qualche ricompensa salariale e magari col tempo verrà ammesso nel paradiso terrestre dell’azionariato popolare.(…)
Ideologia prêt-à-porter
Il trentennio neoliberista ha devastato il campo. Continuiamo a dire neoliberista per comodità d’uso. In realtà, competitività e produttività di cui si parla qui sono state declinate veramente in forme inedite dentro il processo, non di una generica globalizzazione, ma della globalizzazioine capitalistica. Su questo che è il dato materiale di fondo, il neoliberismo ha funzionato come potente apparato ideologico. Proprio il carattere ideologico che ha assunto quel meccanismo di produzione e di redistribuzione della ricchezza globale delle nazioni ha permesso di sfondare egemonicamente il fronte della sinistra. Quando si diceva neoliberismo è come se non si stesse parlando di capitalismo. Si parlava infatti di un risposta obbligata alla crisi del welfare, di un adattamento alla fine ineludibile del ciclo economico-politico dei «trent’anni gloriosi», 1945-1975, fase che aveva provocato un’eccesso di domanda tutta politica, che doveva essere corretta con un riequilibrio di primato dell’economia. (…)
Si è dato per concluso il trentennio, ripetiamo, cosiddetto neoliberista. Lo si è fatto attraverso il più tradizionale dei passaggi: la crisi. Torniamo sempre qui. Loro se la sono provocata, loro se la sono gestita. L’uso capitalistico della crisi è sempre contro i lavoratori, chiunque governi, si chiami Obama o Sarkozy, Merkel o Zapatero. Questa è la condizione, di fatto. Non bisogna ricavarne un’indifferenza di scelta. Bisogna al contrario forzare la scelta. Il problema non è più solo di riportare la politica al posto di comando. Il problema è di cambiare politica. Il trentennio trascorso, a modo suo, la politica l’ha fatta. Il pensiero unico era un pensiero politico. Ha ottenuto un mutamento del rapporto di forze tra capitale e lavoro, su questa base ha esercitato egemonia culturale, ha spostato ricchezza dal basso verso l’alto, ha messo al sicuro potere dall’alto verso il basso. La crisi attuale è insieme occasione classica di ristrutturazione sistemica e opportunità colta al volo di una resa di conti finale con le ultime sacche di resistenza all’assolutismo della legge di profitto. Pomigliano va letta anche così. Mani libere e tutti in riga. Il dopo Ottantanove ha portato al dopo-Cristo. È chiaro questo o ci vogliono ancora ulteriori dimostrazioni? La partita non è chiusa. Queste partite qui non si chiudono mai. Non è una filosofia della storia. È l’esperienza, e la conoscenza, del passato. Ogni volta devi interpretare i segni, che indicano il punto da cui ripartire, da dove ricominciare.(….)
Oltre la sommossa
Anche i padroni sbagliano: per eccessiva sicurezza e per arroganza. Quando credono di avere tutto in mano, di mano gli sfugge prima la situazione più critica poi il resto. Il disagio si diffonde e monta la protesta, a livello sovranazionale, esattamente come la rete capitalistica di produzione, di mercato e di potere. Mentre cercano di battere definitivamente le ultime casematte di resistenza operaia, questa impressionante proletarizzazione crescente del lavoro intellettuale spalanca terreni di lotta che a quella resistenza simbolicamente si richiama. Una nuova generazione scende in campo, arrabbiata e agguerrita. La protesta si converte in sommossa. Socialmente è bene orientata, politicamente è confusa.
Non rappresentata, il che vuol dire non organizzata, è spinta ad assumere tratti anarchizzanti. L’assalto antigovernativo è giusto, l’assalto anti-istituzionale è sbagliato. Come si lotta, bisogna sempre impararlo dalle lotte di fabbrica. Anche quando la fabbrica è emarginata, e nella società di oggi è emarginata, quel dentro e quel fuori, tra lavoro e politica, funziona da modello di conflitto.(…)
Certo, le cose cominceranno a cambiare veramente soltanto quando lo schema di partita si rovescerà. Attaccanti i subalterni, sulla difensiva i dominanti. Questo non avverrà senza che risorga da queste lotte, e da questa coscienza delle lotte, una soggettività collettiva, una forza politica di alternativa, che butti sul tavolo da gioco la carta di un atto di potenza, capace di egemonia.
Anticipiamo brani del saggio che chiude il libro-inchiesta sul ciclo produttivo negli stabilimenti Fiat di Pomigliano compiuta da un gruppo di giovani ricercatori del Centro per la Riforma dello Stato. Ma sopratutto un’analisi sul valore politico e simbolico dell’insubordinazione operaia in un’impresa multinazionale alla luce del tentativo di introdurre modelli di relazioni industriali che cancellano i diritti sociali e la capacità di resistenza da parte del lavoro vivo
Una caratteristica del nostro sciatto tempo è la separazione degli ambiti: la fabbrica ai sociologi, il mercato agli economisti, le istituzioni ai politologi. Non funziona così. Non funziona nemmeno per i bisogni della conoscenza dei fenomeni: che, separati nella complessità delle loro componenti, diventano oscuri e risultano falsi. Tanto meno funziona per le necessità dell’intervento nei processi: che, spezzati, nel comportamento dei loro soggetti, diventano inagibili e risultano immodificabili. Occorre dotarsi di una visione lucida del Gesamtprozess di sistema, dove tutti gli attori in campo vengono riconosciuti nel loro spazio di movimento, con i loro interessi, e soprattutto con la forza che intendono usare per farli valere.
Ecco un primo punto. Pomigliano, nella fase acuta della vicenda, quella intorno al referendum, ci ha messo davanti agli occhi la sproporzione nel rapporto di forza che si era creata tra padrone e operai. O meglio, la forzatura contenuta nel ricatto del quesito referendario, questo voleva mostrare, e il risultato della consultazione, bisogna dire, che lo ha corretto. Non certo rovesciato, ma corretto senz’altro. Se «Pomigliano non si tocca» aveva imposto un’iniziativa al management Fiat, «Pomigliano non si piega» dava una risposta al contenuto ricattatorio di quella iniziativa. La lotta paga: al contrario di quanto sostengono i sindacati collaborativi, i ministri di sua maestà e i giornali del capitalismo democratico. E paga il rifiuto operaio del lavoro individuale senza contratto collettivo.
L’uomo con il maglione
È veramente paradossale e sarebbe comico se non fosse drammatico: si dice Fabbrica Italia e si esce dal contratto nazionale. E allora. Quando la lotta si fa dura, i duri entrano in campo. La resistenza operaia ha trovato il suo sindacato. Questo è un fatto essenziale. Pomigliano non ha dovuto salire sui tetti. È sceso in piazza. Gli invisibili a quel punto si sono materializzati. È tornata in campo aperto la questione operaia. Il 16 ottobre della Fiom ha messo il suggello a un passaggio di fase. L’industria manifatturiera non solo esiste ancora, ma fa la differenza tra un paese forte e uno fragile, tra un’economia solida e una liquida. Germania insegna. E noi siamo, nei fondamentali, molto più Germania di quanto dia a vedere il nostro capitalismo molecolare. Solo il lavoro operaio può ridare un centro al pluriverso del lavoro contemporaneo. E di qui può così ricollocarsi al centro della questione sociale. Pomigliano, dal canto suo, ha fatto vedere che l’Italia della fabbrica è un’altra. Non è quella di Marchionne.
Marchionne, appunto. Il personaggio è interessante da studiare. È uno dei principali protagonisti politici della nostra attuale vicenda nazionale. Anche se questa idea separata della politica, oggi dominante, ci mette davanti sempre esclusivamente figure istituzionali. È un politico fuori del Palazzo. Non viene però percepito come un esponente della società civile. A meno di sorprese, o di svolte clamorose, non si sente parlare di una sua discesa in campo. Non è un Montezemolo che dal predellino della sua rossa Ferrari o dal suo passato di presidente della Confindustria si affaccia su teatrino della politica. Non è nemmeno il solito Governatore di Bankitalia, pronto a correre a salvare i conti pubblici. Marchionne è piuttosto il rappresentante di un’antipolitica, diciamo così, nobile, comunque non plebea, sicuramente non populista. È lui il vero uomo del fare. Il suo maglioncino d’ordinanza è più che un vezzo: blu, come le tute dei suoi operai.(…)
Oggi la proprietà è più opaca, e anonima, meno immediatamente visibile, ed ecco che la funzione di gestione emerge come decisiva e decisoria. E tuttavia il punto non è questo, bensì quell’altro. La stessa figura del capitalista collettivo si è globalizzata. La nuova figura, e la persona fisica, del manager sta molto meno a corso Marconi che sugli aerei che lo portano in giro per il mondo. Marchionne, che viene dalla finanza, ha imparato lì il mestiere. Sa che il mercato si è internazionalizzato prima della produzione, il denaro prima della merce. Così lui è il manager globale. Questo fa la differenza, rispetto ai precedenti gestori della proprietà. Questi ultimi la legittimazione politica la dovevano avere dai governi democristiani. Adesso quello che conta, e che serve, è il «grazie Sergio» di Obama. Il gestore della Fiat che affonda diventa il salvatore della Chrysler. Qual è il punto di drammatica rivelazione del mutato, anzi del rovesciato, rapporto di forza tra capitale e lavoro? È che fino a gran parte del Novecento esisteva un movimento operaio internazionale e dei capitalismi nazionali. Oggi è l’inverso: c’è un capitale-mondo e lavoratori sul cosiddetto territorio.(…)
È in questa sproporzione di potenza che monta la forma nuova del sovversivismo delle classi dominanti. «Vogliamo tutto e subito», adesso lo dicono loro. E infatti guardate. Trattative, accordi: non se ne parla, cose del passato. Questo è il progetto: prendere o lasciare. Sindacati: solo se collaborativi. Una rappresentanza di conflitto: fuori del luogo di lavoro. Contratto nazionale: roba da vecchio Novecento. Anche qui: produzione globalizzata, contrattazione localizzata. Impresa-mondo e tante newco. Dietro, l’eterno sogno padronale: ridurre il rapporto di lavoro della grande fabbrica al rapporto di collaborazione dell’impresa minifamiliare. Non c’è più differenza tra lavoratore e imprenditore: siamo tutti nella stessa barca, per remare insieme al buon fine della casa-azienda. Più profitto, più lavoro. Allora il manager globale è disposto a trattare: ma con l’operaio singolo. Se si impegna a immolare la propria anima nella religione della produttività, se non sta a guardare se i turni strapazzano il suo corpo fisico e sconvolgono la sua vita famigliare, se promette solennemente di non ammalarsi, mai, se dal motto socialista ottocentesco «chi non lavora non mangia» passa al motto post-industriale e post-moderno «chi lavora mangia dopo», se soprattutto rinuncia a quella cattiva abitudine invalsa prima di Cristo di lottare per i propri diritti, ecco, se fa tutte queste cose buone e giuste, forse, chissà, avrà anche qualche ricompensa salariale e magari col tempo verrà ammesso nel paradiso terrestre dell’azionariato popolare.(…)
Ideologia prêt-à-porter
Il trentennio neoliberista ha devastato il campo. Continuiamo a dire neoliberista per comodità d’uso. In realtà, competitività e produttività di cui si parla qui sono state declinate veramente in forme inedite dentro il processo, non di una generica globalizzazione, ma della globalizzazioine capitalistica. Su questo che è il dato materiale di fondo, il neoliberismo ha funzionato come potente apparato ideologico. Proprio il carattere ideologico che ha assunto quel meccanismo di produzione e di redistribuzione della ricchezza globale delle nazioni ha permesso di sfondare egemonicamente il fronte della sinistra. Quando si diceva neoliberismo è come se non si stesse parlando di capitalismo. Si parlava infatti di un risposta obbligata alla crisi del welfare, di un adattamento alla fine ineludibile del ciclo economico-politico dei «trent’anni gloriosi», 1945-1975, fase che aveva provocato un’eccesso di domanda tutta politica, che doveva essere corretta con un riequilibrio di primato dell’economia. (…)
Si è dato per concluso il trentennio, ripetiamo, cosiddetto neoliberista. Lo si è fatto attraverso il più tradizionale dei passaggi: la crisi. Torniamo sempre qui. Loro se la sono provocata, loro se la sono gestita. L’uso capitalistico della crisi è sempre contro i lavoratori, chiunque governi, si chiami Obama o Sarkozy, Merkel o Zapatero. Questa è la condizione, di fatto. Non bisogna ricavarne un’indifferenza di scelta. Bisogna al contrario forzare la scelta. Il problema non è più solo di riportare la politica al posto di comando. Il problema è di cambiare politica. Il trentennio trascorso, a modo suo, la politica l’ha fatta. Il pensiero unico era un pensiero politico. Ha ottenuto un mutamento del rapporto di forze tra capitale e lavoro, su questa base ha esercitato egemonia culturale, ha spostato ricchezza dal basso verso l’alto, ha messo al sicuro potere dall’alto verso il basso. La crisi attuale è insieme occasione classica di ristrutturazione sistemica e opportunità colta al volo di una resa di conti finale con le ultime sacche di resistenza all’assolutismo della legge di profitto. Pomigliano va letta anche così. Mani libere e tutti in riga. Il dopo Ottantanove ha portato al dopo-Cristo. È chiaro questo o ci vogliono ancora ulteriori dimostrazioni? La partita non è chiusa. Queste partite qui non si chiudono mai. Non è una filosofia della storia. È l’esperienza, e la conoscenza, del passato. Ogni volta devi interpretare i segni, che indicano il punto da cui ripartire, da dove ricominciare.(….)
Oltre la sommossa
Anche i padroni sbagliano: per eccessiva sicurezza e per arroganza. Quando credono di avere tutto in mano, di mano gli sfugge prima la situazione più critica poi il resto. Il disagio si diffonde e monta la protesta, a livello sovranazionale, esattamente come la rete capitalistica di produzione, di mercato e di potere. Mentre cercano di battere definitivamente le ultime casematte di resistenza operaia, questa impressionante proletarizzazione crescente del lavoro intellettuale spalanca terreni di lotta che a quella resistenza simbolicamente si richiama. Una nuova generazione scende in campo, arrabbiata e agguerrita. La protesta si converte in sommossa. Socialmente è bene orientata, politicamente è confusa.
Non rappresentata, il che vuol dire non organizzata, è spinta ad assumere tratti anarchizzanti. L’assalto antigovernativo è giusto, l’assalto anti-istituzionale è sbagliato. Come si lotta, bisogna sempre impararlo dalle lotte di fabbrica. Anche quando la fabbrica è emarginata, e nella società di oggi è emarginata, quel dentro e quel fuori, tra lavoro e politica, funziona da modello di conflitto.(…)
Certo, le cose cominceranno a cambiare veramente soltanto quando lo schema di partita si rovescerà. Attaccanti i subalterni, sulla difensiva i dominanti. Questo non avverrà senza che risorga da queste lotte, e da questa coscienza delle lotte, una soggettività collettiva, una forza politica di alternativa, che butti sul tavolo da gioco la carta di un atto di potenza, capace di egemonia.
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