di Stefano Rizzo, 04 marzo 2011, Fonte: paneacqua
La parola chiave è "legittimità". L'ha pronunciata ieri Barack Obama nel discorso più duro contro il dittatore libico, abbandonando - dopo che tutti gli americani erano stati messi in salvo - i toni cauti e le condanne diplomatiche dei giorni precedenti: "Gheddafi - ha detto Obama - ha perso ogni legittimità. Deve lasciare il potere e andarsene. Gli atti di violenza compiuti dal regime sono inaccettabili"
Le parole pesano e sono state scelte accuratamente per precostituire i passi futuri da compiere. Un governo che è privo di legittimità non gode di quella parte della sovranità che deriva dal suo riconoscimento internazionale: è come se non esistesse (e infatti qualche giorno fa era stato espulso da un organismo internazionale, il Consiglio per i diritti umani). Gheddafi aveva già di fatto perso un'altra componente essenziale di uno stato - la sovranità domestica - nel momento in cui non controllava più larghe parti del suo territorio passate agli insorti. Senza questi due aspetti - riconoscimento internazionale e controllo del territorio -- la sovranità non esiste e l'autorità di un governo si traduce in pura forza bruta, in violenza illegittima e, di conseguenza, illegale.
L'incriminazione per crimini contro l'umanità e l'emissione di un mandato di cattura internazionale da parte del tribunale penale internazionale nei suoi confronti, per quanto al momento inefficaci, completano il quadro. Muammar Gheddafi non è soltanto un dittatore che perseguita il suo popolo - come lui ce ne sono moltissimi altri in giro per il mondo - è un usurpatore del potere dello stato libico, un bandito.Posta così la questione, un'azione di guerra nei suoi confronti non sarebbe una rottura della legalità internazionale, non violerebbe il principio di non ingerenza sancito dalla carta delle Nazioni Unite poiché non intaccherebbe la sovranità che di fatto ha cessato di esistere. Potrebbe quindi essere legalmente intrapreso per salvaguardare altri beni, quali la vita e la sicurezza della popolazione civile, contro la quale il dittatore ha compiuto e continua a compiere - come ha detto Obama -- "atti di violenza inaccettabili".
Questa la cornice giuridica nella quale si sta muovendo l'amministrazione americana. Cui ha iniziato a dare corpo con l'emanazione delle sanzioni da parte del Consiglio di sicurezza e con il blocco dei beni in qualche modo riconducibili al dittatore e ai suoi sodali. Ma quali altri passi concreti potranno essere compiuti per fare cessare la "violenza inaccettabile", che quindi non è più questione dello stato libico, ma riguarda tutta la comunità internazionale?
Gli Stati Uniti sanno benissimo che una azione militare unilaterale non verrebbe condivisa dagli stati arabi confinanti e neppure dagli alleati europei. Dal punto di visto della guerra di propaganda sarebbe anche una carta a favore del dittatore che ha sostenuto che la rivolta è stata fomentata da potenze straniere (America e Italia in testa), oltre che - in modo abbastanza contraddittorio - da Al Qaeda. La proposta al Consiglio di sicurezza di instaurare una zona di non volo sul territorio libico quasi certamente non avrebbe il sostegno di Cina e Russia, e quindi verrebbe bloccata.Anche all'interno del governo americano ci sono posizioni contrastanti: da un lato il segretario di Stato Clinton ha fatto capire di essere favorevole ad un intervento armato, dall'altro il segretario alla difesa Gates in una audizione al Congresso ha detto: "parliamoci chiaro, impedire all'aviazione libica di volare richiederebbe la distruzione della sua contraerea e sarebbe un atto di guerra". Gli stessi repubblicani, tra cui John McCain, che in precedenza si erano detti favorevoli all'uso della forza, hanno preso le distanze. Ma il comandante supremo, cioè il Presidente, ha dato comunque ordine al suo stato maggiore di "prepararsi ad ogni evenienza" e intanto di organizzare un ponte aereo per evacuare le decine di migliaia di cittadini egiziani bloccati al confine tunisino che si trovano in una situazione di crescente emergenza sanitaria.
Questo potrebbe essere il pretesto, il casus belli. Se un aereo americano impegnato nel ponte aereo dovesse essere colpito o essere fatto oggetto di colpi di arma da fuoco da parte delle truppe fedeli a Gheddafi, le navi da guerra americane schierate al largo delle coste libiche potrebbero rispondere con una selva di missili diretti sui campi di aviazione e sulle postazione antiaeree del dittatore "neutralizzandole", di fatto realizzando, senza autorizzazione internazionale ma non contro la legalità internazionale, la "no-fly zone". Verrebbe raggiunto l'obbiettivo di proteggere la popolazione civile dai bombardamenti e si spianerebbe la strada alla marcia dei ribelli sulla capitale. Senza di che le forze in campo, come dimostrano gli attacchi e contrattacchi di questi giorni, finirebbero in una lunga e pericolosa situazione di stallo.
E' del tutto ovvio infatti che la preoccupazione degli Stati Uniti non è solo la crisi umanitaria che già si è aperta e che peggiorerebbe con il prolungarsi del conflitto. Ciò che preoccupa soprattutto è il perdurare di una situazione di instabilità che in poco tempo trasformerebbe la Libia in un'altra Somalia, cioè in uno "stato fallito" in cui non c'è alcuna autorità in grado di conmtrollare il territorio e dove quindi possono scorazzare liberamente le bande di trafficanti di armi e i terroristi. E' per questo motivo che Obama ha spinto per una rapida chiusura della crisi egiziana ottenendo l'estromissione di Hosni Mubarak e il passaggio del potere ai comandi dell'esercito in grado (almeno per un certo periodo) di garantire la stabilità.
E' noto che negli ultimi quindici anni Gheddafi aveva acquistato ingenti quantitativi di armi leggere e pesanti da svariati paesi europei e dalla Cina, ammodernando il vecchio arsenale sovietico che risaliva agli anni della guerra fredda. Con la caduta di Bengasi e di altre città e il saccheggio di numerose basi militari, molte di queste armi sono finite nelle mani dei ribelli, che però non sono in grado di controllarle, e stanno finendo sul mercato nero dove terroristi e milizie di ogni genere possono acquistarle. Se la guerra civile dovesse continuare altre armi arriverebbero nel paese per finire sul mercato nero, come l'esperienza dell'Afghanistan insegna. Gli Stati Uniti sono ovviamente preoccupati che il terrorismo internazionale se ne impossessi, particolarmente dei missili portatili stinger, che possono essere sparati a spalla e sono in grado di abbattere un elicottero o un aereo di linea.Ecco perché la crisi libica non può prolungarsi e deve, secondo gli Stati Uniti e anche una parte degli europei (che però non lo dicono), in ogni modo essere risolta con un intervento militare. Ed è probabile che nei prossimi giorni si troverà anche il casus belli, più o meno autentico, per farla finita.
Le parole pesano e sono state scelte accuratamente per precostituire i passi futuri da compiere. Un governo che è privo di legittimità non gode di quella parte della sovranità che deriva dal suo riconoscimento internazionale: è come se non esistesse (e infatti qualche giorno fa era stato espulso da un organismo internazionale, il Consiglio per i diritti umani). Gheddafi aveva già di fatto perso un'altra componente essenziale di uno stato - la sovranità domestica - nel momento in cui non controllava più larghe parti del suo territorio passate agli insorti. Senza questi due aspetti - riconoscimento internazionale e controllo del territorio -- la sovranità non esiste e l'autorità di un governo si traduce in pura forza bruta, in violenza illegittima e, di conseguenza, illegale.
L'incriminazione per crimini contro l'umanità e l'emissione di un mandato di cattura internazionale da parte del tribunale penale internazionale nei suoi confronti, per quanto al momento inefficaci, completano il quadro. Muammar Gheddafi non è soltanto un dittatore che perseguita il suo popolo - come lui ce ne sono moltissimi altri in giro per il mondo - è un usurpatore del potere dello stato libico, un bandito.Posta così la questione, un'azione di guerra nei suoi confronti non sarebbe una rottura della legalità internazionale, non violerebbe il principio di non ingerenza sancito dalla carta delle Nazioni Unite poiché non intaccherebbe la sovranità che di fatto ha cessato di esistere. Potrebbe quindi essere legalmente intrapreso per salvaguardare altri beni, quali la vita e la sicurezza della popolazione civile, contro la quale il dittatore ha compiuto e continua a compiere - come ha detto Obama -- "atti di violenza inaccettabili".
Questa la cornice giuridica nella quale si sta muovendo l'amministrazione americana. Cui ha iniziato a dare corpo con l'emanazione delle sanzioni da parte del Consiglio di sicurezza e con il blocco dei beni in qualche modo riconducibili al dittatore e ai suoi sodali. Ma quali altri passi concreti potranno essere compiuti per fare cessare la "violenza inaccettabile", che quindi non è più questione dello stato libico, ma riguarda tutta la comunità internazionale?
Gli Stati Uniti sanno benissimo che una azione militare unilaterale non verrebbe condivisa dagli stati arabi confinanti e neppure dagli alleati europei. Dal punto di visto della guerra di propaganda sarebbe anche una carta a favore del dittatore che ha sostenuto che la rivolta è stata fomentata da potenze straniere (America e Italia in testa), oltre che - in modo abbastanza contraddittorio - da Al Qaeda. La proposta al Consiglio di sicurezza di instaurare una zona di non volo sul territorio libico quasi certamente non avrebbe il sostegno di Cina e Russia, e quindi verrebbe bloccata.Anche all'interno del governo americano ci sono posizioni contrastanti: da un lato il segretario di Stato Clinton ha fatto capire di essere favorevole ad un intervento armato, dall'altro il segretario alla difesa Gates in una audizione al Congresso ha detto: "parliamoci chiaro, impedire all'aviazione libica di volare richiederebbe la distruzione della sua contraerea e sarebbe un atto di guerra". Gli stessi repubblicani, tra cui John McCain, che in precedenza si erano detti favorevoli all'uso della forza, hanno preso le distanze. Ma il comandante supremo, cioè il Presidente, ha dato comunque ordine al suo stato maggiore di "prepararsi ad ogni evenienza" e intanto di organizzare un ponte aereo per evacuare le decine di migliaia di cittadini egiziani bloccati al confine tunisino che si trovano in una situazione di crescente emergenza sanitaria.
Questo potrebbe essere il pretesto, il casus belli. Se un aereo americano impegnato nel ponte aereo dovesse essere colpito o essere fatto oggetto di colpi di arma da fuoco da parte delle truppe fedeli a Gheddafi, le navi da guerra americane schierate al largo delle coste libiche potrebbero rispondere con una selva di missili diretti sui campi di aviazione e sulle postazione antiaeree del dittatore "neutralizzandole", di fatto realizzando, senza autorizzazione internazionale ma non contro la legalità internazionale, la "no-fly zone". Verrebbe raggiunto l'obbiettivo di proteggere la popolazione civile dai bombardamenti e si spianerebbe la strada alla marcia dei ribelli sulla capitale. Senza di che le forze in campo, come dimostrano gli attacchi e contrattacchi di questi giorni, finirebbero in una lunga e pericolosa situazione di stallo.
E' del tutto ovvio infatti che la preoccupazione degli Stati Uniti non è solo la crisi umanitaria che già si è aperta e che peggiorerebbe con il prolungarsi del conflitto. Ciò che preoccupa soprattutto è il perdurare di una situazione di instabilità che in poco tempo trasformerebbe la Libia in un'altra Somalia, cioè in uno "stato fallito" in cui non c'è alcuna autorità in grado di conmtrollare il territorio e dove quindi possono scorazzare liberamente le bande di trafficanti di armi e i terroristi. E' per questo motivo che Obama ha spinto per una rapida chiusura della crisi egiziana ottenendo l'estromissione di Hosni Mubarak e il passaggio del potere ai comandi dell'esercito in grado (almeno per un certo periodo) di garantire la stabilità.
E' noto che negli ultimi quindici anni Gheddafi aveva acquistato ingenti quantitativi di armi leggere e pesanti da svariati paesi europei e dalla Cina, ammodernando il vecchio arsenale sovietico che risaliva agli anni della guerra fredda. Con la caduta di Bengasi e di altre città e il saccheggio di numerose basi militari, molte di queste armi sono finite nelle mani dei ribelli, che però non sono in grado di controllarle, e stanno finendo sul mercato nero dove terroristi e milizie di ogni genere possono acquistarle. Se la guerra civile dovesse continuare altre armi arriverebbero nel paese per finire sul mercato nero, come l'esperienza dell'Afghanistan insegna. Gli Stati Uniti sono ovviamente preoccupati che il terrorismo internazionale se ne impossessi, particolarmente dei missili portatili stinger, che possono essere sparati a spalla e sono in grado di abbattere un elicottero o un aereo di linea.Ecco perché la crisi libica non può prolungarsi e deve, secondo gli Stati Uniti e anche una parte degli europei (che però non lo dicono), in ogni modo essere risolta con un intervento militare. Ed è probabile che nei prossimi giorni si troverà anche il casus belli, più o meno autentico, per farla finita.
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